I fantasmi (Plin. Ep. VII 27)

di Plinio il Giovane, Epistularum libri VII 27, in Opere di Plinio Cecilio Secondo, a cura di F. Trisoglio, vol. I, Torino 1973, pp. 748-755.

 

Plinius Surae suo s.

[1] Et mihi discendi et tibi docendi facultatem otium praebet. Igitur perquam velim scire, esse phantasmata et habere propriam figuram numenque aliquod putes an inania et vana ex metu nostro imaginem accipere.

[2] Ego ut esse credam in primis eo ducor, quod audio accidisse Curtio Rufo. Tenuis adhuc et obscurus obtinenti Africam comes haeserat. Inclinato die spatiabatur in porticu: offertur ei mulieris figura humana grandior pulchriorque; perterrito Africam se, futurorum praenuntiam, dixit; iturum enim Romam honoresque gesturum atque etiam cum summo imperio in eandem provinciam reversurum ibique moriturum. Facta sunt omnia. [3] Praeterea accedenti Carthaginem egredientique nave eadem figura in litore occurrisse narratur. Ipse certe implicitus morbo, futura praeteritis, adversa secundis auguratus, spem salutis nullo suorum desperante proiecit.

[4] Iam illud nonne et magis terribile et non minus mirum est, quod exponam, ut accepi? [5] Erat Athenis spatiosa et capax domus, sed infamis et pestilens. Per silentium noctis sonus ferri et, si attenderes acrius, strepitus vinculorum longius primo, deinde e proximo reddebatur: mox apparebat idolon, senex macie et squalore confectus, promissa barba, horrenti capillo; cruribus compedes, manibus catenas gerebat quatiebatque. [6] Inde inhabitantibus tristes diraeque noctes per metum vigilabantur; vigiliam morbus et crescente formidine mors sequebatur. Nam interdiu quoque, quamquam abscesserat imago, memoria imaginis oculis inerrabat, longiorque causis timoris timor erat. Deserta inde et damnata solitudine domus totaque illi monstro relicta; proscribebatur tamen, seu quis emere, seu quis conducere ignarus tanti mali vellet.

[7] Venit Athenas philosophus Athenodorus, legit titulum auditoque pretio, quia suspecta vilitas, percunctatus omnia docetur ac nihilo minus, immo tanto magis conducit. Ubi coepit advesperascere, iubet sterni sibi in prima domus parte, poscit pugillares, stilum, lumen ; suos omnes in interiora dimittit, ipse ad scribendum animum, oculos, manum intendit, ne vacua mens audita simulacra et inanes sibi metus fingeret. [8] Initio, quale ubique, silentium noctis, dein concuti ferrum, vincula moveri: ille non tollere oculos, non remittere stilum, sed offirmare animum auribusque praetendere. Tum crebrescere fragor, adventare et iam ut in limine, iam ut intra limen audiri. Respicit, videt agnoscitque narratam sibi effigiem. [9] Stabat innuebatque digito similis vocanti; hic contra, ut paulum exspectaret, manu significat rursusque ceris et stilo incumbit. Illa scribentis capiti catenis insonabat; respicit rursus idem quod prius innuentem nec moratus tollit lumen et sequitur. [10] Ibat illa lento gradu, quasi gravis vinculis; postquam deflexit in aream domus, repente dilapsa deserit comitem. Desertus herbas et folia concerpta signum loco ponit. [11] Postero die adit magistratus, monet, ut illum locum effodi iubeant. Inveniuntur ossa inserta catenis et implicita, quae corpus aevo terraque putrefactum nuda et exesa reliquerat vinculis; collecta publice sepeliuntur. Domus postea rite conditis manibus caruit.

[12] Et haec quidem affirmantibus credo; illud affirmare aliis possum: est libertus mihi non illitteratus. Cum hoc minor frater eodem lecto quiescebat. Is visus est sibi cernere quendam in toro residentem admoventemque capiti suo cultros atque etiam ex ipso vertice amputantem capillos. Ubi inluxit, ipse circa verticem tonsus, capilli iacentes reperiuntur. [13] Exiguum temporis medium, et rursus simile aliud priori fidem fecit. Puer in paedagogio mixtus pluribus dormiebat: venerunt per fenestras (ita narrat) in tunicis albis duo cubantemque detonderunt et, qua venerant, recesserunt. Hunc quoque tonsum sparsosque circa capillos dies ostendit. [14] Nihil notabile secutum, nisi forte quod non fui reus, futurus, si Domitianus sub quo haec acciderunt, diutius vixisset. Nam in scrinio eius datus a Caro de me libellus inventus est; ex quo coniectari potest, quia reis moris est summittere capillum, recisos meorum capillos depulsi, quod imminebat, periculi signum fuisse.

[15] Proinde rogo, eruditionem tuam intendas. Digna res est quam diu multumque consideres, ne ego quidem indignus, cui copiam scientiae tuae facias. [16] Licet etiam utramque in partem, ut soles, disputes, ex altera tamen fortius, ne me suspensum incertumque dimittas, cum mihi consulendi causa fuerit, ut dubitare desinerem. Vale.

 

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Gaio Plinio invia i suoi saluti al caro Sura.

[1] Il tempo disponibile che abbiamo offre a me il destro d’imparare e a te quello d’insegnare. Dunque: io avrei un vivissimo desiderio di sapere se tu pensi che i fantasmi esistano davvero ed abbiano un loro proprio aspetto ed una qualche capacità di azione, ovvero che, pure vanità inconsistenti, ricevano una figura soltanto dalla nostra paura.

[2] Io mi sento spinto a credere alla loro esistenza in primo luogo dall’episodio che sento dire essere capitato a Curzio Rufo. Mentre era ancora un personaggio insignificante e sconosciuto, si era aggregato al seguito del governatore dell’Africa. Verso il cadere del giorno passeggiava sotto un portico: ed ecco che gli si presenta una figura di donna che per maestà e bellezza superava le possibilità umane. Vedendolo tutto spaventato, gli disse di essere l’Africa e che veniva a preannunziargli il futuro: egli infatti sarebbe rientrato a Roma, vi avrebbe esercitato alte magistrature, sarebbe anche ritornato nella stessa provincia con la suprema potestà e là sarebbe morto. Tutto si avverò. [3] Si racconta inoltre che mentre egli si accostava a Cartagine ed usciva dalla nave, la medesima figura gli si fece incontro sulla spiaggia. Questo per lo meno è sicuro, che fu colpito da una malattia; ed allora, traendo auspicio dal passato per il figuro e dalle fortune per le sventure, rinunziò subito a qualsiasi speranza di salvarsi, mentre ancora nessuno dei suoi l’aveva perduta.

[4] E ora ti racconto, come l’ho ricevuto, un fatto che mi sembra più spaventoso e non meno stupefacente. [5] C’era ad Atene una casa ampia e ricca di ambienti, ma malfamata e funesta. Durante il silenzio della notte si produceva un rumore di ferraglia che, se si prestava un’attenzione più concentrata, si identificava in uno stridore di catene, dapprima più lontano e poi vicinissimo: tosto appariva un fantasma, un vecchio logorato dalla macilenza e trasandato nell’aspetto, dalla barba lunga e dai capelli ispidi; aveva i piedi imprigionati in ceppi e le mani strette in catene che scuoteva. [6] Di conseguenza, gli inquilini, spaventati, trascorrevano senza chiudere occhio notti amare e atroci; non chiudendo occhio si ammalavano e, crescendo lo sgomento, morivano. Infatti anche durante la giornata, quantunque lo spettro se ne fosse andato, vagava ancora dinanzi agli occhi il ricordo del fantasma e la paura durava più a lungo delle cause della paura. Perciò la casa rimase disabitata, su di essa gravò la condanna di restare vuota e fu lasciata tutta a disposizione di quella sorprendente apparizione; tuttavia ufficialmente era in vendita, sia che qualcuno, ignaro di una così grave iattura, la volesse comperare, sia che la volesse affittare.

[7] Giunge ad Atene il filosofo Atenodoro, legge l’annuncio, si fa dire il prezzo; siccome gli sembrano sospette quelle condizioni così favorevoli, si informa per bene e viene a sapere ogni cosa, con tutto ciò, anzi soprattutto per ciò, la prende in affitto. Sul far della sera, dà ordine che gli si allestisca la brandina di lavoro nei locali della casa adiacenti all’ingresso e si fa portare tavolette, stilo e lampada; dispone che tutti i suoi familiari si sistemino nelle stanze interne e per parte sua concentra nello scrivere la sua mente, i suoi occhi, la sua mano, perché la fantasia disoccupata non gli foggiasse gli spettri di cui gli avevano parlato e delle paure inconsistenti. [8] All’inizio vi regna il silenzio della notte come in tutti gli altri posti, poi ecco uno scuotere di ferri ed un muovere di catene: egli non alza gli occhi, non desiste dallo scrivere, fa appello a tutta la sua forza d’animo e cerca con essa di sbarrare la via a quanto giunge alle sue orecchie. Allora il frastuono si fa più insistente, si avvicina sempre più; ormai dà l’impressione di risuonare sulla soglia, poi addirittura dentro la soglia. Si volta indietro a guardare, vede e riconosce la figura di cui gli avevano parlato. [9] Era ferma e in piedi e faceva segno col dito nell’atteggiamento di chi chiama. Atenodoro in risposta le indica con la mano che aspetti un poco e di nuovo si curva a scrivere sulle sue tavolette cerate. Essa, mentre l’altro scriveva, continuava a fargli strepitare le catene accanto alla testa. Il filosofo si volta di nuovo e la vede fargli lo stesso gesto di prima; allora, troncando ogni indugio, prende la lampada e la segue. [10] Essa camminava a passo lento, come se fosse aggravata dalle catene; dopo che ebbe piegato verso il cortile della casa, all’improvviso svanisce, abbandonando il suo compagno. Vistosi così abbandonato, egli raccoglie delle erbe e delle foglie e le colloca sul posto per indicarlo con precisione. [11] Il giorno seguente si reca dalle autorità e le invita ad ordinare uno scavo in quel punto. Vengono trovate delle ossa frammischiate ed intrecciate a catene: le carni, decomposte dal tempo e dalla terra, le avevano lasciate nude e corrose dai loro legami: furono raccolte e seppellite a nome del comune. Quello spirito, dopo che le sue spoglie mortali ottennero regolare sepoltura, non si fece più vedere in quella casa.

[12] La mia fede su queste vicende è fondata propriamente sulle dichiarazioni altrui; quest’altro episodio invece lo posso dichiarare io agli altri. Ho un liberto fornito di una discreta cultura; egli una volta riposava nel medesimo letto con il fratello minore. Quest’ultimo ebbe l’impressione di vedere un individuo sedersi sul letto, avvicinargli al capo delle forbici e tagliargli anche i capelli sul culmine della testa. Quando spuntò il giorno si trovò che egli era schiomato attorno al culmine della testa e che i capelli erano là per terra. [13] Passò un breve periodo di tempo e il ripetersi analogo della scena rese credibile quella precedente. Un giovane schiavo dormiva, insieme a parecchi altri, nella sua camerata: si introdussero attraverso la finestra (così racconta) due persone vestite di tuniche bianche, gli tagliarono i capelli mentre era coricato e se ne andarono per la stessa via per la quale erano venute. La luce del giorno mostrò che anch’egli era rasato e che i capelli erano sparpagliati tutt’attorno. [14] Non ne seguì nessun fatto sorprendente, tranne forse che io non fui incriminato, mentre lo sarei stato se Domiziano, al cui tempo risalgono queste apparizioni, fosse vissuto più a lungo. Infatti nel suo archivio personale fu trovata un’accusa nei miei confronti presentata da Caro. Siccome è uso che gli imputati si lascino crescere i capelli, si può arguire che i capelli recisi ai miei dipendenti costituissero un presagio che il pericolo, che incombeva su di me, era stornato.

[15] Perciò ti prego di fare appello a tutta la tua competenza scientifica. La questione è meritevole di un tuo prolungato ed intenso studio, ed io non sono poi immeritevole di essere chiamato a condividere le nozioni che tu conosci. [16] Anche se, attenendoti al tuo metodo solito, metterai avanti gli argomenti che ognuna delle due tesi contrapposte possiede, calcane però in modo speciale quelli di una delle due, per non lasciarmi titubante e incerto, perché il motivo per cui ti consulto è proprio quello di troncare tutte le mie perplessità. Stammi bene.

 

Henry Justice Ford, Athenodorus Confronts the Spectre. Illustrazione, 1900
Henry Justice Ford, Athenodorus Confronts the Spectre. Illustrazione, 1900.

 

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Bibliografia di approfondimento:

 

D. Felton, Haunted Greece and Rome: Ghost Stories from Classical Antiquity, Austin 2010.

F. García Jurado (ed.), El Vesubio, los fantasmas y otras cartas. Plinio el Joven, Madrid 2011.

E. Jobbé-Duval, Les morts malfaisants. Larvae, lemures d’après le droit et les croyances populaires des Romains, Paris 1924.

U. Lugli, Umbrae. La rappresentazione dei fantasmi nella Roma antica, Genova 2008².

Id., L’orrore sotto la casa. La dimora pestilens da Plauto a H.P. Lovecraft, FuturAntico 11 (2016), pp. 93-112.

L.C. Morley, Greek and Roman Ghost Stories, Oxford-London 1912 (= 19682).

E. Nardi, Case “infestate da spiriti” e diritto romano e moderno, Milano 1960.

J.M. Rife, Marley’s Ghost in Athens, CJ 34 (1938), pp. 42-43.

J. Schwartz, Le fantôme de l’Academie, Hommages à M. Renard, Latomus 101 (1969), I, pp. 671-676.

A. Stramaglia, Res inauditae, incredulae. Storie di fantasmi nel mondo greco-latino, Bari 1999.

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