di A. La Regina, in M.R. Di Mino (a cura di), Rotunda Diocletiani. Sculture decorative delle terme nel Museo Nazionale Romano, Roma 1991, pp. 3-8.
Sigle incise su statue di bronzo o sul loro basamento di pietra, sino ad ora diversamente interpretate, sono da riferire ad una catalogazione ufficiale delle opere d’arte mobili di proprietà pubblica a Roma. I registri, di cui non abbiamo altre notizie, dovevano avere la denominazione di tabulae ed essere conservati nel Tabularium. La documentazione, benché scarna, consente di ricostruire alcune caratteristiche del repertorio. Per quanto ci risulta esso riguardava le statue di bronzo, ma è da pensare che comprendesse anche altri generi di opere d’arte (signa), quindi anche i dipinti (tabulae pictae) e gli oggetti preziosi, probabilmente con una suddivisione per classi di materiali.

Le tabulae erano ripartite in libri (i registri), in paginae (le colonne di testo) e in loci oppure capita (i numeri). I loci non sono riferimenti topografici, ma indicano la posizione numerica nella sequenza degli oggetti elencati. I criteri di riferimento non sono dunque diversi da quelli adottati per i diplomi militari. In epoca più antica vengono sempre citati il libro e il numero che al suo interno individuava la statua. Più tardi viene indicata anche la pagina. È attestata l’esistenza di almeno sei libri, essendoci pervenuti frammenti del I e del VI. La catalogazione ebbe inizio nella seconda metà del III secolo a.C. Sappiamo infatti che il libro I era già aperto nell’anno 217 a.C., allorché venne segnata la statua di Ercole donata da Marco Minucio Rufo durante la sua dittatura, con l’incisione della sigla sulla base. Poco dopo venne annotato sullo stesso libro il cavallo bronzeo ora nel Palazzo dei Conservatori. Considerato il numero modesto di registrazioni, rispetto alle statue e alle basi di proprietà pubblica che ci sono pervenute, è da pensare che le sigle fossero di norma dipinte sulle basi, al fine di non deturpare le statue. L’incisione talvolta praticata direttamente su alcune di esse si deve collegare con situazioni particolari, quali il trasferimento delle opere da un edificio all’altro, donde la necessità di non confonderle.
Maggiori informazioni ci vengono fornite dal criterio di registrazione adottato per le opere descritte nel libro VI, nel quale figurava la statua del “dinasta” bronzeo ora alle Terme. L’incisione della sigla sul bronzo è da collocare verso la fine del II secolo a.C., quando l’opera si trovava a Roma già da qualche tempo. In questo caso venne annotata, prima sulla base e solo successivamente sul bronzo, anche la pagina del libro. Ciò permette di stabilire approssimativamente lo spazio dedicato alla descrizione di ciascuna opera. Poiché la statua inventariata con il numero XXIIX si trovava elencata dalla pagina cinquantesima del libro VI, la trattazione relativa ai singoli oggetti si doveva estendere mediamente per circa due pagine. Possiamo così immaginare che non venissero fornite solo informazioni di natura patrimoniale, ma che fossero ricordati anche tutti i dati storici: autore, collocazione originaria e circostanze del trasferimento a Roma per le opere greche, valore, nome del donatore, e quanto altro fosse da tramandare. Si trattava di una catalogazione vera e propria, non diversa da quella che tuttora viene praticata. Ne sono conservati altri esempi, ma con caratteristiche alquanto diverse, quanti i rendiconti delle ricognizioni che venivano effettuate regolarmente dagli hieropoi nei templi di Delos tra la metà del III e la metà del II secolo a.C. Dell’esistenza di cataloghi di opere d’arte esposte in pubblici edifici sappiamo comunque dagli autori antichi: Cicerone (Verr. II 4, 3) ricorda la registrazione, conservata nell’erario di Siracusa, di quelle trafugate dai templi della città e le ricognizioni imposte per legge – rationem e lege reddere – ai consegnatari, evidentemente sulla base di accurati cataloghi. È da supporre che anche a Roma vi fosse l’obbligo della ricognizione e dell’aggiornamento annuale delle tabulae.
Il notevole incremento delle opere d’arte di proprietà pubblica a Roma, quale appare dalle Tabulae tra la guerra annibalica (liber I) e la seconda metà del II secolo a.C. (liber VI), ben si accorda con quanto già conosciamo circa l’afflusso di originali greci a Roma. Le prime quattro sigle sotto descritte costituiscono dunque i frammenti residui di un repertorio, diviso in libri, e coprono un arco di tempo compreso tra il 217 a.C. e circa il 130 a.C. Assume così piena consistenza quella fonte di Plinio, da alcuni ipotizzata (D. Detlefsen, H. Gallet de Santerre, A. Rouveret) e da altri confutata (F. Hauser), costituita da un catalogo ufficiale delle opere collocate negli edifici pubblici di Roma. Questo era ben più antico e ricco di informazioni di quanto si sia pensato: se ne poneva infatti la compilazione nell’anno 73 d.C., durante la censura di Vespasiano.

In epoca imperiale la catalogazione delle opere d’arte fu ripresa con criteri diversi, e con una numerazione continua, non più divisa per libri. Il nuovo censimento si rese necessario a seguito delle grandi trasformazioni subite dalla città nel I e nel II secolo d.C., le quali avevano privato di qualunque utilità pratica i vecchi repertori. Ne resta traccia in registrazioni, avvenute non prima del II secolo d.C., di statue esposte in luoghi pubblici nell’età di Augusto. Dall’anno 11 a.C. la responsabilità per la conservazione delle opere d’arte dovette essere assunta dal curator operum locorumque publicorum.
Sono innumerevoli i documenti che dimostrano la persistenza dell’interesse pubblico nella cura delle opere d’arte. Nel Codex Theodosianus (XV 1) sono considerate beni inalienabili delle città: nemo propriis ornamentis esse privandas existimet civitates. I cataloghi ufficiali servirono certamente ad autori scrupolosi, come Plinio, per attingere informazioni storiche, le quali così confluirono nelle trattazioni divulgative che circolarono per secoli ad uso delle persone colte […].
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L·VI·P·L·XXIIX
In libro VI, pagina L, loco XXIIX: signum aeneum Romam translatum.

Sul ventre della statua [del cosiddetto “dinasta ellenistico”] è incisa una sigla composta di lettere e numeri (alt. cm 1). È incerta la presenza di un punto divisorio tra la seconda L e il numero XXIIX, ma lo spazio lasciato vuoto dopo la L dimostra comunque che non si tratta del numero LXXIIX. Il testo può dunque essere così restituito: (in) l(oco) VI, p(agina) L, (loco) XXIIX. La forma della lettera L è ad angolo retto, mentre la P è ancora pienamente aperta, quasi un Γ. L’incisione della sigla fu praticata sul bronzo verso la fine del II secolo a.C., quando questo si trovava già a Roma, e presumibilmente in occasione di uno spostamento di collocazione. Ciò lascia pensare più a una preda bellica destinata ad ornamento di un edificio pubblico che a una scultura onoraria esposta per la prima volta a Roma, e farebbe quindi escludere che il personaggio rappresentato sia un romano. La catalogazione della statua nelle tabulae deve essere avvenuta comunque dopo la metà del II secolo a.C., perché solamente il grande afflusso di opere d’arte dalla Grecia può giustificare la compilazione di ben cinque libri, tra la registrazione della statua [di Ercole] donata da M. Minucio Rufo a quella del “dinasta”.
Tre lettere legate (alt. cm 3), incise a puntini sulla gamba destra della statua, MAR, dovrebbero indicare una successiva destinazione che non poté avvenire prima della fine dell’epoca repubblicana, ma più probabilmente in quella augustea, (ad) Mar(tis). È quindi da pensare al Tempio di Marte Ultore nel Foro di Augusto, prima del trasferimento nelle Thermae Constantinianae.
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