Lucrezia (Liv. I 57-58)

in R.S. Conway – C.F. Walters (ed.), Titi Livi Ab urbe condita, tomus I, Libri I-V (testo latino); Livio, Storia di Roma dalla sua fondazione, vol. I (libri I-II), con un saggio di R. Syme, intr. e note di C. Moreschini, Milano 2013, pp. 360-363 (trad. it.).

Storia e leggenda, pubblico e privato si intrecciano nella tragedia familiare che accende la scintilla della rivoluzione antimonarchica e provoca l’instaurarsi di un nuovo regime. I fatti sono noti: nel corso di un banchetto i giovani maggiorenti romani si misero a discutere sulle virtù delle proprie donne e tra loro Lucio Tarquinio Collatino, legato per parentela alla famiglia regnante e sprovveduto compagno di gozzoviglia del primogenito del re, si vantò della bellezza e dell’onestà della moglie Lucrezia. Sesto Tarquinio si mostrò scettico e così Collatino lo invitò a casa propria per mostrargli la sposa; il giovane principe s’invaghì della donna e qualche giorno dopo fece ritorno alla casa di Collatino, approfittò dell’assenza di questi, minacciò e fece violenza a Lucrezia.

Lucas Cranach il Vecchio, Lucrezia (1538), Bamberg, Staatsgalerie Neue Residenz
Lucas Cranach il Vecchio, Lucrezia (1538), Bamberg, Staatsgalerie Neue Residenz.

La donna chiamò a raccolta marito, parenti e amici, raccontò quanto aveva subito e, non reggendo alla vergogna, si tolse la vita. A questo punto, tra gli astati, mentre Collatino e Spurio Lucrezio si disperavano per il dolore sul cadavere della donna, Lucio Giunio Bruto – liberator ille populi Romani – , che fino ad allora aveva simulato un ritardo mentale (lat. brutus, “stupido”), gettò la maschera e incitò l’animo degli altri a sobillare la rivolta contro la tirannide dei Tarquini. La vicenda di Lucrezia, assurta a modello di virtù femminile per eccellenza, è accostata a buon diritto a tutte le altre storie di eroi nobili e coraggiosi che costellano il racconto liviano (I 57-58).

[LVII] Ardeam Rutuli habebant, gens, ut in ea regione atque in ea aetate, diuitiis praepollens; eaque ipsa causa belli fuit, quod rex Romanus cum ipse ditari, exhaustus magnificentia publicorum operum, tum praeda delenire popularium animos studebat, praeter aliam superbiam regno infestos etiam quod si in fabrorum ministeriis ac seruili tam diu habitos opere ab rege indignabantur. Temptata res est, si primo impetu Ardea capi posset: ubi id parum processit, obsidione munitionibusque coepi premi hostes. In his statiuis, ut fit longo magis quam acri bello, satis liberi commeatus erant, primoribus tamen magis quam militibus; regii quidem iuuenes interdum otium conuiuiis comissationibusque inter se terebant. Forte potantibus his apud Sex. Tarquinium, ubi et Conlatinus cenabat Tarquinius, Egeri filius, incidit de uxoribus mentio. Suam quisque laudare miris modis; inde certamine accenso Conlatinus negat uerbis opus esse; paucis id quidem horis posse sciri quantum ceteris praestet Lucretia sua. “Quin, si uigor iuuentae inest, conscendimus equos inuisimusque praesentes nostrarum ingenia? Id cuique spectatissimum sit quod necopinato uiri aduentu occurrerit oculis”. Incaluerant uino; “Age sane” omnes; citatis equis auolant Romam. Quo cum primis se intendentibus tenebris peruenissent, pergunt inde Collatiam, ubi Lucretiam haudquaquam ut regias nurus, quas in conuiuio luxuque cum aequalibus uiderant tempus terentes sed nocte sera deditam lanae inter lucubrantes ancillas in medio aedium sedentem inueniunt. Muliebris certaminis laus penes Lucretiam fuit. Adueniens uir Tarquiniique excepti benigne; uictor maritus comiter inuitat regios iuuenes. Ibi Sex. Tarquinium mala libido Lucretiae per uim stuprandae capit; cum forma tum spectata castitas incitat. Et tum quidem ab nocturno iuuenali ludo in castra redeunt.

[57] I Rutuli possedevano Ardea, città molto fiorente e ricca per quei tempi e per quelle contrade; e proprio questa era stata la causa della guerra, che il re di Roma, consumato il patrimonio nelle spese per le grandiose opere pubbliche, cercava sia di rinsanguare le proprie sostanza sia di placare con largizioni di bottino gli animi del popolo, avverso alla monarchia, oltre che per l’arroganza tirannica di Tarquinio, anche perché irritato di essere stato impiegato così a lungo dal re in mestieri da operaio e in lavori servili. I Romani tentarono di prendere Ardea subito d’assalto, ma, essendo fallito il tentativo, cominciarono a stringere i nemici d’assedio innalzando opere di fortificazione. In questa vita castrense, come suolo avvenire durante i conflitti più lunghi che aspri, venivano facilmente concesse delle licenze agli ufficiali più che ai soldati semplici, e i giovani figli del re spesso passavano il tempo in banchetti e gozzoviglie. Una volta, mentre stavano bevendo nella tenda di Sesto Tarquinio, e partecipava al banchetto anche Collatino, figlio di Egerio, il discorso cadde sulle mogli, e ciascuno celebrava la propria con le lodi maggiori. Essendosi accesa la discussione, Collatino disse che le parole erano vane: in poche ore potevano rendersi conto di quanto la sua Lucrezia fosse superiore alle altre. “Siamo giovani e vigorosi: perché non montiamo a cavallo e non andiamo a constatare coi nostri occhi le virtù delle nostre spose? La miglior prova per tutti sarà lo spettacolo che ci offriamo, mentre non si aspettano il ritorno del marito”. Riscaldati dal vino, tutti esclamano: “Dai, andiamo!” e, spronati i cavalli, volano a Roma. Giunti qua al calare delle tenebre, si dirigono successivamente a Collazia, dove trovano Lucrezia non passare il tempo in banchetti e divertimenti con le amiche – come avevano visto fare alle nuore del re – ma a notte inoltrata tutta intenta a filare la lana, seduta in mezzo alla casa, tra le ancelle veglianti al lume di una lucerna. La palma di quella gara muliebre toccò a Lucrezia. Ella accolse benevolmente lo sposo tornato a casa e i Tarquini, e Collatino vincitore invitò cortesemente i figli del re a trattenersi. Qui Sesto Tarquinio fu colto dalla brama di far violenza a Lucrezia: lo eccitavano la bellezza e la provata pudicizia. Ma per allora, dopo quel notturno svago giovanile, tornarono all’accampamento.

Ritratto di matrona. Affresco, 300 d.C. c. Trier, Rheinisches Landesmuseum
Ritratto di matrona. Affresco, 300 d.C. c. Trier, Rheinisches Landesmuseum.

[LVIII] Paucis interiectis diebus Sex. Tarquinius inscio Conlatino cum comite uno Collatiam uenit. Ubi exceptus benigne ab ignaris consilii cum post cenam in hospitale cubiculum deductus esset, amore ardens, postquam satis tuta circa sopitique omnes uidebantur, stricto gladio ad dormientem Lucretiam uenit sinistraque manu mulieris pectore oppresso “tace, Lucretia” inquit; “Sex. Tarquinius sum; ferrum in manu est; moriere, si emiseris uocem”. Cum pauida ex somno mulier nullam opem, prope mortem imminentem uideret, tum Tarquinius fateri amorem, orare, miscere precibus minas, uersare in omnes partes muliebrem animum. Ubi obstinatam uidebat et ne mortis quidem metu inclinari, addit ad metum dedecus: cum mortua iugulatum seruum nudum positurum ait, ut in sordido adulterio necata dicatur. Quo terrore cum uicisset obstinatam pudicitiam uelut uictrix libido, profectusque inde Tarquinius ferox expugnato decore muliebri esset, Lucretia maesta tanto malo nuntium Romam euntem ad patrem Ardeamque ad uirum mittit: ut cum singulis fidelibus amicis ueniant; ita facto maturatoque opus esse; rem atrocem incidisse. Sp. Lucretius cum P. Ualerio Uolesi filio, Conlatinus cum L. Iunio Bruto uenit, cum quo forte Romam rediens ab nuntio uxoris erat conuentus. Lucretiam sedentem maestam in cubiculo inueniunt. Aduentu suorum lacrimae obortae, quaerentique uiro “Satin salue?” – “Minime” inquit; “quid enim salui est mulieri amissa pudicitia? Uestigia uiri alieni, Conlatine, in lecto sunt tuo; ceterum corpus est tantum uiolatum, animus insons; mors testis erit. Sed date dexteras fidemque haud impune adultero fore. Sex. est Tarquinius qui hostis pro hospite priore nocte ui armatus mihi sibique, si uos uiri estis, pestiferum hinc abstulit gaudium”. Dant ordine omnes fidem; consolatur aegram animi auertendo noxam ab coacta in auctorem delicti: mentem peccare, non corpus, et unde consilium afuerit culpam abesse. “Uos” inquit “uideritis quid illi debeatur: ego me etsi peccato absoluo, supplicio non libero; nec ulla deinde impudica Lucretiae exemplo uiuet”. Cultrum, quem sub ueste abditum habebat, eum in corde defigit, prolapsaque in uolnus moribunda cecidit. Conclamat uir paterque.

[58] Alcuni giorni dopo, Sesto Tarquinio, all’insaputa di Collatino, si recò a Collazia con un solo uomo di scorta. Quivi accolto benevolmente da quelli di casa, ignari del suo proposito, dopo la cena fu condotto nella stanza degli ospiti; quando, acceso dal desiderio, gli parve che tutto fosse tranquillo all’intorno e la casa fosse immersa nel sonno, impugnata la spada entrò nella stanza in cui dormiva Lucrezia e, con la sinistra ferma sul petto della donna, disse: “Taci, Lucrezia! Sono Sesto Tarquinio e ho in mano una spada: se urli, sei morta!”. Mentre la donna, sorpresa nel sonno e terrorizzata, non scorse aiuto da nessuna parte, ma solo la morte starle sul capo, Tarquinio le dichiarò il proprio amore, la supplicò, unì le minacce alle preghiere, con ogni mezzo tentò l’animo della donna. Quando la vide ostinata non piegarsi neppure davanti alla minaccia di morte, aggiunse alla paura il disonore: disse che avrebbe posto vicino al suo cadavere un servo nudo sgozzato, perché la credessero uccisa in vergognoso adulterio. Vinta con questa minaccia l’ostinata pudicizia, la libidine fu in apparenza vincitrice, e Tarquinio se ne partì fiero di aver espugnato l’onore di una donna; frattanto Lucrezia, dolente per tanta sventura, mandò un messaggero a Roma presso il padre e ad Ardea dal marito, pregandoli di venire con l’amico più fidato: ciò era necessario e urgente, perché era capitata un’orribile sciagura. Spurio Lucrezio andò accompagnato da Publio Valerio, figlio di Voleso, e Collatino da Lucio Giunio Bruto, con il quale per caso si trovava mentre, recandosi a Roma, s’era imbattuto nel messaggero della moglie. Trovarono Lucrezia seduta, mesta, nella sua stanza. All’arrivo dei suoi cari le spuntarono le lacrime, e alla domanda del marito: “Va tutto bene?”; “Per niente”, rispose, “qual bene infatti rimane a una donna quando sia perduto l’onore? Nel tuo letto, Collatino, vi sono le impronte di un altro uomo; però, solo il corpo è stato violato, l’animo è innocente: la morte ne sarà la prova. Ma datemi la mano e la parola che l’adultero non sarà impunito. È stato Sesto Tarquinio, che, da ospite divenuto nemico, la scorsa notte con violenza e in armi ha colto qui un piacere esiziale per me ma anche per lui, se voi siete uomini!”. Tutti, uno dopo l’altro, dànno la propria parola e cercano di consolare l’afflitta riversando ogni colpa da lei costretta sull’autore del misfatto: solo l’anima può peccare, non il corpo, e la colpa manca dove sia mancata la volontà. “A voi”, sentenziò, “spetterà il giudicare qual pena a colui sia dovuta; quanto a me, anche se mi assolverò dalla colpa, non mi sottrarrò alla pena: nessuna donna in futuro vivrà disonorata, seguendo l’esempio di Lucrezia”. S’infisse nel cuore un coltello che teneva nascosto sotto la veste e, abbattutasi morente sulla ferita, cadde al suolo. Lo sposo e il padre levarono alte grida.

Tiziano Vercellio, Tarquinio e Lucrezia. Olio su tela, 1570. Bordeaux, Musée des Beaux-Arts
Tiziano Vercellio, Tarquinio e Lucrezia. Olio su tela, 1570. Bordeaux, Musée des Beaux-Arts.

Tutto l’episodio di Lucrezia, la virtuosa moglie di Collatino violentata da Sesto Tarquinio e che vede nella morte l’unica possibilità di riscatto dell’onore perduto, è costruito con una scansione drammatica di scene che può far pensare a una vera e propria rappresentazione teatrale. Si potrebbe, dunque, immaginare un “primo atto” ambientato nell’accampamento dei Romani, durante l’assedio di Ardea, roccaforte dei Rutuli. I figli di re Tarquinio “il Superbo” trascorrono i loro momenti di riposo, gozzovigliando e bevendo con i loro compagni d’arme. Un giorno, durante uno di questi banchetti, cui partecipa anche Collatino, un parente dei principi e signore di Collazia, in Sabina; i giovani iniziano a discutere sulle mogli, tessendo ciascuno le lodi della propria. Su proposta di Collatino, decidono quindi di recarsi nelle proprie case, per constatare con i propri occhi come le mogli si comportano in loro assenza. Si recano prima in casa dei figli del re, dove trovano le donne etrusche intente a banchettare e a far festa con le loro compagne. Quindi, giungono a Collazia, in casa di Collatino, dove Lucrezia, sua moglie, a notte fonda è impegnata a filare la lana, assistita dalle ancelle, a lume di lucerna. La lontananza dello sposo non l’ha indotta a far baldoria: la vittoria della virtù femminile tocca dunque a lei. Ma l’innocente tono domestico della scena si incrina: alla vista di tanta onestà e bellezza, il principe Sesto Tarquinio è preso dall’ardente desiderio di possedere Lucrezia. Il “secondo atto” vede il giovane Tarquinio non rinunciare al piacere di sedurre la donna e così ritorna a visitarla di notte, ma questa volta da solo. Accolto con ospitalità dall’ignara Lucrezia e dai suoi servi, egli è invitato a trascorrere la notte nella stanza degli ospiti. A notte il clima della casa è tutto pace e silenzio (tuta circa sopitique omnes uidebantur): Sesto si introduce armato di spada nella stanza da letto della padrona di casa e la costringe con la violenza a concedersi a lui. Anche il tono del racconto si fa mosso, spezzato, le parole del giovane sono concitate. Lucrezia è terrorizzata (pauida), ma non grida, non piange né implora. Tarquinio riesce a vincerne l’obstinata pudicitia con un’orrenda minaccia: se Lucrezia non smetterà di opporsi, la ucciderà e metterà vicino al suo corpo quello di un servo nudo sgozzato, perché tutti credano che sia stata uccisa in conseguenza di uno squallido adulterio. Dopo la scena della violenza patita, un nuovo clima drammatico e un “terzo atto”: Lucrezia, disperata, manda a chiamare il marito Collatino e il padre Spurio Lucrezio. Gli uomini, allarmati, accorrono accompagnati rispettivamente da Bruto e da Valerio. Giunti a Collazia, trovano la donna seduta nelle sue stanze maesta; essi le domandano di informarli sull’accaduto e Lucrezia racconta loro della rem atrocem compiuta da Sesto Tarquinio. Poi, nonostante il marito e il padre tentino di consolarla e di rassicurarla sulla sua completa innocenza, Lucrezia impugna un coltello e si trafigge il petto per espiare la pena del proprio adulterio involontario. Anche in questo caso, la narrazione e le parole di Lucrezia, prive di autocommiserazione, si succedono rapide e sferzanti.

Artemisia Gentileschi, Lucrezia. Olio su tela, 1620-21 c.
Artemisia Gentileschi, Lucrezia. Olio su tela, 1620-21 c.

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Bibliografia:

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M.Th. Fögen, Römische Rechtsgeschichte. Über Ursprung und Evolution eines sozialen Systems, Göttingen 2002, 21-55 [].

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Il timore dell’avvenire e quello della morte (Sᴇɴ. 𝐸𝑝. 𝑎𝑑 𝐿𝑢𝑐. 3, 24)

da Lettere a Lucilio, in U. Boella (cur.), Seneca – Opere, vol. I, Torino 1975, pp. 154-165 (Testo latino da L.D. Reynolds (ed.), L. Annaei Senecae Ad Lucilium Epistulae Morales, vol. I, Oxford 1965).

 

Seneca Lucilio suo salutem.

[1] Sollicitum esse te scribis de iudici eventu quod tibi furor inimici denuntiat; existimas me suasurum ut meliora tibi ipse proponas et acquiescas spei blandae. Quid enim necesse est mala accersere, satis cito patienda cum venerint praesumere, ac praesens tempus futuri metu perdere? Est sine dubio stultum, quia quandoque sis futurus miser, esse iam miserum. Sed ego alia te ad securitatem via ducam. [2] Si vis omnem sollicitudinem exuere, quidquid vereris ne eveniat eventurum utique propone, et quodcumque est illud malum, tecum ipse metire ac timorem tuum taxa: intelleges profecto aut non magnum aut non longum esse quod metuis. [3] Nec diu exempla quibus confirmeris colligenda sunt: omnis illa aetas tulit. In quamcumque partem rerum vel civilium vel externarum memoriam miseris, occurrent tibi ingenia aut profectus aut impetus magni. Numquid accidere tibi, si damnaris, potest durius quam ut mittaris in exilium, ut ducaris in carcerem? Numquid ultra quicquam ulli timendum est quam ut uratur, quam ut pereat? Singula ista constitue et contemptores eorum cita, qui non quaerendi sed eligendi sunt. [4] Damnationem suam Rutilius sic tulit tamquam nihil illi molestum aliud esset quam quod male iudicaretur. Exilium Metellus fortiter tulit, Rutilius etiam libenter; alter ut rediret rei publicae praestitit, alter reditum suum Sullae negavit, cui nihil tunc negabatur. In carcere Socrates disputavit et exire, cum essent qui promitterent fugam, noluit remansitque, ut duarum rerum gravissimarum hominibus metum demeret, mortis et carceris. [5] Mucius ignibus manum imposuit. Acerbum est uri: quanto acerbius si id te faciente patiaris! Vides hominem non eruditum nec ullis praeceptis contra mortem aut dolorem subornatum, militari tantum robore instructum, poenas a se irriti conatus exigentem; spectator destillantis in hostili foculo dexterae stetit nec ante removit nudis ossibus fluentem manum quam ignis illi ab hoste subductus est. Facere aliquid in illis castris felicius potuit, nihil fortius. Vide quanto acrior sit ad occupanda pericula virtus quam crudelitas ad irroganda: facilius Porsina Mucio ignovit quod voluerat occidere quam sibi Mucius quod non occiderat.

[6] «Decantatae» inquis «in omnibus scholis fabulae istae sunt; iam mihi, cum ad contemnendam mortem ventum fuerit, Catonem narrabis». Quidni ego narrem ultima illa nocte Platonis librum legentem posito ad caput gladio? Duo haec in rebus extremis instrumenta prospexerat, alterum ut vellet mori, alterum ut posset. Compositis ergo rebus, utcumque componi fractae atque ultimae poterant, id agendum existimavit ne cui Catonem aut occidere liceret aut servare contingeret. [7] Et stricto gladio quem usque in illum diem ab omni caede purum servaverat, «nihil» inquit «egisti, fortuna, omnibus conatibus meis obstando. Non pro mea adhuc sed pro patriae libertate pugnavi, nec agebam tanta pertinacia ut liber, sed ut inter liberos, viverem: nunc quoniam deploratae sunt res generis humani, Cato deducatur in tutum». [8] Inpressit deinde mortiferum corpori vulnus; quo obligato a medicis cum minus sanguinis haberet, minus virium, animi idem, iam non tantum Caesari sed sibi iratus nudas in vulnus manus egit et generosum illum contemptoremque omnis potentiae spiritum non emisit sed eiecit.

[9] Non in hoc exempla nunc congero ut ingenium exerceam, sed ut te adversus id quod maxime terribile videtur exhorter; facilius autem exhortabor, si ostendero non fortes tantum viros hoc momentum efflandae animae contempsisse sed quosdam ad alia ignavos in hac re aequasse animum fortissimorum, sicut illum Cn. Pompei socerum Scipionem, qui contrario in Africam vento relatus cum teneri navem suam vidisset ab hostibus, ferro se transverberavit et quaerentibus ubi imperator esset, «imperator» inquit «se bene habet». [10] Vox haec illum parem maioribus fecit et fatalem Scipionibus in Africa gloriam non est interrumpi passa. Multum fuit Carthaginem vincere, sed amplius mortem. «Imperator» inquit «se bene habet»: an aliter debebat imperator, et quidem Catonis, mori? [11] Non revoco te ad historias nec ex omnibus saeculis contemptores mortis, qui sunt plurimi, colligo; respice ad haec nostra tempora, de quorum languore ac delicis querimur: omnis ordinis homines suggerent, omnis fortunae, omnis aetatis, qui mala sua morte praeciderint. Mihi crede, Lucili, adeo mors timenda non est ut beneficio eius nihil timendum sit. [12] Securus itaque inimici minas audi; et quamvis conscientia tibi tua fiduciam faciat, tamen, quia multa extra causam valent, et quod aequissimum est spera et ad id te quod est iniquissimum compara. Illud autem ante omnia memento, demere rebus tumultum ac videre quid in quaque re sit: scies nihil esse in istis terribile nisi ipsum timorem. [13] Quod vides accidere pueris, hoc nobis quoque maiusculis pueris evenit: illi quos amant, quibus assueverunt, cum quibus ludunt, si personatos vident, expavescunt: non hominibus tantum sed rebus persona demenda est et reddenda facies sua. [14] Quid mihi gladios et ignes ostendis et turbam carnificum circa te frementem? Tolle istam pompam sub qua lates et stultos territas: mors es, quam nuper servus meus, quam ancilla contempsit. Quid tu rursus mihi flagella et eculeos magno apparatu explicas? quid singulis articulis singula machinamenta quibus extorqueantur aptata et mille alia instrumenta excarnificandi particulatim hominis? Pone ista quae nos obstupefaciunt; iube conticiscere gemitus et exclamationes et vocum inter lacerationem elisarum acerbitatem: nempe dolor es, quem podagricus ille contemnit, quem stomachicus ille in ipsis delicis perfert, quem in puerperio puella perpetitur. Levis es si ferre possum; brevis es si ferre non possum.

[15] Haec in animo voluta, quae saepe audisti, saepe dixisti; sed an vere audieris, an vere dixeris, effectu proba; hoc enim turpissimum est quod nobis obici solet, verba nos philosophiae, non opera tractare. Quid? tu nunc primum tibi mortem imminere scisti, nunc exilium, nunc dolorem? in haec natus es; quidquid fieri potest quasi futurum cogitemus. [16] Quod facere te moneo scio certe ‹te› fecisse: nunc admoneo ut animum tuum non mergas in istam sollicitudinem; hebetabitur enim et minus habebit vigoris cum exsurgendum erit. Abduc illum a privata causa ad publicam; dic mortale tibi et fragile corpusculum esse, cui non ex iniuria tantum aut ex potentioribus viribus denuntiabitur dolor: ipsae voluptates in tormenta vertuntur, epulae cruditatem afferunt, ebrietates nervorum torporem tremoremque, libidines pedum, manuum, articulorum omnium depravationes. [17] Pauper fiam: inter plures ero. Exul fiam: ibi me natum putabo quo mittar. Alligabor: quid enim? nunc solutus sum? ad hoc me natura grave corporis mei pondus adstrinxit. Moriar: hoc dicis, desinam aegrotare posse, desinam alligari posse, desinam mori posse.

[18] Non sum tam ineptus ut Epicuream cantilenam hoc loco persequar et dicam vanos esse inferorum metus, nec Ixionem rota volvi nec saxum umeris Sisyphi trudi in adversum nec ullius viscera et renasci posse cotidie et carpi: nemo tam puer est ut Cerberum timeat et tenebras et larvalem habitum nudis ossibus cohaerentium. Mors nos aut consumit aut exuit; emissis meliora restant onere detracto, consumptis nihil restat, bona pariter malaque summota sunt. [19] Permitte mihi hoc loco referre versum tuum, si prius admonuero ut te iudices non aliis scripsisse ista sed etiam tibi. Turpe est aliud loqui, aliud sentire: quanto turpius aliud scribere, aliud sentire! Memini te illum locum aliquando tractasse, non repente nos in mortem incidere sed minutatim procedere. [20] Cotidie morimur; cotidie enim demitur aliqua pars vitae, et tunc quoque cum crescimus vita decrescit. Infantiam amisimus, deinde pueritiam, deinde adulescentiam. Usque ad hesternum quidquid transit temporis perit; hunc ipsum quem agimus diem cum morte dividimus. Quemadmodum clepsydram non extremum stilicidium exhaurit sed quidquid ante defluxit, sic ultima hora qua esse desinimus non sola mortem facit sed sola consummat; tunc ad illam pervenimus, sed diu venimus. [21] Haec cum descripsisses quo soles ore, semper quidem magnus, numquam tamen acrior quam ubi veritati commodas verba, dixisti,

mors non una venit, sed quae rapit ultima mors est.

Malo te legas quam epistulam meam; apparebit enim tibi hanc quam timemus mortem extremam esse, non solam.

[22] Video quo spectes: quaeris quid huic epistulae infulserim, quod dictum alicuius animosum, quod praeceptum utile. Ex hac ipsa materia quae in manibus fuit mittetur aliquid. Obiurgat Epicurus non minus eos qui mortem concupiscunt quam eos qui timent, et ait: «ridiculum est currere ad mortem taedio vitae, cum genere vitae ut currendum ad mortem esset effeceris». [23] Item alio loco dicit: «quid tam ridiculum quam appetere mortem, cum vitam inquietam tibi feceris metu mortis?». His adicias et illud eiusdem notae licet, tantam hominum imprudentiam esse, immo dementiam, ut quidam timore mortis cogantur ad mortem. [24] Quidquid horum tractaveris, confirmabis animum vel ad mortis vel ad vitae patientiam; [at] in utrumque enim monendi ac firmandi sumus, et ne nimis amemus vitam et ne nimis oderimus. Etiam cum ratio suadet finire se, non temere nec cum procursu capiendus est impetus. [25] Vir fortis ac sapiens non fugere debet e vita sed exire; et ante omnia ille quoque vitetur affectus qui multos occupavit, libido moriendi. Est enim, mi Lucili, ut ad alia, sic etiam ad moriendum inconsulta animi inclinatio, quae saepe generosos atque acerrimae indolis viros corripit, saepe ignavos iacentesque: illi contemnunt vitam, hi gravantur. [26] Quosdam subit eadem faciendi videndique satietas et vitae non odium sed fastidium, in quod prolabimur ipsa impellente philosophia, dum dicimus «quousque eadem? nempe ex pergiscar dormiam, esuriam ‹faciar›, algebo aestuabo. Nullius rei finis est, sed in orbem nexa sunt omnia, fugiunt ac sequuntur; diem nox premit, dies noctem, aestas in autumnum desinit, autumno hiemps instat, quae vere compescitur; omnia sic transeunt ut revertantur. Nihil novi facio, nihil novi video: fit aliquando et huius rei nausia». Multi sunt qui non acerbum iudicent vivere sed supervacuum. Vale.

 

M. Porcio Catone Uticense. Busto, bronzo, I secolo a.C. dalla Domus di Venere a Volubilis (Marocco), Rabat, Musée archéologique.
M. Porcio Catone Uticense. Busto, bronzo, I secolo a.C. dalla Domus di Venere a Volubilis (Marocco), Rabat, Musée archéologique.

 

Seneca saluta il suo Lucilio.

[1] Mi scrivi che sei preoccupato dell’esito di un processo che un nemico adirato ti minaccia; e credi che io ti consigli di rivolgere il pensiero a cose più liete e di trovare conforto nelle dolci lusinghe della speranza. Infatti è forse necessario andare incontro ai guai, che, quando verranno, dovremo sopportare già abbastanza presto, soffrire prima e, per timore dell’avvenire, non godere il presente? Certamente è da stolto, poiché una volta o l’altra sarai colpito dalla sventura, fin d’ora vivere infelicemente: per un’altra via io intendo condurti alla tranquillità. [2] Se vuoi liberarti da ogni preoccupazione, immagina che in ogni caso accadrà quanto temi che accada; e qualunque sia la disgrazia che ti attende, considerane attentamente la gravità e valuta i motivi del tuo timore: di certo comprenderai che ciò che tu temi o non è grave o è di breve durata. [3] E non devi raccogliere a lungo esempi per rincorarti: ogni età ne è assai ricca. Sia che tu richiamerai alla memoria le vicende interne sia quelle esterne della nostra storia, ti si presenteranno alla mente figure di uomini che han saputo fare mirabili progressi nella virtù o che furono pieni di ardore. Se sei condannato forse che ti può capitare qualche cosa di più grave dell’esilio o del carcere? Forse che uno deve temere una pena più terribile del rogo e della morte? Ferma la tua attenzione su cotesti mali considerandoli ad uno ad uno e chiama a raccolta quelli che hanno avuto il coraggio di disprezzarli: non devi cercarli, ma sceglierli. [4] Rutilio sopportò la sua condanna, come se nient’altro gli riuscisse increscioso all’infuori del fatto di essere giudicato ingiustamente. Metello sopportò l’esilio con coraggio, Rutilio persino volentieri: l’uno concesse il suo ritorno alla Repubblica, l’altro osò rifiutarlo a Silla, a cui allora non si opponeva alcun rifiuto. Socrate nel carcere s’intrattenne a discutere e non volle uscire, benché gli fosse data assicurazione riguardo alla fuga; e vi rimase per liberare gli uomini dal timore di due mali gravissimi: la morte ed il carcere. [5] Mucio pose la mano su di un braciere. È doloroso essere arsi! Ma quanto più doloroso, se soffri tale tormento essendotene tu stesso la causa! Hai davanti agli occhi un uomo incolto, sprovvisto di quei precetti che insegnano a lottare contro la morte o il dolore e soltanto fornito della resistenza propria di un soldato; eppure osò punire se stesso del tentativo non riuscito! Ebbe il coraggio di stare immobile a guardare la sua destra che cadeva a gocce sul braciere del nemico e non ritrasse la mano ormai stillante nude ossa prima che il nemico gli ebbe portato via il fuoco. Avrebbe potuto compiere in quegli accampamenti un’impresa più fortunata, ma non un’impresa più coraggiosa. Osserva come il valore sia più pronto ad affrontare pericoli che la crudeltà ad affliggere le pene. Porsenna perdonò più facilmente Mucio, che aveva voluto ucciderlo, che Mucio a se stesso, perché non l’aveva ucciso.

[6] Tu dici: «Ma coteste leggende son state ripetute in tutte le scuole; di certo non mancherai di raccontarmi la storia di Catone, quando saremo giunti al disprezzo della morte!». E perché non dovrei raccontarti come egli, in quell’ultimo giorno, dopo aver posto la spada presso il capo, si mise a leggere un dialogo di Platone? Ormai ridotto in condizioni estreme si era procurato questi due strumenti, l’uno per aver il coraggio, l’altro per aver la possibilità di morire. Pertanto, avendo messo in ordine le sue cose, come potevano essere ordinate dopo la definitiva sconfitta, giudicò che fosse suo dovere adoprarsi perché nessuno potesse uccidere Catone o avere in sorte di salvarlo. [7] E, sguainata la spada, che fino a quel giorno non aveva macchiato col sangue di alcuno, disse: «A niente sei riuscita, o Fortuna, contrastando tutti i miei sforzi. Finora ho combattuto non per la mia, ma per la libertà della patria e non ho operato con tanta costanza per vivere libero, ma per vivere tra uomini liberi: adesso, poiché l’umanità è in condizioni disperate, Catone si metta al sicuro». [8] Indi aperse nel suo corpo una ferita mortale, che i medici tosto fasciarono; e poi, venendogli meno via via il sangue e le forze, ma non il coraggio, ormai adirato non solo contro Cesare, ma anche contro se stesso, introdusse la mano inerme nella ferita; e quella sua anima nobile, che disdegnava ogni forma di prepotenza, non la esalò, la cacciò fuori.

[9] Non accumulo ora esempi su esempi per un semplice esercizio retorico, ma per incoraggiarti a sopportare virilmente il male che sembra più terribile di tutti. E ti incoraggerò più facilmente, mostrandoti che non solo uomini forti si sono avvicinati senza tremare all’ultimo respiro, ma che taluni, vili in ogni altra circostanza, nel momento della morte non furono inferiori per forza d’animo agli uomini più intrepidi. Scipione, suocero di Gneo Pompeo, spinto da vento contrario in Africa ed accortosi che la sua nave era alla mercé dei nemici, si trafisse colla spada ed a chi chiedeva dove fosse il generale, rispose: «Il generale sta bene». [10] Questa frase lo pose all’altezza dei suoi antenati e fece sì che la gloria riservata dai Fati agli Scipioni in Africa non subisse interruzione. La vittoria su Cartagine costituì certamente un bel successo, ma ancor più bello è vincere la morte. «Il generale», disse, «sta bene»: forse che sarebbe dovuto morire altrimenti un generale, e proprio il generale di Catone? [11] Non ti invito a considerare il passato né intendo passare in rassegna i numerosissimi uomini che nel corso dei secoli disprezzarono la morte; ferma l’attenzione sull’età presente, dei cui costumi molli e rilassati ci lamentiamo: troverai uomini di ogni classe, di ogni condizione, di ogni età, che posero fine ai propri mali colla morte. Credimi, o mio Lucilio, la morte è così poco temibile, che in grazia della morte niente si deve temere. [12] Pertanto ascolta tranquillamente le minacce del tuo nemico: e, benché la tua coscienza ti assicuri, tuttavia, poiché molti elementi estranei al processo influiscono, spera che avvenga ciò che è del tutto conforme a giustizia e, nello stesso tempo, preparati a sopportare la più grave ingiustizia. Innanzitutto poi ricordati di separare le pene dallo strepito che le accompagna e di scorgere in che cosa ciascuna effettivamente consista: ti accorgerai che in esse c’è niente di terribile all’infuori del timore che suscitano in noi. [13] Ciò che suol accadere ai ragazzi, accade anche ani, ragazzi un po’ più grandi: se vedono mascherate le persone care, con cui hanno dimestichezza, con cui giocano, sono presi dallo spavento; ora non solo agli uomini, ma anche alle cose bisogna togliere la maschera e restituire ad esse il loro vero aspetto. [14] Perché mi mostri le spade e le fiamme e la moltitudine di carnefici frementi di impazienza attorno a te? Manda via cotesto corteggio con cui ti nascondi e spaventi gli stolti: sei la morte, che poc’anzi il mio schiavo, la mia ancella hanno affrontato sorridendo. Perché tu ancora una volta con grandioso apparato esponi davanti ai miei occhi le sferze e i cavalletti? I vari apparecchi fatti per slogare ciascuna articolazione ed i mille strumenti atti a straziare l’uomo membro a membro? Deponi tutte queste cose, che ci rendono attoniti per il terrore; fa cessare i gemiti e le esclamazioni e le grida di dolore emesse durante la tortura: sei il dolore, che quel gottoso disprezza, che quel malato di stomaco sopporta anche in mezzo ai piaceri, a cui sa resistere una ragazza durante il parto. Se ti posso tollerare, sei lieve; se non posso, sei di breve durata.

[15] Rifletti attentamente su quei principi che spesso hai sentito enunciare, che spesso tu stesso hai enunciato: ma dimostra coi fatti se li ha sentiti enunciare, se li hai enunciati con sincerità. Infatti non c’è nulla di più vergognoso di quanto si suole rinfacciare a noi affermando che parliamo, non viviamo da filosofi. Forse ora per la prima volta ti sei accorto che la morte, l’esilio, il dolore ti stanno accanto minacciosi? Sei nato per soffrire tali sventure: qualunque accidente ci possa capitare, immaginiamo che dovrà avvenire. [16] So con certezza che hai fatto ciò che ti consiglio di fare. Ora ti esorto a non lasciare che il tuo animo sia sopraffatto da cotesta preoccupazione: infatti si indebolirà ed avrà minor energia quando dovrà levarsi per lottare. Distoglilo dal pensare ad un caso particolare ed inducilo a far riflessioni di carattere generale: ricordagli che hai un corpo mortale e debole, che dovrà sperimentare il dolore non solo a causa dell’ingiustizia o della violenza dei tiranni: gli stessi piaceri si trasformano in tormenti, i cibi producono l’indigestione, l’ubriachezza rende i muscoli torpidi e tremanti, le dissolutezze guastano le mani, i piedi, tutte le articolazioni. [17] Diventerò povero: farò parte della maggioranza. Andrò in esilio: penserò di avere avuto i natali nel paese in cui sarò mandato. Sarò coperto di catene: e che? Ora forse sono libero? La natura mi ha imposto il grave peso del mio corpo. Morirò: è come se tu dicessi: cesserò di potermi ammalare, di poter essere incatenato, di poter morire.

[18] Non sono così sciocco da ripetere qui il ritornello di Epicuro affermando come siano infondati i timori dell’oltretomba: né una ruota fa girare Issione né un masso è spinto continuamente in direzione opposta da Sisifo, né i visceri di alcuno possono ogni giorno rinascere ed essere consumati: nessuno ha una mentalità così puerile da temere Cerbero e le tenebre e l’apparizione degli scheletri sotto forma di spettri. La morte o ci distrugge o ci libera: se è una liberazione toglie via il peso inutile lasciando la parte migliore di noi stessi, se è una distruzione più niente ci lascia, ci porta via ugualmente i beni e i mali. [19] Permettimi a questo punto di citare un tuo verso esortandoti prima a considerarlo scritto non solo per gli altri, ma anche per te. È vergognoso dire una cosa e pensarne un’altra: ma quanto più vergognoso scrivere in un modo e pensare in un altro modo! Mi ricordo che tu una volta hai svolto il concetto che noi non cadiamo d’un tratto nel dominio della morte, ma ci arriviamo a poco a poco. [20] Ogni giorno moriamo: infatti ogni giorno siamo privati di qualche parte della vita ed anche quando cresciamo, la vita va diminuendo. Abbiamo perduto l’infanzia, poi la fanciullezza, poi l’adolescenza. Tutto il tempo trascorso fino a ieri, è andato perduto; anche la giornata, che oggi viviamo, la dividiamo colla morte. Come non è il cadere delle ultime gocce che vuota la clessidra, ma tutta l’acqua che è scesa prima, così l’ultima ora, nella quale cessiamo di esistere, non è sola a produrre la morte, ma è sola a compirne l’opera: allora giungiamo al termine della vita, verso il quale già da un pezzo eravamo avviati. [21] Hai enunciato tali concetti col solito stile e poi, pur essendo sempre elevato, ma non mai più efficace che quando esprimi la verità, hai detto:

non ci attende una sola morte, ma quella che ci porta via è l’ultima.

Preferirei che tu leggessi le tue opere e trascurassi la mia lettera: infatti ti risulterà chiaro che la morte, che temiamo, è l’ultima, non la sola.

[22] Mi accorgo del punto a cui miri: vuoi sapere che cosa abbia inserito nella mia lettera, quale pensiero di un sapiente atto ad infondere coraggio, quale utile precetto. Ti invierò qualche osservazione riguardante l’argomento trattato. Epicuro non rimprovera meno coloro che desiderano la morte di quelli che la temono e afferma: «È ridicolo correre alla morte per il disgusto della vita, quando col tuo tenore di vita hai fatto in modo da dover correre alla morte». [23] Parimenti in un altro luogo dice: «Che cosa c’è di più ridicolo del desiderio della morte, mentre sei stato proprio tu a conturbarti la vita col timore della morte?». A questi pensieri puoi aggiungerne un altro dello stesso genere: «La dissennatezza, anzi la follia degli uomini è tanta che taluni sono spinti alla morte dal timore della morte». [24] Medita su qualsiasi di queste massime ed acquisterai coraggio per sopportare o la morte o la vita: infatti dobbiamo essere incoraggiati ed esortati a non amare troppo la vita e parimenti a non odiarla troppo. Anche quando la ragione ci convince che conviene porre termine ai nostri giorni, non dobbiamo lanciarci verso la morte senz’altro ed impetuosamente. [25] L’uomo forte e saggio non deve fuggire dalla vita, ma uscire; ed innanzitutto si eviti anche quel sentimento che domina l’animo di molti, e che consiste nella bramosia di morire. Infatti, o mio Lucilio, come verso altre cose, così anche verso la morte c’è nel nostro animo una tendenza sconsiderata, che spesso s’impadronisce ora di uomini di alto sentire e di forte carattere, ora di uomini vili e inetti: gli uni disprezzano la vita, gli altri ne sentono molestia. [26] Taluni sono presi dal disgusto di fare e di vedere sempre le stesse cose, non odiano la vita ma l’hanno a noi ed in questo atteggiamento siamo indotti a poco a poco dalla filosofia stessa, allorché diciamo: «Fino a quando succederanno le stesse cose? Cioè: mi sveglierò, dormirò, avrò fame, mi sazierò, sarò tormentato ora dal freddo ora dal caldo. Non c’è cosa che abbia fine, ma tutte sono connesse come in un circolo, fuggono e si seguono. La notte incalza il giorno, il giorno la notte, l’estate finisce nell’autunno, l’autunno è incalzato dall’inverno, che a sua volta è arrestato dalla primavera; così tutto passa per ritornare. Né faccio né vedo alcunché di nuovo: tale situazione non può non produrre talvolta il disgusto. Molti sono quelli che non giudicano dolorosa la vita, ma inutile. Stammi bene».

 

 

Battaglia di Porta Collina (1-2 novembre 82 a.C.)

di Plutarco, Lisandro e Silla, intr. L. Canfora e A. Keaveney, trad. e note di F.M. Muccioli e L. Ghilli, Milano 2000, pp. 452-463; testo greco dell’ed. K. Ziegler, Plutarchi Vitae parallelae, III.2, Stuttgart-Leipzig 1973(2).

 

Plut. Sull. 2930, 5

 

Ufficiale romano di età repubblicana (II-I sec. a.C.). Illustrazione di P. Connolly.

 

[29, 1] Tὸν μέντοι τελευταῖον ἀγῶνα καθάπερ ἔφεδρος ἀθλητῇ καταπόνῳ προσενεχθεὶς ὁ Σαυνίτης Τελεσῖνος ἐγγὺς ἦλθε τοῦ σφῆλαι καὶ καταβαλεῖν ἐπὶ θύραις τῆς Ῥώμης. [2] ἔσπευδε μὲν γὰρ ἅμα Λαμπωνίῳ τῷ Λευκανῷ χεῖρα πολλὴν ἀθροίσας ἐπὶ Πραινεστὸν, ὡς ἐξαρπασόμενος τῆς πολιορκίας τὸν Μάριον· [3] ἐπεὶ δὲ ᾔσθετο Σύλλαν μὲν κατὰ στόμα, Πομπήϊον δὲ κατ᾽ οὐρὰν βοηδρομοῦντας ἐπ᾽ αὐτόν, εἰργόμενος τοῦ πρόσω καὶ ὀπίσω, πολεμιστὴς ἀνὴρ καὶ μεγάλων ἀγώνων ἔμπειρος, ἄρας νυκτὸς ἐπ᾽ αὐτὴν ἐχώρει παντὶ τῷ στρατοπέδῳ τὴν Ῥώμην. [4] καὶ μικροῦ μὲν ἐδέησεν ἐμπεσεῖν εἰς ἀφύλακτον· ἀποσχὼν δὲ τῆς Κολλίνης πύλης δέκα σταδίους ἐπηυλίσατο τῇ πόλει, μεγαλοφρονῶν καὶ ταῖς ἐλπίσιν ἐπηρμένος, ὡς τοσούτους ἡγεμόνας καὶ τηλικούτους κατεστρατηγηκώς. [5] ἅμα δ᾽ ἡμέρᾳ τῶν λαμπροτάτων νέων ἐξιππασαμένων ἐπ᾽ αὐτὸν, ἄλλους τε πολλοὺς καὶ Κλαύδιον Ἄππιον εὐγενῆ καὶ ἀγαθὸν ἄνδρα κατέβαλε. [6] θορύβου δ᾽ οἷον εἰκός ὄντος ἐν τῇ πόλει, καὶ βοῆς γυναικείας καὶ διαδρομῶν ὡς ἁλισκομένων κατὰ κράτος, πρῶτος ὤφθη Βάλβος ἀπὸ Σύλλα προσελαύνων ἀνὰ κράτος ἱππεῦσιν ἑπτακοσίοις. [7] διαλιπὼν δὲ ὅσον ἀναψῦξαι τὸν ἱδρῶτα τῶν ἵππων, εἴτ᾽ αὖθις ἐγχαλινώσας, διὰ ταχέων ἐξήπτετο τῶν πολεμίων· ἐν τούτῳ δὲ καὶ Σύλλας ἐφαίνετο, καὶ τοὺς πρώτους εὐθὺς ἀριστᾶν κελεύων εἰς τάξιν καθίστη. [8] πολλὰ δὲ Δολοβέλλα καὶ Τουρκουάτου δεομένων ἐπισχεῖν καὶ μὴ κατακόπους ἔχοντα τοὺς ἄνδρας ἀποκινδυνεῦσαι περὶ τῶν ἐσχάτων, (οὐ γὰρ Κάρβωνα καὶ Μάριον, ἀλλὰ Σαυνίτας καὶ Λευκανούς, τὰ ἔχθιστα τῇ Ῥώμῃ καὶ [τὰ] πολεμικώτατα φῦλα συμφέρεσθαι), παρωσάμενος αὐτοὺς ἐκέλευσε σημαίνειν τὰς σάλπιγγας ἀρχὴν ἐφόδου, σχεδὸν εἰς ὥραν δεκάτην ἤδη τῆς ἡμέρας καταστρεφούσης. [9] γενομένου δὲ ἀγῶνος οἷος οὐχ ἕτερος, τὸ μὲν δεξιόν ἐν ᾧ Κράσσος ἐτέτακτο λαμπρῶς ἐνίκα. τῷ δὲ εὐωνύμῳ πονοῦντι καὶ κακῶς ἔχοντι Σύλλας παρεβοήθει, λευκὸν ἵππον ἔχων θυμοειδῆ καὶ ποδωκέστατον. [10] ἀφ᾽ οὗ γνωρίσαντες αὐτὸν δύο τῶν πολεμίων διετείνοντο τὰς λόγχας ὡς ἀφήσοντες· αὐτὸς μὲν οὖν οὐ προενόησε, τοῦ δ᾽ ἱπποκόμου μαστίξαντος τὸν ἵππον, ἔφθη παρενεχθεὶς τοσοῦτον, ὅσον περὶ τὴν οὐρὰν τοῦ ἵππου τὰς αἰχμὰς συμπεσούσας εἰς τὴν γῆν παγῆναι. [11] λέγεται δὲ ἔχων τι χρυσοῦν Ἀπόλλωνος ἀγαλμάτιον ἐκ Δελφῶν, ἀεὶ μὲν αὐτὸ κατὰ τὰς μάχας περιφέρειν ἐν τῷ κόλπῳ, ἀλλὰ καὶ τότε τοῦτο καταφιλεῖν, οὕτω δὴ λέγων· [12] «ὦ Πύθιε Ἄπολλον, τὸν Eὐτυχῆ Σύλλαν Κορνήλιον ἐν τοσούτοις ἀγῶσιν ἄρας λαμπρὸν καὶ μέγαν, ἐνταῦθα ῥίψεις ἐπὶ θύραις τῆς πατρίδος ἀγαγών, αἴσχιστα τοῖς ἑαυτοῦ συναπολούμενον πολίταις;». [13] τοιαῦτά φασι τὸν Σύλλαν θεοκλυτοῦντα τοὺς μὲν ἀντιβολεῖν, τοῖς δὲ ἀπειλεῖν, τῶν δὲ ἐπιλαμβάνεσθαι· [14] τέλος δὲ τοῦ εὐωνύμου συντριβέντος, ἀναμιχθέντα τοῖς φεύγουσιν εἰς τὸ στρατόπεδον καταφυγεῖν, πολλοὺς ἀποβαλόντα τῶν ἑταίρων καὶ γνωρίμων. [15] οὐκ ὀλίγοι δὲ καὶ τῶν ἐκ τῆς πόλεως ἐπὶ θέαν προελθόντες ἀπώλοντο καὶ κατεπατήθησαν, ὥστε τὴν μὲν πόλιν οἴεσθαι διαπεπρᾶχθαι, παρ᾽ ὀλίγον δὲ καὶ τὴν Μαρίου πολιορκίαν λυθῆναι, πολλῶν ἐκ τῆς τροπῆς ὠσαμένων ἐκεῖ καὶ τὸν ἐπὶ τῇ πολιορκίᾳ τεταγμένον Ὀφέλλαν Λουκρήτιον ἀναζευγνύναι κατὰ τάχος κελευόντων, ὡς ἀπολωλότος τοῦ Σύλλα καὶ τῆς Ῥώμης ἐχομένης ὑπὸ τῶν πολεμίων.

[30, 1] Ἤδη δὲ νυκτὸς οὔσης βαθείας, ἧκον εἰς τὸ τοῦ Σύλλα στρατόπεδον παρὰ τοῦ Κράσσου, δεῖπνον αὐτῷ καὶ τοῖς στρατιώταις μετιόντες· ὡς γὰρ ἐνίκησε τοὺς πολεμίους, εἰς Ἄντεμναν καταδιώξαντες ἐκεῖ κατεστρατοπέδευσαν. [2] ταῦτ᾽ οὖν πυθόμενος ὁ Σύλλας καὶ ὅτι τῶν πολεμίων οἱ πλεῖστοι διολώλασιν, ἧκεν εἰς Ἄντεμναν ἅμ᾽ ἡμέρᾳ· καὶ τρισχιλίων ἐπικηρυκευσαμένων πρὸς αὐτὸν, ὑπέσχετο δώσειν τὴν ἀσφάλειαν, εἰ κακόν τι τοὺς ἄλλους ἐργασάμενοι πολεμίους ἔλθοιεν πρὸς αὐτόν. [3] οἱ δὲ πιστεύσαντες ἐπέθεντο τοῖς λοιποῖς, καὶ πολλοὶ κατεκόπησαν ὑπ᾽ ἀλλήλων· οὐ μὴν ἀλλὰ καὶ τούτους καὶ τῶν ἄλλων τοὺς περιγενομένους εἰς ἑξακισχιλίους ἀθροίσας παρὰ τὸν ἱππόδρομον, ἐκάλει τὴν σύγκλητον εἰς τὸ τῆς Ἐνυοῦς ἱερόν. [4] ἅμα δ᾽ αὐτός τε λέγειν ἐνήρχετο καὶ κατέκοπτον οἱ τεταγμένοι τοὺς ἑξακισχιλίους· κραυγῆς δέ, ὡς εἰκός, ἐν χωρίῳ μικρῷ τοσούτων σφαττομένων φερομένης καὶ τῶν συγκλητικῶν ἐκπλαγέντων, ὥσπερ ἐτύγχανε λέγων ἀτρέπτῳ καὶ καθεστηκότι τῷ προσώπῳ προσέχειν ἐκέλευσεν αὐτοὺς τῷ λόγῳ, τὰ δ᾽ ἔξω γινόμενα μὴ πολυπραγμονεῖν· νουθετεῖσθαι γὰρ αὐτοῦ κελεύσαντος ἐνίους τῶν πονηρῶν.

[5] Tοῦτο καὶ τῷ βραδυτάτῳ Ῥωμαίων νοῆσαι παρέστησεν, ὡς ἀλλαγὴ τὸ χρῆμα τυραννίδος, οὐκ ἀπαλλαγὴ γέγονε. […].

 

[29] Tuttavia, nell’ultima lotta il sannita Telesino, come un atleta di riserva messo a combattere con il lottatore stanco, per poco non lo atterrò e lo abbatté alle porte di Roma. Aveva raccolto una folta schiera e, insieme a Lamponio il Lucano, si dirigeva veloce verso Preneste per liberare Mario dall’assedio; ma quando venne a sapere che Silla e Pompeo gli correvano contro, uno di fronte e uno alle spalle, vedendosi bloccato davanti e di dietro, da uomo di guerra esperto di grandi battaglie, partì di notte e si mise in marcia verso Roma con tutto l’esercito. E poco mancò che piombasse sulla città mentre era incustodita; si fermò a dieci stadi dalla Porta Collina, accampandosi presso la città, pieno di orgoglio e di superbe speranze per aver gabbato generali tanto numerosi e abili. All’alba, quando i più illustri giovani uscirono a cavallo contro di lui, ne uccise molti, tra cui anche Appio Claudio, uomo nobile e valoroso. Com’è naturale, in città ci fu confusione, con grida di donne e fuggi-fuggi, come per un violento assalto; per primo videro arrivare Balbo, che, inviato da Silla, avanzava a briglia sciolta con settecento cavalieri. Si fermò quanto bastava per far asciugare il sudore dei cavalli, e di nuovo li fece imbrigliare, per poi lanciarsi rapidamente contro i nemici. Nel frattempo appariva anche Silla; fece subito mangiare i primi arrivati e li schierò in ordine di battaglia. Dolabella e Torquato lo pregavano con insistenza di aspettare e di non giocarsi il risultato finale, ora che i suoi uomini eran stanchi (sì, perché non si trattava più di combattere con Carbone o con Mario, ma con i Sanniti e i Lucani, i peggiori nemici di Roma, le genti più bellicose); egli li mandò via e ordinò che le trombe suonassero il segnale d’inizio dell’assalto, anche se il giorno volgeva ormai all’ora decima. Ci fu un combattimento quale non mai e l’ala destra di Crasso vinse brillantemente. All’ala sinistra, affaticata e nei guai, Silla corse in aiuto su un cavallo bianco impetuoso e velocissimo. E due nemici, che lo riconobbero da questo, si prepararono a scagliargli contro le loro lance; egli non se ne accorse, ma lo scudiero frustò il suo cavallo e li prevenne, facendolo passare più in là di quanto bastò perché le punte cadessero vicino alla coda del cavallo e si conficcassero al suolo. Si dice che avesse con sé una statuetta d’oro di Apollo presa a Delfi; la portava sul petto a ogni battaglia, ma questa volta la baciò addirittura e le disse così: «O Apollo Pizio, che in tante lotte hai innalzato a gloria e grandezza il Fortunato Cornelio Silla, lo abbandonerai proprio ora che lo hai fatto giungere alle porte della patria e lo farai morire con i suoi concittadini nel modo più turpe?». Si narra che, dopo aver così invocato il dio, si rivolse ai suoi soldati, in parte con suppliche e in parte con minacce, e ad alcuni mise le mani addosso; ma, alla fine, persa l’ala sinistra, cercò riparo nell’accampamento insieme ai fuggitivi. Era stato privato di molti compagni e molti conoscenti; morirono calpestati anche tanti di quelli che erano usciti dalla città per andare a vedere la battaglia. Così si pensava che la città fosse perduta e per poco Mario non fu liberato dall’assedio: molti, che dopo la ritirata si erano spinti fin là, chiedevano a Lucrezio Ofella, preposto all’assedio, di togliere il campo velocemente, perché Silla era morto e Roma era nelle mani dei nemici.

[30] Era ormai notte fonda quando all’accampamento di Silla giunsero dei messaggeri di Crasso e gli chiesero cibo per lui e per i suoi soldati; avevano vinto i nemici e li avevano inseguiti fino ad Antemne, dove si erano accampati. Con questo aveva saputo anche che i nemici erano stati uccisi quasi tutti; sul far del giorno era ad Antemne e, a tremila nemici, che gli mandarono dei legati, promise che, se fossero venuti da lui dopo aver compiuto qualche azione a danno degli altri suoi nemici, avrebbe loro concesso l’incolumità. Confidando nella sua parola, essi attaccarono gli altri e ci fu una grande strage da ambedue le parti. Nonostante ciò, Silla radunò nell’ippodromo loro e quanti degli altri erano sopravvissuti, circa seimila uomini, e convocò il Senato nel tempio di Bellona. Nel momento esatto in cui iniziava a parlare, i suoi incaricati uccidevano i seimila; come è naturale, tanti uomini massacrati in uno spazio stretto lanciarono un grido che sconvolse anche i senatori. Silla, con la stessa calma e la stessa espressione tranquilla con cui aveva iniziato a parlare, li pregò di stare attenti al discorso e non a quello che accadeva fuori, perché si trattava di qualche delinquente che veniva ammonito per suo stesso ordine.

Questo fece pensare anche al più tardo dei Romani che il fatto rappresentava un cambiamento di tirannide, non una liberazione.

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in Le Storie di C. Velleio Patercolo, L. Agnes (cur.) – Epitome e Frammenti di L. Anneo Floro, J. Giacone Deangeli (cur.), Torino 1977, pp. 124-127.

 

Vell. II 27

 

[27, 1] At Pontius Telesinus, dux Samnitium, vir domi bellique fortissimus penitusque Romano nomini infestissimus, contractis circiter quadraginta milibus fortissimae pertinacissimaeque in retinendis armis iuventutis, Carbone ac Mario consulibus abhinc annos centum et novem Kal. Novembribus ita ad portam Collinam cum Sulla dimicavit, ut ad summum discrimen et eum et rem publicam perduceret, [2] quae non maius periculum adiit Hannibalis intra tertium miliarium castra conspicata, quam eo die, quo circumvolans ordines exercitus sui Telesinus dictitansque adesse Romanis ultimum diem vociferabatur eruendam delendamque urbem, adiiciens numquam defuturos raptores Italicae libertatis lupos, nisi silva, in quam refugere solerent, esset excisa. [3] Post primam demum horam noctis et Romana acies respiravit et hostium cessit. Telesinus postera die semianimis repertus est, victoris magis quam morientis vultum praeferens, cuius abscisum caput ferro figi gestarigue circa Praeneste Sulla iussit.
[4] Tum demum desperatis rebus suis C. Marius adulescens per cuniculos, qui miro opere fabricati in diversas agrorum partis ferebant, conatus erumpere, cum foramine e terra emersisset, a dispositis in id ipsum interemptus est. [5] Sunt qui sua manu, sunt qui concurrentem mutuis ictibus cum minore fratre Telesini una, obsesso et erumpente occubuisse prodiderint. Utcumque cecidit, hodieque tanta patris imagine non obscuratur eius memoria. De quo iuvene quid existimaverit Sulla, in promptu est; occiso enim demum eo Felicis nomen adsumpsit, quod quidem usurpasset iustissime, si eundem et vincendi et vivendi finem habuisset.
[6] Oppugnationi autem Praenestis ac Marii praefuerat Ofella Lucretius, qui cum ante Marianarum fuisset partium praetor, ad Sullam transfugerat. Felicitatem diei, quo Samnitiurn Telesinique pulsus est exercitus, Sulla perpetua ludorum circensium honoravit memoria, qui sub eius nomine Sullanae Victoriae celebrantur.

 

Tomba di Nola. Il ritorno dei guerrieri sanniti dalla battaglia. Affresco, IV secolo a.C. ca. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

 

[27, 1] Ponzio Telesino capo dei Sanniti, valente in pace e in guerra e profondamente ostile a Roma, messi insieme circa quarantamila giovani valorosissimi e ostinati a non deporre le armi, circa centonove anni fa sotto il consolato di Carbone e Mario si scontrò con Silla presso la porta Collina, mettendo a rischio mortale e il generale e la Repubblica, [2] la quale quando aveva visto Annibale accampato a meno di tre miglia dalla città non aveva corso maggior pericolo di quel giorno in cui Telesino, trascorrendo da una all’altra schiera, andava dicendo che era giunto per i Romani l’ultimo giorno, e gridava a gran voce che la città doveva essere diroccata e distrutta. E aggiungeva che sarebbero sempre esistiti i lupi rapaci dell’italica libertà, se non si fosse abbattuta la selva loro abituale rifugio. [3] Solo dopo la prima ora di notte l’esercito romano poté riaversi, mentre il nemico indietreggiava. All’indomani Telesino fu trovato semivivo, con sul volto l’espressione da vincitore piuttosto che da morente; e Silla dispose che il suo capo mozzato fosse infisso su una lancia e portato intorno a Preneste.
[4] Allora finalmente il giovane Gaio Mario, disperando della situazione, mentre tentava di porsi in salvo passando per certe gallerie che, predisposte con ammirevole maestria, immettevano in diverse parti della campagna, proprio mentre riemergeva da uno sbocco fuori terra venne ucciso da soldati appostati per sorprenderlo. [5] Altri tramandano che si sia ucciso di sua mano, altri ancora che sia caduto duellando con il fratello minore di Telesino, suo compagno nell’assedio e nella fuga. Comunque sia caduto, la sua memoria non è stata ancora oscurata da quella pur grande del padre. È facile sapere, del resto, che concetto di questo giovane avesse Silla, che assunse il titolo di Felice solo dopo l’uccisione di quello: titolo che gli sarebbe spettato a buon diritto, se con la sua guerra vittoriosa fosse finita anche la sua vita.
[6] L’assedio contro Mario in Preneste era stato diretto da Lucrezio Ofella, passato agli ordini di Silla dopo essere stato pretore nel partito mariano. Volle Silla che il fausto giorno della cacciata dei Sanniti e di Telesino fosse ricordato da ininterrotta tradizione di ludi del circo, che infatti ancor oggi si celebrano sotto il nome di Vittoria Sillana.

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in Storie: libri XLIV-XLV e frammenti di Tito Livio, G. Pascucci (cur.), VII, Torino 1971, pp. 692-695; testo latino da W. Weissenborn – M. Müller (Hgr.), Titi Livi ab Urbe condita libri, Pars IV, libri XLI-CXLII, Fragmenta – Index, Leipzig 1911.

 

Liv. Per. LXXXVIII

 

Sylla Carbonem, eius exercitu ad Clusium ad Fauentiam Fidentiamque caeso, Italia expulit, cum Samnitibus, qui soli ex Italicis populis nondum arma posuerant, iuxta urbem Romanam ante portam Collinam debellauit, reciperataque re p. pulcherrimam uictoriam crudelitate quanta in nullo hominum fuit, inquinauit. VIII milia dediticiorum in uilla publica trucidauit, tabulam proscriptionis posuit, urbem ac totam Italiam caedibus repleuit inter quas omnes Praenestinos inermes concidi iussit, Marium, senatorii ordinis uirum, cruribus bracchiisque fractis, auribus praesectis et oculis effossis necauit. C. Marius Praeneste obsessus a Lucretio Ofella, Syllanarum partium uiro, cum per cuniculum captaret euadere saeptum exercitu, mortem consciuit. [Id est, in ipso cuniculo, cum sentiret se euadere non posse, cum Telesino, fugae comite, stricto utrimque gladio concurrit; quem cum occidisset, ipse saucius impetrauit a seruo ut se occideret].

 

L. Cornelio Silla e L. Manlio Torquato. Denario, Roma, 82 a.C. AR 3, 93 gr. Recto: L. Manli(us) pro q(uaestor). Testa elmata di Roma voltata a destra

 

Silla ricacciò dall’Italia Carbone, dopo averne sconfitto l’esercito presso Chiusi, Faenza e Fidenza; pose fine alla guerra con i Sanniti, che unici fra gli Italici non avevano deposto ancora le armi, attaccandoli nei pressi della città di Roma, dinanzi alla porta Collina e riconquistando la Repubblica macchiò la splendida vittoria con atti di crudeltà, quanti non si erano mai visti compiere da alcuno. Ottomila che si erano arresi massacrò nella villa pubblica, affisse la tavola della proscrizione, riempì di stragi la città e tutta l’Italia; fra l’altro ordinò di passar per le armi tutti gli inermi cittadini di Preneste, fece uccidere Mario, uomo di rango senatorio, dopo avergli fatto spezzare gambe e braccia, tagliare le orecchie e cavare gli occhi. C. Mario assediato a Preneste da Lucrezio Ofella, seguace di Silla, mentre tentava di uscire per un cunicolo sbarrato dall’esercito si dette la morte [cioè, proprio dentro il cunicolo, accortosi di non essere in grado di uscire, con uno di Telese, suo compagno di fuga, impugnata entrambi la spada, duellò; e avendolo ucciso, mentre egli era rimasto soltanto ferito, ottenne che uno schiavo gli vibrasse l’ultimo colpo].

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Bibliografia di approfondimento

BALDSON J.P.V.D., Sulla Felix, JRS 41 (1951), pp. 1-10.

BROUGHTON T.R.S., L. Manlius Torquatus and the Governors of Asia, AJPh 111, 1 (1990), 72-74.

CHRIST K., Sulla. Eine römische Karriere, München 2002.

ERICSSON H., Sulla Felix. Eine Wortstudie, Eranos 41 (1943), pp. 77-89.

FRIER B.W., Sulla’s Propaganda: The Collapse of the Cinnan Republic, AJPh 92, 4 (1972), 585-604.

HEREDIA CHIMENO C., La transgresión del mos maiorum a raíz del Bellum Sociale (91-81 a.C.), tesis doctoral, Barcelona 2017.

JAL P., La propagande religieuse à Rome au cours des guerres civiles de la fin de la République, AC 30, 2 (1961), 395-414.

LEWIS R.G., A Problem in the Siege of Praeneste, 82 B.C., PBSR 39 (1971), pp. 32-39.

LOVANO M., The Age of CinnaCrucible of Late Republican Rome (Historia Einzelschriften 158), Stuttgart 2002.

LUCE T.J., Political Propaganda on Roman Republican Coins: Circa 92-82 B.C., AJA 72, 1 (1968), 25-39.

MARTIN T.R., Sulla ‘Imperator Iterum’. The Samnites and Roman Republican Coin Propaganda, SNR 68 (1989), 19-45.

WIRSZUBSKI CH., Libertas as a Political Idea at Rome during the Late Republic and Early Principate, Cambridge 1968.

 

Strane metamorfosi degli uomini (August. de civ. Dei XVIII 17)

di Agostino, La città di Dio, a cura di L. Alici, Milano 2015, pp. 876-877.

 

Hoc Varro ut astruat, commemorat alia non minus incredibilia de illa maga famosissima Circe, quae socios quoque Vlixis mutauit in bestias, et de Arcadibus, qui sorte ducti tranabant quoddam stagnum atque ibi conuertebantur in lupos et cum similibus feris per illius regionis deserta uiuebant. Si autem carne non uescerentur humana, rursus post nouem annos eodem renatato stagno reformabantur in homines. Denique etiam nominatim expressit quendam Demaenetum gustasse de sacrificio, quod Arcades immolato puero deo suo Lycaeo facere solerent, et in lupum fuisse mutatum et anno decimo in figuram propriam restitutum pugilatum sese exercuisse et Olympiaco uicisse certamine. Nec idem propter aliud arbitratur historicus in Arcadia tale nomen adfictum Pani Lycaeo et Ioui Lycaeo nisi propter hanc in lupos hominum mutationem, quod eam nisi ui diuina fieri non putarent. Lupus enim Graece λύκος dicitur, unde Lycaei nomen apparet inflexum. Romanos etiam Lupercos ex illorum mysteriorum ueluti semine dicit exortos.

 

A riprova di ciò Varrone ricorda altri fatti non meno incredibili intorno alla famosissima maga Circe, la quale trasformò in bestie anche i compagni di Ulisse, e intorno agli Arcadi che, designati a sorte, attraversavano a nuoto uno stagno dove venivano trasformati in lupi e vivevano nei luoghi solitari di quella regione assieme a quelle belve feroci. Se però non mangiavano carne umana, di nuovo dopo nove anni, riattraversando lo stagno, diventavano uomini. Egli infine ricorda espressamente che un certo Demeneto, dopo aver gustato il sacrificio che di solito gli Arcadi offrivano immolando un fanciullo al loro dio Liceo, fu trasformato in lupo e dopo dieci anni, restituitegli le umane sembianze, si esercitò nel pugilato e vinse i giochi olimpici. Lo stesso storico ritiene che in Arcadia quel nome fu attribuito a Pan Liceo e a Giove Liceo, precisamente per questa trasformazione degli uomini in lupi, che ritennero possibile soltanto grazie ad una forza divina. In greco lupo si dice infatti lykos, da cui sembra essere derivato il nome Liceo. Si dice ancora che i Lupercali romani abbiano tratto origine da quei misteri.

 

Sucellos (o Silvanus). Statuetta, bronzo, I-II sec. d.C. ca., da Mours-Saint-Eusèbe. Valence, Musée des Beaux-Arts et d'Archéologie.
Sucellos (o Silvanus). Statuetta, bronzo, I-II sec. d.C. ca., da Mours-Saint-Eusèbe. Valence, Musée des Beaux-Arts et d’Archéologie.

Il racconto di Nicerote (Petr. Satyr. 61-62)

di Satyricon di Petronio, a cura di V. CIAFFI, Torino 19672, pp. 168-173 (testo latino, trad. e note); cfr. Gaio Petronio, Satyricon, a cura di M. Scarsi, pref. G. CHIARINI, con testo a fronte, Firenze 1996, pp. 82-85 (trad.)

[61, 1] Postquam ergo omnes bonam mentem bonamque valitudinem sibi optarunt, [2] Trimalchio ad Nicerotem respexit, et «Solebas – inquit – suavius esse in convictu; nescio quid nunc taces nec muttis. Oro te, sic felicem me videas, narra illud quod tibi usu venit». [3] Niceros delectatus affabilitate amici «Omne me – inquit – lucrum transeat, nisi iam dudum gaudimonio dissilio, quod te talem video. [4] Itaque hilaria mera sint, etsi timeo istos scholasticos, ne me rideant. Viderint, narrabo tamen. Quid enim mihi aufert, qui ridet? Satius est rideri quam derideri». [5] «Haec ubi dicta dedit», talem fabulam exorsus est:

[6] «Cum adhuc servirem, habitabamus in Vico Angusto; nune Gavillae domus est. Ibi, quomodo dii volunt, amare coepi uxorem Terentii coponis; noveratis Melissam Tarentinam, pulcherrimum bacciballum. [7] Sed ego non mehercules corporaliter aut propter res venerias curavi, sed magis quod benemoria fuit. [8] Si quid ab illa petii, nunquam mihi negatum; fecit assem, semissem habui; in illius sinum demandavi, nec unquam fefellitus sum. [9] Huius contubernalis ad villam supremum diem obiit. Itaque per scutum per ocream egi aginavi, quemadmodum ad illam pervenirem; nam, ut aiunt, in angustiis amici apparent.

[62, 1] Forte dominus Capuae exierat ad scruta scita expedienda. [2] Nactus ego occasionem persuadeo hospitem nostrum, ut mecum ad quintum miliarium veniat. Erat autem miles, fortis tanquam Orcus. [3] Apoculamus nos circa gallicinia; luna lucebat tanquam meridie. [4] Venimus intra monimenta: homo meus coepit ad stelas facere; sedeo ego cantabundus et stelas numero. [5] Deinde ut respexi ad comitem, ille exuit se et omnia vestimenta secundum viam posuit. Mihi anima in naso esse; stabam tanquam mortuus. [6] At ille circumminxit vestimenta sua, et subito lupus factus est. Nolite me iocari putare; ut mentiar, nullius patrimonium tanti facio. [7] Sed, quod coeperam dicere, postquam lupus factus est, ululare coepit et in silvas fugit. [8] Ego primitus nesciebam ubi essem; deinde accessi, ut vestimenta eius tollerem; illa autem lapidea facta sunt. Qui mori timore nisi ego? [9] Gladium tamen strinxi, et – matavitatan – umbras cecidi, donec ad villam amicae meae pervenirem. [10] In larvam intravi, paene animam ebullivi, sudor mihi per bifurcum volabat, oculi mortui; vix unquam refectus sum. [11] Melissa mea mirari coepit, quod tam sero ambularem, et “Si ante – inquit – venisses, saltem nobis adiutasses; lupus enim villam intravit et omnia pecora tanquam lanius sanguinem illis misit. Nec tamen derisit, etiam si fugit; servus enim noster lancea collum eius traiecit”. [12] Haec ut audivi, operire oculos amplius non potui, sed luce clara Gai nostri domum fugi tanquam copo compilatus; et postquam veni in illum locum, in quo lapidea vestimenta erant facta, nihil inveni nisi sanguinem. [13] Ut vero domum veni, iacebat miles meus in lecto tanquam bovis, et collum illius medicus curabat. Intellexi illum versipellem esse, nec postea cum illo panem gustare potui, non si me occidisses. [14] Viderint quid de hoc alii exopinissent; ego si mentior, genios vestros iratos habeam».

London, British Library, Royal MS 12 F. XIII, Rochester Bestiary (1230 c.), f. 29r. Un branco di lupi assiste alla trasformazione di un uomo in licantropo.
London, British Library, Royal MS 12 F. XIII, Rochester Bestiary (1230 c.), f. 29r. Un branco di lupi assiste alla trasformazione di un uomo in licantropo.

[61, 1] Dopo che tutti a questo punto ebbero fatto un brindisi per la buona salute della mente e del corpo, [2] Trimalcione si rivolse a Nicerote, e osservò: «Di solito tu a tavola eri più allegro. Va’ a capire perché oggi te ne stai muto e non fiati. Ti prego, se vuoi vedermi contento, racconta ciò che ti è successo». [3] Nicerote, lusingato dalla gentilezza dell’amico, esclamò: «Che mi scappi ogni affare, se già non schiatto di gioia a vederti così! [4] Su dunque, pensiamo solo a star allegri, anche se ho paura che ‘sti sapientoni ridano di me. Ma si mettano comodi, io racconterò lo stesso. Che ci perdo qualcosa a far ridere? Meglio far ridere che farsi deridere». [5] Pronunciate tali parole, attaccò questa storia:

[6] «Quando ero ancora un servo, si abitava in Vico Stretto; oggi è la casa di Gavilla. Lì, come gli dèi vogliono, incominciai a farmela con la moglie di Terenzio, l’oste; ricorderete Melissa di Taranto, la splendida cicciona. [7] Io però, per Ercole, non ero mica per il fisico, o per farci l’amore, che mi interessavo a lei, ma perché aveva un buon carattere. [8] Se le chiedevo qualcosa, non mi diceva mai di no; se guadagnava un soldo, mezzo soldo era per me; lo depositavo nel suo seno, e non sono mai rimasto fregato. [9] Il suo compagno morì mentre stava in campagna. Allora io sudai le proverbiali sette camicie per trovare il modo di arrivare da lei; infatti, come dicono, è nel momento del bisogno che si vedono gli amici.

[62, 1] Il caso volle che il mio padrone fosse andato a Capua per smerciarvi il meglio delle sue cianfrusaglie. [2] Colgo al volo l’occasione e convinco un nostro ospite ad accompagnarmi fino al quinto miglio. Si trattava di un soldato, forte come l’Orco. [3] Leviamo le chiappe verso il canto del gallo; c’era una luna che sembrava mezzogiorno. [4] Arriviamo in mezzo a un cimitero: il mio uomo si mette a farla tra le tombe, io mi siedo canticchiando e mi metto a contare le lapidi. [5] Poi mi volto verso il mio compare e vedo che quello è lì che si sveste e depone tutti gli abiti sul ciglio della strada. Mi sentivo il cuore in gola; stavo immobile come fossi morto. [6] Quello allora si mise a pisciare tutto intorno ai vestiti e di colpo si trasformò in lupo. Non pensate che stia scherzando; non mentirei per tutto l’oro del mondo. [7] Ma, come stavo dicendo, una volta diventato lupo, incominciò a ululare e sparì nella boscaglia. [8] Io sulle prime non capivo più dove fossi; poi mi avvicinai ai suoi abiti per prenderli; ma quelli erano diventati di pietra. Chi non poté morire di paura se non io stesso? [9] Tuttavia strinsi la mano alla spada, e, abracadabra, andai infilzando le ombre, finché non raggiunsi la tenuta della mia amica. [10] Entrai che parevo uno spettro, a momenti schiattavo, il sudore mi colava tra le chiappe e avevo gli occhi di un morto; ce ne volle per riprendermi. [11] La mia Melissa dapprima si meravigliò perché ero ancora in giro a quell’ora, e fece: “Se arrivavi un po’ prima, almeno ci davi una mano; un lupo si è introdotto nella fattoria e da vero macellaio ci ha sgozzato tutte le bestie. Però non l’ha fatta franca, anche se è riuscito a fuggire, ché un nostro servo gli ha trapassato il collo con la lancia”. [12] A sentir questo, non potei più a chiuder occhio e sul far del giorno, via di corsa alla casa del nostro Gaio, come un oste rapinato; e una volta che giunsi in quel posto, dove gli abiti erano diventati pietra, non altro trovai altro che sangue. [13] Come poi tornai a casa trovai il mio soldato stravaccato sul letto come un bue, mentre il medico gli curava il collo. Compresi che era un lupo mannaro e da allora in poi non sarei più riuscito a dividere il pane con lui, nemmeno se mi avessero ammazzato. [14] Gli altri al riguardo la pensino come vogliono. Quanto a me, se mento, possano i vostri numi tutelari stramaledirmi».

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Bibliografia di approfondimento:

G.B. Bronzini, Il lupo mannaro e le streghe di Petronio, Lares 54 (1988), pp. 198-201.

H.J. de Jonge, Pétrone 62, 9, Mnemosyne 24 (1971), pp. 401-402.

M. Gusso, Streghe, folletti e lupi mannari nel Satyricon di Petronio, CVRS 3 (1997), pp. 97-117.

A.W.J. Holleman, Lupus, lupercalia, lupa, Latomus 44 (1985), pp. 609-614.

S.M. Miller, Werewolves and “Ghost Words” in Petronius: mata vita tau, CPh 37 (1942), pp. 319-321.

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M. Rissanen, The Hirpi Sorani and the Wolf Cults of Central Italy, Arctos 46 (2012), pp. 115-135.

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