Alessandro: un uomo ricco di vizi e di virtù (Curt., Alex. X 5, 26-36)

di F. PIAZZI, A. GIORDANO RAMPIONI, Multa per aequora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina. 2. Augusto e la prima età imperiale, Bologna 2004, pp. 513-515; Curzio Rufo, Storie di Alessandro Magno, a cura di G. PORTA, Milano 2011, pp. 1118-1125.

 

Nella Roma imperiale Alessandro ispirò pose e comportamenti dei vari principi. Nelle scuole di retorica i futuri oratori o avvocati apprendevano repertori di exempla e schemi argomentativi pronti per l’uso, cioè utilizzabili in varie occasioni. La figura del giovane sovrano macedone rientrava negli exempla di patientia, constantia, amicitia, clementia, iracundia, superbia e, soprattutto, cupiditas gloriae. Rappresentava anche, come nel passo di seguito proposto, il tipo del temerario, dell’individuo irrefrenabilmente vitale. Inoltre, la sua personalità – così ricca di virtù e difetti quale emerge dagli «storici di Alessandro» e dalle Historiae di Curzio Rufo – era un modello per la descrizione di tipi umani dalla psicologia complessa, romanticamente contraddittoria, incline a concepire disegni grandiosi e folli. Alessandro fu l’exemplum della magnanimitas (in greco μεγαλοψυχία, letter. «grandezza d’animo»), una qualità umana suscettibile di duplice valutazione morale: qualità positiva in quanto «nobiltà e sublimità d’animo», ma anche vizio da punire e indicare a modello negativo come «ambizione», «vanità», «assenza di misura», «empietà» in quanto incapacità di mantenersi nei limiti dell’umano[1].

Alessandro Magno. Affresco pompeiano, I sec. a.C., dalla Casa dei Vettii. London, The Bridgeman Art Library.

 

[26] Et, hercule, iuste aestimantibus[2] regem liquet bona naturae eius fuisse[3], vitia vel fortunae vel aetatis[4]. [27] vis incredibilis animi, laboris patientia propemodum nimia[5], fortitudo non inter reges modo excellens[6], sed inter illos quoque, quorum haec sola virtus fuit, [28] liberalitas saepe maiora tribuentis[7], quam a dis petuntur[8], clementia in devictos – tot regna aut reddita, quibus ea ademerat bello, aut dono data[9] –, [29] mortis, cuius metus ceteros exanimat[10], perpetua contemptio, gloriae laudisque ut iusto maior cupido, ita ut iuveni et in tantis sane remittenda rebus[11]; [30] iam pietas erga parentes[12], quorum Olympiada immortalitati consecrare decreverat, Philippum ultus erat, [31] iam in omnes fere amicos benignitas[13], erga milites benevolentia, consilium par magnitudini animi[14] et, quantam vix poterat aetas eius capere, sollertia[15], [32] modus[16] immodicarum cupiditatum, veneris[17] intra naturale desiderium[18] usus nec ulla nisi ex permisso voluptas – ingenii profecto dotes erant. [33] illa fortunae[19]: dis aequare se et caelestes honores accersere et talia suadentibus oraculis credere et dedignantibus venerari ipsum[20] vehementius quam par esset[21] irasci, in externum habitum[22] mutare corporis cultum, imitari devictarum gentium mores, quos ante victoriam spreverat. [34] nam iracundiam et cupidinem vini sicuti iuventa inritaverat, ita senectus mitigare potuisset[23]. [35] fatendum est tamen, cum plurimum virtuti debuerit, plus debuisse fortunae[24], quam solus omnium mortalium in potestate habuit[25]. quotiens illum a morte revocavit! quotiens temere in pericula vectum perpetua felicitate[26] protexit! [36] vitae quoque finem eundem illi quem gloriae statuit. Expectavere eum fata, dum Oriente perdomito aditoque Oceano, quicquid mortalitas capiebat[27], impleret.

 

E, per Ercole, a chi giudica il sovrano con equità, appare chiaro che le virtù furono peculiarità della sua natura, i difetti imputabili o alla sorte o all’età. Un’incredibile forza d’animo, un coraggio eccezionale non solo fra i re, ma anche tra quelli che ebbero quest’unica prerogativa, una generosità che sovente lo portava a concedere più di quanto si chiede agli dèi, la clemenza per i vinti – tanti i regni restituiti a chi li aveva strappati in battaglia, o elargiti in dono –, un costante disprezzo della morte, il cui terrore raggela chiunque altro, una smania di gloria e di fama tanto superiore al lecito quanto giustificabile in un giovane, e capace per di più di così grandi imprese; inoltre, la devozione ai genitori: Olimpiade aveva stabilito di consacrarla all’immortalità, Filippo era stato vendicato, e ancora, la generosità verso quasi tutti gli amici, l’affetto per i soldati, una padronanza delle situazioni pari alla grandezza del suo animo, un’accortezza che ben di rado un’età come la sua poteva consentire, il dominio dei desideri smodati, la passione amorosa contenuta entro il bisogno naturale e nessun piacere che non fosse tra quelli leciti – queste, sicuramente, le sue doti innate. Il resto va imputato alla fortuna: eguagliarsi agli dèi e pretendere onori divini e credere agli oracoli che a ciò lo inducevano e adirarsi in modo più irruente del lecito con chi rifiutava di venerarlo, mutare il proprio aspetto secondo il costume straniero, assumere le usanze dei popoli sconfitti che, prima di vincere, aveva disprezzato. Riguardo poi alla propensione all’ira e alla sua passione per il vino, come era stata la giovinezza ad acuirle, così la vecchiaia avrebbe potuto mitigarle. Bisogna, tuttavia, riconoscere che, se moltissimo doveva alle sue qualità, di ancor più era debitore alla fortuna: lui solo, infatti, fra tutti i mortali ad averla in suo potere. Quante volte lo ritrasse dalla morte! Quante altre, mentre s’era temerariamente avventurato in mezzo ai pericoli, lo protesse assicurandogli sempre il successo! Essa fissò pure uno stesso termine per lui e per la sua gloria. I fati lo attesero sino a che, domato interamente l’Oriente e raggiunto l’Oceano, non avesse realizzato tutto ciò che era consentito alla sua natura mortale.

Curt., Alex. X 5, 26-36

 

Alessandro, superuomo e uomo comune

Nell’immaginario dell’antichità e del Medioevo Alessandro era, con la sua μεγαλοψυχία, una figura ambigua e le storie su di lui rispondevano a due bisogni opposti, ma complementari. «Da una parte la sua vita realizzava tanti dei desideri dell’uomo. Alessandro appariva come l’unico essere umano che era stato prossimo a raggiungere un’esistenza senza limiti: aveva oltrepassato ogni confine noto alle scoperte geografiche e trovato reami d’ogni tipo per rivendicarli a sé. Regni storici, certo, ma anche, nelle leggende, i cieli e le profondità dell’oceano; perfino, quasi, il Paradiso terrestre […]. D’altra parte, alle storie di inebrianti fantasie e di aspirazioni realizzate venivano continuamente contrapposti i racconti d’ammonimento, gli exempla, gli avvertimenti: Alessandro era piccolo, spesso debole, spaventato, pieno di difetti, a volte persino pusillanime. E anche questo aspetto era benvenuto, perché era rassicurante, perché faceva apparire l’eroe non essenzialmente diverso da noi. Se il mito avesse proiettato esclusivamente l’immagine di un superuomo, non avrebbe avuto gran significato per l’uomo comune […] I racconti su Alessandro, quindi, appagavano i desideri del sogno e il senso di sicurezza della veglia; potevano stimolare un modo avventuroso di vedere le cose, ma anche un atteggiamento moralmente prudente, forse persino un eccesso di virtù»[28].

Benedetto Antelami e allievi, La leggenda del volo di Alessandro. Bassorilievo, pietra, fine XII-inizi XIII sec. dalla Torre di destra. Fidenza, Duomo.

 

Alessandro, simbolo della tragicità del potere regale

«La persona di Alessandro è per Curzio Rufo un segno di contraddizione. Ora rispetta e onora la famiglia di Dario e ne piange la morte, ora incendia Persepoli in preda al furore bacchico; ora esalta la fedele amicizia dei suoi generali, ora li fa trucidare, dominato dal sospetto. Manda a morte un amico, e poi lo piange in preda al rimorso. In bilico fra virtus e fortuna, ma anche fra moderazione e smodata ambizione, supera ogni mortale eppure pecca pretendendo onori divini. Insomma, Alessandro incarna la tragicità del potere regale: può tutto, e perciò ogni suo gesto si fa simbolo supremo, non per quello che è, ma per quello che rappresenta sulla gran scena del mondo. Quale che fosse l’intenzione di Alessandro, è lo sguardo dei sudditi e dei posteri (del pubblico) che fissa nella memoria i suoi detti e i suoi fatti, li riempie di significato: proprio come accadeva agli imperatori sulla scena non meno «tragica» e non meno intensa a Roma. Da questo oscillare fra due piani, la storia narrata di Alessandro e l’attualità presupposta dell’impero romano, viene l’ispirazione di Curzio Rufo e il fascino delle sue pagine dove non è mai il fatto che conta, ma l’exemplum, e perciò tanto più vividi devono farsi i colori del racconto, sviluppando ogni episodio in grandi scene, ogni battuta in una declamazione»[29]

 

***

Note:

[1] Tutto un filone moralistico della letteratura antica e medievale, costituito da autori come Seneca, Curzio Rufo, Giovanni di Salisbury e molti altri, «rilevò nelle coppie sinonimiche magnanimitas-ambitio, fortitudotemeritas, le basi lessicali di un complesso reticolo semantico che presiede all’interpretazione in chiave etica (e, quindi, alla condanna) della μεγαλοψυχία di origine aristotelica: qualità positive in quanto “nobiltà e sublimità d’animo”, ma anche vizi da punire e indicare a modello negativo come “ambizione” e “vanità”» (P. Boitani, C. Bologna, A. Cipolla, M. Liborio [eds.], Alessandro nel Medioevo occidentale, Verona 1997, p. 648).

[2] iuste aestimantibus: dativo di relazione, «a chi giudica… con equità». Per una considerazione simile cfr. si vere aestimare Macedonas… volumus di IV 16, 33. L’inciso di questo passo – analogamente si esprime Arr. Anab. VII 29, 1 –, dove la voce del narratore pare coincidere con le valutazioni dell’autore, tenderebbe, secondo la critica più recente, a riequilibrare i giudizi negativi, o particolarmente severi, che su Alessandro circolavano ai tempi di Curzio e dei quali si trova eco, ad esempio, presso Justin. XIII 1, 7; Val. Max. IX 5 ext. 1. La valutazione sull’eroe macedone, pertanto, deve essere obiettiva e non negativa a priori, a differenza di una tradizione storiografica tendenziosa, che esprimeva critiche severe verso Alessandro. Curzio Rufo presenta, a questo punto, secondo il modello delle scuole di retorica, il giudizio finale sul suo personaggio, seguendo lo schema della contrapposizione virtù-fortuna. In altri passi dell’opera è evidente l’influsso delle Suasoriae di Seneca il Vecchio, che forse l’autore aveva letto. Del resto, Alessandro rientrava negli exempla di patientia, constantia, amicitia, clementia, iracundia, superbia e, soprattutto, cupiditas gloriae che il retore Valerio Massimo aveva proposto pochi anni prima. Lo stile di Curzio Rufo è molto vicino al modello liviano, per la facile scorrevolezza di cui dà prova, ma risente comunque della influenza innegabile della retorica di età imperiale.

[3] bona… fuisse: «le virtù furono peculiarità della sua natura». Cfr. ingentia animi bona di V 7, 1: si tratta di una consonanza importante del carattere del Macedone, osservando però come tutte le sue virtù venivano sminuite dalla sfrenata passione per il vino. Dunque, lo storico attribuisce le virtù al carattere di Alessandro, i vizi, invece, all’immenso potere raggiunto dal personaggio e alla sua età ancora giovane, non temperata dalla saggezza della maturità.

[4] Quanto al concetto qui sotteso, e cioè la degenerazione dell’indole naturale a causa degli accidenti della vita, si tratta di un topos piuttosto ricorrente, e non solo nel mondo antico, che può farsi risalire all’epica omerica e, nell’ambito almeno della storiografia, a Hdt. III 80, 3.

[5] laboris… nimia: cfr. laboris ultra fidem patiens in Suet. Iul. 57; una delle tante analogie tra Alessandro e Cesare.

[6] Cfr. illam indolem, qua omnes reges antecessit di V 7, 1.

[7] liberalitas… tribuentis: «una generosità che sovente lo portava a concedere più di quanto si chiede agli dèi». La liberalitas è una qualità morale che si trova esaltata già nelle commedie di Terenzio, all’interno di una visione della vita improntata all’humanitas; in epoca imperiale, essa era richiesta ovviamente al princeps, insieme alla clementia in devictos, di cui Alessandro ha dato prova più volte: ragion per cui l’imperatore Adriano le conferì il crisma dell’ufficialità (cfr., oltre alla documentazione numismatica e a CIL VI 972, Hist. Aug. Hadr. 7, 8: incrementum liberalitatis adiecit; 10, 2; 17, 7). La clemenza è l’atteggiamento di generale benevolenza verso i sudditi, che tradizionalmente la trattatistica greca attribuiva ai regnanti, richiesta a chi esercitava il potere. Alessandro si dimostrò clemente in particolar modo nei confronti della madre di Dario, Sisigambi, che, sopravvissuta alla distruzione della sua famiglia, si lasciò invece morire di dolore alla notizia della morte dell’eroe.

[8] quam… petuntur: si tratta di una comparatio compendiaria «di (quelle che) si chiedono agli dèi».

[9] Cfr. hostibus victis regna reddiderat a X 1, 41.

[10] Sono, queste ultime, tra le doti che vengono solitamente attribuite ai grandi uomini: si vd., per tutti, Cic. rep. 5, 9: quae virtus fortitudo vocantur, in qua est magnitudo animi, mortis dolorisque magna contemptio; Hort. fr. 99: magnitudo animi, patientia laborum, mortis dolorumque comtemptio.

[11] gloriae… rebus: «una smania di gloria e di fama tanto superiore al lecito quanto giustificabile (remittenda) in un giovane, e capace per di più di così grandi imprese».

[12] pietas erga parentes: «la devozione ai genitori». Il concetto di pietas è uno degli elementi culturali portanti del mondo latino; basti pensare al pius Enea: quindi, l’attribuire tale qualità morale ad Alessandro equivale a farlo sentire particolarmente vicino alla sensibilità romana. Cfr. IX 6, 26. Sulla devozione di Alessandro per la madre, in particolare, un tema caro a Curzio e che gli consente di inserire tale qualità come attestazione di pietas erga parentes nel catalogo post mortem delle virtù e dei vizi del Macedone, si vd. V 2, 22; VII 1, 12, e VIII 5, 17. Se, però, la pietas verso la madre è costante e innegabile nel corso dell’opera, non altrettanto lineare Curzio rappresenta l’atteggiamento di Alessandro nei confronti del padre Filippo: anzi, sono la maggioranza i passi dai quali, chiaramente o in trasparenza, si evince la conflittualità con il genitore (si vd., a favore del padre, anche III 10, 7; IV 15, 8; contra IV 10, 3; VI 11, 33; VII 1, 6; VIII 1, 24-26, 36 e 52; VIII 7, 13; X 2, 23).

[13] benignitas: «bontà, generosità». Curzio, che talora si fa cogliere in contraddizione, questa volta ha opportunamente moderato l’esaltazione di tale virtus inserendo l’avverbio fere tra omnes e amicos: come si potrebbero, infatti, dimenticare episodi come il processo solamente indiziario contro Filota e la sua condanna a morte (cfr. VI 711).

[14] Per concetti del genere, ben attestati specie nelle opere di retorica, si vd. Cic. Phil. 11, 28: pari magnitudine animi et consili praeditus; ad fam. IX 14, 7; XV 4, 5; ad Att. XIV 17a, 7; Liv. III 19, 3.

[15] sollertia: «abilità, perizia». I sostantivi scelti dall’autore per illustrare le qualità di Alessandro presentano un uomo dall’indubbio carisma, offuscato però da alcune scelte politiche negative, che sono illustrate nei paragrafi immediatamente successivi a questi, in cui lo storico parla dei vitia dell’eroe.

[16] modus: «controllo». Una delle contraddizioni curziane, e/o delle sue fonti, nel tratteggiare la figura del Macedone; cfr., infatti, V 7, 1; VI 6, 1; VIII 4, 24. Alcune qualità di Germanico, che Tacito riporta in ann. II 73, 8: mitem erga amicos, modicum voluptatum, assomigliano non poco, pur se espresse con diversa fraseologia, a quelle di Alessandro.

[17] veneris: metonimia per amoris («dell’amore»); per l’espressione veneris usus cfr. Ov. Rem. 357; fast. IV 657; Plin. nat. hist. XI 131.

[18] Il nesso naturale desiderium è anche in Liv. XXI 4, 6; XXVII 45, 12; Col. VI 2, 12; 24, 2; 27, 8; 10 pr. 2; Sen. ad Marc. 7, 1; vit. 13, 4.

[19] illa fortunae: «Il resto va imputato alla fortuna».

[20] dedignantibus venerari ipsum: «con chi rifiutava di venerarlo». Il culto dovuto al sovrano, uso appreso dal mondo orientale e introdotto da Alessandro nell’etichetta di corte, suscitò grandi contrasti fra gli amici e i soldati del re macedone. Cfr. elicuitque iram Alexandri in VIII 5, 22, dove il destinatario di tale sfuriata è Poliperconte, reo di essersi preso gioco di un soldato persiano che salutava il Macedone prosternandosi. Filota, poi, nella sua autodifesa, si mostra ben consapevole che una delle ragioni per cui Alessandro lo vuole morto è perché egli ha contestato l’origine divina e, quindi, anche l’atto di venerazione (cfr. VI 10, 2528). Si vd., inoltre, i casi di Ermolao (VIII 7, 13) e Callistene (VIII 8, 21).

[21] quam par esset: «di quanto fosse giusto». Le colpe di Alessandro, qui segnalate, intollerabili per la mentalità romana, possono essere messe a confronto con il disdicevole comportamento dell’imperatore Caligola, che ad Alessandro si era ispirato, al quale forse allude Curzio Rufo poche pagine dopo. Infatti, in X 9, lo storico confronta la situazione creatasi in Oriente dopo la morte di Alessandro, con quella determinatasi a Roma dopo la morte di un imperatore di cui non fa il nome: egli, però, afferma che il nuovo princeps lucem caliganti reddidit mundo («ridiede la luce al mondo ottenebrato»), cosicché alcuni studiosi hanno riconosciuto in queste parole un’allusione a Caligola (caliganti), cui succedette Claudio, che riportò un poco di tranquillità a Roma dopo gli eccessi di chi lo aveva preceduto.

[22] habitum: «costume». Anche Caligola amava costumi orientalizzanti, suscitando grandi preoccupazione nel mondo romano.

[23] L’ira e la passione per il vino sono i vitia aetatis verso i quali l’autore sembra mostrare maggiore indulgenza: se Alessandro avesse raggiunto la maturità, avrebbe potuto anche conseguire maggiore saggezza. Ciononostante, gli eccessi d’ira di Alessandro furono terribili: notissimo l’episodio, narrato in VIII 1, in cui egli uccise l’amico Clito, dopo un violento litigio.

[24] plus… fortunae: «di ancor più era debitore alla fortuna». Nel corso della Historia sono molti gli episodi che suffragano questa tesi.

[25] Ciò non parrebbe del tutto vero, se Vell. II 35, 2 attribuisce analoga prerogativa a Marco Porcio Catone Uticense: semper fortunam in sua potestate habuit. A ben vedere, però, i due personaggi vengono differentemente connotati: la fortuna di Alessandro, scrive Curzio a III 6, 18, sembrerebbe adombrare una costante benevolenza divina, che lo assiste sempre e nonostante la sua temerarietà. Diversamente, Velleio riconosce il dominio della fortuna all’Uticense, proprio perché persona dotata di tutte quelle virtù umane che lo avvicinano alla perfezione divina e gli consentono di essere faber fortunae suae.

[26] perpetua felicitate: lett. «con costante favore».

[27] quicquid… capiebat: «tutto ciò che era consentito alla sua natura mortale». La conclusione dell’autore riporta all’ambito della filosofia stoico-cinica e al rapporto virtù-fortuna da cui aveva preso le mosse il necrologio dell’eroe, più debitore nei confronti della fortuna che delle sue virtù.

[28] P. Boitani et al., op. cit., p. XXII.

[29] S. Settis, Alessandro. Le sue gesta narrate fra storia e leggenda, “La Repubblica”, 28 novembre 2000.

2 pensieri su “Alessandro: un uomo ricco di vizi e di virtù (Curt., Alex. X 5, 26-36)

  1. io ammiro profondamente “Studia Humanitatis – Paideia” e mi sforzo di tradurre i tempo in ceco tutte le novitá a mettterle a disposizione ai nostri Licei. Con profonda ammmirazione   P. FrantiÅ¡ek J. Holeček, O.M.

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    • Reverend Father,
      Thank you for appreciating my work. Unfortunately, I don’t know the Czech language so I can help you with translation. Nevertheless, I hope that this project can benefit the research and teaching of the Humanities.

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