ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
Paris, Bibliothèque Nationale de France. Ms. Par. Graec. 1807 (900 ca.). Pagina dal dialogo della Πολιτεία di Platone.
«Ebbene, a distruggere anche la democrazia non è pure l’insaziabilità di ciò che essa definisce un bene?».
«Secondo te, che cosa definisce in questo modo?».
Ed io risposi: «La libertà: vedi, in una città democratica sentirai dire che la libertà è [562c] il bene migliore in assoluto e che soltanto là dovrebbe perciò abitare ogni spirito naturalmente libero».
«Sì, in effetti, è una frase molto comune», ammise lui.
E ripresi: «Ebbene, come or ora stavo per dire, l’insaziabilità di libertà e la noncuranza di tutto il resto non mutano forse anche questa costituzione e non la preparano a ricorrere fatalmente alla tirannide?».
«Come?», mi domandò.
«A mio parere, quando una città retta a democrazia, assetata di libertà, [562d] è alla mercé di cattivi coppieri e troppo si ubriaca di schietta libertà, allora, a meno che i suoi governanti non siano assai moderati e non concedano grande libertà, li pone in stato d’accusa e li castiga come scellerati ed oligarchici».
«Infatti, fanno questo», disse.
E continuai: «Coloro i quali obbediscono ai governanti, li copre di improperi trattandoli da gente contenta di essere schiava e incapace, mentre elogia e onora sia in privato sia in pubblico i governanti che sono simili ai governati e i governati che sono simili ai governanti. Non è inevitabile, dunque, che in una città [562e] siffatta il principio di libertà si allarghi a tutto?».
«Come no!?».
«E così, mio caro, nasce l’anarchia e si insinua nelle dimore private e si estende fino alle bestie».
«E come possiamo asserire una cosa del genere?».
Spiegai: «Ebbene, per esempio, nel senso che il padre si abitua a rendersi simile al figlio e a temere i figli, e il figlio simile al padre e a non provar rispetto né timore verso i genitori, per poter essere libero; e che il meteco si parifica al cittadino e il cittadino al meteco, e [563a] così dicasi per lo straniero».
«Già, va così», fece lui.
Ripresi: «A queste si aggiungono altre cosucce del tipo: in un simile contesto il maestro teme e adula gli scolari, e gli scolari se ne infischiano dei maestri e così pure dei pedagoghi. In genere, i giovani si pongono al pari degli anziani e li emulano nei discorsi e nelle azioni, mentre i vecchi accondiscendono ai giovani [563b] e si fanno giocosi e faceti, imitandoli, per non passare da spiacevoli e dispotici».
«Oh, ma certo», osservò.
Feci io: «Però, mio caro, l’estremo della libertà cui la massa può giungere in una città simile si ha quando uomini e donne comperati sono liberi quanto i loro acquirenti. E quasi ci siamo scordati di dire quanto grandi siano la parificazione giuridica e la libertà nei rapporti reciproci tra uomini e donne».
[563c] «Ebbene, con Eschilo non ‘diremo quel che ora è venuto alle labbra’?».
«Oh, indubbiamente, lo penso anch’io. Ma consideriamo, dunque, gli animali addomesticati: nessuno potrà persuadersi, senza farne esperienza, di quanto siano più liberi qui che altrove. Le cagne – giusto per stare al proverbio – sono esattamente come le loro padrone; e ci sono cavalli e asini che, abituati a camminare in piena libertà e solennità, per le strade urtano i passanti, e non si scansano. E dappertutto [563d] c’è questa libertà».
«Mi stai raccontando proprio il mio sogno! Quando vado in campagna, questo caso mi succede spesso!».
Ripresi: «Ebbene, non pensi quanto l’anima dei cittadini si lasci impressionare dal sommarsi di tutte queste circostanze insieme raccolte, al punto che uno, se gli si prospetta anche la minima schiavitù, si sdegna e non la tollera? E tu sai che finiscono per trascurare [563e] del tutto le leggi, sia scritte sia non scritte, per essere assolutamente privi di padroni?».
«Certo che lo so», disse.
E io conclusi: «Ecco dunque, mio caro, qual è, a mio parere, l’origine, bella e violenta, da cui deriva la tirannide».
(adatt. trad. da F. Sartori, M. Vegetti [cur.], Platone, La Repubblica, Roma-Bari 2005, pp. 280-282).
Testo greco da A.H. ARMSTRONG (ed.), Plotinus, Ennead, Volume I: Porphyry on the Life of Plotinus. Ennead I, Cambridge MA. 1969, 229-264; trad. it. di G. BERTAGNI.
ΠΕΡΙ ΤΟΥ ΚΑΛΟΥ
Afrodite Anadyomene. Torso, marmo, III-II sec. a.C. ca.
Autore anonimo. Ermafrodito dormiente. Copia romana del II secolo d.C. da un originale ellenistico, restaurato da David Larique (1619) e riadattato da Gian Lorenzo Bernini. Paris, Musée du Louvre.
[1] La bellezza si trova soprattutto nella vista; ed è anche nell’udito, nella combinazione delle parole e nella musica di tutti i generi; infatti, le melodie e i ritmi sono belli; ed è anche, risalendo dalla sensazione verso un dominio superiore, nelle occupazioni, nelle azioni e nelle maniere d’essere che sono belle; e ancora c’è bellezza nella scienza e nella virtù. C’è una bellezza anteriore a questa? Ecco il tema di cui adesso tratteremo. Che cosa fa in modo che la vista possa percepire la bellezza nei corpi e l’udito nei suoni? Perché tutto ciò che è intimamente legato all’anima è bello? Ed è a causa di una sola e identica bellezza che tutte le cose belle sono belle, oppure c’è una bellezza che è propria dei corpi e ce n’è un’altra per gli altri esseri? E che cosa sono queste differenti bellezze o, meglio, che cos’è la bellezza? Certi esseri, come i corpi, sono belli non per la loro stessa essenza, ma per partecipazione; altri sono belli in se stessi, come la virtù. E questo è evidente: infatti gli stessi corpi a volte sono belli, a volte non lo sono, come se l’essere del corpo fosse differente dall’essere della bellezza. Che cos’è questa bellezza che è presente nei corpi? Questa è la prima cosa da indagare. Che cos’è, dunque, che attira lo sguardo di chi osserva, e fa volgere il capo, e fa provare la gioia della contemplazione? Se noi scopriamo che cos’è questa bellezza dei corpi, forse potremo servircene come di una scala per contemplare le altre bellezze. Tutti, per così dire, affermano che la bellezza visibile nasce dalla simmetria delle parti, l’una in rapporto all’altra, e ciascuna in rapporto all’insieme; a questa simmetria si aggiunge la bellezza del colore; dunque, la bellezza di tutti gli esseri è la loro simmetria e la loro misura; per chi pensa così, l’essere bello non sarà un essere semplice, ma soltanto e necessariamente un essere composto; l’insieme di questo essere sarà bello e ciascuna parte non sarà bella in sé, ma solo nella sua armonia con le altre. Però, se l’insieme è bello, bisogna pure che le parti siano belle anch’esse; certo, una bella cosa non può essere fatta di parti brutte: tutto ciò che la compone deve esser bello. E ancora: se fosse vera questa opinione, i colori belli, come la luce del Sole, sarebbero al di fuori della bellezza, perché sono semplici e non derivano affatto la loro bellezza dall’armonia delle parti. E l’oro, come mai è bello? E le luci che vediamo nella notte che cosa le rende belle? La stessa cosa per i suoni: svanirebbe la bellezza di un suono semplice, mentre spesso ciascuno dei suoni che compongono un brano musicale è bello anche da solo. E quando si vede lo stesso viso, con le proporzioni che restano identiche, ma un po’ appare bello, un po’ brutto, come si fa a non riconoscere che la bellezza che è nelle proporzioni è cosa diversa dalle proporzioni stesse, e che è per un’altra ragione che un viso ben proporzionato è bello? E se, passando alle belle occupazioni e ai discorsi belli, si vuol ancora vedere nella simmetria la causa della loro bellezza, che cosa significa parlare di simmetria per le occupazioni belle, per le leggi, per le conoscenze o per le scienze? I teoremi sono simmetrici gli uni agli altri: è questo che si vuol dire? O che essi sono in accordo tra loro? Ma può esserci consenso e accordo anche tra opinioni malvagie. Questa opinione: «la temperanza è una stoltezza» è in pieno accordo con quest’altra: «La giustizia è un’ingenuità generosa». Tra l’una e l’altra c’è corrispondenza e concordanza. Da ultimo, la virtù certamente rende bella l’anima, ed essa è bella in modo più reale delle bellezze sensibili di cui abbiamo prima parlato: ma in che senso essa avrà delle parti simmetriche? Non ci sono affatto parti simmetriche nella virtù, al modo in cui le grandezze o i numeri sono simmetrici, anche se è vero che l’anima contiene una molteplicità di parti. Infatti, secondo quali rapporti nasce la combinazione o la fusione delle parti dell’anima e dei teoremi scientifici? E l’intelligenza, che è isolata: in che consisterà la sua bellezza?
[2] Riprendiamo dunque il nostro discorso e diciamo subito che cos’è la bellezza dei corpi. È una qualità che diventa sensibile sin dalla prima impressione; attraverso l’intuizione l’anima la percepisce, la riconosce e l’accoglie in sé, plasmandosi in qualche modo su di essa. Quando invece ha l’intuizione di una cosa brutta, l’anima si agita e la rifiuta, respingendola come cosa che non si accorda con lei e che le è estranea. Ora, noi affermiamo che l’anima, per sua natura, è affine all’essenza delle realtà superiori ed è lieta, contemplando gli esseri della sua stessa natura, o almeno le loro tracce; attratta dalla loro vista, le rapporta a se stessa e sale così al ricordo di sé e di ciò che le appartiene. Ebbene, quale somiglianza può esservi tra le cose di quaggiù e quelle superiori? Se c’è somiglianza, deve essere possibile osservarla. Per quanto riguarda la bellezza, qual è la natura delle une e delle altre? La nostra tesi è che le cose sensibili sono belle perché partecipano di un’idea. Infatti, tutto ciò che è destinato a ricevere una forma e un’idea, ma non l’ha ancora, è privo di qualsiasi bellezza ed è estraneo alla ragione divina, perché non partecipa né della sua razionalità né della sua forma: è il brutto in assoluto. Ma brutto è persino tutto ciò che è sé dominato dalla forma e dalla ragione, ma non perfettamente: e questo accade perché la materia non può essere plasmata in modo perfetto secondo un’idea, ricevendo così la forma. Dunque, l’idea si avvicina alla materia e pone ordine tra le parti multiple, di cui una cosa è fatta, combinandole insieme. L’idea le riconduce a un tutto ordinato, e crea l’unità accordandole loro, perché essa stessa è una, e l’essere che prende da lei la forma deve dunque essere uno, almeno nei limiti in cui può esserlo una cosa composta da molte parti. La bellezza prende così dimora in questo essere, così ricondotto a unità, ed essa si dà sia a tutte le sue singole parti sia all’insieme. Quando poi la bellezza prende dimora in un essere che è già uno ed omogeneo, allora essa splende interamente: è come se la potenza della natura, procedendo come fa l’uomo attraverso l’arte, donasse la bellezza, nel primo caso, a una casa tutta intera con tutte le sue parti, nel secondo caso a una sola pietra. Così la bellezza del corpo deriva dalla partecipazione alla razionalità che proviene da Dio.
Venere accovacciata. Marmo. Copia romana del II secolo d.C. da un originale ellenistico del III secolo a.C. Córdoba, Museo Arqueológico y Etnológico.
[3] C’è nell’anima una facoltà che corrisponde alla razionale bellezza di origine divina, e, dunque, sa riconoscerla; è proprio questa la facoltà che permette all’anima di giudicare le cose che le sono affini, benché le altre facoltà contribuiscano anch’esse. Forse l’anima pronuncia questo giudizio commisurando la cosa bella all’idea di bellezza che è in lei, servendosi di questa idea come ci si serve di un regolo per giudicare se una linea è diritta. Ma come può la bellezza delle cose sensibili accordarsi con la bellezza dell’idea, che è anteriore ad ogni corpo? È lo stesso che chiedersi come l’architetto, che ha costruito la casa reale lasciandosi guidare dall’idea di casa che aveva nella sua mente, possa valutare che questa casa reale sia bella. Può farlo perché l’essere esteriore della casa – se si fa astrazione dalle pietre – non è che l’idea interiore che si è sì suddivisa nella massa esteriore della materia, ma continua a manifestare, pur nella molteplicità, il suo essere indivisibile. Dunque, quando percepiamo nei corpi un’idea che plasma e domina la natura materiale – di per sé informe e per nulla affine all’idea – e ci rendiamo conto che c’è nelle cose sensibili una forma che si distingue perché subordina a sé tutte le altre, allora noi percepiamo d’un sol colpo la sparsa molteplicità della materia, riportandola e riducendola all’unità interiore e indivisibile dell’idea che vive in noi. Così percepiamo la forma delle cose sensibili perché è adatta e intonata a noi, e la accettiamo come affine alla nostra unità interiore. Allo stesso modo, un uomo onesto percepisce la dolcezza che osserva sul volto di un giovane come un segno di virtù che si accorda con la sua stessa vera virtù, che è quella interiore. La bellezza di un colore, che è qualcosa di semplice, nasce da una forma che domina l’oscurità della materia e dalla presenza nel colore di una luce incorporea, che è ragione e idea. Per questo più degli altri corpi, il fuoco è bello in se stesso: paragonato agli altri elementi che compongono la materia, ha quasi il rango dell’idea. Infatti, ha in natura la posizione più alta, è il più leggero tra tutti i corpi, al punto da essere quasi immateriale. Rimane sempre puro, perché non accoglie in sé gli altri elementi che compongono la materia, mentre tutti gli altri accolgono in se stessi in fuoco: essi, infatti, possono riscaldarsi, mentre il fuoco non può raffreddarsi. Solo il fuoco per sua natura possiede i colori e da lui le altre cose ricevono la forma e il colore. Il fuoco brilla di luce chiara simile a un’idea. Le cose a lui inferiori quando si allontanano dalla sua luce cessano di essere belle, perché esse non partecipano interamente dell’idea del colore. Vi sono poi le armonie musicali impercettibili ai sensi che danno vita alle armonie sensibili. Per merito loro l’anima diventa capace di intuire la bellezza, grazie all’identità che esse introducono in un soggetto differente. Ne segue che le armonie sensibili derivano da rapporti numerici che non sono affatto rapporti qualsiasi, ma sono subordinati all’azione sovrana di una forma. Ho detto così abbastanza sulle bellezze sensibili, immagini e ombre che, in fuga dal loro mondo, vengono nella materia, la ordinano e le danno l’aspetto che tanto ci commuove.
[4] Quanto alle realtà belle di grado più elevato, non ci è dato di percepirle attraverso le sensazioni, ma la nostra anima le vede e sa giudicarle belle anche senza l’aiuto degli organi di senso. Ma per far questo dobbiamo elevare il nostro spirito e raggiungere lo stato della contemplazione, dopo aver lasciato in basso il mondo delle sensazioni. Non si può dir nulla sulla bellezza delle cose sensibili senza averle viste e riconosciute come belle (se si è, per esempio, ciechi dalla nascita); allo stesso modo, non si può dire se una maniera di comportarsi è bella se non si vive dentro di sé con amore questa bellezza; e così è per le scienze e le altre realtà simili. Dobbiamo divenire capaci di vedere come è bello il volto della giustizia e della temperanza: non sono così belle né la stella del mattino né la stella della sera. Solo un’anima capace di contemplazione sa intuire questo genere così elevato di bellezza. E l’intuizione provoca gioia, provoca commozione e stupore in modo ben più forte che nel caso precedente, perché adesso l’anima contempla la realtà che ha il carattere della verità. L’anima, nel contemplare le realtà belle, prova grandi emozioni: lo stupore, la dolce tensione dello spirito, il desiderio, l’amore, la deliziosa eccitazione. Ed è possibile provare queste emozioni (e l’anima le prova di fatto) anche contemplando le cose belle visibili solo allo spirito: tutte le anime le provano, ma soprattutto quelle più sensibili al richiamo dell’amore. Ed è così anche per la bellezza dei corpi: tutti la vedono, ma non tutti ne sentono egualmente il fascino. Coloro che lo sentono di più, ebbene quelli dobbiamo davvero dire che sono sensibili all’amore.
[5] Bisogna, quindi, chiarire che cos’è l’amore per le cose non sensibili. Che emozioni provate quando sentite che un’azione è bella? Che sentimenti provate di fronte al carattere di una persona bella, alle abitudini di vita moderate, e più in generale alla virtù e alla bellezza dell’anima? E vedendo la vostra stessa bellezza interiore, che cosa provate? Che cos’è questa follia, questa emozione, questo desiderio di stare raccolti in voi stessi quasi non aveste un corpo? Perché è questo che prova chi vive davvero l’amore nella propria anima. E qual è l’oggetto dell’amore? Non certo una forma, un colore, una grandezza: è, invece, l’anima che non ha colore, ma splende di invisibile luce, illuminata dalla temperanza e dalle altre virtù. Così l’amore vi colpisce tutte le volte che vedete in voi stessi o contemplate in altri la grandezza d’animo, la correttezza del carattere, la purezza dei costumi, il coraggio su un volto dall’espressione ferma, la gravità, il rispetto di sé che è il segno di un’anima calma, serena ed impassibile. Su tutto questo splende la luce dell’intelligenza, che è di natura divina. Dunque, per tutte queste cose noi proviamo inclinazione e amore: ma in che senso le diciamo belle? Non c’è dubbio infatti che lo siano, e chiunque le contempli affermerà che esse sono la vera realtà. Ma di che natura sono queste realtà? Nella loro essenza sono belle, non c’è dubbio, ma la ragione desidera ancora sapere che cosa esse siano e perché esse fanno sì che l’anima che le possiede faccia innamorare le altre di sé. Che cos’è, dunque, che come una luce splende su tutte le virtù? Vogliamo, per ragionar per contrari, procedere per opposizioni e domandarci cos’è la bruttezza? Forse sarà utile per comprendere l’oggetto delle nostre ricerche sapere che cos’è la bruttezza e perché essa si manifesta. Sia dunque un’anima brutta, intemperante e ingiusta. Essa è piena di un gran numero di desideri e delle più profonde inquietudini, paurosa per vigliaccheria, invidiosa per grettezza. Quest’anima pensa bene, ma non pensa che a oggetti mortali e bassi: sempre tortuosa, incline ai piaceri impuri, vive la vita delle passioni del corpo e trova il suo piacere solo nella bruttezza. Non diremo allora che la sua bruttezza è sopravvenuta dall’esterno su quest’anima come una malattia che la offende, la rende impura e ne fa un impasto confuso di mali? Così la sua vita e le sue sensazioni hanno perduto la loro purezza: l’anima conduce una vita oscurata dall’impurità del male, una vita contaminata dai germi della morte. Essa non è più capace di vedere ciò che un’anima deve vedere: non le è più consentito di raccogliersi in se stessa perché essa è continuamente attirata nella regione dell’esteriorità, inferiore e carica di oscurità. Impura, travolta da ogni lato per l’attrazione delle cose sensibili, essa è mescolata con molti caratteri del corpo. Poiché essa ha accolto in sé la forma della materia, differente da lei, ne è rimasta contaminata, e la sua stessa natura è rimasta inquinata da ciò che è inferiore. È come se un tale immerso nel fango di un pantano non mostrasse più la sua bellezza, ma di lui si vedesse soltanto il fango di cui è coperto. La bruttezza è sopravvenuta su di lui per l’aggiunta di un elemento estraneo e sarà una bella impresa riacquistare la propria bellezza: dovrà pulirsi e lavarsi bene e solo così tornerà ad essere quel che egli era. Abbiamo dunque ragione di dire che la bruttezza dell’anima deriva da questo mescolarsi impuro con il corpo e dalle inclinazioni verso la materia. La bruttezza per l’anima è il non essere in sé pura, come per l’oro è di essere mescolato a terra: se si toglie questa terra, l’oro rimane ed è bello perché depurato dalle scorie di altre materie e puro in se stesso. Nello stesso modo, isolata dai desideri che provengono dal corpo, con cui essa aveva legami troppo stretti, liberata dalle altre passioni, purificata da tutte le scorie della materia, l’anima rimane pura in se stessa, tolte tutte le brutte impurità che le provenivano da una natura diversa dalla sua.
Amore e Psiche. Statua, marmo, IV sec. d.C., dalla Domus di Amore e Psiche (Ostia).
[6] È proprio come dice un vecchio detto: la temperanza, il coraggio, tutte le virtù e la prudenza stessa sono delle purificazioni. È per questo che gli iniziati ai Misteri dicono con parole velate che l’anima non purificata persino nell’Ade vivrà in un pantano, perché l’essere impuro ama il fango a causa dei suoi vizi, come i porci il cui corpo è impuro. In che consisterà dunque la vera temperanza se non nel non unirsi ai piaceri del corpo, ma a fuggirli come impuri? Essi non permettono all’anima di rimanere pura. Il coraggio consisterà nel non temere la morte. Ora la morte è la separazione dell’anima dal corpo. Non temerà questa separazione quell’anima che è vissuta isolata dal corpo. La grandezza d’animo nasce dal disprezzo delle cose che passano. La prudenza è il pensiero stesso che si allontana da tutto ciò che passa e conduce l’anima verso l’alto. L’anima, una volta purificata, diviene dunque una pura forma, pura razionalità. Essa diviene pura realtà intellettuale, liberata da ogni scoria di materia. Così appartiene interamente alla sfera di ciò che è divino, là dove è la sorgente della bellezza: da lì, infatti, proviene tutto ciò che è bello. Dunque, l’anima restituita alla pura intellegibilità torna ad essere bella. Ma l’intelligenza e ciò che ne deriva è per l’anima una bellezza propria e non le deriva dall’esterno, perché l’anima pura è adesso realmente se stessa. Per questo si dice – con ragione – che il bene e la bellezza dell’anima consistono nel rendersi simile a Dio, perché da Dio deriva la bellezza e tutto ciò che costituisce l’essenza della vera realtà. Ma la bellezza è realtà autentica, la bruttezza è una natura differente da questa realtà. La bruttezza e il male, quanto alla loro origine, sono la stessa cosa, così come sono la stessa cosa il buono e il bello. Il bene e la bellezza si identificano. Bisogna dunque ricercare con mezzi analoghi il bello e il buono, il brutto e il cattivo. Bisogna anzitutto fissare il principio che la bellezza è il bene e da questo bene l’intelligenza deriva immediatamente la sua bellezza. E l’anima è bella per l’intelligenza: le altre bellezze, delle azioni e dei costumi, derivano dal fatto che l’anima imprime in esse la sua forma. L’anima poi produce tutto ciò che chiamiamo corpo, ed essendo un essere di natura divina – frammento della bellezza divina – essa rende belle tutte le cose con cui entra in contatto e che domina, almeno nei limiti in cui ad esse è consentito partecipare della bellezza.
[7] Bisogna dunque risalire verso il Bene, che è ciò a cui tende ogni anima. Chi l’ha visto, sa cosa voglio dire, e in che senso esso è bello. Come Bene, è desiderato e il desiderio tende verso di lui; ma lo si raggiunge solo risalendo verso la regione superiore, piegandosi verso di lui e spogliandosi dei vestiti indossati nella discesa. Nello stesso modo chi sale ai santuari dei templi deve purificarsi, deporre i suoi vecchi abiti e avanzare nudo; e, infine, abbandonato lungo questa salita tutto ciò che è estraneo a Dio, può guardare da solo a solo nel suo isolamento, nella sua semplicità e purezza, l’Essere da cui tutto dipende, verso cui tutto guarda, perché è l’essere, la vita e il pensiero; perché è causa della vita, dell’intelligenza e dell’essere. Se lo si vede, quest’Essere, quale amore e quale desiderio sentirà l’anima che vorrà unirsi a lui! E quale emozione accompagnerà questo piacere! Infatti, colui che non l’ha ancora visto, può tendere verso di lui come verso un bene: ma colui che l’ha visto, lo amerà per la sua bellezza, sarà colmo di commozione e di piacere, di gioioso stupore, di amore pieno e desiderio ardente. Dimenticherà gli altri amori e disprezzerà le pretese bellezze da cui prima era attratto. È questo che provano tutti coloro che hanno conosciuto le forme divine o demoniche e non ammettono ormai la bellezza degli altri corpi. Questo crediamo che essi provino, se hanno visto il bello in sé in tutta la sua purezza, non il bello che è appesantito dal corpo e dalla materia, ma quello che – puro – è al di sopra della terra e del cielo. Tutte le altre bellezze sono acquisite, non pure, ma frutto di un misto, non originarie: tutte vengono dal puro bello in sé. Se, dunque, si vede il bello in sé – che dona la bellezza ad ogni cosa pur restando puro in se stesso e senza ricevere nulla dall’esterno – non si resterà forse in questa contemplazione godendo in lui? Quale bellezza ci mancherà ancora? È questa, infatti, la vera e originaria bellezza che rende belli coloro che la amano e degni di essere a loro volta amati. È qui per l’anima la più grande e suprema battaglia, per la quale essa concentra tutti i suoi sforzi, per non restare senza la più alta delle visioni. Se l’anima raggiunge questa meta, allora è felice grazie a questa visione della bellezza; se non la raggiunge, è davvero infelice. Infatti, chi non sa godere della bellezza del colore e dei corpi belli non è più infelice di chi non ha potere, o di chi non ha fatto carriera, o non è un re. Infelice è colui che non incontra affatto la bellezza, e lui solo. Per incontrarla, bisogna lasciare là dove sono i regni e il potere dell’intera terra, del mare e del cielo, se grazie a questo abbandono ci si può volgere nella direzione che permette di vederla.
[8] Qual è, dunque, il modo per ottenere questa visione? Quale il mezzo? Come potremo contemplare questa bellezza immensa che resta in qualche modo protetta nell’interiorità del suo santuario e che non si mostra all’esterno, perché i profani possano vederla? Suvvia, chi può vada dunque e la segua fin nella sua intimità: abbandonata la visione sensibile, che è propria degli occhi, non dobbiamo rivolgerci più verso lo splendore dei corpi che pure prima ammiravamo tanto. Infatti, se pur osserviamo la bellezza dei corpi, non dobbiamo rivolgerle la nostra attenzione, ma sapere che essa è un’immagine, una traccia, un’ombra: dobbiamo, invece, rivolgerci verso quella bellezza di cui la bellezza dei corpi è immagine. Chi, infatti, si rivolge alla bellezza sensibile per conoscerla come se essa fosse in sé reale, sarà simile all’uomo che volle vedere la sua immagine bella riflessa sull’acqua (come la favola, credo, lascia ben intendere). E così cadde nell’acqua profonda, e sparì. Allo stesso modo capita a chi si lascia attrarre dalla bellezza dei corpi e non l’abbandona; non sarà però il suo corpo a cadere nelle profondità oscure e funeste per l’intelligenza, ma la sua anima: egli vivrà con le ombre, cieco abitante dell’Ade. Rifugiamoci, dunque, presso la nostra cara patria: ecco il vero consiglio che dobbiamo darci. Ma come potremo rifugiarci là? Per quale sentiero risalire alla nostra meta? Faremo come Ulisse, che fuggì – dicono – dalla maga Circe e da Calipso: egli non volle rimanere presso di loro, malgrado il piacere degli occhi e tutte le bellezze sensibili di cui poteva godere presso di loro. La nostra patria è il luogo da cui siamo venuti, e nostro padre è là. Cosa sono, dunque, questo viaggio e questa fuga? Non lo compiremo con i nostri piedi, perché non si tratta di passare da una terra a un’altra. Non si tratta di preparare dei cavalli o una nave, ma di distogliere lo sguardo dalle realtà sensibili e, chiusi gli occhi dinnanzi ad esse, cambiare questa maniera di guardare con un’altra. Si tratta, quindi, di risvegliare in noi un’altra facoltà, che tutti possediamo, ma ben pochi usano.
Venere. Testa, marmo, II sec. d.C. Boston, Museum of Fine Arts.
[9] Che cosa vedono, dunque, questi occhi interiori? Appena risvegliati, certo non possono sostenere la vista delle realtà luminose. Bisogna abituare l’anima pian piano a osservare dapprima le belle abitudini di vita, poi le opere – e non intendo gli oggetti materiali prodotti dal lavoro dell’artigiano, ma le azioni degli uomini buoni. Subito dopo, bisogna che ci educhiamo a osservare l’anima di coloro che compiono azioni belle. Come si fa a scrutare dentro l’anima di un uomo buono per scoprire la sua bellezza? Coraggio, ritorna in te stesso e osservati: se non vedi ancora la bellezza nella tua interiorità, fa come lo scultore di una statua che deve diventare bella. Egli scalpella il blocco di marmo, togliendone delle parti, leviga, affina il marmo finché non avrà ottenuto una statua dalle belle linee. Anche tu, allora, togli il superfluo, raddrizza ciò che è storto, lucida ciò che è opaco perché sia brillante, e non cessare mai di scolpire la tua statua, finché in essa non splenda il divino splendore della virtù e alla tua vista interiore appaia la temperanza assisa sul suo sacro trono. La tua anima si è così trasformata? Ti vedi in questo modo? Hai tu con te stesso un rapporto puro, senza che alcun ostacolo si frapponga fra te e te, senza che nulla di estraneo abbia inquinato la tua purezza interiore? Sei tu, interamente, divenuto splendente di pura luce? Non una luce – dico – che si può misurare per forma o dimensione, che può diminuire o aumentare indefinitamente per grandezza, ma una luce assolutamente al di là di ogni misura, perché essa è superiore a ogni grandezza e a ogni quantità? Riesci adesso a vederti così? Tu stesso allora sei divenuto pura visione, vivi presso te stesso e, pur restando nel mondo di quaggiù, ti sei innalzato interiormente. Allora, senza più bisogno di guida, fissa il tuo sguardo e osserva. Il tuo occhio interiore ha dinnanzi a sé una grande bellezza. Ma se cerchi di contemplarla con occhio ammalato, o non pulito, o debole, avrai troppo poca energia per vedere gli oggetti più brillanti e non vedrai nulla, anche se sei dinnanzi a un oggetto che può essere visto. Bisogna che i tuoi occhi si rendano simili all’oggetto da vedere, e gli siano pari, perché solo così potranno fermarsi a contemplarlo. Mai un occhio vedrà il Sole senza essere divenuto simile al Sole, né un’anima contemplerà la bellezza senza essere divenuta bella. Che ciascun essere divenga simile a Dio e bello, se vuol contemplare Dio e la bellezza. Innalzandosi verso la luce, giungerà dapprima presso l’intelligenza, e qui potrà osservare che tutte le idee sono belle e si accorgerà che è lì la bellezza, proprio nelle idee. Per esse, infatti, che sono i prodotti e l’essenza stessa dell’intelligenza, esiste ogni realtà bella. Ciò che è al di là della bellezza, noi lo identifichiamo come la natura del bene, e il bello le è dinnanzi. Anzi, per usare una formula d’insieme, si dirà che il primo principio è il bello, ma – per fare una distinzione tra ciò che è intellegibile – bisognerà distinguere il bello, che è il luogo delle idee, dal Bene che è al di là del bello e che ne è la sorgente e il principio. Ovvero si comincerà col fare del bello e del bene un solo e identico principio. Ma, in ogni caso, il bello è nel regno delle cose che possono essere colte con la mente.
Pamfaio. Simposiasta che gioca al kóttabos. Pittura vascolare da un tondo di kylix attica a figure rosse. 510 a.C. ca. Musée du Louvre
Epicuro saluta Meneceo,
Mai si è troppo giovani o troppo vecchi per la conoscenza della felicità. A qualsiasi età è bello occuparsi del benessere dell’animo nostro. Chi sostiene che non è ancora giunto il momento di dedicarsi alla conoscenza di essa, o che ormai è troppo tardi, è come se andasse dicendo che non è ancora il momento di essere felice, o che ormai è passata l’età. Ecco che da giovani come da vecchi è giusto che noi ci dedichiamo a conoscere la felicità. Per sentirci sempre giovani quando saremo avanti con gli anni in virtù del grato ricordo della felicità avuta in passato, e da giovani, irrobustiti in essa, per prepararci a non temere l’avvenire. Cerchiamo di conoscere allora le cose che fanno la felicità, perché quando essa c’è tutto abbiamo, altrimenti tutto facciamo per possederla. Pratica e medita le cose che ti ho sempre raccomandato: sono fondamentali per una vita felice.
Prima di tutto considera l’essenza del divino materia eterna e felice, come rettamente suggerisce la nozione di divinità che ci è innata. Non attribuire alla divinità niente che sia diverso dal sempre vivente o contrario a tutto ciò che è felice, vedi sempre in essa lo stato eterno congiunto alla felicità. Gli dei esistono, è evidente a tutti, ma non sono come crede la gente comune, la quale è portata a tradire sempre la nozione innata che ne ha. Perciò non è irreligioso chi rifiuta la religione popolare, ma colui che i giudizi del popolo attribuisce alla divinità. Tali giudizi, che non ascoltano le nozioni ancestrali, innate, sono opinioni false. A seconda di come si pensa che gli dei siano, possono venire da loro le più grandi sofferenze come i beni più splendidi. Ma noi sappiamo che essi sono perfettamente felici, riconoscono i loro simili, e chi non è tale lo considerano estraneo. Poi abìtuati a pensare che la morte non costituisce nulla per noi, dal momento che il godere e il soffrire sono entrambi nel sentire, e la morte altro non è che la sua assenza. L’esatta coscienza che la morte non significa nulla per noi rende godibile la mortalità della vita, senza l’inganno del tempo infinito che è indotto dal desiderio dell’immortalità. Non esiste nulla di terribile nella vita per chi davvero sappia che nulla c’è da temere nel non vivere più. Perciò è sciocco chi sostiene di aver paura della morte, non tanto perché il suo arrivo lo farà soffrire, ma in quanto l’affligge la sua continua attesa. Ciò che una volta presente non ci turba, stoltamente atteso ci fa impazzire. La morte, il più atroce dunque di tutti i mali, non esiste per noi. Quando noi viviamo la morte non c’è, quando c’è lei non ci siamo noi. Non è nulla né per i vivi né per i morti. Per i vivi non c’è, i morti non sono più. Invece la gente ora fugge la morte come il peggior male, ora la invoca come requie ai mali che vive. Il vero saggio, come non gli dispiace vivere, cosi non teme di non vivere più. La vita per lui non è un male, né è un male il non vivere. Ma come dei cibi sceglie i migliori, non la quantità, così non il tempo più lungo si gode, ma il più dolce.
Chi ammonisce poi il giovane a vivere bene e il vecchio a ben morire è stolto non solo per la dolcezza che c’è sempre nella vita, anche da vecchi, ma perché una sola è la meditazione di una vita bella e di una bella morte. Ancora peggio chi va dicendo: «bello non essere mai nato, ma, nato, al più presto varcare la soglia dell’Ade» (Corpus Theogn. v. 427). Se è cosi convinto perché non se ne va da questo mondo? Nessuno glielo vieta se è veramente il suo desiderio. Invece se lo dice cosi per dire fa meglio a cambiare argomento. Ricordiamoci poi che il futuro non è del tutto nostro, ma neanche del tutto non nostro. Solo cosi possiamo non aspettarci che assolutamente s’avveri, né allo stesso modo disperare del contrario. Cosi pure teniamo presente che per quanto riguarda i desideri, solo alcuni sono naturali, altri sono inutili, e fra i naturali solo alcuni quelli proprio necessari, altri naturali soltanto. Ma fra i necessari certi sono fondamentali per la felicità, altri per il benessere fisico, altri per la stessa vita. Una ferma conoscenza dei desideri fa ricondurre ogni scelta o rifiuto al benessere del corpo e alla perfetta serenità dell’animo, perché questo è il compito della vita felice, a questo noi indirizziamo ogni nostra azione, al fine di allontanarci dalla sofferenza e dall’ansia. Una volta raggiunto questo stato ogni bufera interna cessa, perché il nostro organismo vitale non è più bisognoso di alcuna cosa, altro non deve cercare per il bene dell’animo e del corpo. Infatti proviamo bisogno del piacere quando soffriamo per la mancanza di esso. Quando invece non soffriamo non ne abbiamo bisogno. Per questo noi riteniamo il piacere principio e fine della vita felice, perché lo abbiamo riconosciuto bene primo e a noi congenito. Ad esso ci ispiriamo per ogni atto di scelta o di rifiuto, e scegliamo ogni bene in base al sentimento del piacere e del dolore. È bene primario e naturale per noi, per questo non scegliamo ogni piacere. Talvolta conviene tralasciarne alcuni da cui può venirci più male che bene, e giudicare alcune sofferenze preferibili ai piaceri stessi se un piacere più grande possiamo provare dopo averle sopportate a lungo. Ogni piacere dunque è bene per sua intima natura, ma noi non li scegliamo tutti. Allo stesso modo ogni dolore è male, ma non tutti sono sempre da fuggire. Bisogna giudicare gli uni e gli altri in base alla considerazione degli utili e dei danni. Certe volte sperimentiamo che il bene si rivela per noi un male, invece il male un bene. Consideriamo inoltre una gran cosa l’indipendenza dai bisogni non perché sempre ci si debba accontentare del poco, ma per godere anche di questo poco se ci capita di non avere molto, convinti come siamo che l’abbondanza si gode con più dolcezza se meno da essa dipendiamo. In fondo ciò che veramente serve non è difficile a trovarsi, l’inutile è difficile. I sapori semplici danno lo stesso piacere dei più raffinati, l’acqua e un pezzo di pane fanno il piacere più pieno a chi ne manca.
Saper vivere di poco non solo porta salute e ci fa privi d’apprensione verso i bisogni della vita ma anche, quando ad intervalli ci capita di menare un’esistenza ricca, ci fa apprezzare meglio questa condizione e indifferenti verso gli scherzi della sorte. Quando dunque diciamo che il bene è il piacere, non intendiamo il semplice piacere dei goderecci, come credono coloro che ignorano il nostro pensiero, o lo avversano, o lo interpretano male, ma quanto aiuta il corpo a non soffrire e l’animo a essere sereno. Perché non sono di per se stessi i banchetti, le feste, il godersi fanciulli e donne, i buoni pesci e tutto quanto può offrire una ricca tavola che fanno la dolcezza della vita felice, ma il lucido esame delle cause di ogni scelta o rifiuto, al fine di respingere i falsi condizionamenti che sono per l’animo causa di immensa sofferenza. Di tutto questo, principio e bene supremo è l’intelligenza delle cose, perciò tale genere di intelligenza è anche più apprezzabile della stessa filosofia, è madre di tutte le altre virtù. Essa ci aiuta a comprendere che non si dà vita felice senza che sia intelligente, bella e giusta, né vita intelligente, bella e giusta priva di felicità, perché le virtù sono connaturate alla felicità e da questa inseparabili. Chi suscita più ammirazione di colui che 133 ha un’opinione corretta e reverente riguardo agli dei, nessun timore della morte, chiara coscienza del senso della natura, che tutti i beni che realmente servono sono facilmente procacciabili, che i mali se affliggono duramente affliggono per poco, altrimenti se lo fanno a lungo vuol dire che si possono sopportare? Questo genere d’uomo sa anche che è vana opinione credere il fato padrone di tutto, come fanno alcuni, perché le cose accadono o per necessità, o per arbitrio della fortuna, o per arbitrio nostro. La necessità è irresponsabile, la fortuna instabile, invece il nostro arbitrio è libero, per questo può meritarsi biasimo o lode. Piuttosto che essere schiavi del destino dei fisici, era meglio allora credere ai racconti degli dei, che almeno offrono la speranza di placarli con le preghiere, invece dell’atroce, inflessibile necessità. La fortuna per il saggio non è una divinità come per la massa – la divinità non fa nulla a caso – e neppure qualcosa priva di consistenza. Non crede che essa dia agli uomini alcun bene o male determinante per la vita felice, ma sa che può offrire l’avvio a grandi beni o mali. Però è meglio essere senza fortuna ma saggi che fortunati e stolti, e nella pratica è preferibile che un bel progetto non vada in porto piuttosto che abbia successo un progetto dissennato. Medita giorno e notte tutte queste cose e altre congeneri, con te stesso e con chi ti è simile, e mai sarai preda dell’ansia. Vivrai invece come un dio fra gli uomini. Non sembra più nemmeno mortale l’uomo che vive fra beni immortali.
In questa Diatriba, che costituisce un piccolo trattato sull’amicizia, Epitteto riporta l’amicizia all’interno dell’etica stoica: l’uomo nutre amicizia e amore per ciò che è bene, e quindi vivrà la vera amicizia solo colui, come il saggio, che conosce che cosa sia veramente il bene. Amicizia c’è solo dove c’è anche bene e conoscenza del bene. Al di fuori di ciò, avremo solo apparenza di amicizia e contrasti.
Dextrarum iunctio. Cammeo, onice e pasta vitrea, II-III sec. d.C. su un anello d’argento.
Pittore di Castelgiorgio. Due giovani a colloquio. Pittura vascolare dal tondo di una kylix attica a figure rosse, 500-480 a.C. ca. Palermo, Museo Archeologico Regionale.
Sull’amicizia
[1] L’oggetto in cui si mette il proprio zelo, com’è naturale, lo si ama. Gli uomini mettono forse il loro zelo in quel che è male? Nient’affatto! Forse in ciò che non ha alcuna relazione con loro? Neppure in questo. [2] Resta, pertanto, che mettono il loro zelo solo nelle cose buone; e se vi mettono il loro zelo, le amano. [3] Di conseguenza, chiunque è conoscitore di quel che è buono saprebbe anche amarlo; al contrario, chi non è in grado di distinguere, gli uni dagli altri, i beni, i mali e gli oggetti che non sono né beni né mali, come potrebbe anche amarlo, quel che è buono? Pertanto, è prerogativa del solo saggio amare.
[4] «Perché mai?» dice l’interlocutore. «Io, infatti, senza essere un saggio, nondimeno amo mio figlio».
[5] Mi stupisco, per gli Dèi, che tu ammetta, fin dal principio, di non essere un saggio. Che cosa non hai del saggio? Non usi i sensi, non distingui le rappresentazioni, non dai al tuo corpo gli alimenti di cui ha bisogno, non gli dai vestiti e una casa? Come fai, allora, a riconoscere di non essere saggio? [6] Perché spesso, per Zeus, sei sconvolto dalle rappresentazioni e confuso per causa loro e sei vinto dalla loro capacità di persuasione. E a volte queste cose le ritieni buone, poi, le medesime, le ritieni cattive e, in seguito, né buone né cattive, con la conseguenza di essere preda del dolore, della paura, dell’invidia, della confusione e della volubilità. Ecco perché riconosci di non essere saggio. E nell’amicizia non sei volubile? [7] La ricchezza, il piacere e, insomma, le cose medesime indipendenti da noi, ora le supponi dei beni ora dei mali; e gli uomini, i medesimi uomini, non li consideri ora buoni ora cattivi, e non li tratti ora familiarmente ora con ostilità, ora lodandoli ora rimproverandoli?
«Sì, è proprio quel che sento».
[8] «E che? Ti pare che l’uomo che si è ingannato sul conto di un altro possa essergli amico?».
«Per niente!».
«E quello che è incostante nello scegliere gli amici, ti pare che possa essere benevolo verso di loro?».
«Nemmeno costui».
[9] «E allora? Non hai mai visto dei cagnolini scodinzolare e giocare tra loro, così da osservare: “Non c’è niente di più affettuoso?”. Ma, perché tu veda cos’è l’amicizia, getta della carne in mezzo a loro, e capirai. [10] Getta tra te e tuo figlio un campo, e saprai quanta fretta ha tuo figlio di sotterrarti, e come tu stesso preghi che muoia. E poi dirai: “Che razza di figlio ho tirato su: da un pezzo vorrebbe vedermi al cimitero”. [11] Getta tra voi una bella ragazza e amatela, tu, vecchio, e il tuo ragazzo; o, se vuoi, un po’ di gloria. Qualora, poi, ci fosse un pericolo da affrontare, ripeterai le parole del padre di Admeto: “Tu vuoi vedere la luce: non pensi che anche il padre lo voglia?” (Eurip. Alc. 691). [12] Credi che quello non avesse affetto per suo figlio, quando era piccolo; quando aveva la febbre, non fosse in ansia e non dicesse spesso: “Oh! Avessi piuttosto io la febbre!”?. Infine, quando viene il momento del pericolo ed esso è imminente, guarda quali parole grida! [13] Eteocle e Polinice non avevano lo stesso padre e la stessa madre? Non erano stati allevati insieme, non avevano passato la vita insieme, non avevano mangiato alla stessa tavola e dormito nello stesso letto, spesso non si erano abbracciati l’un l’altro? Di conseguenza, chi li avesse visti, credo che avrebbe deriso i filosofi per le loro tesi paradossali sull’amicizia. [14] Ma quando la tirannide cadde in mezzo a loro come un pezzo di carne, guarda che frasi si scambiano:
Eteo.: “Dove mai ti porrai davanti alle mura?”.
Poli.: “Perché me lo chiedi?”.
Eteo.: “Bramo di scontrarmi con te e di ucciderti!”.
Poli.: “Anch’io ho questo desiderio” (Eurip. Phoen. 621).
[15] In generale, infatti – non ingannatevi – ogni essere vivente niente ricerca per sé con tanto interesse quanto il suo utile particolare. Qualunque cosa gli paia d’impaccio al suo utile, si tratti di un fratello, del padre, di un figlio, di un essere amato o amante, lo odia, lo respinge, lo maledice. [16] Perché niente ama per natura quanto il suo proprio utile: questo è per lui padre, fratello, parente, patria e Dio. [17] Quando ci sembra che gli Dèi ci intralcino il cammino per conseguirlo, ingiuriamo anche loro, ne rovesciamo le statue e ne incendiamo i templi, come fece Alessandro, che ordinò di bruciare il tempio di Asclepio perché era morto il suo amato. [18] Perciò, se si fa coincidere l’utile con il santo, il bello, la patria, i genitori e gli amici, tutto ciò è salvaguardato; se, invece, si pone altrove l’utile e altrove gli amici, la patria, i parenti e la giustizia stessa, tutto questo va in rovina, oppressato dal peso dell’utile. [19] Dove, infatti, si trovano l’“io” e il “mio”, lì necessariamente piega l’essere vivente: se si trovano nella carne, lì si trova ciò che ci domina; se sono nella scelta morale, il potere dominante è lì; se sono negli oggetti esterni, sarà in essi. [20] Pertanto, solo se il mio “io” coincide con la scelta morale, sarò un amico, un figlio e un padre quale dev’essere. Perché, allora, mi sarà utile salvaguardare l’uomo fedele, rispettoso, tollerante, moderato e solidale, e custodire le relazioni sociali. [21] Ma se pongo il mio “io” da una parte, e dall’altra il bello, in tal caso prende valore la sentenza di Epicuro, secondo la quale il bello non è niente o, se è qualcosa, è stima del volgo.
[22] Dall’ignoranza di tutto ciò derivano i contrasti tra gli Ateniesi e gli Spartani, tra i Tebani e i precedenti, tra il Gran Re e l’Ellade, tra i Macedoni e i due ultimi, e, ai nostri giorni, tra i Romani e i Geti; e, ancora prima, gli avvenimenti di Ilio sorsero per la medesima causa. [23] Alessandro era ospite di Menelao; e chi li avesse visti così benevoli l’uno verso l’altro, non avrebbe creduto, se gli avessero detto che erano amici. Ma fu gettata tra loro una cosetta da poco, una bella donna, e per lei scoppiò la guerra. [24] E, adesso, quando vedi degli amici, dei fratelli che sembrano andare d’amore e d’accordo, non affermare subito che tra loro c’è amicizia, neppure se giurano, né se dicono che è impossibile che si separino mai. [25] Non è leale la parte dominante di un uomo dappoco: non è salda, non è in grado di discernere, si lascia vincere ora da una rappresentazione ora da un’altra. [26] Non andare a vedere, come fanno gli altri, se sono figli degli stessi genitori, se sono stati allevati insieme e dallo stesso pedagogo, ma esamina solo questo: dove pongono il loro utile, se fuori di loro o nella scelta morale. [27] Se fuori, non considerarli amici e neppure leali, coraggiosi o liberi, e nemmeno uomini, se sei assennato. [28] Non è, infatti, un giudizio umano quello che induce gli uomini a mordersi reciprocamente, a insultarsi e ad occupare i luoghi deserti o le piazze come i briganti occupano le montagne, e a rivelare davanti ai tribunali gesta di briganti; non è un giudizio umano neppure quello che rende intemperanti, adulteri e seduttori, e provoca tutti gli altri crimini con cui gli uomini si danneggiano reciprocamente; e ciò è causato da questo solo giudizio, cioè dal porre, negli oggetti che non dipendono dalla scelta morale, se stessi e quel che è proprio. [29] Se, invece, senti dire che questi uomini credono veramente che il bene si trova unicamente ove si trova la scelta morale e il retto uso delle rappresentazioni, non affaticarti più a cercare se sono padre e figlio o fratelli, se sono stati per molto tempo a scuola insieme e sono compagni, ma, avendo saputo quest’unica cosa, non esitare ad affermare che sono amici, come anche leali e giusti. [30] Dov’è, infatti, l’amicizia, se non ove si trova la lealtà, il rispetto, la devozione al bello e nient’altro?».
[31] «Ma si è curata di me per tanto tempo, e non mi amava?».
«Come fai a sapere, schiavo, se si curava di te come pulisce le sue calzature, come striglia l’asino? Come fai a sapere se, quando perderai la tua utilità di vaso da cucina, non ti getterà via come un piatto rotto?».
[32] «Ma è mia moglie, e abbiamo vissuto insieme per tanto tempo!».
«E quanto tempo non aveva vissuto Erifile con Anfiarao, e non era madre di molti più figli? Ma una collana venne a mettersi tra i due. [33] Che cos’è una collana? Il giudizio delle cose di tal genere. Fu quello la forza brutale, fu esso a rompere l’amicizia, fu esso che non consentì a una donna di essere moglie e ad una madre di essere madre. [34] Chi di voi si è dato davvero pensiero di essere amico di un altro o di procurarsi l’amicizia di un altro, elimini questi giudizi, li odi e li scacci dalla sua anima. [35] In tal modo, innanzitutto, non avrà più ad insultare se stesso, a pentirsi, a torturarsi; [36] in secondo luogo, non lotterà con il suo prossimo, per niente con chi gli somiglia; e, quanto a chi gli dissimile, invece, sarà tollerante, condiscendente, mite, disposto al perdono, come si fa con un ignorante, con uno che s’è disperso in una materia della massima importanza: non sarà aspro con nessuno, perché conosce bene le parole di Platone: “è contro sua voglia che l’anima viene privata della verità”. In caso contrario, voi agirete in tutto come gli amici e berrete insieme e vivrete sotto lo stesso tetto e navigherete sulla stessa nave e potrete avere anche gli stessi genitori. Perché lo possono anche i serpenti: ma amici non sono i serpenti, né lo sarete voi, finché avrete quei giudizi selvaggi e perversi».
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