Darwin combatteva a Troia

 

di Modeo S., in «La Lettura – Corriere della Sera» n°378, 24 febbraio 2019, pp. 3-5.

 

 

Visioni Le scienze naturali allargano la prospettiva degli studi tradizionali sul mondo omerico.

 

Il mondo tardo-miceneo dell’Iliade torna ora con diverse proposte editoriali italiane, tra cui spicca una nuova traduzione di Franco Ferrari (Mondadori): un nuovo corpo a corpo con l’esametro dattilico in cui si è depositato, alla metà dell’VIII secolo avanti Cristo, un plurisecolare flusso di narrazioni orali.

Può essere l’occasione per accostarsi a quel mondo — nello stesso tempo a noi alieno come il frammento storico di una Terra extrasolare e prossimo, anzi intimo, come pochi altri per le tante domande che continua a insinuare — in una prospettiva meno battuta: quella delle scienze naturali, cioè di discipline — dalla biologia evoluzionistica alla neuropsicologia — che negli ultimi anni e decenni hanno letto i poemi omerici (in particolare proprio l’Iliade) per integrare, non per contrastare, le acquisizioni in campo umanistico. Il tutto cercando di far confluire, senza confonderle, filologia e fisiologia, critica letteraria e bio-antropologia.

Un buon avvio, in quest’ottica, può essere la lettura della nuova, densa sintesi dell’archeologo Eric H. Cline (La guerra di Troia, Hoepli). Ricordando il lungo apogeo (1700-1200 a.C.) delle due forze in campo (Micenei e Ittiti, dei quali i Troiani erano vassalli nella stessa area anatolica, oggi turca), Cline ne individua il simultaneo declino-collasso — tra XIII e XII secolo — in un incrocio di cause geologiche (i sismi, entro una crisi climatica globale), conseguente tracollo socio-economico e spostamenti migratori (la data-spartiacque simbolica è il 1177 a.C., anno dell’invasione dei cosiddetti Popoli del Mare). Contesto in cui si conterebbero almeno trequattro conflitti tra Micenei e Ittiti/Troiani (un tempo partner commerciali): al punto che il poema, più che riferirsi a una guerra specifica (magari all’assedio della Troia cosiddetta VIIa, successiva alla VIh, distrutta dal terremoto), sembrerebbe «condensarne» diverse. Così come condensa tratti e riferimenti dell’Età del Bronzo (guerrieri con una lunga lancia singola, lo scudo «a torre» di un Aiace) con quelli dell’Età del Ferro, epoca delle prime redazioni (guerrieri con due lance, lo scudo di Achille con la Gorgone).

Gustave Boulanger, Ulisse riconosciuto da Euriclea. Olio su tela, 1849. Paris, Musée des Beaux-Arts.

È un’ottica che muta la guerra omerica da «evento» a «processo», a conferma di una trasmissione orale (dimostrata a partire dagli studi di Milman Parry sui cantori jugoslavi) stratificata almeno quanto le Ilio archeologiche e culminata nelle versioni dei rapsodi di Chio, probabile luogo nativo di «Omero»; e quindi del fatto che il poema sia una concentrazione-trasfigurazione (a lungo strutturata e aperta, tra il canone dei formulari e le infinite variazioni) di un paesaggio storico-sociale in divenire.

Tutt’altro che secondario è l’inciso di Cline sul «versante ittita» della guerra, con la simmetria lessicale (Wilusa/Wilusiya per Troia/Ilio; Alaksandu per Alessandro/Paride; gli Ahhiyawa per gli Achei/Micenei) che può diventare ancora più avvincente col profilarsi di una possibile Wilusiade. Tra le tavolette ritrovate dagli archeologi tedeschi a Hattusha (capitale ittita a 200 chilometri dall’odierna Ankara) ce ne sono infatti alcune in luvio, antico dialetto anatolico, contenenti due «versi» di un ipotetico contro-poema, in cui il riferimento alla «ripida Wilusa» richiama la «ripida Ilio». È una specularità minima, molecolare; ma lo studio delle tavolette è solo agli inizi.

 

Pittore anonimo. Scena di combattimento fra Achei e Troiani. Pittura vascolare da una kylix attica a figure rosse, 490 a.C. ca. da Vulci. Paris, Musée du Louvre.

 

La risalita all’inizio della dark age greca — al declino-collasso del mondo miceneo — è la base da cui parte The Rape of Troy, testo originale e provocatorio di Jonathan Gottschall (studioso di letteratura in chiave darwiniana), in cui l’attenzione all’incidenza del contesto storico-sociale si allarga a quella per le invarianze bio-antropologiche (ai tratti stabili della «natura umana»).

L’opprimente aura di «competizione ossessiva» (il «conflitto permanente») del poema viene infatti ricondotta a una società in decadenza (villaggi spopolati, assenza di legalità, crisi produttiva e commerciale) in cui la guerra intesa come conquista di risorse è una necessità quotidiana. Ma tutto questo è acuito — è uno dei passaggi più innovativi del libro — dalla carenza di giovani donne, dovuta alla diffusa poliginia (vedi le 28 schiave offerte da Agamennone ad Achille come compenso per la sottrazione di Briseide) e alla morte precoce, per abbandono o denutrizione, della prole femminile, non funzionale a una società così militarizzata. Non a caso, i poemi omerici sono incentrati affettivamente quasi solo su rapporti padri-figli: nell’Ade, l’ombra di Agamennone, parlando a Odisseo, rimpiange il figlio e dimentica le tre figlie. L’implicazione primaria è evidente: per quanto la guerra dipenda dalle citate ragioni socio-economiche (in particolare il controllo dell’Ellesponto come passaggio-chiave dal Mediterraneo al Mar Nero) e per quanto ogni guerriero combatta per molte altre ragioni (status, prestigio, fama, bottino, addiction paradossale dalla guerra stessa), nell’Iliade le donne sono un obiettivo «in sé», come ratifica Achille (che passa «giornate sanguinose» «a lottare coi nemici per catturarne le compagne», IX, 326-7); e Briseide ed Elena, in questo senso, diventano ben più che casus belli poetici.

 

Guerrieri in marcia. Pittura vascolare da un cratere miceneo, Periodo Elladico recente IIIC (XII secolo a.C.), dalla ‘Casa del cratere dei guerrieri’ (Micene). Museo Archeologico Nazionale di Atene.

 

Per dare un’idea del peso e della forza archetipica di questa componente adattativo-riproduttiva nel «muovere» il conflitto, Gottschall ne paragona l’epilogo (il sacco-ratto cui allude il titolo del libro, con uomini massacrati e donne schiavizzate) a quello di Nanchino del 1937-38, in Cina, quando l’esercito imperiale nipponico stermina migliaia di maschi e sequestra tra le 20 e le 80 mila donne.

In coerenza con la prospettiva darwiniana della sua lettura, Gottschall non poteva non soffermarsi anche sul lessico dell’Iliade, specie sul mix di freddezza e vividezza anatomo-fisiologica che registra il supplizio dei corpi nelle tante sequenze splatter. Lessico cui era stato sensibile, prima di lui, un altro studioso, lo psicologo sperimentale Julian Jaynes, tanto da dedicarvi un capitolo del suo Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza (longseller Adelphi).

La teoria portante del libro è a dir poco eterodossa, dato che riconduce la genesi della coscienza nel cervello del Sapiens al dissolversi di quel diaframma tra i due emisferi (razional-linguistico e irrazional-trascendente) ancora presente nei personaggi dell’Iliade, tormentati dagli dèi come certi psicotici lo sono dalle «voci» o dalle «allucinazioni». Eppure — oltre a ricordare, in questo modo, la matrice onirico-visionaria del «realismo» omerico — Jaynes svolge due messe a fuoco interessanti.

Gorytós con scene di Ilioupérsis. Oro, fine IV secolo a.C. dalla Tomba di Filippo II, Verghina.

Per mostrare nel poema l’assenza di una visione «dualistica» in chiave platonica (mente versus corpo), legge molti termini-chiave dell’Iliade in senso strettamente fisiologico: psyché, ad esempio, non è ancora l’«anima», ma indica solo sostanze vitali come il sangue o funzioni come il respiro (spesso esalato dal guerriero al momento della morte); e il thymós non è ancora l’«anima emotiva» ma solo il «movimento» o l’«agitazione» corporea. Non tutti concordano: lo storico della filosofia Anthony A. Long vede in quei termini, più compiutamente, versanti plastici di un’unità funzionale e nelle figure omeriche «identità psicosomatiche»: thymós — secondo i contesti — vale già anche come «carattere» o «animo». Ma anche accettando questa correzione, Jaynes, nella sostanza, ha ragione: nel senso che quelle identità — pur dotate di mente e coscienza nel modo più compiuto, senza che sia necessario alcuno «scarto» dualistico — sembrano muoversi in un mondo di gradazioni di materia, dalle più intense alle più tenui (o, al limite, di materia e astrazione insieme).

Basta rileggere, al riguardo, la discesa di Odisseo all’Ade, con la madre e le altre «anime» («ombre» o «sogni» i cui «nervi» non congiungono più ossa e carne) che prima di parlare all’eroe bevono il «sangue fumante» delle bestie sacrificate. In più, per negare ai personaggi il libero arbitrio, che solo una «coscienza» presuppone, Jaynes li presenta come semplici automi degli dèi-burattinai. Anche qui, legittimamente, non tutti concordano: la filosofa bulgaro-francese di origine ebrea Rachel Bespaloff (di cui sempre Adelphi ha riproposto i densi micro-saggi sull’Iliade) pensa che «un margine di libertà» resti, anche solo per garantire agli dèi capricciosi e annoiati uno spettacolo «non preordinato». Ma, anche qui, Jaynes centra il punto: il «piano di Zeus» annunciato nell’incipit del poema si realizza in pieno; e le «identità» omeriche — pur vivendo con angoscia la soggezione al Fato e al ferreo determinismo divino — non sono in grado di ribellarsi in maniera frontale: per quello, ci vorranno — oltre due secoli dopo — le figure dei Tragici, da Prometeo ad Antigone.

 

Pittore Dolone. Odisseo interroga Tiresia. Lato A di un calyx-krater lucano a figure rosse, IV sec. a.C. Paris, Cabinet des Médailles.

Alla fine, le «identità psicosomatiche» del poema (ma in fondo anche gli dèi, immortali ma a loro volta sopraffatti dal páthos: libidine e furia, astio e vendetta) sembrano più che altro in lotta con le loro radici bio-evolutive, «animali tra altri animali», come rimarca il vasto ventaglio di similitudini che li assimila a sparvieri e colombe, aquile e serpi. Intitolando il suo studio sul tema Tra uomini e leoni, il classicista Michael Clarke si riferisce alla natura «ferina» di Achille, dominato dalla mênis, (l’«ira»). Eppure, anche Achille, nell’abbraccio finale con Priamo che reclama il cadavere di Ettore — chiusura circolare del poema, in rimando alla richiesta iniziale dell’anziano Crise per il riscatto della figlia — è un carattere mutato. Sembra ricordare a tutti noi la tensione tra i vincoli della nostra animalità e le aspirazioni della nostra umanità. Ed è proprio questo uno dei bagliori, forse il più intenso, che continuano a rilucere dal «mondo buio» (Nietzsche) della civiltà greca arcaica.

 

Pittore di Briseide. Priamo entra nella tenda di Achille. Pittura vascolare dal tondo di una kylix attica a figure rosse, 480 a.C. ca., da Vulci. Paris, Musée du Louvre.

L’attualità dei miti

di BONAZZI M., L’attualità dei miti, in «La Lettura – Corriere della Sera» n°378, 24 febbraio 2019, p. 2.

La biologia evoluzionista rilegge l’«Iliade», un regista mette in scena le infelicità di Menelao, una romanziera esordiente (ri)scrive la vita di Elena… Nessuno crede più a certe favole, si preoccupa di dire Socrate, eppure quelle favole parlano di persone (padri, madri, figli, amanti) che sbagliano e pagano per i loro errori. Cioè di noi. Perché, quando scienza e filosofia non riescono a spiegare tutto, resta…

Dal mythos al logos è il titolo di un’opera poderosa, scritta dal filologo tedesco Wilhelm Nestle nel 1940. È anche la descrizione più efficace di come tendiamo a interpretare noi stessi e la nostra storia. C’è stato il tempo delle favole e dei racconti, affascinanti ma ingenui. Poi è venuto il tempo dei ragionamenti, per affrontare i problemi in modo più efficace, da persone adulte. L’idea era già diffusa nell’antichità, come spiega Socrate al suo interlocutore nel Fedro platonico. Passeggiando, erano arrivati in prossimità di un piccolo tempio in onore di Orizia, una ninfa che, si raccontava, era stata rapita da Borea, una divinità campestre. Ma nessuno credeva ormai più a queste storie, Socrate si premura di aggiungere: Borea, lo sanno tutti, è il vento del Nord, ed è a quello, a quello soltanto, che si allude. Magari una ragazza era inavvertitamente precipitata e «da questa morte si era sparsa la leggenda del rapimento da parte di Borea».

Pittore del Salto. Borea rapisce Orizia. Dettaglio su oinochoe apula a figure rosse, 360 a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.

I miti, riletti alla luce del logos, altro non sono, insomma, che un primo tentativo, non sempre riuscito, di descrivere l’immenso mondo che ci circonda. Ma non è più tempo per questi voli fantastici; quello che serve, ormai, sono precisione e chiarezza: così scriveva pochi anni dopo Aristotele, un altro che aveva poca pazienza per questi racconti confusi. Era un cambio di prospettiva radicale: i miti — Borea e Orizia lo testimoniano — raccontano di passioni cruente, gesti estremi. Niente di più distante dal mondo di cui parlavano scienziati e filosofi, regolare e ordinato. Inesorabilmente, le figure del mito recedono sullo sfondo, smettono di parlare come le figure dipinte sull’urna, «figlie del silenzio e del lento tempo», di cui avrebbe cantato il poeta inglese John Keats all’inizio dell’Ottocento.

Ma davvero la scienza e la filosofia, le due figlie del logos, riescono a spiegare tutto? Curiosamente, ma non per caso, Socrate e John Keats alludevano entrambi a vicende in cui dominavano incontrastate le passioni («Che uomini o dèi sono questi? Quali fanciulle schive? Che folle inseguimento? Che lotta per sfuggire?»). Quasi sempre i miti raccontano storie violente e dolorose. Non è un dettaglio insignificante. Il tempo passa, ma gli uomini an- cora non hanno imparato a fare i conti con il fondo oscuro del loro animo. E la domanda di Socrate, davanti all’altare di Borea, attende ancora una risposta: ma chi siamo noi veramente? Ci crediamo razionali, siamo convinti di avere tutto sotto controllo, lontani dalle creature del mito e dalle loro vicende mostruose. Ma troppo spesso scopriamo che le nostre scelte e le nostre azioni inseguivano desideri e passioni di cui forse non eravamo neppure consapevoli. Davvero siamo così diversi da queste creature violente, superiori a loro? Silenziosi come nella poesia di Keats, gli eroi del mito non rispondono. Ma le loro avventure sono forse lo strumento migliore per avventurarci nelle profondità di noi stessi.

Pittore Imarmene. Afrodite persuade Elena a fuggire con Paride. Pittura vascolare su anfora attica a figure rosse, 430 a.C. ca. Berlin, Antikensammlung.

Elena travolta dal desiderio che scappa con Paride e Menelao che la insegue: ma come sarà la loro vita, dopo che si sono riuniti? Agamennone che uccide la figlia per conservare il suo potere: facile criticare, ma quante volte le ambizioni personali hanno preso il sopravvento su tutto il resto? Clitennestra che vendica la memoria della figlia uccidendo il marito e Oreste che uccide la madre per vendicare la memoria del padre: e qui chi è davvero colpevole? Medea che uccide i figli per odio del marito: si può arrivare a tanto? Achille travolto dalla rabbia che causa la morte di Patroclo, l’anima gemella: decisioni prese senza pensarci che producono effetti inattesi…

Cruenti ed esagerati, i miti in fondo raccontano le storie molto semplici di persone (padri, madri, figli, amanti, amici) che sbagliano e pagano per i loro errori. Grazie all’essenzialità delle loro trame, ci portano al cuore dei problemi, che sono sempre gli stessi e che nessuno ha ancora risolto — amore, odio, tradimenti, ambizioni, nobili imprese e gesti miseri: è forse cambiato qualcosa? E così ci aiutano a capire che le cose sono meno semplici di come ci illudiamo che siano. Ma lo fanno senza pretendere di impartire alcuna lezione, senza cercare alcuna morale: sanno — lo sanno da sempre — che siamo più deboli di quello che pensiamo, e che è impossibile controllare tutto. Per questo raccontano e non giudicano: perché, come cantava Fabrizio De André, i buoni consigli li danno solo quelli che non possono più dare il cattivo esempio. Non è cosa loro. Loro ci fanno sentire meno soli, quando finalmente scopriamo che la vita è un gioco complicato e che i buoni consigli è meglio se uno se li tiene per sé.

Pittore Macron, Briseide viene condotta ad Agamemnone. Pittura vascolare dal lato B di uno skyphos attico a figure rosse, 480 a.C. Paris, Musée du Louvre.

C’è una specie di grandezza in tutto questo, come vide uno dei più grandi scrittori del Novecento. L’infinita sequenza di fatti ed eventi che compongono la nostra vita, intrecciandola con quella degli altri, ha un senso o è soltanto una combinazione casuale di episodi isolati, come dune di sabbia che si creano e disperdono su una spiaggia? James Joyce aveva le idee ben chiare in proposito, quando scrisse l’Ulisse. Non è vero che tutto è accidentale; persino la giornata — mediocre, apparentemente inutile — di un impiegato qualsiasi in un qualsiasi ufficio di Dublino (Genova, Utrecht, Palermo) rinnova qualcosa che c’è già stato e che di nuovo sarà, ripete un disegno che dà senso e valore, è un’impresa non meno eroica di quella di Odisseo. È la solita storia dei signor Nessuno — non si definiva così l’eroe dell’Odissea? —; persone apparentemente banali e insignificanti, impegnate in realtà nell’impresa più grandiosa, che è quella di trovare una rotta per navigare nel labirinto indecifrabile della vita. In un misto di eroismo, grettezza e involontaria comicità; senza bussola e senza punti di riferimento; dominati da forze interne (le passioni, i desideri) ed esterne (la pressione sociale, doveri di ogni ordine e specie) di cui non sono neppure consapevoli; e per questo sempre sul punto di commettere un errore che li perderà.

È la storia di tutti noi: esseri deboli e in realtà grandi, grandi proprio perché deboli, ma mai domi. Perché nonostante la nostra debolezza non ci arrendiamo e continuiamo a combattere: non c’è battaglia più eroica di quella che si combatte nella vita di tutti giorni. Sembrano storie lontane quelle dei miti, con i loro eroi bellissimi e giovanissimi, avvolti nella porpora e nell’oro. Forse non sono neppure mai esistiti. Ma le loro avventure sono le nostre e loro sono qui da sempre, tra di noi, contenti di farci sentire meno soli quando ci capita di sbagliare. «Il mito è il nulla che è tutto», cantava Pessoa: difficile dargli torto.

 

Omero. Busto, marmo, copia romana da originale di II sec. a.C. Roma, Musei Capitolini.