ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
di BRIZZI G., in «Corriere della Sera – La Lettura» n. 377 (Domenica, 17 febbraio 2019), pp. 6-7.
Cominciano le celebrazioni per i 2.200 anni dalla fondazione della città che per un breve periodo fu insediamento celtico e subito dopo colonia latina. Un gruppo di Galli si era stabilito da queste parti perché aveva trovato la piana incolta e deserta, «inculta per solitudines», ma non aveva intenzioni bellicose. Roma, tuttavia, ancora spaventata dal ricordo di Annibale, li aveva cacciati. Da qui inizia la biografia entusiasmante di una realtà urbana.
Duemiladuecento anni. Tanti ne sono trascorsi da quando, nel 181 avanti Cristo, al centro della piana del Friuli, in vista delle Alpi Giulie, nacque Aquileia; ma la gestazione era cominciata cinque anni prima, ed era stata frutto del metus, della paura. Nel 186 avanti Cristo un gruppo di Galli, da oltralpe, passò nei territori dei Veneti con il proposito di insediarsi su quelle terre; e scelse, trovandola incolta e deserta (inculta per solitudines) l’area su cui sarebbe poi sorta Aquileia. Il fatto non piacque ai Romani, che, quando lo appresero, ne furono spaventati. Quel movimento pareva inserirsi in un quadro geostrategico globale: nel 188, nelle acque d’Asia Minore, era stata arsa, dopo il trattato di Apamea, l’ultima grande flotta mediterranea, quella del re di Siria, annullando la minaccia di una futura invasione via mare dell’Italia; e il 187 aveva visto nascere con la via Emilia, lungo il confine politico della penisola, l’Appennino, una linea difensiva — prefigurazione dei futuri limites dell’impero? — destinata entro pochi anni a collegare ben sei colonie militari, da Rimini a Piacenza. L’arrivo degli intrusi allarmò così un senato afflitto dalla paranoica paura postannibalica, che temette forse un pericolo più grave del reale; e, diffidando della smania revanscista del macedone Filippo V, che si diceva fosse pronto a muovere i barbari Bastarni dalle sedi balcaniche per scagliarli contro l’Italia, credette trattarsi di un’avanguardia dell’invasione.
L’area del Foro romano, Aquileia.
A dissipare l’incubo bastò un’ambasceria oltre le Alpi. Avendo appreso che il passaggio in Italia era stata una decisione spontanea dei nuovi venuti, il senato intimò loro di andarsene, e mosse le legioni (183 a.C.). Fu il console Marcello a distruggere il nascente insediamento celtico, etiam invito senatu secondo Plinio (Naturalis historia, III, 131). Dopo avere comunicato loro che la cerchia alpina doveva rimanere inviolata, verso i Galli si mostrò però una certa indulgenza; e li si ricondusse incolumi alle loro sedi. Si decise allora la deduzione di una nuova colonia latina; e a fondarla furono inviati i triumviriPublio Cornelio Scipione Nasica, Gaio Flaminio e Lucio Manlio Acidino, ricordato in un’iscrizione aquileiese di età repubblicana. Grazie alle condizioni della regione si poterono allettare i tremila coloni (per una popolazione forse di diecimila anime in tutto) offrendo loro cospicui lotti di terra: 50 iugeri per ogni colono, 100 per i centurioni, 140 per i cavalieri.
L’origine di Aquileia è interamente romana: le terre occupate dai Celti erano inculta per solitudines e del loro insediamento, impianto provvisorio e non città, nulla sembra essere rimasto, mentre l’unico luogo che il mito classico rivendichi al Friuli più antico non è una polis, come la troiana Padova, ma la sede di un culto naturale, lo sbocco del Timavo al mare. Non distante a sua volta dall’Adriatico, in una zona paludosa lungo il fiume Natisone, a dieci anni dalla fondazione Aquileia non aveva ancora completato il circuito delle mura; tanto che Marco Cornelio Cetego, cui si deve anche la bonifica del luogo, vi dedusse nel 169 a.C. un secondo nucleo di 1.500 coloni, portando gli abitanti al numero di circa 15 mila.
Rito di fondazione della città. Rilievo, calcare locale. Aquileia, Museo Archeologico Nazionale.
Avamposto oltre il territorio degli alleati Veneti, la città è, ancora per Ausonio (Ordo Urbium Nobilium, 7), nel IV secolo, «colonia latina posta di fronte ai monti d’Illiria». Sentinella avanzata, e dunque claustrum, o base per future conquiste, Aquileia rimase poi sempre un centro strategico vitale; e partecipò a tutte le guerre contro le popolazioni locali. Difensive, dapprima: già nel 178 a.C. scoppiò un conflitto contro gli Istri, sospetti di intesa con la Macedonia. Durante l’ultima guerra macedonica, avendo progettato di propria iniziativa una spedizione verso l’Istria e l’Illirico interno, Gaio Cassio Longino ricevette un rabbuffo da parte del senato, convinto che il console dovesse agire solo a protezione di Aquileia e preoccupato all’idea che la sua iniziativa «aprisse la via verso l’Italia a tanti popoli diversi» (Livio 43, 10, 1); timore condiviso dagli aquileiesi, che proprio allora lamentarono l’incompletezza delle mura. Più marcatamente offensive furono invece le guerre condotte da Sempronio Tuditano contro gli Istri (129 a.C.) e da Emilio Scauro contro i Carni (119 a.C.).
Un diverso carattere della città richiama la sfortunata campagna di Gneo Papirio Carbone contro i Cimbri (113 a.C.). Polibio (in Strabone 4, 6, 12) ricordava che già al tempo suo era stato scoperto l’oro nel territorio dei Taurisci Norici; e in quantità tale da provocare, sembra, da parte di imprenditori italici una vera «corsa» cui pose un freno l’azione dei reguli locali. In difesa di costoro, protetti da Roma, Carbone affrontò i Germani, e ne fu sconfitto a Noreia, centro del Norico. Nello stesso passo in cui dice Aquileia «fortificata a baluardo contro i soprastanti barbari», Strabone (5, 1, 8) ne sottolinea anche il carattere di emporion, centro propulsore per una politica di penetrazione commerciale verso le regioni d’oltralpe. Favorita sia dal porto-canale navigabile che giungeva nel cuore della città, sia dall’articolata rete di vie sorte in successione e raccordate con l’Emilia e la Postumia— l’Annia o la Iulia Augusta, la Gemina o la strada per il Norico, l’asse per Emona-Ljubljana o quello per Tarsatica — la città continuò a svilupparsi.
Municipium cittadino dopo la guerra sociale, iscritta alla tribù Velina, Aquileia entrò a far parte del territorio italico dopo Filippi; e divenne il centro della X regione augustea, chiamata Venetia et Histria. Nell’inverno 59-58 a.C. Cesare vi tenne tre legioni. Augusto vi soggiornò a più riprese, al tempo delle guerre in Germania e in Pannonia; e con lui la famiglia, Tiberio, la figlia Giulia (che vi perdette l’unico figlio nato dall’unione con Tiberio) e la moglie Livia (estimatrice del Pucinum, un vino locale cui si dice attribuisse la sua longevità).
Mosaico con fiocco, tralci di vite ed edera. Metà I sec. a.C. Aquileia, Museo Archeologico Nazionale.
Con la conquista delle terre fino al Danubio l’importanza militare della città parve scemare; ma non fu che un attimo. Di qui sarebbero passati imperatori legittimi, pretendenti al trono e orde di barbari; non senza danni. Nel 69 le legioni del Danubio toccarono più volte Aquileia, facendo anche preda in città. Di qui mossero, da e per la Dacia, Domiziano e Traiano; e vi soggiornarono Marco Aurelio e Lucio Vero (morto ad Altino) quando, secondo Ammiano (39, 6, 1) la città aveva già superato grazie alle difese riattate per tempo l’assedio di Quadi e Marcomanni (mentre venne distrutta Opitergium-Oderzo). Anche Aquileia fu colpita allora dalla pestis antonina, che avrebbe fatto strage nell’impero. Nel 193 d.C. gli aquileiesi, atterriti dal numero (e dall’aspetto…) dei soldati di Settimio Severo, se la cavarono invece accogliendoli coronati d’alloro.
Ancora durante il III secolo l’Italia restava malgrado tutto il centro simbolico del potere; e per impadronirsene (o per combattere barbari sempre più pericolosi, come Alamanni e Goti) passavano da Aquileia gli «imperatori soldati» , espressione delle terre del Danubio: Massimino «il Trace», che l’assediò invano e vi fu ucciso (238); Decio; Emiliano; Claudio II vincitore dei Goti, e suo fratello Quintillo (che vi perì suicida), Diocleziano e Massimiano, persecutori dei cristiani. Nel IV secolo proseguì la sequenza di lotte civili: vi si scontrarono Costante e Costantino II (340), poi Costanzo e Magnenzio (351), la assediò di nuovo Giuliano (361); la visitarono tra il 364 e il 386, Valentiniano I, Graziano e Valentiniano II. Nel 387, come ricorda Ausonio, vi morì, vinto da Teodosio, Magno Massimo.
Massimino il Trace. Sesterzio, Roma 235 d.C. Æ. 18, 4 gr. Recto: Providentia Aug(usta) – S(enatus) C(onsulto). Providentia, stante verso sinistra, cornucopia, scettro e globo.
Gran peso aveva assunto nel frattempo, ad Aquileia, la religione cristiana. Collegata tradizionalmente alla predicazione di Marco e al martirio del protovescovo Ermacora, la Chiesa aquileiese si sviluppò appieno dopo la metà del III secolo. Vettore del Cristianesimo nella regione e nei territori contermini fino alla Rezia, essa conobbe una straordinaria ripresa dopo la persecuzione tetrarchica. Partecipò al concilio di Arles (314) con il vescovo Teodoro; che edificò ad Aquileia la basilica e lo straordinario complesso di edifici di culto arricchiti da splendidi mosaici. Un suo esponente, Fortunaziano, apprezzato da Papa Liberio, si avvicinò in seguito agli Ariani; ma la presenza in città di Girolamo e Ambrogio portò, nel 381, a un nuovo concilio antiariano presieduto da Ambrogio proprio ad Aquileia.
Il V secolo segna la fine della città romana, poiché le reiterate devastazioni ad opera di Alarico nel 401, di Teodorico nel 439 e di Attila nel 452, con il depauperamento demografico e la conseguente mancata manutenzione di strutture essenziali come il porto e le opere di canalizzazione, produssero lo sviluppo esiziale della malaria. Con il 568 e l’invasione longobarda, la Venetia fu divisa in due parti, la terrestre dominata dai Longobardi; e la marittima (Grado, l’Istria e le isole) controllata dai Bizantini. Fu la decadenza: nel suo carme della fine dell’VIII secolo, Paolino definisce la città «speco di villici, tugurio di pezzenti». Aquileia rinacque però poco dopo ad opera del patriarca Massenzio, che di fatto, con l’aiuto di Carlo Magno, ricostruì la basilica.
Dedica al vescovo Teodoro. Mosaico, IV sec. d.C. Aquileia, Basilica patriarcale di S. Maria Assunta: Theodore felix, adiuvante Deo omnipotente et poemnio caelitus tibi traditum omnia baeate fecisti et gloriose dedicasti (“Felice te, Teodoro, che con l’aiuto di Dio Onnipotente e del gregge che ti ha concesso, hai costruito questa chiesa e gloriosamente l’hai consacrata”).
Menas. Alessandro in nudità eroica. Statua, marmo, III sec. a.C. Istanbul, Museo Archeologico.
La morte di Alessandro Magno, avvenuta nel giugno del 323 a.C. a Babilonia, rappresenta da 2.342 anni il più grande mistero medico della storia. La sola idea che un condottiero capace, così giovane, di piegare l’antico ed acerrimo nemico dell’Ellade, l’Impero persiano, in pochi anni, estendendo i confini del mondo greco all’Egitto e all’India, potesse spegnersi così repentinamente, il solo pensiero che una storia così travolgente potesse interrompersi proprio nel momento in cui le armate macedoni stavano per invadere – e scoprire – l’Arabia, è stata assai difficile da accettare per generazioni di appassionati di storia antica. Questa mancata accettazione di un fenomeno naturale, la morte, insieme alla miriade di versioni contrastanti, spesso di dubbia veridicità, degli ultimi giorni di vita del condottiero, è all’origine della lunga lista di interpretazioni sulla fine di Alessandro.
Alessandro disarciona un cavaliere persiano (dettaglio). Rilievo, IV sec. a.C. dal cosiddetto “Sarcofago di Alessandro”. Istanbul, Museo Archeologico.
Quot capita, tot sententiae, avrebbero detto gli antichi… noi parafrasiamo «quanti gli esperti, tanti i pareri». E di pareri ne sono stati formulati davvero tanti, raggruppabili in due macro-aree, quella a cura degli storici e quella prodotta dai medici appassionati di storia. La prima schiera si è sostanzialmente attestata su due teorie: l’avvelenamento (teoria facilmente confutabile e più volte confutata, ma antica e ciclicamente riproposta) e la malaria, malattia infettiva oggi di fatto scomparsa alle nostre latitudini, ma un tempo flagello del mondo mediterraneo. La seconda schiera, anche grazie al superiore grado di approfondimento delle scienze biomediche, è stata quella più prolifica nel produrre nuove interpretazioni sulla morte di Alessandro, tra cui l’intossicazione acuta da alcool, l’epatopatia alcolica, una depressione seguita da immunodepressione, dissecazione post-traumatica della carotide interna, sindrome di Boerhaave, encefalite causata dal virus del Nilo occidentale, leucemia, ecc. In Italia, la teoria che ha avuto più successo, anche in conseguenze dall’ampio spazio datole dal celebre romanziere Valerio Massimo Manfredi nel suo saggio La tomba di Alessandro, è quella che vuole il re vittima di una pancreatite acuta necrotizzante, una infiammazione devastante del pancreas, teoria proposta per la prima volta da Sbarounis negli anni Novanta. Non si può negare che alcune fonti antiche, quali Giustino e Diodoro Siculo, menzionino un dolore improvviso, quasi venisse trafitto da un giavellotto, avvertito da Alessandro (evento che precede l’inizio del suo declino fisico). La diagnosi di pancreatite acuta necessiterebbe, però, anche di altri sintomi, tra cui il vomito e la dolorabilità addominale, mai citati nelle fonti antiche.
Karl Theodor von Piloty, La morte di Alessandro il Grande. Olio su tela, 1886. München, Bayerische Staatsgemäldesammlungen.
L’ultima ipotesi è quella della dottoressa neozelandese Katherine Hall, che propone una malattia neurologica autoimmune, la sindrome di Guillain-Barré, quale spiegazione del decesso di Alessandro, che addirittura sarebbe stato considerato morto, pur essendo ancora vivo. Da qui è derivata e si è diffusa in maniera virale la versione vulgata, ancora più fantasiosa, secondo cui «Alessandro fu sepolto vivo». Giova ricordare che il cadavere del Macedone non fu mai sepolto, bensì venne imbalsamato. Tolomeo, un tempo generale di Alessandro e ormai padrone dell’Egitto, non perse tempo e si impossessò del feretro che trasportava le spoglie del suo antico signore: la mummia di Alessandro venne traportata nella terra dei Faraoni. Per secoli la mummia si trovò ad Alessandria d’Egitto, città fondata da Alessandro stesso, e fu oggetto di visite celebri, forse anche di quella di Giulio Cesare, certamente da parte di Augusto che, piegandosi su di essa, finì per fratturarne accidentalmente il naso, per concludere con l’intervento dell’imperatore romano Caligola, che fece rimuovere la corazza del condottiero per possederla egli stesso.
Sul finire dell’antichità classica, in seguito alle numerose devastazioni della città di Alessandria, si è perso traccia sia della tomba che della mummia di Alessandro. Questo solo elemento – l’assenza del corpo – limita fortemente la nostra capacità di effettuare una diagnosi retrospettiva accurata, determinando una volta per tutte la causa mortis. Rimangono le già citate fonti, successive peraltro all’epoca in cui si svolsero i fatti, che richiedono grande cautela interpretativa. Formulare nuove ipotesi sulle cause di morte dei grandi del passato è senz’altro legittimo e lo studio della Hall presenta elementi di grande interesse, quali l’effettiva capacità degli antichi di certificare il decesso di un individuo sulla base dei parametri fisiologici (circolazione, respirazione).
Questo genere di studi, tuttavia, per poter rivendicare credibilità in seno alla ricerca, dovrebbe seguire le linee guida proposte dalla Paleopathology Association o, comunque, sforzarsi di raccordare le interessanti speculazioni mediche con la storia della malattia analizzata e con il contesto storico e culturale in cui questa diagnosi è formulata. Lo studio della Hall, per esempio, omette di analizzare filologicamente nelle lingue originali (greco e latino) i passi chiave portati a supporto della propria tesi, non fornisce argomentazioni sufficienti a confutare teorie proposte in precedenza, non considera il fatto che non c’è prova dell’esistenza della sindrome di Guillain-Barré nel IV secolo a.C. (venne descritta scientificamente solo nel 1916), come pure manca l’evidenza (e le fonti letterarie comunque non basterebbero a fornirci questo dato) che Alessandro avesse sviluppato un’infezione da Campylobacter pylori o altri patogeni, a cui sarebbe seguita una risposta del sistema immunitario capace di aggredire paradossalmente il corpo del Macedone. Infine, il dato più contestabile: la probabilità della diagnosi asserita sulla base della attuale epidemiologia della sindrome nell’Iraq contemporaneo!
Attenendoci ai dati ricevuti dalle fonti antiche, analizzati attraverso le lenti della filologia e della medicina moderna, le due diagnosi più probabili e realistiche nel caso di Alessandro restano la malaria terzana maligna e il tifo addominale, tesi quest’ultima sostenuta da Ernesto Damiani nel suo saggio meticoloso La piccola morte di Alessandro Magno (Padova, 2012).
Il caso è aperto, forse lo sarà per l’eternità, ma il fatto che non possa essere messa la parola fine al mistero non significa che qualsiasi diagnosi possa essere formulata in barba al rigore logico e ai dati a nostra disposizione. Il dibattito andrà avanti ancora per molti anni. A vincere sarà forse il diagnosta più preciso oppure quello più spettacolare? Alessandro stesso, in punto di morte, a chi gli domandava a chi avrebbe lasciato il suo regno pare abbia risposto: «Al più forte». Così forse sarà anche nell’agone intorno alle cause del suo decesso.
di F. Cerato, Afrodite. Manifestazione di una potenza inaudita, diss., Roè Volciano (BS), 30 settembre 2015 – La Forza dell’amore FESTIVAL promosso dal Sistema Bibliotecario Nord-Est Bresciano, su ClassiCult.it. (15 febbraio 2019).
Nella Greciaantica l’amore era essenzialmente ἔρος, un’entità universale tale da pervadere tutta la realtà e manifestarsi con violenza devastante e irresistibile. Percepito come una forza implacabile, capace di dominare gli uomini, l’amore era una potenza in grado di sottomettere persino le divinità e le altre figure cosmiche, che popolavano l’immaginario dell’età arcaica.
Il poeta Esiodo pone ἔρος tra le forze divine protagoniste dell’origine dell’universo, facendolo comparire subito dopo il Caos, insieme a Gea (la Terra), e attribuendogli le qualità di un dio (cioè personificandolo), ὃς κάλλιστος ἐν ἀθανάτοισι θεοῖσι («il più bello fra gli dèi immortali»), «che rompe le membra, di tutti gli dèi e di tutti gli uomini doma nel petto il cuore e il saggio consiglio»[1]. Questa forza, a differenza delle altre due entità primordiali, è sì principio generatore, ma è ingenerato e non genera. L’intervento di ἔρος nel mondo coincide con i suoi stessi inizi, e senza di esso non ci sarebbe stata né unione, né generazione[2].
Nell’epica ἔρος designa il «desiderio ardente», sia esso un di gloria, di potere, o, nella maggioranza dei casi, sessuale. Si badi bene che nella mentalità dell’uomo arcaico non esistevano astrazioni e, pertanto, anche ἔρος era concepito come un’entità concreta, reale, esperibile attraverso i sensi, percepibile nei suoi effetti. I poemi epici, appunto, specchio di questa mentalità, consentono di delineare una vera e propria fisiologia dell’amore. Ἔρος (o ἵμερος) è descritto come una forza esterna che afferra colui che prova desiderio, agendo sull’organo deputato a sede dei sentimenti: attraverso il petto (στῆθος), o il diaframma (φρήν), inonda il θυμός («cuore») per soggiogarlo, provocando nella persona colpita uno stato che trova espressione nel verbo ἔραμαι («desiderare; amare»). Tale stato di desiderio è collegato a un’altra persona, cioè quella che l’ha suscitato: usando la terminologia corrente, si potrebbe dire che la persona amata è al tempo stesso origine e meta del desiderio in colui che ama e lo fa tendere verso di essa. In questo gioco di sollecitazioni dell’amante ad opera della persona amata, lo sguardo assume un ruolo centrale: è il veicolo della potenza dell’ἔρος, emanazione materiale dell’oggetto amato[3].
La Roccia di Afrodite presso di Pafo a Cipro: qui secondo la tradizione emerse l’Afrodite “Cipride”, foto di Anna Anichkova, CC BY-SA 3.0
Esiodo, ancora, dopo averlo indicato fra le entità cosmogoniche, pone ἔρος accanto a ἵμερος nel corteggio della dea dell’amore, Afrodite, nata dalla spuma del mare (ἀφρός), generata, a sua volta, dal membro e dai testicoli recisi di Urano, il Cielo. Costei, mentre nell’epica omerica è detta “figlia di Zeus e di Dione”, in realtà, è la più antica di tutti gli dèi olimpici. Ella personifica l’unione sessuale, il godimento e i piaceri che l’accompagnano, in cui ἔρος stesso riveste un ruolo indispensabile e complementare: è lui che insieme ad altre entità divine, quali πειθώ («persuasione»), gioca d’astuzia con gli amanti per ispirare loro il desiderio e spingerli nella rete di Afrodite. La dea, infatti, regna su qualsiasi forma di rapporto sessuale, sia che intercorra tra gli uomini, tra gli dèi o tra gli animali, sia che venga consumato nell’ambito del matrimonio o in quello omoerotico; un’Afrodite il cui potere sul piacere propriamente amoroso è sovrano. Ma chi è davvero questa dea?
Una risposta può essere offerta dal un frammento d’incerta sede attribuito al tragediografo Sofocle, che recita così:
Ragazze, Cipride non è soltanto Cipride,
ma è eponima di tutti i nomi.
È Ade, è forza imperitura,
è folle frenesia, è desiderio
5 intemperato, è gemito. In lei ogni
zelo, gentilezza, impulso alla violenza.
Penetra infatti, aderendo ai polmoni, in coloro in cui c’è
respiro vitale: chi non è vorace di questa dea?
Entra nella stirpe natante dei pesci,
10 sta nella generazione quadrupede della terra,
muove negli uccelli †…† l’ala.
…
nelle bestie, nei mortali, negli dèi lassù.
Chi tra gli dèi combattendo ella non atterra per tre volte?
15 Se mi è lecito – ed è lecito dire la verità – ,
All’inizio di questo breve componimento vien detto che Κύπρις οὐ Κύπρις μόνον, ἀλλ’ ἐστὶ πολλῶν ὀνομάτων ἐπώνυμος («Cipride non è soltanto Cipride, ma è eponima di tutti i nomi»): in altre parole, ogni cosa si concentra in lei, i contrasti si conciliano ed ella appare come principio generativo del cosmo. La dea «penetra» (ἐντήκεται) nel corpo di ogni essere vivente, «aderendo ai polmoni» (anche i πνεύμονα, infatti, erano considerati gli organi sui quali ἔρος agiva); il poeta utilizza non a caso il verbo ἐντήκειν, per istituire una metafora fra il potere divino e la colatura della cera, che viene versata nello stampino dal bronzista per realizzare le statue.
L’amore nell’epica
Menelao. Dettaglio dal Gruppo di Pasquino, Piazza della Signoria a Firenze. Marmo che rappresenterebbe Menelao che sorregge il corpo di Patroclo, copia romana di età flavia da un originale ellenistico del III sec. a.C., con restauri moderni, foto di sonofgroucho, CC BY 2.0
Per la poesia epica l’«aurea Afrodite» è da sempre l’amabile dea dell’amore. Una delle prime scene in cui la si vede in azione è contenuta nel III libro dell’Iliade, allorché interviene nel duello mortale fra Menelao e Paride, sottraendo quest’ultimo dalle mani dell’avversario, e, dopo averlo avvolto in una «fitta nebbia», lo trasporta «nel suo talamo profumato e odoroso». La dea si reca da Elena, che intanto stava su una delle torri di cinta ad osservare il combattimento insieme con le altre donne troiane; Afrodite l’avvicina sotto mentite spoglie, assumendo l’aspetto di una delle anziane ancelle che l’avevano seguita da Sparta fin lì. Ella la invita a rientrare in casa, dove Paride l’aspetta nel talamo, ma la ragazza, turbata e un po’ disorientata, riconosce la dea, «il collo bellissimo, il seno spirante desiderio (ἱμερόεντα), gli occhi lucenti». Sospettando un inganno da parte della dea, Elena dopo averle opposto resistenza, alla fine cede al suo volere: anche Afrodite, infatti, sa essere una dea tremenda!
Così si reca, in compagnia della divinità, alle stanze di Paride, ove Afrodite le pone uno scranno davanti al letto del giovane e la invita a sedere. Elena, arrabbiata e piena di vergogna per l’amante, gli rivolge le seguenti parole:
«Sei tornato dalla battaglia: vorrei che tu fossi morto là,
sconfitto da quel valoroso che fu il mio primo marito!
430 E sì che ti vantavi in passato, nei confronti di Menelao caro ad Ares,
di essere superiore a lui in forza, mani e lancia;
e allora va’, ora, sfida Menelao caro ad Ares
a battervi di nuovo faccia a faccia! Ma io ti esorto
di lasciar perdere invece, di non fare col biondo Menelao
435 un duello frontale, di non combattere con lui stolidamente,
ché tu non sia presto abbattuto da lui con la lancia!»[5].
Come replicare dunque ad un rimprovero simile, nel quale Elena rimarca la cocente sconfitta al suo amante? Paride propone alla compagna di dimenticare le sofferenze della guerra in un letto che vuol dividere con lei nel piacere (τέρπειν):
«Ma suvvia, piuttosto mettiamoci a letto e godiamo l’amore:
mai prima d’ora con tanta violenza il desiderio m’ha ottenebrata la mente»[6].
La condivisione è sottolineata qui sia dalla forma del duale dell’invito a giacere insieme (εὐνηθέντε), sia dall’uso del termine φιλότης, che designa la relazione amorosa che vi si intreccia; si tratta di soddisfare un desiderio (ἔρος) che, come può fare il sonno, ha letteralmente avviluppato il diaframma dell’eroe, facendogli evocare la prima unione (μίγνυμι) del giovane pastore con la donna sottratta a Menelao, su un letto (εὐνή) sul quale si è stabilita la loro relazione di φιλότης. Soggetto del desiderio ispirato da Elena, Paride è l’unico oggetto della dolce passione che lo coglie; ma quando, seguito dalla ragazza, si dirige verso il letto, «loro due (τώ) se ne stettero a giacere nel letto intarsiato». L’appagamento del desiderio amoroso suscitato, con ogni probabilità, dalla dea, sfocia in una relazione reciproca, mediante una φιλότης, il piacere erotico goduto da due persone, che si compie nella doppia metafora sessuale del contatto intimo su un morbido letto: è qui che si concretizzando tutte le «opere dell’aura Afrodite» o i «doni di Afrodite». Come si può notare l’atto sessuale è descritto soltanto in maniera mediata, ricorrendo all’uso di espressioni metaforiche o a semplici allusioni.
Efesto, il dio cornuto
Andrea Mantegna, Efesto in un dettaglio dal cosiddetto Parnaso, tempera su tela (1497), oggi conservata al Louvre di Parigi. Da The Yorck Project (2002) 10.000 Meisterwerke der Malerei (DVD-ROM), distributed by DIRECTMEDIA Publishing GmbH. ISBN: 3936122202, Pubblico dominio
Nell’VIII libro dell’Odissea, alla corte di Alcinoo, re dei Feaci, Odisseo viene accolto nella maniera più ospitale: il re offre un lauto banchetto in suo onore e ad allietarlo c’è l’aedoDemodoco, che canta l’adulterio tra Ares e Afrodite ai danni dello sposo legittimo Efesto. La relazione fra i due amanti è anche qui definita φιλότης, il che indica reciprocità nel rapporto. Le due divinità decisero di unirsi (μίγνυμι), violando il letto di Efesto, il quale, venuto a conoscenza della tresca, volle vendicarsi di loro fabbricando delle catene infrangibili da adattare come ragnatele al talamo:
L’aedo cominciava a cantare con arte alla cetra
l’amore (φιλότητος) di Ares e di Afrodite dalla bella corona,
come per la prima volta si unirono (μίγησαν) nella casa di Efesto
di nascosto: molti doni le diede e il letto violò
270 di Efesto signore: ma da lui si recò, come nunzio,
il Sole che li vide unirsi in amore (μιγαζομένους φιλότητι).
Efesto, appena apprese il doloroso racconto,
s’avviò alla fucina, covando mali pensieri nell’animo,
pose sul ceppo una grossa incudine e forgiava catene
275 infrangibili, salde, perché intrappolati vi restassero.
Quando ebbe costruita la trappola, adirato con Ares,
si avviò verso il talamo, dov’era il suo caro letto:
attorno ai sostegni avvolgeva le catene,
molte poi ne sospese anche sopra, alle travi del soffitto,
280 sottili, come ragnatele: non le avrebbe scorte nessuno,
neppure uno degli dèi beati: dacché, infatti, erano forgiate con inganno.
Poi che intorno al letto tutto l’inganno ebbe avviluppato,
simulò di partire per Lemno, la città ben costruita,
che fra tutte le terre gli era la più cara.
285 Ares dalle redini d’oro non fu cieco di vedetta,
quando vide partire l’illustre artefice Efesto:
s’avviò alla dimora di Efesto, famoso artigiano,
bramando l’amore (ἰσχανόων φιλότητος) di Citerea dalla bella corona.
Seduta era la dea, tornata da poco dalla casa
290 del padre, il Cronide possente: egli entrò nella sala,
le strinse la mano, le rivolse la parola e disse:
«Vieni, cara: stendiamoci a letto e facciamo l’amore (λέκτρονδε τραπείομεν εὐνηθέντες).
Infatti, Efesto non c’è; è già partito per Lemno,
fra i Sinti dall’accento selvatico».
295 Così disse; e a lei parve cosa allettante giacere.
E, andati a letto, si addormentarono: ma intorno si sparsero,
all’improvviso, le catene forgiate da Efesto, abile fabbro,
e non potevano alzare né muovere le membra.
E allora capirono, quando ormai non c’era più scampo.
300 Andò verso casa l’illustre Ambidestro,
tornando prima di giungere nella terra di Lemno:
Elio, infatti, li aveva spiati e gli raccontò la vicenda.
Andò verso casa, col cuore in tumulto;
si fermò sotto il portico; lo pervase un’ira violenta:
305 proruppe in altissime grida, sicché tutti gli dèi lo sentissero:
«Padre Zeus e voi altri beati dèi sempiterni,
venite a vedere l’azione ridicola e intollerabile,
come me che son zoppo Afrodite, figlia di Zeus,
sempre mi oltraggia, e ama invece il funesto Ares,
310 intrepido e bello e veloce, mentre io
sono storpio: ma colpa di ciò non hanno altri,
che coloro che mi generarono: non dovevano mettermi al mondo!
Ma guardate dove si sono uniti in amore quei due,
saliti sul mio letto: io mi tormento a vederli.
315 Starsene distesi così ancora per molto io non credo
che vorranno, anche se tanto si amano: presto non vorranno più
starsene a letto. Però la trappola e il vincolo li tratterrà,
fino a quando suo padre mi ridarà tutti i doni nuziali,
che gli feci per questa sposa faccia di cagna:
320 perché è certo bella sua figlia, ma è incontinente!».
Gridò così, e gli dèi s’assieparono nella casa dalla soglia di bronzo:
arrivò Posidone che cinge la terra, arrivò il corridore
Ermes, arrivò Apollo, il signore che colpisce da lontano.
Soltanto le dee trattenne ciascuna in casa il pudore.
325 Se ne stavano nel portico gli dèi datori di beni:
Ares desidera ardentemente, brama la φιλότης di Cipride, e la dea di rimando ama (φιλέει) il dio ed entrambi salgono sul letto di Efesto per unirsi in φιλότητι e consacrare l’amore reciproco[8].
Come argutamente ha osservato l’Hainsworth, questa vicenda è un «poema nel poema», un racconto d’intrattenimento che, essendo probabilmente un tema tradizionale dell’epica rapsodica, poteva essere cantato anche in maniera del tutto autonoma rispetto all’Odissea[9].
L’elemento comico affiora già nelle parole di Efesto, quando chiama in adunanza gli dèi perché vengano ad osservare l’ἔργα γελαστὰ καὶ οὐκ ἐπιεικτὰ («l’azione ridicola e intollerabile»). Il dio riconosce che la sua deformità (v. 308, ἐμὲ χωλὸν ἐόντα) è la causa principale del tradimento della sposa e che il confronto con il rivale Ares lo designa come perdente: quest’ultimo, infatti, è καλός τε καὶ ἀρτίπος («bello e veloce»). Tuttavia, Efesto appare tutt’altro che sconfitto, in quanto è riuscito a vendicarsi: le catene che lui stesso ha forgiato appositamente, si rivelano un’opera che nessuno può allentare. A suscitare il riso degli dèi non è più la deformità del dio, ma sono le sue τέχναι, che hanno creato una situazione inverosimile: Ares, l’amante avvenente e rapido, è stato catturato da un dio lento e zoppo, ma astuto. La risata divina quindi è ambivalente: di derisione degli amanti (ingannatori ed ingannati) e di stupore di fronte all’abile artificio di Efesto.
L’immagine di Efesto che ne deriva è in parte diversa da quella dell’Iliade, soprattutto per quanto concerne le notizie biografiche del dio: nell’Odissea, infatti, non si fa riferimento alla sua nascita e alle sue gesta, mentre invece si raccontano il suo allontanamento dall’Olimpo e la pacificazione finale con gli altri dèi. Qui è presentato come legittimo sposo di Afrodite, mentre nel poema iliadico è sposato con Charis[10].
Non è da escludere che il canto di Demodoco si rifaccia a leggende tradizionali: è assai probabile che l’autore dell’Odissea abbia rielaborato e, per così dire, “incastonato” in questo punto un racconto mitico sugli amori illeciti fra Afrodite e Ares. Secondo altri, il contenuto lascivo del componimento, che tanto scandalizzò Senofane (fr. 2 D.-K.) e Platone (Rep. 390 c), sia in qualche modo “ritagliato” sullo stile di vita dei Feaci, descritti nel poema come dediti ai piaceri più raffinati e lascivi in ambito erotico, e pertanto propensi a dilettarsi con carmi dal contenuto audace.
L’Inno ad Afrodite
L’Afrodite di “Cnido”, copia romana in marmo di un Prassitele (IV secolo a.C.), oggi al Museo nazionale di Roma, foto di Marie-Lan Nguyen, Pubblico dominio
All’interno della raccolta di trentatré componimenti trasmessa sotto il titolo di Inni omerici, il cosiddetto Inno ad Afrodite appare, a livello tematico, il più «omerico»[11]: su uno sfondo fiabesco e trasognato con la foresta montana, gli animali selvaggi e la casa rupestre del pastore, l’Inno narra la voluttuosa seduzione di Anchise da parte della dea e il concepimento di Enea, uno dei protagonisti dell’Iliade. L’intero carme appare costruito in maniera raffinata e lineare (solo in apparenza), con una serie di rimandi lessicali e strutture tipiche della poesia epica, come la Ringkomposition (costruzione anulare) e la ripetizione, che scandiscono i momenti successivi del canto, attraverso addensamenti concettuali raggruppati attorno a parole-chiave: le «competenze» di Afrodite, il «desiderio» della dea per Anchise, l’opposizione fra «immortalità» e «mortalità».
Il componimento si apre, dunque, con una lunga ἐπίκλησις («invocazione»), secondo lo schema tipologico dell’inno: al verso iniziale, con una ripresa consapevole dell’incipit dell’Odissea, si fa riferimento alle ἔργα πολυχρύσου Ἀφροδίτης («opere dell’aurea Afrodite»)[12]; il nesso si configura come un eufemismo per dire «amplesso»[13]. Seguendo forse il modello esiodeo della Teogonia, nel cui proemio si celebrano le «competenze» delle Muse, il poeta dell’Inno fa altrettanto per le τιμαί di Afrodite, anche se, in maniera del tutto originale, egli sceglie di esaltarla, menzionando le tre dee vergini che al suo potere sono insensibili:
Tre sono i cuori che essa non sa piegare né ingannare:
una è la figlia di Zeus egioco, Atena dagli occhi splendenti.
A lei infatti non piacciono le opere dell’aurea Afrodite:
10 le sono care le guerre e le opere di Ares,
mischia e battaglie, e ama promuovere splendide imprese[14].
[…]
E neppure Artemide dalle frecce d’oro, la dea cacciatrice,
si lascia domare da Afrodite, amica del sorriso[15].
[…]
Le opere di Afrodite non piacciono neppure a Estia,
la casta fanciulla, che l’accorto Crono generò per prima
e poi per ultima – per volere dell’egioco Zeus –
l’augusta dea ambita da Poseidone e da Apollo.
25 Essa però non volle, anzi oppose un netto rifiuto,
e toccando la testa di Zeus, il padre egioco,
fece un solenne giuramento, che si compì pienamente:
di restare per sempre vergine, venerabile fra le dee[16].
La dea viene ulteriormente celebrata per la sua forza invincibile, cui nemmeno Zeus può resistere. Il dio però decide di vendicarsi, ripagandola con la stessa moneta:
Sconvolge anche la mente di Zeus, signore del fulmine,
che è il più grande ed ha avuto il potere più grande:
facilmente inganna il suo animo scaltro, ogni volta
che vuole, e lo fa unire a donne mortali;
40 gli fa dimenticare Era, sua moglie e sorella,
che per bellezza spicca fra le dee immortali
ed è la più gloriosa figlia dell’accorto Crono
e di Rea: ed è lei che Zeus dalla mente infallibile
scelse come nobile sposa, vedendone i pregi.
45 Ma anche ad Afrodite Zeus insinuò nel cuore il dolce
desiderio di unirsi ad un uomo, perché al più presto
facesse anche lei esperienza di un letto mortale
e perché la dea amica del sorriso non potesse più vantarsi
Zeus, vittima abituale della dea, le ritorce contro l’ἵμερος che da lei stessa promana. In questo rovesciamento di parti si cela un aspetto del primordiale conflitto fra elemento maschile ed elemento femminile, fra patriarcato e matriarcato, piuttosto ricorrente in tutta la tradizione mitica. Ma vi è pure contenuto, in forma embrionale, il principio della «giustizia di Eros», che è tema ampiamente diffuso nella lirica arcaica e in generale nella poesia erotica greca: in base a esso, chi si mostra troppo altero in amore va incontro a punizione certa, divenendo a sua volta vittima di una passione terribile ed irrefrenabile. Il Bergren ha interpretato l’intero Inno come un’opposizione fra il κόσμος («ordine») di Zeus, caratterizzato da una verticalità gerarchica, e quello di Afrodite, regolato dal principio dell’unione e del mescolamento, e quindi intimamente antigerarchico: l’ordine finale cui si perviene vede il maschio divino (Zeus) «domatore» della femmina divina (Afrodite), a sua volta «domatrice» del maschio umano (Anchise)[18].
Si tratta di un inno del tutto peculiare: infatti non vi è alcun legame con il culto di Afrodite e, anzi, non ricorre nemmeno un accenno a un particolare rito. La stessa esaltazione della dea non soddisfa le aspettative tipiche della prassi innografica: la sua potenza è descritta certamente con deferenza quasi timorosa, ma gran parte del poema verte su una vicenda che, alla fine, si rivela imbarazzante, finanche dolorosa per dea: si assiste, insomma, alla punizione della dea, sconfitta e umiliata attraverso la medesima prerogativa che le è propria. Il suo stesso potere, che esercita con facilità su ogni essere vivente, le si ripercuote contro con violenza, lasciandole un retaggio di dolore[19].
Proprio per questo carattere particolare, l’inno si configura come un carme encomiastico, composto ed eseguito nell’isola di Lesbo (verosimilmente nella seconda metà del VII secolo a.C.), in occasione di una celebrazione in onore di Afrodite, offerta da una nobile famiglia locale che vantava di discendere dal sangue degli Eneadi. Tuttavia, ciò non sembra trovare conferma nelle testimonianze storiche e letterarie, da cui non emergono prove dell’esistenza di tale dinastia e, pertanto, si è indagata una nuova chiave di lettura all’interno dell’Inno stesso. Charles Segal e Peter Smith, ad esempio, sostengono, pur con argomenti diversi, che al centro del componimento vi è il contrasto tra mortale e immortale, ossia l’insuperabile dicotomia tra la divinità e l’uomo[20]. Per Hugh Parry, l’amplesso fra Afrodite e Anchise rappresenta il compenetrarsi dell’elemento mortale e quello immortale, che dura un tempo limitato e poi restituisce l’uomo al suo doloroso destino, in cui l’unica possibilità di non cedere alla morte è perpetuare la specie[21]. Altri studiosi, invece, continuano a credere che lo scopo del carme sia un omaggio cortigiano nei confronti degli Eneadi[22].
Il carattere di «omericità» dell’Inno ad Afrodite non risiede, peraltro, solo nell’identità dei personaggi che vi intervengono, ma è «omerico» anche per il tono e le forme della narrazione, con tutta una serie di reminiscenze epiche. È infatti un chiaro esempio di ὀαρισμός, ossia di colloquio d’amore (tant’è che lo si potrebbe definire, anacronisticamente, un «contrasto»[23]), come ce ne sono tanti altri nell’epica maggiore. Il precedente più vicino a cui si fa riferimento è l’episodio iliadico della Διός ἀπάτη, ossia l’incontro amoroso fra Zeus ed Era, predisposto dalla dea nell’intento di distrarre lo sposo dalla contemplazione della battaglia troiana:
Era invece raggiunse in un baleno la cima del Gargaro
sulla cima dell’Ida: e Zeus, adunatori di nembi, la vide.
Appena la vide, subito il desiderio gli avviluppò la mente,
295 come quando la prima volta si unirono in amore,
infilandosi nel letto, di nascosto ai loro genitori.
Le si fece incontro, articolò la voce e disse:
«Era, diretta in qual luogo arrivi qua dall’Olimpo?
Eppur non ci sono cavalli né carro, su cui tu possa viaggiare».
300 Ricorrendo all’inganno, gli rispose Era sovrana:
«Sto andando ai confini della fertile terra, a far visita
a Oceano, padre degli dèi, e alla madre Tethys,
che con affetto in casa loro mi nutrirono e allevarono;
vado ora a trovarli, per metter fine tra loro ad un lungo litigio:
305 già da un bel pezzo stanno lontani l’uno dall’altra astenendosi
dal letto e dall’amore, dacché nell’animo è entrato il rancore.
Aspettano alle falde dell’Ida ricca d’acque sorgive
i cavalli che mi porteranno per terra e per mare.
Ma ora proprio per te dall’Olimpo sono venuta fin qui,
310 perché tu poi non t’arrabbi con me, se senza dir niente
me ne vado a casa di Oceano dai gorghi profondi».
A lei di rimando diceva Zeus adunatori di nembi:
«Era, anche più tardi tu puoi recarti laggiù,
ma ora su, noi due mettiamoci a letto e godiamo l’amore.
315 Mai tanto il desiderio né di una dea né di una donna mortale
mi ha prostrato l’animo diffondendosi nel petto…[24]
La scena dell’amplesso è ambientata sul monte Ida – lo stesso sul quale dimora il pastore Anchise – luogo solitario e alpestre, dove la natura non fa solo da passivo fondamentale, ma è partecipe della vicenda; infatti, canta l’aedo: «… e prese tra le braccia la sposa il figlio di Crono, sotto di loro la terra divina produsse erba novella, loto rugiadoso e croco e giacinto soffice e folto, che riparava da terra a mo’ di tappeto. Vi si stesero sopra, si coprirono con una nuvola bella dorata: ne stillavano gocce splendenti di rugiada»[25].
Similmente nell’Inno, l’unione di Afrodite e Anchise è anticipata e quasi mimata dagli animali selvaggi che la dea incontra durante l’ascesa sul monte e ai quali infonde il desiderio di accoppiarsi:
Arrivò sull’Ida ricca di acque, madre di fiere,
e attraversò il monte in direzione della stalla; docili
70 l’accompagnavano lupi grigi e leoni feroci,
orsi e veloci pantere, avide di caprioli.
Vedendoli, la dea si rallegrava in cuor suo e insinuava
loro nel petto il desiderio (ἵμερον): e tutti,
a coppie, si acquattavano negli anfratti ombrosi[26].
Evidentemente Afrodite non è soltanto la dea che ispira negli uomini il desiderio amoroso, e che presiede alla loro unione; nella sua figura complessa rientrano anche aspetti della Grande Dea mediterranea della vita, che assicura fertilità alla terra e fecondità agli animali. Qui c’è nello sfondo la dea frigia Cibele, la Madre della Montagna, una delle forme assunte dalla Grande Dea anatolica. Non è perciò affatto strano che la dea compaia qui con un corteggio di fiere selvatiche, miracolosamente mansuete, nelle quali essa suscita l’ἵμερος: ella è la «Signora degli animali selvatici» (πότνια θηρῶν); si tratta tuttavia né di una divinità né di una figura mitologica specifica, bensì uno schema iconografico largamente diffuso in tutto il Mediterraneo a partire, almeno, dall’Età del Bronzo, nato nel Vicino Oriente ed entrato nel mondo greco attraverso Cipro: dietro Afrodite, insomma, si palesa la dea dell’amore semitica Ištar-Astarte. L’iconografia della πότνια θηρῶν prevedeva la rappresentazione di una figura femminile alata, affiancata da bestie selvatiche, spesso afferrate per il collo, nel gesto che esprime il controllo che la divinità esercitava sulla natura selvaggia. Anche in questo caso, il poeta dell’Inno ad Afrodite non si sottrae alla suggestione omerica: una simile icona richiama, infatti, il dominio che la maga Circe esercita sulle fiere che popolano il suo giardino, ammansite da droghe e filtri che ella somministra a chiunque metta piede nel suo regno[27]: questo tipo d’incanto perturbante prodotto da Circe sembra emanare da un altro modello orientale, quello della «Dea nuda», rappresentato da una serie di figurine femminili che esibiscono il proprio corpo svestito, talvolta accompagnate da animali, attestate a partire dal ii millennio a.C.[28]. Va da sé che quando la figura della πότνια gradualmente scomparve, le sue prerogative di «Signora degli animali» si sarebbero distribuite fra le varie divinità femminili: tra queste, Afrodite, la dea dal potentissimo charme, assunse un potere di soggiogamento senza pari, al quale tutte le creature divengono «docili» (σαίνοντες)[29].
Da un confronto fra l’episodio iliadico dell’amore fra Zeus ed Era e l’Inno si può constatare come, a dire il vero, non manchino elementi spaianti: da una parte i due protagonisti sono entrambi divini, mentre dall’altra Anchise è un fortunato mortale che ha ottenuto il privilegio di dividere il proprio letto con una dea (e non con una qualunque, si badi bene!); inoltre, il seduttore è nel poema la figura maschile, mentre nell’Inno il pastore troiano appare come il paredro di una femmina divina vogliosa di amplesso. In realtà, tuttavia, anche qui la differenza non è così netta, e anzi trapassa nella corrispondenza, in quanto che Zeus è vittima del piano di Era, la quale agisce «ricorrendo all’inganno» (δολοφρονέουσα) e alla quale spetta l’intera costruzione dell’incontro. Nel narrare gli istanti precedenti all’incontro tra la dea e il partner, il poeta con estrema ricchezza di particolari e grande minuzia descrive la prima toeletta femminile della letteratura occidentale:
170 Per prima cosa lavò con linfa divina
il suo corpo attraente, e lo unse tutto d’un olio
profumato eterno, da lei distillato:
al solo agitarlo si spandeva l’odore per la casa di Zeus
dalla soglia di bronzo, lontano, fino alla terra e al cielo.
175 Cosparso di questo il bel corpo e pettinati
i capelli, di sua mano compose le splendide trecce,
belle, divine, giù dalla testa immortale.
Addosso si mise una veste meravigliosa, che Atena per lei
aveva tessuto con arte, inserendovi molti ricami;
180 e se la fermava sul petto con fibbie d’oro.
Passò intorno ai fianchi una cinta adorna di cento pendagli,
ai lobi delle orecchie ben forati applicò gli orecchini, a tre pietre
ciascuno, grossi come more: ne riluceva una grazia incantevole.
Poi la dea fra le dee si pose in testa un velo,
185 bello, tutto nuovo era splendente come il sole;
calzò infine ai floridi piedi i sandali belli[30].
Insomma, la dea si prepara e si veste con estrema cura, facendo ricorso ad ogni elemento per sedurre l’amato sposo, e per essere certa di non fallire i suoi propositi convoca a sé Afrodite, alla quale chiede di conferirle amore (φιλότης) e brama (ἵμερος), con cui è solita vincere tutti, immortali e uomini mortali. La dea che ama il sorriso le consegna «un reggiseno ricamato multicolore, nel quale aveva raccolto tutti gli incanti», ossia «l’amore, e il desiderio, e il colloquio segreto, la persuasione, che ruba il cervello a chi pure ha saldo pensiero»[31].
Anche nell’Inno l’aedo riprende il tópos della toeletta: la bellissima dea, caduta in preda della medesima brama passionale (ἵμερος è il termine guida di tutto il canto) che lei è solita ispirare a tutte le creature, si ritira nel suo tempio di Pafo, dove si prepara in un’atmosfera voluttuosa e conturbante: assistita dalle Cariti, fa il bagno, si cosparge di unguento profumato, si veste e si adorna con la cura tipica di una pratica rituale:
qui le Cariti la lavarono e la unsero con un olio
straordinario, usato per la pelle degli dèi eterni,
un olio divino e soave che la profumò tutta.
Afrodite amica del sorriso indossò allora tutte
65 le sue belle vesti eleganti e s’adornò d’oro…[32]
Entrambi i contesti, dunque, ritraggono agguati amorosi tesi da dee e gestiti con astuzia e cuore femminili.
Si osservi che nell’iconografia greca arcaica, Afrodite, benché fosse la dea della passione amorosa e del sesso non venisse mai raffigurata senza veli (lo sarà più avanti nel tempo, in età ellenistica): la dea non usa la nudità come arma di seduzione, bensì si vale di vesti, cinture e gioielli d’oro, dei quali il suo corpo è riccamente adorno: oggi si direbbe che la seduzione passasse attraverso gli accessori! Le collane e i bracciali che Afrodite indossa sono un’altra forma del suo «cinto» (κεστός) e ne condividono la capacità magica di suscitare desiderio. Il gioco della seduzione tramite gli ornamenti fa luce anche su uno degli aspetti sorprendenti della logica dell’inganno che determina la leggenda esiodea di Pandora: anche lei è abbellita (κόσμησε) da Atena con le stesse vesti che indossa Afrodite, dalle collane donatele dalle Cariti e da Peithò[33]. In tutti i casi di seduzione, è il monile, l’ornamento che circonda il corpo femminile ad essere prefigurazione magica del «laccio» in cui sarà avvinto l’uomo da sedurre. Eccezion fatta ovviamente per le scene di donne al bagno, in cui è il contesto narrativo ad imporre la nudità, gli unici personaggi femminili che in età arcaica venivano talvolta rappresentati svestiti erano le prostitute – la cui attività prevedeva un’esibizione pubblica del corpo e delle sue parti sessuali – e, in qualche caso, le bambine o le giovani ragazze (παρθένοι), la cui corporeità non subiva la tabuizzazione cui era destinata invece la nudità della donna sposata.
Afrodite, dopo essersi inerpicata per il monte, trova il giovane pastore tutto solo nella sua capanna, «bello come un dio» (v. 77, θεῶν ἄπο κάλλος ἔχοντα), intento a suonare la cetra: chiaramente l’aedo riprende la scena iliadica in cui Achille viene raggiunto alla sua tenda dai messi di Agamennone, che dovranno persuaderlo a ritornare a combattere; in quel mentre, il cantore dice che «lo trovarono intento a godere la cetra armoniosa, bella, ben lavorata, … rallegrava con questa il suo cuore e cantava gesta d’eroi»[34]. La dea per avvicinarlo prende le sembianze di una «vergine indomita» (v. 82, παρθένῳ ἀδμήτῃ), e al vederla Anchise se ne innamora subito; il poeta, naturalmente, pone di nuovo l’accento sull’aspetto esteriore, sulle vesti e i gioielli con i quali la dea fa colpo sul pastore:
Anchise la scorse e prese a osservarla, ammirandone
85 l’aspetto e la figura e le vesti splendenti.
Indossava un peplo più fulgido della vampa del fuoco,
portava bracciali ritorti e orecchini lucenti,
e al collo delicato erano appese collane bellissime,
d’oro intarsiato: illuminavano il suo morbido petto
90 quasi d’un bagliore lunare, e l’effetto era meraviglioso.
Anchise fu preso d’amore…
Il giovane temendo si tratti di una divinità – la bellezza di quella ragazza non doveva certo aver per lui uguali! – si rivolge a lei come se stesse formulando una vera e propria preghiera: qui l’aedo sembra costruire un inno dentro l’inno, rifacendosi chiaramente al saluto che Odisseo rivolge a Nausicaa, in cui l’eroe si chiede se la fanciulla sia una mortale o una dea e la paragona, in quel caso, ad Artemide. Ecco, invece, quel che dice Anchise:
Ti saluto, o Signora che vieni in questa casa, chiunque
tu sia fra le dee, o Artemide, o Leto, o l’aura Afrodite,
o la nobile Temi, o Atena dagli occhi splendenti;
95 o forse tu che vieni qui sei una delle Cariti,
che accompagnano tutti gli dèi e sono dette immortali,
o una delle Ninfe che popolano i bei boschi,
oppure una di quelle che abitano questa montagna
e le sorgenti dei fiumi e i pascoli erbosi.
100 Io costruirò per te un altare su una vetta, in un luogo
ben visibile da lontano, e ti consacrerò belle offerte,
in ogni stagione; ma tu siimi propizia
e concedimi d’essere un uomo illustre fra i Troiani,
e in futuro dammi una discendenza fiorente, e consenti
105 ch’io viva a lungo felice e veda la luce del sole, ricco
in mezzo alla gente, e che possa toccare la soglia della vecchiaia[35].
Afrodite nega di essere una dea ed elabora una complicata menzogna: finge di essere una principessa frigia, figlia di re Otreo, destinata a sposare proprio lui, Anchise, rapita da Ermes dalle danze di Artemide e portata lì sull’Ida per concedersi al futuro sposo. La dea si immedesima nella giovane donna «vergine e inesperta dell’amore» al punto da supplicare Anchise di rispettarla, di condurla dalla sua famiglia a Troia e di disporre i preparativi per un banchetto di nozze «gradito agli uomini e agli dèi immortali», prima di unirsi carnalmente a lei. Anchise, se da un lato si convince e si rasserena, dall’altro si infiamma di desiderio perché con il suo discorso «la dea gli ispirò dolce desiderio nel cuore (θεὰ γλυκὺν ἵμερον ἔμβαλε θυμῷ)», e afferma che, se veramente quella è la sua promessa sposa, «nessuno degli dèi e degli uomini mortali» gli impedirà di possederla subito: «Pur di salire sul tuo letto – le dice – donna simile alle dee, sono pronto poi a sprofondare nella casa di Ade». Evidentemente, come per gli animali che si accoppiano al passaggio della dea, così anche per l’uomo l’amore è un impulso istintivo e viscerale, che si realizza e si esaurisce nel sesso, senza una dimensione spirituale e senza complicazioni sentimentali. A un primo sguardo, infatti, l’accoppiamento delle fiere non appare diverso dall’amplesso fra la dea e Anchise, che si colloca su un piano più elevato soltanto per il più ricco e vario sviluppo gestuale. La scena d’amore è dunque abilmente introdotta e suggerita dall’attitudine degli amanti, nei preliminari del γάμος («unione»): il renitente consenso della fanciulla, con l’atto ritroso e pudico di voltare la testa e abbassare «i begli occhi»; il giovane che la prende per mano e ritualmente la conduce «sul letto ben fatto, ricoperto di soffici manti»; il fatto che le tolga «di dosso gli splendidi ornamenti, le fibbie, i bracciali ritorti, gli orecchini e le collane… la cintura e… le vesti lucenti», che depone «su un seggio dalle borchie d’argento» e finalmente la possiede. Naturalmente, la fortissima sanzione inibitoria dell’epica arcaica impone all’aedo una aposiopesi (ossia una reticenza): la formula ἀθανάτῃ παρέλεκτο θεᾷ (v. 166, «si coricò accanto alla dea immortale»), lascia la rappresentazione dell’atto d’amore all’immaginazione del pubblico, mentre il poeta – avvalendosi di una tecnica che è omologa di quella cinematografica della dissolvenza – riprende il racconto dal momento in cui Afrodite, dopo l’unione, si riappropria del ruolo divino. A identica prudenza è ispirato il racconto dell’abbraccio fra Zeus ed Era nel canto xiv dell’Iliade, come si è visto: il dio «afferra» la sposa e si corica con lei sull’erba, dentro una nube, e subito dopo il canto lo rappresenta già assopito, per le fatiche d’amore e per l’intervento di Hypnos. Il sonno postcoitale di Zeus è l’evidente modello del poeta dell’Inno: entrambi i testi mostrano interesse per la rappresentazione realistica dell’esperienza sessuale[36].
Dopo l’amplesso, Anchise è destato dal sonno da Afrodite, che si riappropria della sua forma divina in un’epifania caratterizzata dalla consueta luminescenza soprannaturale, si rivolge a lui e gli svela la propria identità:
La splendida dea si rivestì con cura, poi
s’alzò dentro la capanna: la testa toccava il tetto
ben costruito e una bellezza divina si irradiava
175 dal viso, come sempre avviene per Citerea dalla bella corona.
Svegliò Anchise dal sonno e gli parlò così:
«Alzati, figlio di Dardano! Perché questo sonno profondo?
Dimmi se ti sembra che assomiglio a quella ragazza
che prima credevi di vedere con i tuoi occhi»[37].
Il giovane eroe «quando vide il collo e i begli occhi di Afrodite, si turbò, e distolse lo sguardo; poi si coprì con il mantello il bel viso e la supplicò», di non fargli del male[38]:
«Ora ti supplico, in nome di Zeus egioco,
non permettere che io viva in mezzo alla gente
come un invalido (ἀμενηνὸν); abbi pietà, perché non ha una vita felice
Il timore di Anchise è certamente legato al rimorso, al senso del superamento di un limite, all’impressione istintiva di aver commesso un atto di ὕβρις («tracotanza»). La chiave interpretativa dell’intera vicenda si deve cercare probabilmente nella ῥῆσις di Afrodite, che occupa circa un terzo dell’intero componimento, costituendone il momento culminante e conclusivo (vv. 192-290). Questa sezione è molto importante non solo perché fornisce l’elemento di attualizzazione del canto, ma anche perché ne è il centro ideologico. L’Inno ad Afrodite appare dunque come un componimento genealogico, il cui scopo è di narrare la nascita divina di un eroe capostipite; ma è anche un brano di poesia arcaica, dunque coerente con i valori della cultura aristocratica, che proprio nelle parole della dea vengono ribaditi. La supplica rivolta da Anchise, infatti, si può meglio comprendere alla luce dell’avvertimento che Afrodite gli lancia nella seconda parte del suo discorso, allorché lo ammonisce a non vantarsi di quell’avventura amorosa:
e se qualcuno degli uomini mortali ti chiederà
quale madre ti ha concepito quel figlio,
ti comando di rispondergli così, non te ne dimenticare:
di’ che è il figlio di una tenera ninfa,
285 di quelle che abitano questo monte rivestito di boschi.
Se invece, indulgendo ad una folle vanteria, racconterai
di esserti unito in amore con Afrodite dalla bella corona,
Zeus furibondo ti colpirà con il fulmine fumante![40]
Le fonti concordemente tramandano che il pastore dimenticò questo divieto e fu punito dagli dèi con la cecità, ossia una sorta di paralisi. Pertanto, la preoccupazione del giovane è giustificata dall’esito stesso della sua vicenda, che l’aedo dell’Inno certamente conosce. L’unione carnale fra la dea e il giovane mortale, necessaria per la procreazione di un nuovo eroe, sulle prime, sembra attenuare la distanza fra il piano umano e quello divino, tant’è che Afrodite è colta da un acuto «desiderio» (ἵμερος) per Anchise, il cui amore è indispensabile per il ristabilimento del suo equilibrio emotivo, ma la ῥῆσις di Cipride chiarisce che così non è, e ristabilisce le giuste prospettive: il giovane troiano è solo lo strumento di un disegno più alto. Le parole di minaccia della dea non contengono soltanto una serie di disposizioni cui il suo paredro dovrà rigorosamente attenersi, se non vorrà incorrere nella «vendetta divina» (φθόνος θεῶν), ma sono pure il manifesto della subordinazione umana al capriccio divino. Il tema narrativo dell’eroe sottoposto alle avances di una dea costituiva un motivo diffuso nell’epica arcaica, così come quello della punizione, o sanzione divina, che colpiva l’uomo che aveva goduto l’amore della dea stessa: infatti, nel canto v dell’Odissea, Calipso, ferita al cuore dall’ordine impartitole da Zeus, che le impone lasciar partire l’amato Odisseo, ricorda i casi famosi di Orione e di Iasione:
Così quando Aurora dalle rosee dita Orione si prese,
voi che lieti vivete la invidiaste, voi placidi,
finché in Ortigia la vergine Artemide dall’aureo seggio
lo uccise, colpendolo con i suoi blandi dardi.
125 Così quando a Iasione Demetra dalla bella chioma,
seguendo il suo cuore, si unì in amore sull’erba
del campo arato tre volte: ciò nascosto non rimase
a Zeus, che quello uccise scagliando la fulgida folgore[41].
E ancora, sempre nell’Odissea, Ermes dopo aver consegnato ad Odisseo l’erba μῶλυ, un potente antidoto contro il φάρμακον di Circe, lo avverte sull’incontro che sta per avere con lei. Grazie all’antidoto, egli non muta la sua forma umana dopo aver bevuto il ciceone, né perde le sue facoltà d’azione e di reazione: quando Circe lo colpisce con la sua bacchetta per ordinargli di andare a sdraiarsi nel porcile insieme agli altri compagni, l’eroe, anziché obbedire, sguaina la spada aguzza e balza sulla fanciulla per ucciderla. Lei, atterrita, lancia un urlo e si getta ai suoi piedi; scoppia a piangere. La giovane osserva: «a te nel petto sta un pensiero inflessibile» (σοὶ δέ τις ἐν στήθεσσιν ἀκήλητος νόος ἐστίν)[42], e riconosce che lui è l’uomo πολύτροπος («dalle molte risorse») di cui parlava la profezia di Ermes. È solo a questo punto che Circe gli propone il proprio letto:
saliamo noi due sul mio letto, così che sul letto
insieme congiunti in amore possiamo
335 scambiare fra noi la fiducia nell’animo.
Odisseo segue, anche su questo punto, le istruzioni di Ermes, che gli aveva intimato di non rifiutare le profferte della dea: se vuole salvare i suoi compagni rinchiusi nel recinto, dovrà andare a letto con Circe. È una prova cui egli non può sottrarsi. Prima di accettare, però, egli deve ottenere da lei un giuramento solenne, poiché egli sa che la dea ha intenzioni pericolose (δολοφρονέουσα), e che, una volta nel suo letto, potrebbe renderlo κακὸν καὶ ἀνήνορα («vile e impotente»). Ottenuto l’impegno della dea, l’unione può aver luogo.
Tornando all’Inno ad Afrodite, si diceva che, in generale, l’unione sessuale di un mortale con una dea fosse considerato un evento pernicioso. La paura di Anchise, infatti, era quella che l’amplesso, ormai consumato con la dea, lo potesse ridurre a una larva, una specie di fantasma di se stesso, un vivo con la debole consistenza di uno spettro. Bettini fa notare che nell’omerico κακὸν καὶ ἀνήνορα dev’esserci qualcosa di più specifico di una semplice idea di spossatezza e perdita di energie vitali derivanti dall’amplesso con una femmina divina: c’è l’idea che le reali intenzioni di Afrodite possano essere quelle di ridurlo a persona di nessun valore (κακός) privandolo della sua virilità, cioè facendo di lui un «non uomo»[43].
Dopo aver rassicurato Anchise, Afrodite gli profetizza la nascita di Enea e il suo destino glorioso, ma anche la perpetua continuità della stirpe:
«Ti nascerà un figlio, che regnerà sui Troiani,
e poi dai figli nasceranno altri figli, in serie continua»[44].
Questa profezia è stata posta in relazione con quella di Poseidone in Il. xx 306-308 («ormai il Cronide ha in odio la stirpe di Priamo, mentre d’ora innanzi sui Troiani regneranno Enea e i figli dei suoi figli, che nasceranno») e sancisce il dominio degli Eneadi sulla Troade. Tuttavia, questa coincidenza non sorprende e non implica necessariamente una relazione di dipendenza diretta: il poeta dell’Inno si limita a encomiare la nobile casata lesbia sua committente[45].
Anche per Afrodite l’unione con Anchise è motivo di dolore e di vergogna: infatti, dice che «un eneo dolore» l’ha presa quando è entrata nel letto del mortale; il nesso αἰνὸν … ἄχος serve al poeta per spiegare con una fantasiosa etimologia il nome Αἰνείας, con il quale il padre dovrà chiamare il nascituro. È curioso come nella mentalità arcaica il compito di stabilire il nome per un bambino spettasse di solito al padre o al personaggio maschile più autorevole del γένος, mentre qui è la dea Afrodite a farlo: ciò dà prova di un’autorità straordinaria. Afrodite soffre per la vergogna conseguente all’unione indegna, percepita come una degradazione, un’offesa alla sua maestà divina:
D’ora in avanti però, giorno dopo giorno, io avrà sempre
un grande biasimo a causa tua fra gli dèi immortali,
che prima temevano le dolci parole e le astuzie con cui
250 ho unito tutti gli immortali, prima o poi, con le donne
mortali: tutti infatti erano soggiogati al mio volere.
Ma ora la mia bocca non potrà più parlare di queste vicende
fra gli immortali, perché ho commesso una grave colpa,
indegna e inenarrabile: ho perduto il senno,
255 e ho concepito un figlio unendomi a un mortale[46].
Nel suo discorso Afrodite parla soprattutto di immortalità, citando due paradigmi mitici, ossia le vicende del «biondo Ganimede» e di «Titonoo, simile agli immortali», entrambi di stirpe dardanica (l’uno ridotto alla condizione artificiale di balocco di un dio, l’altro condannato a decadere nell’obbrobrio e nell’orrore di un’eterna vecchiaia). Per comprendere questa argomentazione, occorre inquadrare le parole della dea nel sostrato culturale ed etico che l’épos rispecchiava: certamente gli exempla mitici, cui la tradizione fa spesso ricorso, suggeriscono una valutazione negativa della condizione umana, che va al di là del pessimismo omerico. L’Iliade, infatti, non sembra conoscere l’estensione dell’immortalità al di là della natura divina: gli uomini sono definiti spesso come δειλοῖσι βροτοῖσι («infelici mortali»)[47], mentre gli dèi sono sempre μάκαρες («beati»)[48]; l’impiego degli exempla permette al poeta dell’Inno di affrontare il tema del rapporto fra divinità e uomini e di mostrare l’incolmabile distanza che li separa. L’impiego di vicende esemplari è tipico del canto epico, e tale si è visto nell’episodio odissiaco di Calipso, la quale menziona le storie di Orione e Iasione: le parole della ninfa rispecchiano la dicotomia tra mortali e dèi, la vana aspirazione a superarla e la frustrazione che ne deriva. Il punto più importante del discorso di Calipso è il momento in cui ella ricorda la promessa dell’immortalità: «e pensavo di renderlo immortale e tenerlo lontano per sempre dalla vecchiaia» (ἠδὲ ἔφασκον θήσειν ἀθάνατον καὶ ἀγήραον ἤματα πάντα)[49]; e la ribadisce poco dopo rivolgendosi direttamente a Odisseo: «e saresti immortale» (ἀθάνατός τ᾽ εἴης)[50]. Calipso, dunque, avrebbe potuto e voluto renderlo immortale, ma è lui che paradossalmente rifiuta, dal momento che desidera con tutto il cuore tornare nel proprio mondo, la dimensione della temporalità e della mortalità. Quella di Odisseo non è una scelta, ma una necessità immanente e intrinseca nella natura umana: egli è incapace di vivere al di fuori del proprio mondo.
Nell’Inno Afrodite non pronuncia un giudizio esplicito riguardo la sorte dei mortali «prescelti», ma nondimeno il primo exemplum è illuminato dal secondo, ed entrambi convergono sul seguente punto: «Io non vorrei che tu vivessi in questa condizione fra gli dèi e che a questo prezzo avessi la vita eterna»[51].
Infatti, quanti, mortali, sono stati resi immortali per amore degli dèi non ne hanno tratto un grande vantaggio, ma al contrario la loro sorte si è rivelata alquanto misera. Tuttavia Afrodite dischiude ad Anchise un’altra possibilità di divenire immortale, che non contempla la sopravvivenza di lui in quanto individuo, bensì la capacità di perpetuarsi della sua stessa stirpe, cosa che reca gloria e felicità, malgrado passi per una presa di coscienza dolorosa, ossia la consapevolezza di non poter sfuggire alla «vecchiaia crudele, spietata, che poi non abbandona più gli uomini: anche gli dèi la odiano, poiché è rovinosa e sfibrante»[52].
Anchise, dunque, sarà anch’egli immortale, ma non con il proprio corpo, destinato ad un inesorabile deterioramento, bensì attraverso Enea e i figli dei suoi figli διαμπερὲς («in serie continua»). Tale immoralità deriva dalla procreazione attraverso l’unione sessuale, ossia una delle τιμαί di Afrodite, che anche così manifesta tutta la sua potenza. Ecco che il tema s’inquadra perfettamente nello schema compositivo del carme, soddisfacendo le finalità encomiastiche e didascaliche. Proprio su quest’ultimo motivo, emerge un insegnamento (γνώμη) fondante: l’uomo non può superare i propri limiti di creatura mortale, entro i quali è comunque messo in grado di attingere l’infinito, sia pur in maniera diversa rispetto alla divinità, ossia attraverso la generazione[53].
Il potere della dea fatto materia: la Coppa di Nestore
A conclusione di questa dissertazione, non spiace ricordare il chiaro riferimento alle ἔργα πολυχρύσου Ἀφροδίτης («opere dell’aurea Afrodite»), che compare sulla cosiddetta Coppa di Nestore.
Si tratta di una κοτύλη («tazza») di fabbricazione rodia, con decorazione tardo-geometrica in perfetto stile orientalizzante, proveniente dalla necropoli di San Montano (loc. Lacco Ameno, Ischia) e risalente al 720-710 a.C. La coppa fu rinvenuta nel 1955 in una serie di frammenti poi ricomposti: doveva appartenere, insieme con altri ventisei esemplari dello stesso tipo, al corredo funebre di un ragazzino di età compresa fra i 10 e i 14 anni. Su un lato, il reperto reca inciso in alfabeto euboico un epigramma di tre versi:
Il primo verso è un metro giambico (la lacuna a destra della prima parola non è integrabile con sicurezza), mentre gli altri due sono buoni esametri dattilici; probabilmente il primo verso potrebbe essere una introduzione in prosa del seguente distico. Ad ogni modo, il testo inciso è stato ipotizzato come una possibile allusione all’epica omerica, in particolare alla descrizione di Nestore, re di Pilo, figlio di Neleo e di Cloride, e della sua leggendaria coppa:
ed una coppa bellissima, che il vecchio si portò da casa,
tempestata di borchie d’oro; i manici della coppa
erano quattro, e intorno a ciascuno saltabeccavano
635 due colombe d’oro, e sotto c’era un duplice sostegno.
La spostavano a fatica dalla tavola gli altri,
quand’era piena, ma Nestore, il vecchio, senza sforzo l’alzava[55].
[54] Buchner G., Russo C.F., La coppa di Nestore e un’iscrizione metrica da Pitecusa dell’VIII secolo av. Cr., «Rendiconti Accademia Lincei» VIII s. x (1955), pp. 215-234: «Di Nestore io son la coppa bella: chi berrà da questa coppa subito desiderio lo prenderà di Afrodite dalla bella corona».
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Un puntuale confronto tra i Fasti di Ovidio e i calendari epigrafici sia precedenti (p. es., i FAM) sia contemporanei (p. es., i Fasti Praenestini: e in tal caso il confronto appare tanto più importante poiché i Fasti Praenestinifurono redatti da Verrio Flacco fra il 6 e il 9 d.C. dunque contemporaneamente a Ovidio che interruppe la redazione dei suoi nel 8 d.C.) documenta l’estrema precisione dei Fasti dello stesso Ovidio per quanto riguarda i giorni delle singole ricorrenze anniversarie. È una precisione del resto che non deve assolutamente stupire appena si pensi ad alcune esplicite dichiarazioni del poeta che si avrebbe torto a non prendere alla lettera: «quod tamen ex ipsis licuit mihi discere fastis…» (I 289), a proposito del dies natalis alle calende di gennaio del tempio di Esculapio e di Vediovisin insula; «ter quater evolvi signantes tempora fastos…» (I 657), a proposito delle Sementivae feriae, in quanto mobili evidentemente assenti dai calendari (I 659-660: «Cum mihi (sensit enim) ‘lux haec indicitut’, inquit / Musa, ‘quid a fastis non stata sacra petis?’»). Si tratta di una vera e propria acribia che induce talvolta Ovidio a consultare anche calendari di altre città («Quod si forte vacas, peregrinos inspice fastos»: III 87, quanto a marzo primo mese dell’anno a Roma prima della riforma di Numa, con persistenze invece – come dobbiamo intendere – in altri centri del Lazio); a proposito di giugno consacrato a Giunone non solo a Roma, ma anche ad Aricia, presso i Laurentes e a Lanuvium(VI 59-60: «Inspice quos habeat nemoralis Aricia fastos / et populus Laurens Lanuviumque meum»)[1].
Per quanto riguarda la più generale esattezza della registrazione dei giorni nell’ambito dei Fasti, va soprattutto messo in rilievo come Ovidio non solo dia conto di giorni che la maggior parte dei calendari epigrafici in qualche modo trascurano, ma come sempre Ovidio riporti giorni che gli altri calendari semplicemente omettono. Nel primo caso ciò avviene al 13 giugno, giorno dei Matralia (VI 475 s.), a proposito del dies natalis del tempio di Fortuna al Foro Boario (VI 569 s.: «lux eadem, Fortuna, tua est auctorque locusque…»), dove il dies natalis di Fortuna segue nella registrazione calendariale quello del tempio di Mater Matuta, confrontandosi da questo punto di vista solo con i FAM e confermando – nella misura in cui il dies natalis di Fortuna segue quello di Mater Matuta – la priorità del tempio di Mater Matuta rispetto a quello di Fortuna[2].
Calendario rurale (Fasti Praenestini – CIL I2 1, p. = I.It. XIII, 2, 17 = AE 1898, 14 = 1922, 96 = 1953, 236 = 1993, 144 = 2002, 181 = 2007, 312). Marmo, ante 22 d.C. Roma, Museo Nazionale Romano.
2.
Le registrazioni completamente assenti dagli altri calendari sono relativamente numerose. Mi limito ad elencarle, con l’avvertenza che esse sembrano addensarsi nel mese di giugno:
1-9 giugno (VI 461-466): corrispondenza tra il giorno della vittoria di D. Iunius Brutus Callaicus (cos. 138 a.C.: MRR I, p. 487) sui Callaici nel 137 a.C. e giorno della sconfitta di Crasso a Carrhae[3]:
Tum sibi Callaico Brutus cognomen ab hoste
fecit et Hispaniam sanguine tinxit humum.
Scilicet interdum miscentur tristia laetis
nec populum toto pectore festa iuuant:
Crassus ad Euphratem aquilani natumque suosque
perdidit et leto est ultimus ipse datus.
2-18 giugno (VI 721-724): giorno del trionfo del dittatore A. Postumius Tubertus (MRR I, p. 63) su Equi e Volsci nel 431 a.C. (cfr. Liv. IV 29, 4 e I.It. XIII 1, p. 95 con p. 393):
Sicilicet hic olim Volscos Aequosque fugatos
viderat in campis, Algida terra, tuis;
Unde suburbano clarus, Tuberte, triumpho
vertus es in niveis, Postume, victor equis.
3-21 giugno (VI 763-766) : giorno della sconfitta al Trasimeno del console C. Flaminius nel 217 a.C. (MRR I, p. 242)[4]:
Non ego te, quamvis properabis vincere, Caesar,
si vetet auspicium, signa movere velim.
Sint tibi Flaminius Trasimenaque litora testes,
per volucres aequos multa monere deos.
4-22 giugno (VI 769): giorno della sconfìtta di Siface ad opera di P. Cornelius Scipio (MRR I, p. 312 per la promagistratura) e di Massinissa nel 203 a.C.:
Postera lux melior: superat Massinissa Siphacem.
Cn. Cornelio Blasio. Denarius, Roma 112-111 a.C. Ar. Recto: [Cn(aeus)] Blasio Cn(aei) f(ilius). Testa elmata di Scipione Africano, voltata a destra.
5-22 giugno (VI 770): sconfìtta e morte di Asdrubale al Metauro nel 207 a.C. (cfr. Liv. XVII 49):
et cecidit telis Hasdrubal ipse suis.
6-27 giugno (VI 792-794): dies natalis del tempio di Giove Statore votato da Romolo. A proposito di quest’ultimo, si osservi che Ovidio non è necessariamente in contrasto con l’indicazione dei FAM (I.It. XIII 2, p. 18), dove il dies natalis di uno dei templi di Giove Statore era posto al 5 settembre. Ovidio in effetti accenna solo alla fondazione romulea e sembra ignorare, ο almeno non accenna né alla costruzione vera e propria da parte di M. Atilius Regulus (cos. 294 a.C.: MRR I, p. 179) del tempio di Giove Statore nel Foro né a quella del tempio omonimo in circo Flaminio da parte di M. Caecilius Metellus Macedonicus (MRR I, p. 461) dopo il suo trionfo. In simili condizioni è molto probabile che il giorno 27 giugno indichi nei Fasti appunto il giorno della fondazione romulea, e non il dies natalis di uno dei due templi di epoca storica, dies natalis che doveva cadere appunto al 25 settembre, come indicano i FAM[5]:
Tempus idem Stator aedis habet, quam Romulus olim
ante Palatini condidit ora iugi.
Tot restant de mense dies quot nomina Parcis,
cum data sunt trabeae templa, Quirine, tuae.
7-30 giugno (VI 800-810): dies natalis del tempio di Hercules Musarum, dedicato da M. Fulvius Nobilior dopo la presa di Ambracia e il suo trionfo nel 187 a.C. (MRR I, p. 187), restaurato quindi da L. Marcius Philippus (cos. 56 a.C.: MRR II, p. 207) nel 29 a.C. Poiché Ovidio si diffonde a lungo sulla casta Marcia, matertera Caesaris, e poiché Marcia, figlia di L. Marcius Philippus e di Atia Minore, aveva sposato Paullus Fabius Maximus, amico e protettore del poeta, dal momento che il 30 giugno non compare in nessun altro calendario in rapporto al tempio di Hercules Musarum, ne dedurremo che quel giorno deve intendersi come il dies in cui L. Marcius Philippus aveva provveduto a una nuova dedica del tempio dopo la ricostruzione da lui intrapresa, con l’avvertenza che (se ce ne fosse stato bisogno) l’indicazione del giorno poteva essere fornita a Ovidio dalla stessa Marcia ο da suoi gentiles[6]:
Sic ego, sic Clio: «Clara monimenta Philippi
aspicis, unde trahit Marcia casta genus:
Marcia, sacrifico deduetum nomen ab Anco,
in qua par facies nobilitate sua est;
par animo quoque forma suo respondet in illa
et genus et facies ingeniumque simul;
nec quod laudamus formant, tu turpe putaris:
Laudamus magnas hac quoque parte deas.
Nupta fuit quondam matertera Cesaris illi:
ο decus, ο sacra f emina digna domo!».
Q. Pomponio Musa. Denarius, Roma 56 a.C. Ar. Verso: Hercules Musarum. Ercole Musagetes (‘conduttore delle Muse’), stante verso destra, vestito di leontea e suonante la lyra.
3.
È evidentemente impossibile precisare come Ovidio potesse giungere al 27 giugno come dies natalis della fondazione del tempio di Giove Statore. Da parte nostra basti mettere in rilievo che la registrazione del giorno poteva essere contenuta all’interno di tradizioni da ricondursi ad ambito genericamente pontificale. La puntuale registrazione di altri giorni poteva invece essere tramandata all’interno di singole tradizioni gentilizie: quelle dei Cornelii, dei Iunii, dei Postumii, relativamente ai loro esponenti P. Cornelius Scipio, D. Iunius Brutus Callaicus, A. Postumius Tubertus. Trattandosi di giorni di vittoria e in un caso di trionfo, evidentemente non stupisce che i rispettivi gentiles li avessero registrati puntigliosamente e continuassero a con servarne memoria. Molto diverso è il caso del disgraziatissimo 21 giugno, relativo alla sconfitta del Trasimeno. A questo proposito infatti la tradizione annalistica non si era premurata di registrare con esattezza il giorno, limitandosi ad annoverare quella disfatta inter paucas memoratas populi Romani clades (Liv. XXI 7, 1-5). Ovidio invece la registra con uno scopo – come egli stesso dichiara – eminentemente pratico: dissuadere Cesare (evidentemente, Cesare figlio) da signa movere in quel giorno si vetat auspicium: infatti proprio in quel giorno, poiché il console aveva trascurato gli auspicia che gli dei avevano inviato («per volucres aequos multa movere deos»), l’esercito condotto da C. Flaminius era stato distrutto (Fasti VI 763-766). Dedurremo dunque da questa notazione che Ovidio comprendeva almeno di fatto anche il dies del Trasimeno nel novero dei dies da cui bisognava in qualche modo guardarsi, benché esso non venisse esplicitamente registrato come tale nella parallela e documentata tradizione «antiquaria» pervenuta attraverso Verrio Flacco, Gellio e Macrobio in rapporto anche alla categoria dei dies proeliares[7].
Torneremo subito sulla categoria dei dies religiosi (per quanto riguarda naturalmente soprattutto l’Alliensis e il Cremerensis). Va però sottolineato in questo contesto come sempre Ovidio sia il solo a fornire il giorno esatto della morte (11 giugno) nel 90 a.C. del console P. Rutilius Lupus mentre combatteva contro i Marsi al fiume Tolenus. Pertanto, accanto all’uso di notizie tramandate da gentes quali quelle degli Scipiones, dei Iunii e dei Postumii, aggiungeremo nel caso specifico anche quelle attive presso i Rutilii. Con un’avvertenza ulteriore: nel caso dei primi si trattava di giorni tramandati a gloria delle famiglie di appartenenza; nel caso dei Rutilii Lupi a scopo non solo di esaltazione della stirpe (un cui membro era morto per la patria), ma anche per la celebrazione ogni anno – appunto l’11 giugno – di una parentatio in suo onore: quelle parentationes «private» che rientravano a pieno titolo nell’ambito dei gentilicia sacra e alle quali faceva cenno significativamente il pontefice Q. Fabius Maximus Servilianus (cos. 142 a.C.: MRR I, p. 474), negando che si potesse «atro die parentare, quia turn quoque Ianum Iovemque praefari necesse est, quos nominari atro die non oportet»[8].
L’uso documentato di parentationes annuali nell’ambito della nobilitas romana presuppone evidentemente l’esistenza di elenchi a uso interno del le gentes dove venivano registrati i giorni che comportavano, nell’ambito dei gentilicia sacra, parentationes in onore dei gentiles defunti[9]. Evidentemente solo così si spiega come la notizia dell’11 giugno quale giorno della morte di P. Rutilius Lupus, assente dalla tradizione annalistica, potesse giungere comunque fino a Ovidio, in modo analogo del resto alla precisazione del giorno della battaglia del Trasimeno, giorno anche della morte del console C. Flaminius. Pertanto – ed è un punto che è necessario sottolineare – tra le fonti di Ovidio – veri e propri calendari, le opere di carattere più propriamente storico (nel caso specifico soprattutto Livio) ο di natura che potremmo definire «antiquaria» (nel caso specifico soprattutto Varrone)[10] – debbono essere annoverate anche le tradizioni gentilizie, cui Ovidio poteva avere accesso sia direttamente per via orale (come, per quanto riguardava i Fabii e i Marcii Philippi, grazie a Paullus Fabius Maximus e a Marcia) sia anche ricorrendo (p. es., nel caso dei Rutilii Lupi) ad archivi di famiglia ο piuttosto, per evitare equivoci all’evenienza modernizzanti, a «carte di famiglia», fossero esse più ο meno ordinate e strutturate in veri e propri archivi[11].
Cavaliere romano. Bassorilievo, marmo, I sec. a.C. Particolare dalla tomba del prefetto Tib. Flavio Micalo. Istanbul, Museo Archeologico.
4.
A questo punto limitiamoci a una semplice constatazione. In presenza di tanta esattezza e di tanta puntualità nella registrazione dei giorni, la collocazione al 13 febbraio del dies Cremerensis risulterebbe non solo l’unico errore nell’indicazione di un giorno nell’ambito dei Fasti, ma anche un errore, come vedremo, assai singolare[12]. Di fatto per spiegare questo presunto «errore» sono state avanzate le ipotesi più diverse, a partire da quelle di Barthold Georg Niebuhr e di Theodor Mommsen, i quali pensarono che Ovidio avesse confuso la data della clades (18 luglio) con il giorno della partenza dei Fabii da Roma (13 febbraio), fino a quella, più recente, di Eckard Lefèvre, che da parte sua ritiene quello di Ovidio un errore dettato dalla necessità di rinvenire a tutti i costi, lontano da Roma, a Tomi, «con il coraggio della disperazione» («mit der Mute der Verzweiflung») il giorno della strage del Cremera, non potendo più ricorrere, mentre componeva in esilio questo settore dei Fasti, alla competenza «gentilizia» di Paullus Fabius Maximus, ma volendo comunque rendere omaggio al suo patrono potentissimo[13].
In simili condizioni, e nell’ambito di una discussione evidentemente ancora aperta, appare più proficuo riprendere in esame suggestioni già avanzate a proposito di tradizioni gentilizie fabie nella scelta ovidiana del giorno[14], benché sviluppandole qui in senso diverso.
È merito di Santo Mazzarino aver dimostrato la connessione indissolubile tra dies Cremerensis e dies Alliensis: tra quel disgraziatissimo 18 luglio 478 a.C. che aveva visto il sacrificio dei Fabiiper Roma al fiume Cremera e il 18 luglio 390 a.C. giorno addirittura più disgraziato, poiché quanto avvenne appunto in quel giorno non aveva coinvolto una sola gens, ma la città nel suo complesso. Fu il giorno in cui – conseguentemente al comportamento dei legati Fabii che a Chiusi avevano violato il ius fetiale – la sconfitta al fiume Allia aprì ai Galli un 18 di luglio la strada per Roma. In tal modo, all’accusa di un loro rovinoso filo-etruschismo, i Fabii avrebbero contrapposto in seguito lo sterminio (quasi totale) della propria gens sempre un 18 di luglio per difendere in passato, appunto contro gli Etruschi, la ripa Veientana (non solo evidentemente a protezione della città, ma anche dei territori della propria tribù, quelli che si estendevano in corrispondenza appunto della tribù che recava il loro gentilizio)[15].
A rafforzare queste considerazioni possono eventualmente aggiungersi elementi ulteriori. P. es., che nel racconto dell’episodio ritenuto da Dionisio d’Alicarnasso il più credibile (ó δ’ έτερος, öv άληθέστερον είναι νομίζω περί τε της απώλειας των ανδρών…) lo scontro finale contro i Veienti non si svolgesse in un solo giorno, ma in due. In tal caso il dies Cremerensis dovrebbe essere quello – il secondo – che vide la sortita dei Fabii dal phrourion a soccorso dei compagni e poi lo sterminio finale dei Fabii asserragliatisi nuovamente nel phrourion e usciti di nuovo incontro ai nemici. Va comunque messo in rilievo come in entrambi i racconti di Dionisio (anche nel primo confrontabile evidentemente più da vicino con quello riportato da Livio e ritenuto sempre da Dionisio quello meno degno di fede), si faccia cenno a un fiume solo all’inizio: fiume da cui avrebbe avuto nome il «fortilizio» chiamato esso stesso Cremera[16]. In effetti, nella misura in cui Dionisio dichiarava di privilegiare il racconto a suo avviso più veritiero, evidentemente non poteva non ritenere più verosimile la tradizione che voleva i Fabii attestati su un’altura, piuttosto che lungo un fiume e di conseguenza in un luogo pianeggiante. Diversamente, la tradizione liviana faceva sempre esclusivo riferimento al fiume: è dal loro accampamento presso il fiume che i Fabii muoverebbero per compiere scorrerie nei tenitori circostanti, raccogliendosi su un’altura solo per lo scontro finale, quello in cui furono sterminati[17].
Quanto al giorno dello sterminio e alle sue eventuali, anche se leggere, oscillazioni, si noti del resto che anche chi, come l’annalista Cn. Gellius e Cassio Emina, stabiliva una corrispondenza tra dies Cremerensis e dies Alliensis poteva comunque collocare questa stessa corrispondenza non al 18 (a.d. XV kal. Sextiles) ma al 16 luglio (postridie idus Quintiles). Il giorno 16 luglio è un giorno peraltro da considerarsi evidentemente molto accreditato se esso poté essere indicato in senato dall’aruspice L. Aquinius non solo come quello della ricorrenza delle sconfitte dell’Allia e del Cremera, ma anche come esempio di combattimenti avvenuti in passato con esito nefasto «in molti altri tempi e luoghi» dopo sacrifici celebrati appunto in un giorno successivo alle idi[18].
Poiché l’unico calendario (dipinto) di epoca repubblicana a noi pervenuto è quello di Anzio e poiché questo calendario è relativamente tardo datandosi tra l’88 e il 55 a.C., non è escluso, ma anzi è estremamente probabile che calendari precedenti (anch’essi dipinti e appunto per questo irrimediabilmente perduti) registrassero il dies Alliensis non al 18 ma al 16 luglio (postridie idus Quintiles e non a.d. XV kal. Sextiles); che in altri termini alcuni calendari potessero dunque collocare il giorno dell’Allia e quello del Cremera nel giorno che era stato accolto in ambito annalistico da Cn. Gellius e Cassio Emina[19], diversamente dalla tradizione confluita più tardi in Livio e ben presto egemone in epoca augustea. Basti pensare al cenotafio di Pisa in onore di Gaio Cesare, il nipote e filius di Augusto morto nel 4 a.C. dove si proclamava come il giorno della scomparsa del giovane principe dovesse essere «tramandato a lugubre memoria» come appunto quello d’Allia, registrato al 18 luglio non solo – come abbiamo visto – nei FAM, ma più tardi anche nel calendario di Amiterno, databile poco dopo il 20 d.C.[20]
Guerriero etrusco. Bronzo, statua, V sec. a.C. dal Monte Falterona. London, British Museum.
5.
A partire dalla lieve oscillazione relativa al dies Alliensis (postridie idus Quintiles e non a.d. XV kal. Sextiles), il presunto «errore» ο la presunta «svista» di Ovidio (dies Cremerensis al 13 febbraio), collocando in quel giorno la strage dei Fabii, induce a riprendere in esame le stesse nutazioni calendariali relative al dies dell’Allia. Se quest’ultimo compare con una simile dicitura nel calendario dipinto di Anzio e in quello di Amiterno (redatto dopo il 20 d.C.) nel calendario marmoreo di Anzio – approntato nell’ambito della familia Caesaris attiva ad Anzio negli ultimi anni di Tiberio e nel primo anno di Caligola – poteva leggersi la singolare notazione dies Alliae et Fab(iorum). Con un’avvertenza, dal nostro punto di vista, rilevante: il calendario marmoreo di Anzio è un calendario molto preciso non solo a proposito delle feriae introdotte a partire da Augusto in onore del principe e della sua famiglia, ma anche per quanto riguarda le registrazioni delle antiche ricorrenze anniversarie della città repubblicana[21]. Ne dedurremo per tanto che il calendario marmoreo di Anzio da un lato faceva coincidere dies Alliensis e dies Cremerensis; d’altro lato che, definendo quel giorno «giorno dei Fabii», enfatizzava all’interno di un calendario, in uso presso la familia Caesaris di Anzio, una tradizione propria di una gens che – ne dedurremo – ancora in quel periodo aveva interesse a diffonderla e il cui esponente più importante in epoca augustea era stato il marito di Atia, matertera Caesaris: ancora una volta Paullus Fabius Maximus, morto – com’è ben noto – nel 14 d.C.[22]
Se evidentemente è molto difficile datare i diversi «strati» di redazione dei Fasti (prima e dopo l’esilio) con la nuova dedica a Germanico e gli inevitabili ritocchi che ne sono conseguiti, tuttavia ritenere l’episodio del Cremera composto lontano da Roma, e dunque per questo registrato con data inesatta, non è tanto segno della «disperazione» di Ovidio alla ricerca comunque di una data quanto piuttosto della «disperazione» di alcuni esegeti moderni alla ricerca comunque di una spiegazione (anche la meno verosimile). Benché sia molto probabile che Ovidio avesse composto almeno in stesura provvisoria i dodici libri dei Fasti prima di partire per l’esilio e che dunque avesse già trattato del dies Cremerensis all’interno del mese di febbraio prima di essere costretto a lasciare Roma nell’8 d.C.[23], per quanto riguarda nel caso specifico il giorno dell’Allia – che in epoca augustea veniva fatto corrispondere a quello del Cremera – possiamo ritenere sicuro che la sua ricorrenza anniversaria era ricordata con esattezza anche a Tomi, così da eliminare ogni ipotesi su una sua eventuale dimenticanza.
La circostanza, finora mai osservata in un simile contesto, si ricava da in Ibim 217-220 (un poemetto scritto quando il poeta era ormai lontano da Roma):
Lux quoque natalis, ne quid nisi trite videres,
turpis et inductis nubibus atra fuit:
haec est in fastis cui dot gravis Allia nomen:
quaeque dies Ibin, publica damna tulit.
Dunque, il giorno della nascita del nemico di Ovidio fu un giorno turpis e «nero» (ater) di nubi: significativamente era lo stesso giorno (dies religiosus, ma definibile all’evenienza anche ater) cui dava nome nei calendari (in fastis) il gravis Allia[24]. Ovidio naturalmente allude qui al 18 luglio, di cui aveva scritto nel settore perduto dei Fasti (nel caso specifico nel libro settimo), e come poteva avergli ricordato (se mai ce ne fosse stato bisogno) anche Paullus Fabius Maximus. Era un giorno peraltro che, vedendo la nascita di Ibis, aveva recato publica damna (danni all’intera città), appunto come aveva fatto il lugubre dies Alliensis, quando dopo la sconfitta i Galli si erano abbattuti su Roma. Se, come abbiamo visto, non può essere messa in discussione la specifica competenza di Ovidio in ambito calendariale, tanto meno questa competenza può essere messa in discussione in un caso come questo, relativo a un avvenimento di storia urbana non solo epocale, ma anche eminentemente infelice, di cui lo stesso Ovidio aveva già trattato.
Ricostruzione grafica dei Fasti Antiates, un calendario pre-giuliano. Frammenti da un affresco dalle rovine della villa di Nerone ad Anzio.
6.
A questo punto ci limiteremo da parte nostra a una semplice constatazione: Ovidio poneva il dies Cremerensis e il dies Alliensis in due giorni diversi e distinti: rispettivamente al 13 febbraio e al 18 luglio. Poiché non ci è pervenuta la parte dei Fasti relativa al dies Alliensis, è impossibile specificare le linee, anche generalissime, di quello che doveva esserne il racconto. È tuttavia molto probabile (o forse quasi sicuro) che fosse tenuto presente il racconto di quella sconfitta dato da Livio, in modo analogo del resto a quanto avviene – questa volta sicuramente – per l’episodio dei Fabii al Cremera[25]. La sostanziale dipendenza di Ovidio da Livio a proposito dello svolgimento del dies Cremerensis ripropone con forza il problema della differenza del giorno, che Livio collocava notoriamente al 18 luglio, mentre su questo punto specifico Ovidio – ponendolo al 13 febbraio – se ne allontanava: ed è un allontanamento tanto più da sottolineare poiché il giorno 18 luglio – successivo di due a quello indicato da Cn. Gellius e Cassio Emina – in epoca augustea era ormai evidentemente invalso.
Tra le molte spiegazioni che sono state avanzate nel tentativo di chiarire perché Ovidio «anticipasse» non di qualche giorno ma di circa cinque mesi l’episodio del Cremera, non poteva non essere evocato con forza il ruolo svolto da Paullus Fabius Maximus e dunque l’esistenza di una tradizione fabia che, muovendo da Paullus Fabius Maximus, sarebbe pervenuta a Ovidio: tradizione in cui il dies Cremerensis veniva collocato appunto in quel giorno. Sebbene mai discussa in dettaglio, così come è stata formulata, questa ipotesi non ha avuto molta fortuna per una semplice obiezione: l’obiezione che i Fabii – sia quelli dei decenni successivi alla catastrofe dell’Allia sia per tradizione gentilizia i Fabii dei secoli seguenti (compreso Paullus Fabius Maximus) – avrebbero avuto ogni interesse a non mettere in discussione, ma anzi a mantenere (e, se possibile, a rafforzare) quella corrispondenza, tanto più se si trattava – come ha riaffermato di recente anche Jean-Claude Richard – di una corrispondenza fittizia, stabilita in origine per riscattare i Fabii da una «colpa»[26].
Si osservi però che il 13 febbraio in riferimento alla strage del Cremera, per giungere comunque fino a Ovidio e superare all’evenienza il filtro di Paullus Fabius Maximus, doveva essere una ricorrenza accreditata presso gli stessi Fabii. Poiché, in caso contrario, Paullus Fabius Maximus non avrebbe mai permesso che Ovidio commettesse quell’«errore» ο in ogni caso avrebbe indotto il suo protetto a correggerlo. All’inizio, a proposito dei giorni riportati solo da Ovidio e assenti negli altri calendari in relazione a vittorie, a un trionfo, in una circostanza alla morte di esponenti della nobilitas, abbiamo fatto riferimento a tradizioni gentilizie dove quei giorni dovevano essere accuratamente registrati. Nel caso di P. Rutilius Lupus la registrazione del giorno (11 giugno) era tradita nell’ambito della sua gens non solo come motivo di orgoglio (in quanto, ripetiamo, P. Rutilius Lupus nel 90 a.C. era morto pro patria), ma anche poiché quella registrazione era necessaria allo scopo di compiere annualmente le doverose parentationes ai suoi Mani. Era doveroso e obbligatorio infatti da parte dei gentiles compiere parentationes annuali per i Manes dei propri defunti. E poiché queste parentationes rientravano a pieno titolo nel novero dei gentilicia sacra[27], possiamo ritenere sicuro che i Rutilii avessero registrato e quindi trasmesso con lo scrupolo più grande il giorno della morte del loro antenato. Di fatto, solo così si spiega come la notizia di questo giorno potesse giungere (ignoriamo per quali vie) fino a Ovidio. È opportuno comunque sottolineare che spesso poteva trattarsi di tradizioni orali relative alle varie famiglie romane, come quelle acquisite da Pomponio Attico in seguito alle indagini svolte grazie a Servilia a proposito dei Iunii e appunto dei Servili[28]. Quanto ai Fabii e al patrimonio di tradizioni attivo all’interno della loro gens, Paullus Fabius Maximus appare inevitabilmente l’informatore privilegiato di Ovidio: un informatore che certo non avrebbe mai permesso allo stesso Ovidio di sostituire invano un famosissimo 18 luglio con un «qualunque» 13 febbraio.
Scena di sacrificio. Bassorilievo, marmo, ante 79 d.C., dal Vespasianeum di Pompei.
7.
A Roma, però, il 13 febbraio non era un giorno qualunque, dal momento che esso vedeva da un lato l’apertura dei Parentalia(la novena in onore dei divi Parentes), d’altro lato la corsa scatenata dei Luperci. A partire dall’ora sesta, quando virgo Vestal(is) parentat (ed essa evidentemente non può che compiere parentationes a nome di tutta la città)[29], mentre le singole famiglie onorano i propri morti, la religiosa civitas, la città dei magistrati e dei sacerdoti appare in qualche modo ritrarsi, adottando apparati e dispositivi simbolici caratteristici per un periodo di nove giorni durante i quali i magistrati abbandonano le loro insegne di statuto, non si celebrano sacrifici e i templi degli dei sono chiusi[30]. In un simile contesto e in rapporto al problema da cui si sono prese le mosse, è necessario riportare l’annotazione di Polemio Silvio relativa a questo giorno: parentatio tumulorum inc[ipit], quo die Roma liberata est de obsidione Gallorum. Dunque, per Polemio Silvio che su questo punto specifico può confrontarsi con Plutarco[31], le idi di febbraio – che in Ovidio avevano visto la strage dei Fabii al Cremera – molti decenni dopo videro anche i Galli allontanarsi da Roma: una Roma che era stata occupata in seguito alla disfatta dell’Allia ma che aveva anche assistito al sacrificio gentilizio compiuto sul Quirinale a rischio della vita da C. Fabius Dorsuo. C. Fabius Dorsuo, un iuvenis, cinto secondo il rito gabino e con i sacra in mano, era disceso allora dal Campidoglio, dove si era asserragliato insieme ad altri iuvenes, aveva raggiunto il Quirinale attraversando gli avamposti nemici e sul Quirinale – come era necessario – aveva compiuto il sacrificium… statum… Fabiaegentis[32].
Destino dunque che sembra consueto all’interno della gens Fabia: compiere sacrifici gentilizi a evidente vantaggio di tutta la città. Infatti, secondo la tradizione non ritenuta credibile da Dionisio di Alicarnasso, il motivo che aveva spinto i trecento Fabii a muovere nel 478 a.C. dal loro avamposto presso Veio per recarsi a Roma, era stato appunto l’esecuzione di un sacrificio tradizionale (θυσίας… πατρίου) che la loro gens era incaricata di compiere (ην έδει το Φαβίων έπιτελέσαι γένος)[33]. Così nel 478 a.C. gli stessi Fabii si sarebbero sobbarcati al rischio di un viaggio di ritorno attraverso il territorio nemico per compiere quei riti a beneficio di tutta la città come più tardi nel 390 a.C. avrebbe fatto il loro gentilis C. Fabius Dorsuo per eseguire il suo sacrificio sul Quirinale: anch’esso, com’è chiaro, un sacrificio che doveva essere necessariamente compiuto da un membro dei Fabii.
Torniamo infine a Ovidio e al suo 13 febbraio come giorno della strage del Cremera. Contro ogni tentativo «normalizzatore» volto a ritenere semplicemente erroneo lo spostamento del giorno, è preferibile attenersi agli elementi in nostro possesso, costatando la circostanza che Ovidio poneva il dies Cremerensis al 13 febbraio e il dies Alliensis al 18 luglio. Poiché Ovidio è precisissimo – come abbiamo visto – nella registrazione dei giorni e poiché il vigile patronato di Paullus Fabius Maximus doveva impedirgli ogni eventuale inesattezza a proposito di episodi – soprattutto di episodi celebri – che avevano coinvolto la gens Fabia, dalla combinazione di questi elementi è necessario dedurre una conseguenza, anche se potrebbe apparire a prima vista abbastanza paradossale: la conseguenza che entrambi i giorni ricorrevano come giorni del dies Cremerensis all’interno della stessa gens Fabia.
Il primo era naturalmente il 18 luglio (almeno in ambito annalistico a partire da Fabio Pittore): giorno che, coincidendo con quello dell’Allia, era volto a sminuire la «colpa» dei Fabii nella conquista di Roma da parte dei Galli. Per il 13 febbraio, sebbene con ogni cautela, proporrei da parte mia un tentativo di spiegazione che non mortifichi le competenze di Ovidio: né in ambito di ricorrenze anniversarie né in ambito di tradizioni fabie.
Se il 18 luglio per la strage del Cremerà era un giorno esito di un’elaborazione posteriore così da farlo coincidere con la disfatta dell’Allia, il 13 febbraio poteva essere quello in cui i gentiles Fabii dei secoli successivi compivano parentationes per i Mani dei trecento Fabii sterminati dai Veienti nel 478 a.C. così come l’11 giugno i Rutilii compivano parentationes per i Mani di P. Rutilius Lupus morto al fiume Tolenus nel 90 a.C. Accanto a un giorno fatto corrispondere artificiosamente (il famoso ο addirittura famigerato 18 luglio), si sarebbe dunque conservata all’interno della gens Fabia, nel contesto delle cadenze annuali imposte dai gentilicia sacra, la memoria di un giorno diverso per le pratiche rituali che in esso dovevano compiersi. Così il 13 febbraio, quando la virgo Vestal(is) compiva parentationes per tutta la città, i Fabii a loro volta avrebbero compiuto quello stesso giorno parentationes peculiari alla loro stirpe. Nell’intreccio sottile che caratterizza i compiti cultuali (e non solo cultuali) dei Fabii, sempre in qualche modo in bilico tra pubblico e privato (quanto ai compiti cultuali basti pensare sempre il 13 febbraio nei riti al Lupercal alla presenza dei luperciFabiani)[34], evidentemente non sorprende che gli stessi Fabii potessero compiere quel giorno parentationes per i loro trecento gentiles: di queste parentationes Paullus Fabius Maximus doveva essere sicuramente a conoscenza e anzi partecipe, così che la notizia potesse agevolmente giungere fino a Ovidio.
Lupercale. Altare votivo in onore di Marte e Venere. Bassorilievo, marmo, metà II sec. d.C. da Ostia. Museo Nazionale Romano di P.zzo Massimo alle Terme.
[3] Vd., p. es., Β.A. Marshall, Crassus. A Political Biography, Amsterdam, 1977, p. 157 s. con p. 168 n. 86, con ulteriore bibl.
[4] Cfr. Liv. XXII 7,1-5, con la notazione inter paucas memorata populi Romani clades; quanto a C. Flaminius consul… inauspicatus e dunque implicitamente colpevole di quella disfatta Liv. XXI 63,7; Val. Max. I 6,6. Sul giorno della sconfìtta del Trasimeno vd. anche sotto, p. 742 con n. 9.
[6] Su Paullus Fabius Maximus (cos. 11 a.C.: PIR III, p. 103-105 n. 47) soprattutto R. Syme, History in Ovid, Oxford, 1978, p. 135 s. anche per i frequenti richiami a Marcia sia nei Fasti sia nelle opere dell’esilio); inoltre Id., The Augustan Aristocracy, Oxford, 1986, p. 403 s. (trad, it., L’aristocrazia augustea, Milano, 1993, p. 598 s.). Sulle fasi del tempio ultimamente F. Coarelli, in E.M. Steinby (a cura di), LTUR, III, Roma, 1996, p. 17 s.
[7] Sui dies proeliares ved. Paolo-Festo, p. 253: «proeliares dies appellabantur, quibus fas est hostem bello lacessere. Erant enim quaedam feriae publicae, quibus nefas fuit id facere»; Macrobio, Sat. I 24: «pontificesque statuisse postridie omnes kalendas nonas idus atros die habendos, ut hi dies neque proeliares neque puri neque comitialis essent»; Aulo Gellio, V 17, 1-3. Il tentativo di negare fede alla testimonianza di Ovidio da parte di P. Desy, Il grano dell’Apulia e la data della battaglia del Trasimeno, in PdP, 44, 1989, p. 102 s., è vanificato dal fatto che, trattandosi di date civili pregiuliane, esse possono non coincidere evidentemente con i normali cicli delle stagioni; ved. In effetti P. Brind’Amour, Le calendrier romain. Recherches chronologiques, Ottawa 1983, passim.
[8] Vd. Q. Fabius Maximus Servilianus, fr. 4 HRF Peter.
[9] Vd. a questo proposito F. Bömer, Ahnenkult und Ahnenglaube im alten Rom, Lipsia-Berlino, 1943, passim; quindi soprattutto J. Scheid, «Contraria facere»: renversements et déplacements dans les rites funéraires, in AION (Arch), 6, 1984, p. 132 s.
[10] Per il sapere «antiquario» e calendariale confluito nei Fasti di Ovidio basti il rinvio ai «Varronianae Verrianaeque doctrinae fragmenta» raccolti da G. B. Pighi nella sua ed. di P. Ovidii Naasonis Fastorum libri, «Annotationes» II, Torino, 1973. p. 79 s.; cfr. ultimamente M. Salvatore, La storia riscritta, in Res publica litterarum, 16, 1993 (Studies in Classical Tradition. Studies in Memory of Sesto Prete), p. 23 s. Per Livio basti ancora il rinvio soprattutto a E. Sofer, Livius als Quelle von Ovids Fasten, Vienna, 1906.
[11] La presenza di archivi gentilizi nel mondo etrusco è stata rivelata per Tarquinia dagli «archivi degli Spurinnae», su cui M. Torelli, «Elogia Tarquiniensia», Firenze 1975, in particolare p. 93 s. a proposito degli archivi gentilizi delle famiglie della nobilitas romana; vd. in precedenza E. Gabba, Un documento censorio in Dionigi d’Alicarnasso 1.74.5, in «Synteleia» Arangio-Ruiz, I, Napoli, 1964, p. 486 s. Cfr. anche ultimamente La mémoire perdue. À la recherche des archives oubliées, publiques et privées, de la Rome ancienne, Parigi, 1994.
[12] Vd. in questo senso p. es. D. Porte, L’étiologie religieuse dans les Fastes d’Ovide, Parigi, 1985, p. 375, che pensa – con ipotesi tanto ingegnosa quanto improbabile appena si considerino le competenze calendariali di Ovidio – a una confusioneda parte dello stesso Ovidio tra dies atri e dies religiosi, a partire da Verrio Flacco (cit. sopra, n. 24) che invece considerava il dies Alliensis non compreso tra i dies atri.
[15] S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, II-1, Bari, 1968, p. 246 s.; quindi soprattutto J.-C. Richard, L’affaire du Crémère: recherches sur l’évolution de la tradition, in Latomus, 48, 1989, p. 312 s. Cfr. anche A. Fraschetti, Annalistica, mitologia e studi storico-religiosi, in DdA, 9-10, 1976-77, p. 602-630, in discussione con E. Montanari, Nomen Fabium, Roma, 1973.
[16] Sull’importanza di questo «fortilizio» ha richiamato l’attenzione J.-C. Richard, Trois remarques sur l’épisode du Crémère, in Gerión, 7, 1989, p. 67-68. Sui «fortilizi» romani in Etruria vd. anche A. Fraschetti, I Ceriti e il «castello ceretano» in Diodoro (XIV 117,7 e XX 44,9), in AION (Arch), 2, 1980, p. 147 s.
[17]Livio II 50, 10: «duxit via in editum leniter collem. Inde primo resistere; mox, ut respirandi superior locus spatium dedit recipiendique a pavore tanto animum, pepulere etiam subeuntes, vincebatque auxilio loci paucitas, ni iugo circummissus Veiens in verticem collis evasisset…».
[18] Macrobio, Sat. 1 16,22-23: «et ex praecepto patrum L. Aquinium haruspicem in senatum venire iussum religionum requirendam causant dixisset: Q. Sulpicium tribunum militum ad Alliam adversum Gallos pugnatum rem divinam dimicandi gratia fecisse postridie idus Quintiles; item apud Cremeram multisque aliis temporibus et locis post sacrifìcium die postero celebratum male cessisse conflictum».
[19] Vd. Gn. Gellio, fr. 25 HRF Peter; Cassio Emina, fr. 20 HRF Peter = 24 Santini (= C. Santini, I frammenti di Cassio Emina. Introduzione, testo, traduzione e commento, Pisa, 1995). Sul caso di Licinio Macro più in particolare J.-C. Richard, Licinius Macer (Hist. 7) et l’épisode du Crémère, in RPh, 63, 1989, p. 75 s.
[21]I.It. XIII 2, p. 209. Sulla datazione del calendario marmoreo di Anzio, vd. M.A. Cavallaro, Spese e spettacoli. Aspetti economici-strutturali degli spettacoli nella Roma giulio-claudia, Bonn, 1984, p. 220 s. Sulla registrazione delle nuove feste, che talvolta possono anche «cancellare» le antiche, mi sia lecito il rinvio ad A. Fraschetti, Roma e il principe, Roma-Bari, 1990, p. 17 s.
[22] Sulla morte di Paullus Fabius Maximus, che veniva messa in rapporto alla visita di Augusto ad Agrippa Postumo accompagnato appunto da Paullus Fabius Maximus (Tacito, Ann. I 5), ultimamente p. es. R. Syme, The Augustan Aristocracycit., p. 414 (trad, it., L’aristocrazia augustea cit., p. 611).
[24] Vd. soprattutto la formulazione di Festo, p. 348 Lindsay: «Reliogiosus est non modico deorum sanctitatem magni aestimans, sed etiam officiosus adversus homines. Dies autem religiosi, quibus nisi quod necesse est, nefas habetur facere: quales sunt sex et triginta atri qui appellantur, et Alliensis, atque hi, quibus mundus patet». A supplemento dei materiali raccolti da A. Degrassi, in Ut. XIII 2, p. 360-362, è ora necessario anche il rinvio per ulteriore documentazione alla tesi discussa da C. Grosso, Contributi alla storia dei «Fasti Praenestini»: il mese di gennaio, in Fac. lettere. Univ. Roma «La Sapienza», ann. acc. 1995/96, p. 60 s. Vd., in precedenza, naturalmente A.K. Michels, The Calendar of Roman Republic, Princeton, 1967, p. 62 s.
[25] Cfr. ultimamente Ovide,Les Fastes, ed. R. Schilling, cit., I, p. 123, per la «précision presque littéralement conforme à la version de Tite-Live» a proposito della porta Carmentalis; ved. già A. Elter, Cremera und Porta Carmentalis, in Programm zu Feier des Geburtstags Seiner Majestät des Kaisers und Königs am 27. Januar 1910, Bonn, 1910; in seguito p. es F. Boemer, Interpretationen zu den Fasti cit., p. 112 s. con Id., P. Ovidius Naso, Die Fasten II, Heidelberg, 1958, p. 96.
[26] Vd. J. Richard, L’affaire du Crémère cit., p. 312 s.; cfr. più in generale Id., L’expédition des Fabii à la Crémère : grandeur et décadence de l’organisation gentilice, in Crise et transformation des sociétés archaïques de l’Italie antique, Roma, 1990, p. 248 s.
[27] Vd. da ultimo J. Scheid, Die Parentalien für die verstorbenen Caesaren als Modell für den römischen Totenkult, in Klio, 75, 1993, p. 188 s. (con letteratura ivi cit.).
[28] Sulle ricerche di Pomponio Attico vd. soprattutto F. Münzer, Atticus als Geschichtschreiber, in Hermes, 40, 1905, p. 93 s.; cfr. da ultimo R. Syme, The Augustan Aristocracy cit., p. 199 (trad, it., L’aristocrazia augustea cit. p. 598).
[29] Per il calendario di Filocalo I.It. XIII 2, p. 241; cfr. anche le annotazioni del menologium Collotianum e del menologium Vallense (ibid., rispettivamente p. 287 e p. 293).
[30] Sui Parentalia F. Boemer, Ahnenkult und Ahnenglaube cit., p. 29 s.; H.H. Scullard, Festivals and Ceremonies of the Roman Republic, Londra, 1981, p. 74 s.
[32] Vd. Liv., V 46, 2: «sacrificium erat statum in Quirinali colle genti Fabiae. Ad id faciendum C. Fabio Dorsuo gabino cinctus sacra manibus gerens cum de Capitolio descendisset, per médias hostium stationes egressus nihil ad vocem cuisquam terroremve motus in Quirinalem collem pervertit; ibique omnibus sollemniter peractis, eadem revertens similiter constanti voltu graduque, satis sperans propitios esse deos quorum cultum ne mortis quidem metu prohibitus deseruisset, in Capitolium ad suos rediit…». La documentazione parallela è ora raccolta da C. Santini, I frammenti di Cassio Emina cit., p. 171 s. Naturalmente la circostanza che forse già Cassio Emina (fr. 19 Peter = 23 Santini) e sicuramente Floro I 7,16, possano attribuire a C. Fabius Dorsuo la caratteristica di pontifex non oscura la caratteristica gentilizia del suo sacrificio sottolineata da Livio e ripresa negli stessi termini da Valerio Massimo, I 1,11.
[34] Sulle due «confraternite» di Luperci Fabiani e Quintilii vd. in particolare M. Corsaro, «Sodalité» et gentilité dans l’ensemble lupercal, in RHR, 91, 1977, p. 137 s. (con letteratura ivi cit.).
di T. Livio, II 48-50 – testo latino Weissenborn W., Müller H. J. (eds.), Titi Livi, Ab Urbe condita, pars I. Libri I-X, Leipzig, Teubner, 1898, pp. 121-125 – trad. it. C. Moreschini (ed.), Livio, Storia di Roma dalla sua fondazione, I, libri I-II, con un saggio di R. Syme, Milano, BUR, 2013, pp. 482-491.
[48.1] Igitur non patrum magis quam plebis studiis K. Fabius cum T. Verginio consul factus neque belli neque dilectus neque ullam aliam priorem curam agere, quam ut iam aliqua ex parte inchoata concordiae spe primo quoque tempore cum patribus coalescerent animi plebis. [2] itaque principio anni censuit, priusquam quisquam agrariae legis auctor tribunus existeret, occuparent patres ipsi suum munus facere, captiuum agrum plebi quam maxime aequaliter darent: [3] uerum esse habere eos, quorum sanguine ac sudore partus sit. aspernati patres sunt; questi quoque quidam nimia gloria luxuriare et euanescere uiuidum quondam illud Caesonis ingenium. nullae deinde urbanae factiones fuere. uexabantur incursionibus Aequorum Latini.
[4] Eo cum exercitu Caeso missus in ipsorum Aequorum agrum depopulandum transit. Aeque se in oppida receperunt murisque se tenebant. eo nulla pugna memorabilis fuit. [5] at a Veiente hoste clades accepta temeritate alterius consulis, actumque de exercitu foret, ni K. Fabius in tempore subsidio uenisset. ex eo tempore neque pax neque bellum cum Veientibus fuit; res proxime formam latrocinii uenerat: [6] legionibus Romanis cedebant in urbem; ubi abductas senserant legiones, agros incursabant bellum quiete, quietem bello in uicem eludentes. ita neque omitti tota res nec perfici poterat. et alia bella aut praesentia instabant, ut ab Aequis Volscisque, non diutius, quam dum recens dolor proximae cladis transiret, quiescentibus, aut mox moturos esse apparebat Sabinos semper infestos Etruriamque omnem. [7] sed Veiens hostis, adsiduus magis quam grauis, contumeliis saepius quam periculo animos agitabat, quod nullo tempore neglegi poterat aut auerti alio sinebat. tum Fabia gens senatum adiit. [8] consul pro gente loquitur: «Adsiduo magis quam magno praesidio, ut scitis, patres conscripti, bellum Veiens eget. uos alia bella curate, Fabios hostis Veientibus date. auctores sumus tutam ibi maiestatem Romani nominis fore. [9] nostrum id nobis uelut familiare bellum priuato sumptu gerere in animo est; res publica et milite illic et pecunia uacet». [10] gratiae ingentes actae. consul e curia egressus comitante Fabiorum agmine, qui in uestibulo curiae senatus consultum expectantes steterant, domum redit. iussi armati postero die ad limen consulis adesse; domos inde discedunt.
Un guerriero regge un commilitone ferito. Pinnacolo di candelabro, bronzo, 480-470 a.C. ca. New York, Metropolitan Museum of Art.
[48. 1] Per desiderio della plebe non meno che dei patrizi fu dunque eletto console, insieme con Tito Virginio, Cesone Fabio, ed egli, prima che alla guerra e alla leva, prima che ad ogni altra cosa, pensava a far sì che, ora ch’era sorta qualche speranza di concordia, gli animi della plebe si pacificassero al più presto coi patrizi. [2] Perciò al principio dell’anno propose che, prima che qualche tribuno si facesse promotore d’una legge agraria, i patrizi prendessero loro per primi questa iniziativa: distribuissero alla plebe, il più equamente possibile, il territorio tolto ai nemici; era giusto che lo possedessero coloro che lo avevano conquistato col proprio sangue e col proprio sudore. [3] I senatori respinsero la proposta; alcuni si dolsero anche che per la troppa gloria insuperbisse e vaneggiasse l’animo di Cesone, ch’era stato un tempo tanto vigoroso.
[4] Non si ebbero in seguito altre contese nell’Urbe, mentre i Latini erano travagliati dalle scorrerie degli Equi. Mandato là con l’esercito, Cesone passò nel territorio degli Equi stessi per devastarlo. Gli Equi si ritirarono nelle loro città, e se ne stavano chiusi entro le mura; perciò non vi fu alcuna battaglia degna di nota. [5] Ma si subì una sconfitta da parte dei Veienti per la temerarietà dell’altro console[1], e l’esercito sarebbe stato perduto, se Cesone Fabio non fosse tempestivamente accorso in suo aiuto. Da allora coi Veienti non vi fu né pace né guerra, si era ormai giunti a una specie di brigantaggio. [6] Dinanzi alle legioni romane si ritiravano in città; quando s’accorgevano che le legioni erano state allontanate, facevano scorrerie nei campi, eludendo alternativamente la guerra con la quiete e la quiete con la guerra. Così l’impresa non poteva essere né abbandonata del tutto né compiuta; e intanto altre guerre, o erano imminenti, come quella da parte degli Equi e dei Volsci, poiché essi sarebbero rimasti quieti solo fin tanto che passasse il recente dolore dell’ultima sconfitta, o appariva evidente che le avrebbero ben presto intraprese i Sabini, sempre ostili, e l’Etruria tutta. [7] Ma il nemico veiente, più ostinato che temibile, più spesso con le provocazioni che col pericolo, teneva in agitazione gli animi, poiché non poteva in alcun momento essere trascurato né consentiva che si pensasse ad altro. Allora la gens Fabia si presentò al Senato[2]. [8] A nome di tutti parlò il console: «Come voi sapete, o padri coscritti, la guerra contro i Veienti richiede una difesa più continua che impegnativa. Pensate voi alle altre guerre, e riservate ai Fabii quella contro i Veienti. Vi garantiamo che da questa parte l’onore del popolo romano sarà tutelato. [9] Noi intendiamo condurre questa guerra come se riguardasse soltanto la nostra famiglia, a nostre spese; per questa guerra la res publica non dovrà dare alcun contributo, né di uomini né di denaro». Gli furono rivolti vivi ringraziamenti. [10] Il console, uscito dalla Curia insieme con la schiera dei Fabii, che si erano trattenuti nel vestibolo in attesa della decisione del Senato[3], tornò a casa. Ricevettero l’ordine di presentarsi il giorno seguente, in armi, davanti all’abitazione del console; quindi si ritirarono nelle loro case.
[49.1] manat tota urbe rumor; Fabios ad caelum laudibus ferunt: familiam unam subisse ciuitatis onus, Veiens bellum in priuatam curam, in priuata arma uersum. si sint duae roboris eiusdem in urbe gentes, [2] deposcant haec Volscos sibi, illa Aequos, populo Romano tranquillam pacem agente omnes finitimos subigi populos posse. Fabii postera die arma capiunt; quo iussi erant, conueniunt. [3] consul paludatus egrediens in uestibulo gentem omnem suam instructo agmine uidet; acceptus in medium signa ferri iubet. numquam exercitus neque minor numero neque clarior fama et admiratione hominum per urbem incessit: [4] sex et trecenti milites, omnes patricii, omnes unius gentis, quorum neminem ducem sperneres, egregius quibuslibet temporibus senatus, ibant, unius familiae uiribus Veienti populo pestem minitantes. [5] sequebatur turba, propria alia cognatorum sodaliumque, nihil medium, nec spem nec curam, sed inmensa omnia uoluentium animo, alia publica sollicitudine excitata, fauore et admiratione stupens. [6] ire fortes, ire felices iubent, inceptis euentus pares reddere; consulatus inde ac triumphos, omnia praemia ab se, omnes honores sperare. [7] praetereuntibus Capitolium arcemque et alia templa, quidquid deorum oculis, quidquid animo occurrit, precantur, ut illud agmen faustum atque felix mittant, sospites breui in patriam ad parentes restituant. [8] in cassum missae preces. infelici uia, dextro Iano portae Carmentalis, profecti ad Cremeram flumen perueniunt. is opportunus uisus locus communiendo praesidio.
Aemilius inde et C. Seruilius consules facti. [9] et donec nihil aliud quam in populationibus res fuit, non ad praesidium modo tutandum Fabii satis erant, sed tota regione, qua Tuscus ager Romano adiacet, sua tuta omnia, infesta hostium uagantes per utrumque finem fecere. [10] interuallum deinde haud magnum populationibus fuit, dum et Veientes accito ex Etruria exercitu praesidium Cremerae oppugnant, et Romanae legiones ab L. Aemilio consule adductae comminus cum Etruscis dimicant acie. quamquam uix derigendi aciem spatium Veientibus fuit; [11] adeo inter primam trepidationem, dum post signa ordines introeunt subsidiaque locant, inuecta subito ab latere Romana equitum ala non pugnae modo incipiendae, sed consistendi ademit locum. [12] ita fusi retro ad saxa rubra—ibi castra habebant—pacem supplices petunt; cuius impetratae ab insita animis leuitate ante deductum Cremera Romanum praesidium paenituit.
Guerriero etrusco. Bronzo, statuetta, 450 a.C. ca.
[49. 1] La voce si sparge per tutta la città; si portano i Fabii alle stelle: una sola famiglia, si dice, si è assunta il peso dell’intera cittadinanza, la guerra contro i Veienti è divenuta un impegno privato, una contesa privata. [2] Se in citta vi fossero altre due genti della medesima forza, e una chiedesse per sé come avversari i Volsci, l’altra gli Equi, si potrebbero sottomettere tutti i popoli vicini senza turbare minimamente la pace e la tranquillità del popolo romano. Il giorno seguente i Fabii si armano e si radunano nel luogo convenuto. [3] Il console, uscendo nel vestibolo vestito del mantello militare, vede tutta la sua gens schierata in assetto di guerra; postosi al centro, dà l’ordine di mettersi in marcia. Mai esercito né più piccolo per numero né più insigne per la sua fama e per l’ammirazione della folla passò per la città. [4] Trecentosei soldati, tutti patrizi, tutti della stessa gens, nessuno dei quali avresti giudicato indegno del comando, tali da costituire in qualunque momento un egregio Senato, avanzavano minacciando rovina al popolo veiente con le forze d’una sola famiglia. [5] Li seguiva una folla, in parte di loro parenti ed amici che non nutrivano nell’animo alcun pensiero meschino; né speranze né preoccupazioni, ma solo sentimenti sublimi, in parte di gente infiammata dall’amor di patria, presa dall’entusiasmo e dall’ammirazione. [6] Li salutano con l’augurio che il coraggio e la fortuna non li abbandonino, che ottengano un successo pari all’impresa: in seguito a ciò potranno sperare da loro consolati e trionfi, tutti i premi, tutti gli onori. [7] Mentre passano davanti al Campidoglio, alla rocca e agli altri templi, supplicano tutte le divinità che si presentano ai loro occhi, tutte quelle che vengono loro in mente, di accordare favore e fortuna a quella schiera, di restituirla in breve tempo, sana e salva, in patria ai suoi cari. Vane riuscirono le preghiere. [8] Partiti per la via Infelice dall’arco destro della porta Carmentale[4], giunsero al fiume Cremera[5]. Questo parve il luogo adatto per fortificarvisi.
[9] Furono poi eletti consoli Lucio Emilio e Gaio Servilio. E finché non si trattò d’altro che di saccheggi, i Fabii non soltanto bastavano a difendere la loro posizione, ma in tutta la regione in cui la campagna etrusca confina con quella romana, spostandosi da un territorio all’altro, resero del tutto sicuro il proprio e malsicuro quello dei nemici. [10] Cessarono poi per breve tempo i saccheggi, finché i Veienti, fatto venire un esercito dall’Etruria, attaccarono il presidio del Cremera, e le legioni romane, condotte dal console Lucio Emilio, combatterono in campo aperto, a corpo a corpo, con gli Etruschi; [11] per altro, i Veienti ebbero appena il tempo di schierarsi: a tal punto, al primo allarme, mentre si disponevano dietro le insegne e collocavano le riserve, l’ala dei cavalieri romani, assalitili improvvisamente di fianco, tolse loro la possibilità non solo d’ingaggiare battaglia ma anche di mantenere le posizioni. [12] Così, ricacciati in fuga fino alle Rocce Rosse[6] – qui avevano l’accampamento –, chiesero supplichevolmente la pace. Ma d’averla ottenuta si pentirono, per la loro innata volubilità, prima che il presidio romano venisse ritirato dal Cremera.
[50. 1] rursus cum Fabiis erat Veienti populo sine ullo maioris belli apparatu certamen, nec erant incursiones modo in agros aut subiti impetus in incursantes, sed aliquotiens aequo campo conlatisque signis certatum, gensque una populi Romani saepe ex opulentissima, [2] ut tum res erant, Etrusca ciuitate uictoriam tulit. [3] id primo acerbum indignumque Veientibus est uisum; inde consilium ex re natum insidiis ferocem hostem captandi; gaudere etiam multo successu Fabiis audaciam crescere. [4] itaque et pecora praedantibus aliquotiens, uelut casu incidissent, obuiam acta, et agrestium fuga uasti relicti agri, et subsidia armatorum ad arcendas populationes missa saepius simulato quam uero pauore refugerunt.
[5] Iamque Fabii adeo contempserant hostem, ut sua inuicta arma neque loco neque tempore ullo crederent sustineri posse. haec spes prouexit, ut ad conspecta procul a Cremera magno campi interuallo pecora, quamquam rara hostium apparebant arma, decurrerent. [6] et cum inprouidi effuso cursu insidias circa ipsum iter locatas superassent palatique passim uaga, ut fit pauore iniecto, raperent pecora, subito ex insidiis consurgitur, et aduersi et undique hostes erant. [7] primo clamor circumlatus exterruit, dein tela ab omni parte accidebant; coeuntibusque Etruscis iam continenti agmine armatorum saepti, quo magis se hostis inferebat, cogebantur breuiore spatio et ipsi orbem colligere, quae res [8] et paucitatem eorum insignem et multitudinem Etruscorum multiplicatis in arto ordinibus faciebat. tum omissa pugna, [9] quam in omnes partes parem intenderant, in unum locum se omnes inclinant. eo nisi corporibus armisque rupere cuneo uiam. [10] duxit uia in editum leniter collem. inde primo restitere; mox, ut respirandi superior locus spatium dedit recipiendique a pauore tanto animum, pepulere etiam subeuntes; uincebatque auxilio loci paucitas, ni iugo circummissus Veiens in uerticem collis euasisset. [11] ita superior rursus hostis factus. Fabii caesi ad unum omnes praesidiumque expugnatum. trecentos sex perisse satis conuenit, unum prope puberem aetate relictum, stirpem genti Fabiae dubiisque rebus populi Romani saepe domi bellique uel maximum futurum auxilium.
Scontro fra Etruschi e Romani. Illustrazione di G. Rava.
[50. 1] Il popolo veiente si trovava di nuovo a dover lottare coi Fabii, senza alcun maggiore preparativo di guerra; né si avevano soltanto incursioni nelle campagne o improvvisi attacchi contro gli aggressori, [2] ma si combatté più volte in campo aperto e in schiere ordinate, e una sola gens del popolo romano riportò più d’una vittoria su quella città etrusca per quei tempi potentissima. [3] Ciò parve dapprima amaro e ignominioso ai Veienti; nacque poi dalle circostanze il proposito di cogliere di sorpresa il fiero nemico; essi anzi si rallegravano molto che coi successi crescesse l’audacia dei Fabii. [4] Perciò più volte, quand’essi venivano a far preda, fu spinto verso di loro del bestiame, come se fosse capitato là per caso, vaste campagne rimasero abbandonate per la fuga dei coloni, e le truppe di rincalzo inviate a respingere i saccheggiatori si ritirarono fuggendo, con terrore più spesso simulato che reale.
[5] E già i Fabii erano giunti a disprezzare a tal punto il nemico, da credere che alle loro armi invitte non si potesse da nessuna parte e in nessun momento resistere. Questa illusione li spinse ad abbandonare le loro posizioni per raggiungere del bestiame che essi avevano avvistato lontano dal Cremera, di là da una grande spianata, quantunque qua e là apparissero degli armati nemici. [6] E quando ebbero incautamente sorpassato a gran corsa gli agguati disposti lungo il loro passaggio, mentre sparsi qua e là trascinavano le bestie, che per la paura, come avviene, s’erano sbandate per ogni dove, si balzò fuori improvvisamente dagli agguati; e di fronte e dappertutto v’erano nemici. [7] Dapprima li atterrì il clamore che si levò all’intorno, poi da ogni parte cominciarono a piovere dardi; e poiché gli Etruschi serravano le file, anch’essi, già circondati da fitte schiere, quanto più il nemico incalzava, tanto più erano costretti a raccogliersi in cerchio entro breve spazio: [8] situazione, questa, che rendeva evidente il loro scarso numero e quello grande degli Etruschi, essendosi moltiplicate in quel ristretto spazio le file. [9] Allora, rinunciando alla resistenza ch’essi in ogni parte avevano validamente opposta, ripiegarono tutti nello stesso punto, verso il quale s’aprirono una via con la forza dei corpi e delle armi disponendosi a cuneo. [10] Giunsero così a un colle in dolce pendio. Di là dapprima resistettero; poi, come la posizione più elevata diede loro modo di riprendere fiato e di riaversi da sì grande spavento, respinsero anche gli assalitori, e quel pugno d’uomini avrebbe vinto grazie alla posizione, se i Veienti, aggirando un giogo del colle, non ne avessero raggiunto la cima. [11] Così il nemico ebbe di nuovo il sopravvento. I Fabii furono trucidati tutti fino all’ultimo e la posizione fu espugnata. Si dà per certo che ne morirono trecentosei, e che ne rimase uno solo[7], ormai quasi adulto, destinato a perpetuare la stirpe dei Fabii e ad essere anche spesso, in pace e in guerra, nei momenti difficili, un validissimo sostenitore del popolo romano.
Note:
[1] Che sia stata la sconsideratezza del comandante a produrre la sconfitta, e non la debolezza o la viltà del popolo romano in armi, è un motivo moraleggiante che Livio ripete più volte (cfr. III, 4; V, 18; VI, 30, ecc.).
[2] Inizia qui l’episodio della guerra con i Veienti, il cui peso è sopportato solamente dalla gens Fabia (verosimilmente insieme con il complesso dei suoi clientes, come osserva A. Momigliano, Osservazioni sulla distinzione tra patrizi e plebei, in Id., Quarto contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma 1969, pp. 446-447). Quali furono i motivi di questa guerra contro Veio? Secondo l’Ogilvie, Veio era stata costretta dagli ultimi avvenimenti a prendere l’iniziativa. La creazione delle nuove tribù Claudia e Crustumina (vd. 21) aveva privato la sua città satellite, Fidene, della maggior parte del suo territorio e aveva fornito a Roma un controllo sul commercio di sale di Veio con l’interno. La formazione di un’alleanza latina aveva fatto Roma, invece che Veio, centro del commercio dell’area laziale. La sopravvivenza di Veio dipendeva dal riprendere il controllo della riva sinistra del Tevere e rientrare in comunicazione con Praeneste e le altre città del sud.
[3] La spedizione dei Fabii fu considerata non una vera e propria spedizione militare, ma una coniuratio, cioè un corpo di spedizione formato non da una leva decisa dallo “Stato”, ma da volontari, in un momento di bisogno. Il Senato non poteva iniziare da solo la guerra né poteva dare legittimità ad una coniuratio che per sua stessa natura si trovava al di fuori della cornice costituzionale (Ogilvie).
[4] Cfr. la analoga espressione di Ovidio (Fasti II, 201): Carmentis portae dextro est uia proxima iano. L’episodio dei Fabii è narrato da Ovidio in Fasti II, 195-242.
[5] Il Cremera è un piccolo torrente che scende dal territorio di Veio e si getta nel Tevere circa otto chilometri a nord di Roma.
[6] Corrisponde all’attuale Prima Porta, sulla via Flaminia. Deve il suo nome alle rocce rosse di tufo che vi si trovavano. Vi passava la strada che portava a Fidene: questo testimonia l’interesse di Veio per la sorte di questa città.
[7] Riferimento alla discendenza dei Fabii, e in particolare a Quinto Fabio Massimo Temporeggiatore, che si guadagnò la sua fama organizzando la resistenza di Roma contro Annibale.
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