
«Ἆρ᾽ οὖν καὶ ὃ δημοκρατία ὁρίζεται ἀγαθόν, ἡ τούτου ἀπληστία καὶ ταύτην καταλύει;».
«Λέγεις δ᾽ αὐτὴν τί ὁρίζεσθαι;».
«Τὴν ἐλευθερίαν, εἶπον. τοῦτο γάρ που ἐν δημοκρατουμένῃ πόλει [562c] ἀκούσαις ἂν ὡς ἔχει τε κάλλιστον καὶ διὰ ταῦτα ἐν μόνῃ ταύτῃ ἄξιον οἰκεῖν ὅστις φύσει ἐλεύθερος.
«Λέγεται γὰρ δή, ἔφη, καὶ πολὺ τοῦτο τὸ ῥῆμα».
«Ἆρ᾽ οὖν, ἦν δ᾽ ἐγώ, ὅπερ ᾖα νυνδὴ ἐρῶν, ἡ τοῦ τοιούτου ἀπληστία καὶ ἡ τῶν ἄλλων ἀμέλεια καὶ ταύτην τὴν πολιτείαν μεθίστησίν τε καὶ παρασκευάζει τυραννίδος δεηθῆναι;».
«Πῶς; ἔφη».
«Ὅταν οἶμαι δημοκρατουμένη πόλις ἐλευθερίας διψήσασα [562d] κακῶν οἰνοχόων προστατούντων τύχῃ, καὶ πορρωτέρω τοῦ δέοντος ἀκράτου αὐτῆς μεθυσθῇ, τοὺς ἄρχοντας δή, ἂν μὴ πάνυ πρᾷοι ὦσι καὶ πολλὴν παρέχωσι τὴν ἐλευθερίαν, κολάζει αἰτιωμένη ὡς μιαρούς τε καὶ ὀλιγαρχικούς».
«Δρῶσιν γάρ, ἔφη, τοῦτο».
«Tοὺς δέ γε, εἶπον, τῶν ἀρχόντων κατηκόους προπηλακίζει ὡς ἐθελοδούλους τε καὶ οὐδὲν ὄντας, τοὺς δὲ ἄρχοντας μὲν ἀρχομένοις, ἀρχομένους δὲ ἄρχουσιν ὁμοίους ἰδίᾳ τε καὶ δημοσίᾳ ἐπαινεῖ τε καὶ τιμᾷ. ἆρ᾽ οὐκ ἀνάγκη ἐν τοιαύτῃ [562e] πόλει ἐπὶ πᾶν τὸ τῆς ἐλευθερίας ἰέναι;».
«Πῶς γὰρ οὔ;»
«Kαὶ καταδύεσθαί γε, ἦν δ᾽ ἐγώ, ὦ φίλε, εἴς τε τὰς ἰδίας οἰκίας καὶ τελευτᾶν μέχρι τῶν θηρίων τὴν ἀναρχίαν ἐμφυομένην».
«Πῶς, ἦ δ᾽ ὅς, τὸ τοιοῦτον λέγομεν;».
«Oἷον, ἔφην, πατέρα μὲν ἐθίζεσθαι παιδὶ ὅμοιον γίγνεσθαι καὶ φοβεῖσθαι τοὺς ὑεῖς, ὑὸν δὲ πατρί, καὶ μήτε αἰσχύνεσθαι μήτε δεδιέναι τοὺς γονέας, ἵνα δὴ ἐλεύθερος ᾖ· μέτοικον δὲ [563a] ἀστῷ καὶ ἀστὸν μετοίκῳ ἐξισοῦσθαι, καὶ ξένον ὡσαύτως».
«Γίγνεται γὰρ οὕτως», ἔφη.
«Tαῦτά τε, ἦν δ᾽ ἐγώ, καὶ σμικρὰ τοιάδε ἄλλα γίγνεται· διδάσκαλός τε ἐν τῷ τοιούτῳ φοιτητὰς φοβεῖται καὶ θωπεύει, φοιτηταί τε διδασκάλων ὀλιγωροῦσιν, οὕτω δὲ καὶ παιδαγωγῶν· καὶ ὅλως οἱ μὲν νέοι πρεσβυτέροις ἀπεικάζονται καὶ διαμιλλῶνται καὶ ἐν λόγοις καὶ ἐν ἔργοις, οἱ δὲ γέροντες συγκαθιέντες τοῖς νέοις εὐτραπελίας τε καὶ χαριεντισμοῦ [563b] ἐμπίμπλανται, μιμούμενοι τοὺς νέους, ἵνα δὴ μὴ δοκῶσιν ἀηδεῖς εἶναι μηδὲ δεσποτικοί».
«Πάνυ μὲν οὖν», ἔφη.
«Τὸ δέ γε, ἦν δ᾽ ἐγώ, ἔσχατον, ὦ φίλε, τῆς ἐλευθερίας τοῦ πλήθους, ὅσον γίγνεται ἐν τῇ τοιαύτῃ πόλει, ὅταν δὴ οἱ ἐωνημένοι καὶ αἱ ἐωνημέναι μηδὲν ἧττον ἐλεύθεροι ὦσι τῶν πριαμένων. ἐν γυναιξὶ δὲ πρὸς ἄνδρας καὶ ἀνδράσι πρὸς γυναῖκας ὅση ἡ ἰσονομία καὶ ἐλευθερία γίγνεται, ὀλίγου ἐπελαθόμεθ᾽ εἰπεῖν».
[563c] «Oὐκοῦν κατ᾽ Αἰσχύλον, ἔφη, ‘ἐροῦμεν ὅτι νῦν ἦλθ᾽ ἐπὶ στόμα’;».
«Πάνυ γε, εἶπον· καὶ ἔγωγε οὕτω λέγω· τὸ μὲν γὰρ τῶν θηρίων τῶν ὑπὸ τοῖς ἀνθρώποις ὅσῳ ἐλευθερώτερά ἐστιν ἐνταῦθα ἢ ἐν ἄλλῃ, οὐκ ἄν τις πείθοιτο ἄπειρος. ἀτεχνῶς γὰρ αἵ τε κύνες κατὰ τὴν παροιμίαν οἷαίπερ αἱ δέσποιναι γίγνονταί τε δὴ καὶ ἵπποι καὶ ὄνοι, πάνυ ἐλευθέρως καὶ σεμνῶς εἰθισμένοι πορεύεσθαι, κατὰ τὰς ὁδοὺς ἐμβάλλοντες τῷ ἀεὶ ἀπαντῶντι, ἐὰν μὴ ἐξίστηται, καὶ τἆλλα πάντα οὕτω [563d] μεστὰ ἐλευθερίας γίγνεται».
«Tὸ ἐμόν γ᾽– ἔφη – ἐμοὶ λέγεις ὄναρ· αὐτὸς γὰρ εἰς ἀγρὸν πορευόμενος θαμὰ αὐτὸ πάσχω».
«Tὸ δὲ δὴ κεφάλαιον, ἦν δ᾽ ἐγώ, πάντων τούτων συνηθροισμένων, ἐννοεῖς ὡς ἁπαλὴν τὴν ψυχὴν τῶν πολιτῶν ποιεῖ, ὥστε κἂν ὁτιοῦν δουλείας τις προσφέρηται, ἀγανακτεῖν καὶ μὴ ἀνέχεσθαι; τελευτῶντες γάρ που οἶσθ᾽ ὅτι οὐδὲ τῶν νόμων φροντίζουσιν γεγραμμένων ἢ ἀγράφων, ἵνα δὴ μηδαμῇ [563e] μηδεὶς αὐτοῖς ᾖ δεσπότης».
«Kαὶ μάλ᾽ – ἔφη – οἶδα».
«Aὕτη μὲν τοίνυν, ἦν δ᾽ ἐγώ, ὦ φίλε, ἡ ἀρχὴ οὑτωσὶ καλὴ καὶ νεανική, ὅθεν τυραννὶς φύεται, ὡς ἐμοὶ δοκεῖ».

«Ebbene, a distruggere anche la democrazia non è pure l’insaziabilità di ciò che essa definisce un bene?».
«Secondo te, che cosa definisce in questo modo?».
Ed io risposi: «La libertà: vedi, in una città democratica sentirai dire che la libertà è [562c] il bene migliore in assoluto e che soltanto là dovrebbe perciò abitare ogni spirito naturalmente libero».
«Sì, in effetti, è una frase molto comune», ammise lui.
E ripresi: «Ebbene, come or ora stavo per dire, l’insaziabilità di libertà e la noncuranza di tutto il resto non mutano forse anche questa costituzione e non la preparano a ricorrere fatalmente alla tirannide?».
«Come?», mi domandò.
«A mio parere, quando una città retta a democrazia, assetata di libertà, [562d] è alla mercé di cattivi coppieri e troppo si ubriaca di schietta libertà, allora, a meno che i suoi governanti non siano assai moderati e non concedano grande libertà, li pone in stato d’accusa e li castiga come scellerati ed oligarchici».
«Infatti, fanno questo», disse.
E continuai: «Coloro i quali obbediscono ai governanti, li copre di improperi trattandoli da gente contenta di essere schiava e incapace, mentre elogia e onora sia in privato sia in pubblico i governanti che sono simili ai governati e i governati che sono simili ai governanti. Non è inevitabile, dunque, che in una città [562e] siffatta il principio di libertà si allarghi a tutto?».
«Come no!?».
«E così, mio caro, nasce l’anarchia e si insinua nelle dimore private e si estende fino alle bestie».
«E come possiamo asserire una cosa del genere?».
Spiegai: «Ebbene, per esempio, nel senso che il padre si abitua a rendersi simile al figlio e a temere i figli, e il figlio simile al padre e a non provar rispetto né timore verso i genitori, per poter essere libero; e che il meteco si parifica al cittadino e il cittadino al meteco, e [563a] così dicasi per lo straniero».
«Già, va così», fece lui.
Ripresi: «A queste si aggiungono altre cosucce del tipo: in un simile contesto il maestro teme e adula gli scolari, e gli scolari se ne infischiano dei maestri e così pure dei pedagoghi. In genere, i giovani si pongono al pari degli anziani e li emulano nei discorsi e nelle azioni, mentre i vecchi accondiscendono ai giovani [563b] e si fanno giocosi e faceti, imitandoli, per non passare da spiacevoli e dispotici».
«Oh, ma certo», osservò.
Feci io: «Però, mio caro, l’estremo della libertà cui la massa può giungere in una città simile si ha quando uomini e donne comperati sono liberi quanto i loro acquirenti. E quasi ci siamo scordati di dire quanto grandi siano la parificazione giuridica e la libertà nei rapporti reciproci tra uomini e donne».
[563c] «Ebbene, con Eschilo non ‘diremo quel che ora è venuto alle labbra’?».
«Oh, indubbiamente, lo penso anch’io. Ma consideriamo, dunque, gli animali addomesticati: nessuno potrà persuadersi, senza farne esperienza, di quanto siano più liberi qui che altrove. Le cagne – giusto per stare al proverbio – sono esattamente come le loro padrone; e ci sono cavalli e asini che, abituati a camminare in piena libertà e solennità, per le strade urtano i passanti, e non si scansano. E dappertutto [563d] c’è questa libertà».
«Mi stai raccontando proprio il mio sogno! Quando vado in campagna, questo caso mi succede spesso!».
Ripresi: «Ebbene, non pensi quanto l’anima dei cittadini si lasci impressionare dal sommarsi di tutte queste circostanze insieme raccolte, al punto che uno, se gli si prospetta anche la minima schiavitù, si sdegna e non la tollera? E tu sai che finiscono per trascurare [563e] del tutto le leggi, sia scritte sia non scritte, per essere assolutamente privi di padroni?».
«Certo che lo so», disse.
E io conclusi: «Ecco dunque, mio caro, qual è, a mio parere, l’origine, bella e violenta, da cui deriva la tirannide».
(adatt. trad. da F. Sartori, M. Vegetti [cur.], Platone, La Repubblica, Roma-Bari 2005, pp. 280-282).
Ulteriori letture:
Ferrari F. (cur.), Contro la democrazia. Platone, Milano 2008.
Lavin T., The Allure of Democracy in Plato’s Republic.
Pedler Ch., In Defense of Democracy: A Critique of Plato’s Republic.
Saxonhouse A.W., Democracy, equality, and eidê: A radical view from book 8 of Plato’s Republic, APSR 92 (1998), pp. 273-283.
Semelsberger D., Plato’s Critique of Democratic Restlessness in Republic Books VIII and IX.
Insomma, se ognuno sta al suo posto niente anarchia e niente pericolo di tirannide, o almeno così ho capito. Bello e buono; però chi stabilisce qual è il posto di ciascuno?
P.S. Complimenti per il sito: bello e infinito.
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