di F. Piazzi – A. Giordano Rampioni, Multa per aequora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina. 3. L’Alto e il Basso Impero, Bologna 2004, pp. 393-394.
testo latino: G.G. Ramsay (ed.), Juvenal and Persius, London-New York 1918.
traduzione italiana: E. Barelli.
Assai forte è l’astio che Giovenale nutre verso i Greci e gli Orientali che affollano le vie della Roma cosmopolita del suo tempo, ormai divenuta una città greca e per questo insopportabile: non possum ferre Graecam urbem, scrive il poeta riferendosi alla capitale. Nella III satira egli denuncia l’invasione di questi stranieri, che hanno fatto i soldi, perciò ottengono tutto (omnia Romae cum pretio, «A Roma tutto si compra»). Adulatori e intriganti, i Graeculi – il diminutivo è dispregiativo – con la loro intraprendenza, quando giungono a ottenere l’amicizia di qualche potente, se lo accaparrano tutto per loro. Ai cittadini romani, di fronte al trionfo della menzogna e dell’ipocrisia, non rimane che abbandonare la capitale. È il caso del poeta Umbricio di questa satira, il quale, non sapendo mentire né ammazzare né fare l’astrologo, decide di ritirarsi a Cuma.

Quondam hi cornicines et municipalis harenae
35 perpetui comites notaeque per oppida buccae
munera nunc edunt et, uerso pollice uulgus
cum iubet, occidunt populariter; inde reuersi
conducunt foricas, et cur non omnia, cum sint
quales ex humili magna ad fastigia rerum
40 extollit quotiens uoluit Fortuna iocari?
Quid Romae faciam? mentiri nescio: librum,
si malus est, nequeo laudare et poscere; motus
astrorum ignoro; funus promittere patris
nec uolo nec possum; ranarum uiscera numquam
45 inspexi; ferre ad nuptam quae mittit adulter,
quae mandat, norunt alii; me nemo ministro
fur erit, atque ideo nulli comes exeo tamquam
mancus et extinctae corpus non utile dextrae,
quis nunc diligitur nisi conscius et cui feruens
50 aestuat occultis animus semperque tacendis?
nil tibi se debere putat, nil conferet umquam,
participem qui te secreti fecit honesti:
carus erit Verri qui Verrem tempore quo uult
accusare potest, tanti tibi non sit opaci
55 omnis harena Tagi quodque in mare uoluitur aurum,
ut somno careas ponendaque praemia sumas
tristis, et a magno semper timearis amico.
Quae nunc diuitibus gens acceptissima nostris
et quos praecipue fugiam, properabo fateri,
60 nec pudor opstabit. non possum ferre, Quirites,
Graecam urbem; quamuis quota portio faecis Achaei?
iam pridem Syrus in Tiberim defluxit Orontes,
et linguam et mores et cum tibicine chordas
obliquas nec non gentilia tympana secum
65 uexit et ad circum iussas prostare puellas.
ite, quibus grata est picta lupa barbara mitra!
rusticus ille tuus sumit trechedipna, Quirine,
et ceromatico fert niceteria collo,
hic alta Sicyone, ast hic Amydone relicta,
70 hic Andro, ille Samo, hic Trallibus aut Alabandis
Esquilias dictumque petunt a uimine collem,
uiscera magnarum domuum dominique futuri,
ingenium uelox, audacia perdita, sermo
promptus et Isaeo torrentior: ede quid illum
75 esse putes? quemuis hominem secum attulit ad nos:
grammaticus rhetor geometres pictor aliptes
augur schoenobates medicus magus: omnia nouit
Graeculus esuriens; in caelum iusseris ibit.
in summa non Maurus erat neque Sarmata nec Thrax
80 qui sumpsit pinnas, mediis sed natus Athenis.
Horum ego non fugiam conchylia? me prior ille
signabit fultusque toro meliore recumbet,
aduectus Romam quo pruna et cottona uento?
usque adeo nihil est, quod nostra infantia caelum
85 hausit Auentini baca nutrita Sabina?
Quid quod adulandi gens prudentissima laudat
sermonem indocti, faciem deformis amici,
et longum inualidi collum ceruicibus aequat
Herculis Antaeum procul a tellure tenentis,
90 miratur uocem angustam, qua deterius nec
ille sonat quo mordetur gallina marito?
haec eadem licet et nobis laudare, sed illis
creditur, an melior, cum Thaida sustinet aut cum
uxorem comoedus agit uel Dorida nullo
95 cultam palliolo? mulier nempe ipsa uidetur,
non persona, loqui; uacua et plana omnia dicas
infra uentriculum et tenui distantia rima.
nec tamen Antiochus nec erit mirabilis illic
aut Stratocles aut cum molli Demetrius Haemo:
100 natio comoeda est. rides, maiore caehinno
concutitur; flet, si lacrimas conspexit amici,
nec dolet; igniculum brumae si tempore poscas,
accipit endromidem; si dixeris “aestuo,” sudat.
non sumus ergo pares: melior, qui semper et omni
105 nocte dieque potest aliena sumere uultum
a facie, iactare manus, laudare paratus,
si bene ructauit, si rectum minxit amicus,
si trulla inuerso crepitum dedit aurea fundo.
Praeterea sanctum nihil est neque4 ab inguine tutum,
110 non matrona Laris, non filia uirgo, neque ipse
sponsus leuis adhuc, non filius ante pudicus;
horum si nihil est, auiam resupinat amici,
scire uolunt secreta domus atque inde timeri.

«Suonavano il corno, una volta, sempre presenti nelle arene municipali; bocche note per tutti i villaggi: adesso si permettono il lusso di offrire spettacoli di gladiatori, e per farsi belli, quando il popolaccio lo vuole, col pollice verso, decidono morte; quindi tornano a casa ed appaltano latrine. E perché non dovrebbero farlo? Non son forse di quelli che la Fortuna, ogni volta che vuole scherzare, innalza dal niente ai fastigi più alti?
Io invece a Roma che ci faccio? Non so mentire; un libro, se è cattivo, non so né lodarlo né chiederlo in prestito; ignoro i movimenti degli astri; promettere il funerale d’un padre non voglio e non posso; non ho mai studiato le viscere d’una rana; passare ad una maritata le commissioni e i messaggi dell’amante lo san fare gli altri, non io; non terrò mai mano a un ladro, per cui non c’è nessuno con me quand’esco di casa, come se io fossi un monco, come avessi il braccio paralizzato, come fossi un buono a nulla. Chi può aver amici, oggi, se non colui che sa esser complice di qualcuno ed è capace di avere un cuore ribollente di mille segreti che non potranno mai dirsi?
Chi t’ha fatto partecipe d’un onesto segreto, è perfettamente convinto di non doverti proprio nulla e non ti darà mai un soldo. A Verre sarà caro soltanto colui che possa denunciarlo ogni momento. Ma tutto l’oro che la sabbia del fangoso Tago rotola in mare, non sia mai per te così importante da farti perdere il sonno, da farti accettare quei doni che tristemente dovrai un giorno lasciare, da farti vivere nella continua diffidenza d’un amico potente!
Quale sia la gente più accetta ai nostri ricchi e chi soprattutto io fugga, faccio presto a dirtelo e con tutta chiarezza. Io non posso, o Quiriti, sopportare una Roma greca! E poi, quanti sono i veri Achei in tutta questa feccia? È un pezzo che l’Oronte di Siria è venuto a sfociare nel Tevere, portando con sé lingua, costumi, flautisti e corde oblique, tamburi esotici e ragazze costrette a prostituirsi nel circo. Andate da loro, voi che trovate di vostro gusto queste barbare lupe dalla mitra dipinta! Il tuo amico villano, o Quirino, ora indossa vestaglie trasparenti e intorno al collo impomatato porta medaglie d’atleta. Costui dall’alta Sicione, quest’altro da Amidone o da Andro, quello da Samo, questo ancora da Tralli o da Alabanda, vengono tutti all’assalto dell’Esquilino o dell’altro colle che dal vimine ha nome, prima a conquistarsi l’anima delle grandi case e poi a diventarne padroni. Eccoli qui: mente sveglia, audacia sfrontata, lingua pronta, più micidiale di quella d’Iseo. Che credi che siano? Ciascuno di loro ha dentro di sé un uomo tutto fare: grammatico, retore, geometra, pittore, massaggiatore, augure, funambulo, medico, mago: tutto sa fare, questo Greconzolo affamato; digli di volare in cielo e lui volerà. Insomma, era forse Mauro, o Sarmata, o Trace, quel tale che s’applicò le penne? Era Ateniese d’Atene!
E io non dovrei fuggire tutta la loro porpora? Dovrei sopportare che firmi prima di me nei contratti, o a tavola occupi il posto migliore, uno di costoro, portato a Roma dallo stesso vento con le prune e coi fichi? Non conta proprio più nulla che la nostra infanzia abbia respirato l’aria dell’Aventino e si sia nutrita di olive sabine? Formidabili adulatori, son pronti a lodare il discorso del primo imbecille, e a dire bello l’amico deforme, a paragonare un collo allampanato a quello d’Ercole mentre solleva da terra Anteo, a far meraviglie per la più meschina vocetta, straziante non di meno di quella del gallo quando becca la gallina. Anche noi siamo capaci di simili piaggerie; ma a loro la gente crede. E chi meglio di loro sa sostenere in teatro la parte di Taide, o quella d’una moglie o quella d’una Doride scamiciata? Sembra proprio che sia una donna a parlare, non un attore; giureresti che dallo stomaco in giù sia vuoto e piatto, con la sua stretta fessura. Nemmeno Antioco riuscirà ad essere così bravo, nemmeno Stratocle, o Demetrio con quello smidollato di Emo: è proprio una nazione di commedianti.
Se ridi, eccoti il Greco squassato da una risata più grande; se lacrima un amico, giù a piangere, anche se dentro non gliene importa proprio nulla; se ai primi freddi tu chiedi un po’ di fuoco, egli indossa il mantello; se gli dici: – Ho caldo, – egli già suda. Insomma, non siamo alla pari: ha troppo vantaggio chi di giorno o di notte è capace di cambiar la faccia secondo quella degli altri, sempre pronto a sventolare le mani per la gioia, o alzar grida di lode, se l’amico ha fatto un bel rutto o una vigorosa pisciata, oppure è riuscito a far rimbombare dal fondo la sua padella d’oro.
Per di più, per costoro, non c’è nulla di sacro né che possa dirsi al sicuro dalla loro libidine; non la padrona di casa, non la figliola ancora vergine, non il fidanzato imberbe, non il fanciullo ancora ingenuo; e se mancano questi, rovesciano sul letto la nonna dell’amico. Per farsi temere, nessun segreto della casa gli sfugge».
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