di A. Romano, Virgilio tra poesia e ideologia (tesi di dottorato), Napoli 2008-2011, pp. 28-41.

È un paesaggio malinconico immerso in un clima di profonda tristezza a fare da sfondo al dialogo dei due protagonisti della prima ecloga virgiliana, e, come nella migliore tradizione della poesia pastorale[1], assistiamo, almeno in questo caso, ad un dialogo tra due pastori; nel paragrafo precedente si è fatto riferimento a come a volte sia assolutamente facile l’identificazione dei personaggi virgiliani con persone storicamente esistite, e nel caso delle Bucoliche è facile intravedere lo stesso Virgilio parlare per bocca di alcuni pastori come Titiro nella I ecloga e Menalca nella IX[2]. Due sezioni con caratteristiche assai diverse sono riconoscibili all’interno dell’ecloga, la prima comprendente i versi 1-45 e la seconda i versi 46-82, e, se nella prima parte troviamo un vero e proprio dialogo tra i due pastori basato sulla curiosità di Melibeo di sapere chi o che cosa abbia consentito a Titiro di restare nei suoi possedimenti, e sulle risposte evasive di quest’ultimo, nella seconda parte troviamo due lunghi monologhi di Melibeo intervallati dall’unico intervento di Titiro (vv. 59-63) che però non è sufficiente ad interrompere le riflessioni dell’amico, che riprende (v. 64) a parlare completamente ignorando le parole del pastore “felice”; saranno le parole di Titiro a chiudere il canto (vv. 79-82), ma il suo invito rivolto all’amico esule[3] resterà senza risposta. Melibeo ha chiuso il suo canto al v. 78 e non può più rispondere all’amico poiché i due non appartengono più allo stesso mondo, ciò che Titiro offre all’amico, un’ultima notte nel mondo bucolico, non può essere accettato da Melibeo, il suo destino è quello di andare, e dopo le dolorose riflessioni sulla triste sorte degli esuli si congeda da un mondo che per lui non esiste più.
Melibeo non rappresenta solo se stesso ma parla a nome di un intero gruppo sociale, cioè coloro che sono stati depauperati dei loro beni e che a malincuore lasciano le proprie terre. Non a caso il pastore, nel suo canto, parla sempre al plurale[4], sin dalla prima strofe:
Tytyre, tu patulae recubans sub tegmine fagi
silvestrem tenui Musam meditaris avena;
nos patriae finis et dulcia linquimus arva,
nos patriam fugimus; tu, Tityre, lentus in umbra
formosam resonare doces Amaryllida silvas. 5
Un deus[5], si affretta a rispondere Titiro, in modo evasivo, con la sua intercessione gli ha permesso di conservare i propri beni, ma circa l’identità del personaggio, che Melibeo si mostra interessato a conoscere, Titiro non concede troppe informazioni e si limita a riferire che il deus risiede a Roma e che per la sua intercessione si è guadagnato eterna riconoscenza da parte del pastore; Titiro farà nuovamente riferimento a questo suo benefattore ai vv. 40-45:
Quid facerem? Neque servitio me exire licebat, 40
nec tam praesentis alibi cognoscere divos.
Hic illum vidi iuvenem, Meliboee, quotannis
bis senos cui nostra dies altaria fumant;
hic mihi responsum primum dedit ille petenti:
«Pascite ut ante boves, pueri; summittite tauros». 45
L’identificazione con Ottaviano del misterioso personaggio che ha aiutato Titiro è accettata, si potrebbe dire senza troppe riserve, da tutti i commentatori[6], e ha alimentato nel corso dei secoli diverse polemiche in merito ai motivi che avessero spinto il poeta ad inserire nell’ ecloga che apre l’intera raccolta un omaggio ad
Ottaviano; coloro che vedono nel poeta, e già prima si è fatto riferimento all’esistenza di diverse scuole esegetiche, una sorta di spirito cortigiano, una sorta di servilismo culturale piegato ai dettami della propaganda, trovano in questo esempio e in molti altri luoghi virgiliani conferma delle loro teorie; tuttavia è necessaria una precisazione poiché in alcuni casi, come questo della prima ecloga, il riferimento ad Ottaviano appare chiaro, ed anche altrove, sia nelle Georgiche sia nell’Eneide, seppur con una incidenza minore di quella che molti studiosi sembrano riscontrare, appaiono riferimenti chiari ad Ottaviano/Augusto o a personaggi storicamente esistiti e vicini al poeta per età, formazione o “professione”, se così si può definire il dedicarsi alla poesia, ma il problema maggiore non si riscontra nell’esegesi di questi luoghi bensì di quelli nei quali si ravviserebbero “allusioni” a personaggi e/o avvenimenti, poiché in questo caso i criteri interpretativi scelti dagli studiosi si diversificano assumendo spesso caratteristiche attribuibili più al gusto personale e all’opinione maturata sul poeta in virtù di ciò che quest’ultimo avrebbe o non avrebbe voluto dire, che non piuttosto su ciò che il testo davvero dice. Con questo non si vuole assolutamente affermare che la critica virgiliana nel corso dei secoli non abbia raggiunto risultati assai rilevanti, poiché è ovvio che gli attuali studi virgiliani si nutrono anche di ciò che la critica ha espresso in passato, ma soltanto che Virgilio ha attirato, spesso più di altri poeti, a tal punto l’attenzione dei critici, e a tal punto i suoi scritti sono stati “rifunzionalizzati” in epoche storiche a noi più vicine, che capita spesso di imbattersi in interpretazioni che sono vicine all’esegeta ma lontane dal poeta.
F. della Corte[7] fornisce significativamente un ventaglio delle interpretazioni, più o meno fantasiose, cui sono stati sottoposti i personaggi virgiliani: “c’è chi arriva a vedere in Titiro, che acquista la libertas, il simbolo della Gallia Transpadana che rivendica il diritto di cittadinanza; c’è chi scorge nella libertas o la liberazione epicurea dalla passioni o la nuova ispirazione poetica che la Roma di Ottaviano suscita in Virgilio”[8], e lo studioso ammette di essere poco propenso ad accettare interpretazioni eccessivamente allegoriche del testo poiché Virgilio stesso si era formato in un periodo nel quale autori come Cicerone e Lucrezio sconsigliavano l’utilizzo di questa figura retorica, e si dice sostenitore di un’interpretazione tipologica che vede nei pastori delle Bucoliche, negli allevatori delle Georgiche e nei guerrieri dell’Eneide personaggi immersi nella storia che vivono una vita reale e immersa nella cultura romana[9].

A. La Penna[10] aveva già insistito sulla necessità di distinguere l’allegoria dal simbolo, e lo stesso fa il della Corte[11], entrambi propendendo per un criterio interpretativo che consenta all’esegeta una certa libertà e non gli imponga di applicare sempre, quindi alle tre opere e a tutti i personaggi, uno stesso criterio di lettura con la conseguenza di sottrarre qualcosa alla creatività del poeta. Gli esegeti, nell’occuparsi della prima ecloga, opportunamente posta dal poeta come ouverture dell’intera raccolta, si sono soffermati, come già è stato detto, sui riferimenti più o meno velati ad Ottaviano e, a questo proposito, M. Gigante[12] ritiene che la presenza dei personaggi politici dell’età augustea all’interno dell’opera del Mantovano fu sicuramente di grande importanza, ma spiega che “Virgilio è poeta pudico e l’autobiografismo è discreto, lieve: solo stolti lettori, antichi e moderni, hanno potuto parlare di adulazione e di encomio: Virgilio fa un rendimento di grazie che però non ha nulla di ufficiale e non è neppure individuale […]; il ruolo di Melibeo è stato molto sommariamente e brutalmente definito di protesta e contraddizione del rendimento di grazie di Titiro, e alcuni critici, trovando difficile conciliare i due atteggiamenti nello stesso Virgilio, hanno esaltato come brillante e fascinosa la parte di Melibeo e cortigianesca e eulogetica la parte di Titiro. Virgilio si sarebbe sdoppiato e sarebbe riuscito solo nel ruolo di Melibeo che non fu propriamente suo. Frutto di un esasperato psicologismo e di una razionalizzazione del dato poetico, tale critica, specialmente francese, non è riuscita a decifrare il messaggio del poeta: la voce del poeta è in tutta l’ecloga, non in una parte di essa soltanto”. Il pensiero dello studioso può in realtà essere esteso a tutta la raccolta e in generale a tutta l’opera del poeta senza pensare che egli si identificasse principalmente in alcuni personaggi e senza dover sempre tentare di identificare i protagonisti dei suoi componimenti con personaggi del mondo politico a lui contemporaneo, o meglio evitando che queste identificazioni siano finalizzate a letture del testo assolutamente faziose.
La quarta ecloga è probabilmente la più conosciuta dell’intera raccolta, ed è quella che maggiormente nel corso dei secoli ha subìto, è il caso di dirlo, a causa delle innegabili difficoltà esegetiche di alcuni luoghi, le interpretazioni più “fantasiose”, ed in particolar modo si fa riferimento ai versi 4-10:
Ultima Cymaei venit iam carminis aetas,
magnus ab integro saeclorum nascitur ordo; 5
iam redit et Virgo redeunt Saturnia regna,
iam nova progenies caelo demittitur alto.
Tu modo nascenti puero, quo ferrea primum
desinet ac toto surget gens aurea mundo,
casta fave Lucina; tuus iam regnat Apollo. 10

Pochi decenni dopo la morte del poeta l’identità del puer destinato a ripristinare una nuova età dell’oro risultava sconosciuta, ed era materia di indagine già per i commentatori antichi, sino ad arrivare a Lattanzio[13] il quale testimonia la diffusione sempre crescente, e a lungo accreditata, dell’interpretazione messianica dell’ecloga, attenuatasi, ma mai definitivamente scomparsa, soltanto con l’Umanesimo; esula dal discorso che si sta svolgendo un ulteriore tentativo di identificazione del pargolo in questione, anche perché è molto più importante, ai fini della nostra tematica, comprendere ciò che egli rappresenta, cioè una rinascita globale, un’età dell’oro la cui realizzazione ancora non si è concretizzata e del cui avvento si è ancora in attesa; il puer rappresenta la speranza di una nuova epoca, e probabilmente scoprire l’identità dello stesso non aggiungerebbe niente al significato del testo, poiché Virgilio potrebbe aver preso spunto dalla nascita di un qualsiasi fanciullo, ovviamente nell’ambito dell’allora gruppo politico regnante, per auspicare la venuta di tempi migliori.
L’unico dato certo in nostro possesso riguardante la IV ecloga è la data di composizione, il 40 a. C., ai tempi del consolato di Pollione, dedicatario del componimento, dopo la pace di Brindisi stipulata tra Ottaviano ed Antonio, avvenimento che giustificherebbe il clima di serenità ma soprattutto di speranzoso ottimismo che avvolge l’intero componimento e che interpreta egregiamente le aspettative nutrite non solo dal poeta ma dall’intera comunità di una distensione del clima politico da anni vessato da lotte intestine.
La dedica ad Asinio Pollione ha determinato l’identificazione del misterioso puer con il figlio del console stesso, tesi sostenuta da molti studiosi antichi e moderni tra cui A. La Penna, il quale ipotizza, seppur con qualche riserva, che il fanciullo in questione potesse essere un figlio di Pollione[14], ma il Clausen nel suo Commento alle Bucoliche, a differenza degli altri studiosi, ritiene che i lettori antichi non potevano certo nutrire dubbi sull’identità del bimbo e che il luogo fosse divenuto di incerta interpretazione solo a causa di un’errata comprensione di quanto scritto dal poeta[15].
È opinione di chi scrive, come già accennato, che l’accanimento esegetico su questo singolare luogo non debba essere considerato terapeutico, se così si può dire, per una retta comprensione del testo, anzi forse non sarebbe errato prendere maggiormente in considerazione l’ipotesi secondo la quale lo stesso poeta volesse creare un’aura di mistero intorno al puer, e forse egli stesso non aveva intenzione di attribuire al fanciullo un’identità definita[16]; infatti, benché la lettura simbolista applicata in modo eccessivo al testo abbia spesso portato a travisamenti, è lecito pensare che in alcuni casi non sia completamente da rifiutare, quindi a prescindere da chi fosse il puer, e forse sarebbe più opportuno soffermarsi sul senso globale dell’ecloga, sull’esigenza di rinascita e sui Saturnia regna (vv. 24-25), che prefigurano la Saturnia tellus del II libro delle Georgiche (v. 173), testimonianza della stretta interconnessione tra le opere virgiliane, e di come nel poeta ci fosse una sentita e realistica partecipazione al desiderio, comunemente sentito, di un generale miglioramento della condizione politica e sociale.
Nella quarta ecloga, è opinione comunemente diffusa ed accettata, è forte il desiderio di palingenesi universale; il poeta esprime quel desiderio di rinnovamento fortemente sentito da tutti e marca con i suoi versi l’inizio di una nuova era, una nuova fase della storia di Roma che trova il suo principio nella battaglia di Azio, e a questo proposito in tempi recenti una giovane studiosa, L. Passavanti[17], ha sostenuto che “in età augustea il realizzarsi della palingenesi si traduce nell’encomio del principe, nell’esaltazione e, almeno in parte, nel ‘mascheramento’ dell’effettiva realtà politica e sociale contemporanea”, affermazioni che soltanto in parte possono essere condivise e soprattutto solo parzialmente possono essere applicate a Virgilio, poiché il poeta realizza le sue opere proprio in modo tale da non dover mai formulare davvero, sino in fondo, un encomio di Ottaviano e del princeps. Nelle Bucoliche riscontriamo un clima ancora cupo e di incertezze: basti pensare all’ecloga che il poeta ha scelto per aprire la raccolta, nella quale il riferimento ad Ottaviano, lungi dall’essere “encomiastico”, si traduce essenzialmente in un atteggiamento di personale riconoscenza, e dove non c’è esaltazione dei meriti di Ottaviano né servilismo nelle parole del poeta ma solo gratitudine, sottolineata dalle parole stesse di Titiro, il quale afferma che il benefattore in questione sarà per lui sempre un deus (cf. ecl. 1, 7), ma non dice che il suo giovane benefattore debba essere equiparato a divinità.

Il poeta anzi si fa interprete di un sentimento assolutamente intimo e privato preferendo delegare al personaggio di Melibeo l’espressione di sentimenti corali. In questo senso si può davvero dire che la voce del poeta è presente in tutti i personaggi che agiscono nei suoi componimenti, mentre risulta più difficile accettare l’idea che egli preferisca parlare soltanto attraverso alcuni di essi. Il clima di attesa e di speranza trova conferma nella IV ecloga e poi anche nella IX e nella X che chiude la raccolta; addirittura si ravvisa anche nella VI, famosa per la recusatio con la quale il poeta si giustifica (vv. 3-9) per la sua reticenza a cantare le battaglie e le vittorie di Ottaviano, non è ancora giunto il momento.
È come se il poeta attendesse, nell’intera raccolta, il realizzarsi di un evento che per il momento è solo in preparazione; di qui anche il senso della palingenesi che domina nella IV ecloga e che, come dicevamo, non ha valore encomiastico. Ovviamente le speranze non saranno disilluse; sono le Georgiche l’opera virgiliana nella quale tutte le aspettative e le speranze trovano finalmente realizzazione, l’opera che gli studiosi di tutti i secoli hanno sempre considerato “perfetta” e che, incastrata tra l’esordio arcadico e l’affascinante e “misteriosa” Eneide, non sempre è stata valutata in modo appropriato; con questo non si vuol certo dire che non siano stati tributati all’opera i dovuti meriti e prestate le dovute attenzioni, tutt’altro: le tre opere hanno sempre attirato le attenzioni degli studiosi di ogni tempo, ma, come si avrà modo di dire nelle sezioni del presente lavoro dedicate alle Georgiche, se di encomio si può parlare a proposito della poesia virgiliana sarebbe forse più corretto parlarne a proposito delle Georgiche (basti pensare alle laudes Italiae contenute nel II libro), e non piuttosto relativamente all’Eneide, poiché alla poesia epica Virgilio è approdato lentamente e solo nella fase finale della sua vita. Il poema epico ha richiesto al poeta un lungo periodo di preparazione, ma ciò non comporta necessariamente l’obbligo di pensare che tutta l’opera del poeta tenda alla sola Eneide. Quando il poeta finalmente “cedette”, come si sente spesso dire, alle pressanti richieste di Ottaviano e si accinse a scrivere la sua opera più famosa, la sua non fu una sottomissione al volere del futuro princeps, perché anche in quel caso egli non realizzò l’opera che Ottaviano avrebbe voluto, bensì quella che più si addiceva alle sue caratteristiche poetiche e meglio rispondeva alle sue esigenze interiori, tralasciando la menzione della storia attuale e preferendo parlare della fondazione di Roma e del mito di Enea.
Per questo motivo è lecito supporre che il poeta abbia sempre operato, sin dalle prime opere, in un clima di libertà artistica che gli consentiva di scegliere, di volta in volta, la materia del suo canto.

I riferimenti all’intera opera di Virgilio, inseriti all’interno della trattazione riservata alle Bucoliche, hanno lo scopo di chiarire il modo in cui l’intera produzione del poeta è stata spesso interpretata, e a questo proposito di seguito si cita ciò che scrive A. La Penna[18] in riferimento alla IV ecloga: “essa dà espressione a speranze di palingenesi molto diffuse nell’impero, specialmente fra i popoli orientali, che da tempo subivano il dominio rapace di Roma; nelle sofferenze delle guerre civili le attese e le speranze della nuova era miracolosa di pace si erano fatte più vive. La connessione dell’ecloga 4, attraverso un oracolo sibillino, con profezie messianiche orientali (anche se è difficile precisare quali) si può ritenere sicura; in questo senso anche l’interpretazione cristiana contiene qualche cosa di vero. In massima parte quelle profezie vedevano la palingenesi come una liberazione dell’impero romano. Naturalmente nell’ecloga 4 la palingenesi si opera dentro e sotto l’impero. Tuttavia neppure l’ecloga 4 è poesia «romana»: Roma e l’impero non vi hanno nessuna importanza centrale, la palingenesi vi ha un significato umano e religioso, ma non particolarmente romano”. La Penna ritiene che le speranze di palingenesi[19] presenti nell’ecloga sono di matrice chiaramente orientale e nascono dal desiderio di pace diffusosi a causa dei lunghi anni di guerre civili, e questo è facilmente comprensibile, ma riesce più difficile credere che nell’interpretazione cristiana ci sia qualcosa di vero, e questo per ovvi motivi ideologici. Quando lo studioso afferma che l’ecloga IV non è poesia romana, perché in essa la palingenesi ha un significato umano e religioso e non meramente politico, appare difficile collegare questa affermazione ai versi del poeta perché tutta la poesia virgiliana è poesia romana, calata cioè nella realtà degli anni nei quali si assiste all’affermazione del potere di Ottaviano, e nessuna opera virgiliana è “romana” nel senso in cui intende lo studioso, poiché Virgilio non ha mai scritto nulla che avesse lo scopo esclusivo di esaltare Ottaviano e il Principato, ed è in questo senso che ammettere una qualsiasi lettura messianica[20] dei testi potrebbe risultare fuorviante, dal momento che ciò che il poeta mette al centro dell’opera è proprio la romanità tout court.
***
Note:
[1] La bibliografia riguardante i rapporti tra Teocrito è Virgilio è a dir poco sterminata, poiché nel corso dei secoli si è tentato di capire in che modo il modello greco avesse influenzato il poeta romano nell’approcciarsi ad un medesimo genere letterario che per necessità di cose doveva essere adattato alla sensibilità culturale di un pubblico certamente diverso da quello al quale si rivolgeva il poeta siracusano. A questo proposito pare opportuno, tra i tanti studi pubblicati, far riferimento a quanto scrive B. SNELL, L’Arcadia: scoperta di un paesaggio spirituale, in La cultura greca e le origini del pensiero europeo, trad. it., Torino 1963, pp. 387-418: “La poesia di Virgilio è dunque vicina all’arte classica perché i suoi componimenti non sono appunto semplici imitazioni di idilli ellenistici, ma vere e proprie opere d’arte compiute formalmente. A sua volta questo fatto dimostra che l’arte virgiliana si avvia già a diventare qualcosa di indipendente, di non legato ad alcuna circostanza determinata: insomma a un fatto di pura letteratura. La poesia, come componimento in sé perfetto, diviene per la prima volta un “oggetto di bellezza”. A Virgilio dunque interessa rappresentare nelle Egloghe le situazioni comuni della vita quotidiana, senza però realismo, bensì con una sistematica idealizzazione, e presentandole avviluppate, e quindi profondamente trasformate, dal suo sentimento”. La citazione, abbastanza estesa, di alcuni luoghi del testo di Snell sono essenziali perché anche in seguito si farà riferimento a ciò che lo studioso scrive per quanto riguarda il simbolismo e l’allegoria della poesia virgiliana, fornendoci un’autorevole testimonianza di una lunga e diffusa tradizione esegetica virgiliana; per il momento ci si limita a far notare che la distinzione tra i due poeti, calati in una diversa temperie culturale, è ben tracciata dallo studioso, per quanto alcune definizioni applicate al poeta latino, visto come emblema del classicismo, sono frutto dell’epoca in cui il filologo visse e come tali devono essere recepite con la dovuta cautela.
[2] W. CLAUSEN, A Commentary on Vergil Eclogues, Oxford 1994, p. 32, ipotizza, però, che sia più giusto identificare Virgilio nei personaggi vinti e sconfitti: “ Virgil’s sympathies are usually engaged on the side of defeca and loss; and here, in a poem praising Octavian, it is rather the dispossessed Meliboeus than the complacent Tityrus who more nearly represents Virgil”, una notazione sicuramente interessante quella del commentatore che però può essere accettata solo parzialmente poiché il “soggettivismo virgiliano”, quella fusione di empathy e sympathy (cf. B. OTIS, Virgil. A study in civilized Poetry, Oxford 1963, e l’ottima recensione al volume di Otis pubblicata da A. LA PENNA, Sul cosiddetto stile soggettivo e sul cosiddetto simbolismo di Virgilio, “DArch”, I, 1967, 220-244) gli consentirebbe un’immedesimazione in personaggi tra loro dissimili e con destini differenti, senza dover ipotizzare che il poeta si schierasse, obbligatoriamente, per una tipologia umana anziché per un’altra; inoltre il confronto con la IX ecloga ci permette di identificare, con maggiore tranquillità, il Titiro della prima riuscendo ad accontentare, si potrebbe dire, anche il Clausen, poiché nella I ecloga il poeta si immedesima in un personaggio “fortunato” nella IX in uno sconfitto, riuscendo a dare credibilità letteraria ad entrambi.
[3] buc. 1, 79-82: “Hic tamen hanc mecum poteras requiescere noctem/ fronde super viridi: sunt nobis mitia poma,/castaneae molle set pressi copia lactis,/ et iam summa procul villa rum culmina fumant/ maioresque cadunt altis de monti bus umbras”.
[4] Della stessa opinione F. DELLA CORTE, Le Bucoliche di Virgilio, Genova 1985, p. 22, il quale ritiene che il plurale adottato da Melibeo non abbia valore enfatico ma sia un vero e proprio plurale determinato dall’esigenza di rappresentare più persone accomunate da una sorte comune. Importante il confronto anche con le ultime parole pronunciate da Melibeo poiché prima di congedarsi definitivamente il sentimento corale di cui si era fatto portatore lascia il posto ad una riflessione assolutamente personale, il senso di abbandono e di sconfitta condiviso con altri pastori si trasforma nella disperazione di un uomo nel suo sentito addio alla vita pastorale, e il fatto che il personaggio parli adesso soltanto per se stesso è sottolineato dal fatto che addirittura svolge una sorta di monologo pronunciando il suo stesso nome (vv.73-78): Insere nunc, Meliboee, piros, pone ordine vitis!/ Ite meae quondam felix pecus, ite capellae./ Non ego vos posta viridi proiectus in antro/ dumosa pendere procul de rupe videbo;/ carmina nulla canam; non me pascente,capellae,/ fiorente cytisum et salice carpetis amaras.
[5] Il termine è ripetuto enfaticamente due volte ai vv. 6-7; al v. 7 troviamo un ulteriore riferimento al deus (cf. illius) e poi ancora al v. 9 (ille); il poeta utilizza il termine dues senza alcuna accezione religiosa, né per riferirsi alla divinizzazione di Ottaviano, ma per esaltare il potere di quest’ultimo che per le sue prerogative può essere paragonato ad un dio.
[6] Di questa opinione sono il Clausen, nel suo già citato commento, ma già F. ARNALDI, Virgilio, Bucoliche, Milano-Messina 1966³ e successive ristampe; interessante ciò che F. DELLA CORTE, op. cit., p. 23, scrive a proposito dell’utilizzo del termine da parte di Virgilio sottolineando che ai tempi in cui il poeta scriveva le Bucoliche Ottaviano non era ancora stato deificato, ma la riflessione del commentatore, storicamente fondata, può essere modificata tenendo conto del fatto che nel 42 a.C era stato divinizzato il defunto Cesare e Ottaviano, in quanto suo erede, diventava figlio del Divus, non a caso a v. 42 si parla di uno iuvenis.
[7] F. DELLA CORTE, Genesi e palingenesi dell’allegoria virgiliana, «Maia» 36, 1984, pp. 111-122.
[8] Ibid. p. 112.
[9] Ibid. p. 121: “con l’interpretazione figurale o tipologica arriviamo a cogliere quale sia la funzione non tanto del personaggio, quanto dell’azione compiuta dal personaggio […] tale concezione non impedisce la concretezza delle immagini, né la presa di coscienza del mondo oggettivo; ma al tempo stesso consente di dare un carattere di astrazione fantastica al mondo poetico.
[10] A. LA PENNA, Sul cosiddetto…, cit., pp. 229 ss.
[11] Il della Corte nell’articolo citato più volte relativo all’allegoria virgiliana parla del “meccanicismo” tipico dell’allegoria e della “fluidità interpretativa” che caratterizza il simbolismo.
[12] M. GIGANTE, “Lettura della prima Bucolica”, in Lecturae Vergilianae, vol. I, Le Bucoliche, a cura di M. GIGANTE, Napoli 1981, pp. 31 ss.
[13] LACT. Inst. VII 24.
[14] A. LA PENNA, Bucoliche (introduzione), Milano 1978 (e successive ristampe), pp. XLIX ss.
[15] W. CLAUSEN, A Commentary on Vergil Eclogues, Oxford 1994, p. 121-122: “They [i lettori antichi] knew well enough who was meant, the expected son of Antony and Octavia and heir to Antony’s greatness – the son that never was; a daughter was born instead. Antony claimed descent from Hercules as proudly as Julius Caesar (and Octavian, his adepte son) claimed descent from Venus; thus the boy would have been descended on his father’s side from Hercules, on his mother’s from Venus, a symbol incarnate of unity and peace. Like the deified Hercules (Virgil implies) he will be exalted to heaven and there see gods mingling with heroes”.
[16] Di questa stessa opinione è anche G. PASCUCCI, “Lettura della quarta bucolica”, in Lect. Verg., vol. I, cit., p. 177, il quale sostiene che già i lettori antichi non potevano essere certi dell’identità del puer, e che lo stesso Virgilio forse non aveva in mente un bimbo “vero”: “Chi sia il puer, noi non sappiamo, né sapevano gli antichi, stando alla molteciplità e contradditorietà delle designazioni proposte, può darsi che Virgilio stesso non fosse disposto a rivelarne il segreto – ogni poesia contiene un fondo d’inviolabile mistero – o che anche non avesse in mente alcun bambino determinato”; sostenitore della medesima teoria è anche W. KRAUS, Vergils vierte Ekloge, ANRW 2, 31, 1, 1980, pp. 604 ss.
[17] L. PASSAVANTI, Laudes Italiae, l’idealizzazione dell’Italia nella letteratura latina di età augustea, Trento 2009, p. 20.
[18] A. LA PENNA, Bucoliche (introduzione), cit., p.L.
[19] Si legga a questo proposito anche ciò che scrive R. SYME, La rivoluzione romana, trad. it. Torino 1962, pp. 205-13.
[20] Si veda al riguardo L. NICASTRI, Per un’iniziazione… cit., pp. 392-403, dove lo studioso opta per un’interpretazione pre-cristiana.
[…] piano dell’opera è il seguente. Egloga I: è un dialogo fra due pastori, Titiro e Melibeo; quest’ultimo è costretto a partire, ad […]
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