Prima della decisiva grecizzazione che la cultura romana conobbe nel secolo tra la guerra di Taranto (280-272 a.C.) e l’invasione della Grecia, la scrittura era considerata una tecnica senz’altro utile, ma il saper parlare era ben più importante: l’abilità oratoria, a Roma, fu sempre considerata come una forma di potere e una sicura fonte di successo, un’attività intellettualmente elevata[1]. Mentre la poesia, la filosofia e la storiografia – cioè la vera e propria letteratura – rientravano negli otia, nel “tempo libero” voluttuario e individuale, attività improduttive non particolarmente utili alla collettività, la retorica (o ars loquendi) era ben congeniale alla mentalità pragmatica dei Romani ed era ritenuta uno strumento indispensabile della vita attiva (negotium)[2]. Del resto, sino all’età scipionica, l’oratoria fu considerata l’unica attività culturale veramente degna di essere esercitata da un civis di elevata condizione: mentre i primi poeti, infatti, furono per lungo tempo dei liberti, oppure degli italici di moderata estrazione, l’oratoria fu, fin dal principio, appannaggio dei patricii e dei nobiles. In particolare, la capacità di convincere era prerequisito obbligatorio nella carriera politica (cursus honorum) e fondamentale strumento per riscuotere consensi in seno alla comunità. Proprio per i suoi risvolti pratici, dunque, i Romani non avevano nessun bisogno di “importare” la retorica dall’estero, come avevano fatto con le altre arti; invero, in seguito, essi si limitarono ad affinare alla scuola dei rhetores greci le loro naturali attitudini di oratores[3].
Al confine, dunque, fra due epoche, fra la cultura delle origini e la nuova letteratura ellenizzante, si colloca la figura emblematica e semileggendaria di un uomo particolarmente eloquente, mitico “iniziatore” dell’oratoria latina e politico di primo piano: Appio Claudio Cieco[4], di nobilissima stirpe sabina, fu censore nel 312 a.C. e console per due volte, nel 307[5] e nel 296; durante la sua censura, promosse molte opere pubbliche, fra le quali l’aqua Appia (il primo acquedotto dell’Urbe) e la via Appia (che, una volta completata, avrebbe collegato Roma a Brindisi)[6]. Gli antichi ne accostavano il nome a molteplici e importanti imprese, sia in guerra sia in pace: egli, da magistrato della res publica, combatté contro Etruschi[7] e Sabini e fu l’eroe della Terza guerra sannitica; in politica interna, fu strenuo avversario dell’aristocrazia e sostenitore dell’ingresso nel Senato di elementi plebei[8]. Grazie alla sua efficacia oratoria e all’ampia auctoritas di cui godette, Appio Claudio appare, per certi versi, come un predecessore di Catone[9]. Con una famosa orazione tenuta nel 280 a.C. egli si oppose alle proposte di pace di Pirro, e Cicerone vi allude come al primo discorso ufficiale mai pubblicato a Roma – discorso che, evidentemente, suscitando grande impressione fra i senatori, permise ai Romani di sconfiggere definitivamente il re epirota, impadronendosi di quasi tutta la Magna Grecia[10]. Ora, non è possibile determinare se il testo, che ancora ne circolava in età tardorepubblicana, fosse genuino, ma la notizia è comunque interessante, perché documenta, già in quell’epoca, un vivo interesse per il saper parlare.

La multiforme attività di Appio Claudio lasciò tracce durature in diversi campi. Nell’ambito del diritto, di cui fu grande conoscitore, egli si prodigò per dare maggiore trasparenza all’operato dei giudici. Secondo Pomponio, avrebbe scritto un trattato di cui è rimasto solo il titolo, De usurpationibus, nel quale avrebbe raccolto e spiegato le formule abbreviate delle legis actiones[11].
Tra l’altro, Appio si occupò, a quanto pare, anche di questioni linguistiche ed erudite, meritandosi l’appellativo di “legislatore linguistico”: a lui, infatti, si attribuisce un riordino dell’alfabeto latino, ancora non perfettamente stabilizzatosi, e la soluzione, per mezzo di una “riforma ortografica”, di un problema che si era venuto a creare in seguito all’evoluzione fonetica nota con il nome di “rotacismo”: la -s-, in posizione intervocalica (ad esempio, *hono-s-is, genitivo di honos) era diventata sonora, assumendo un suono a metà fra la z e la r. Appio Claudio introdusse con successo l’uso della r, eliminando dall’alfabeto la z (reintrodotta più tardi per la traslitterazione di voci greche): pare che egli detestasse la z per motivi superstiziosi, perché nel pronunciarla la bocca “imitava i denti di un morto” – notizia che costituisce una spia del valore magico-religioso attribuito all’alfabeto.
A suo nome circolava un’altra opera di carattere più spiccatamente letterario, e cioè una raccolta di massime (Sententiae), forse in metro saturnio; era considerata come un ricettacolo di saggezza popolare, tipica della cultura orale di Roma arcaica, moraleggiante e filosofeggiante: anche sotto questo aspetto, Appio Claudio sembra preannunciare la personalità di Catone. Non si sa se le sue capacità espressive, come, in verità, sarà il caso del Censore, fossero già nutrite da rapporti con la cultura ellenistica, per quanto certe sue massime morali possano far sospettare fonti greco-pitagoriche[12]. Di tre delle sententiae conservatesi[13], una esorta all’equilibrio interiore, un’altra a dominare con determinazione il proprio destino:
‹ae›qui animi compotem esse, ne quid fraudis stuprique ferocia parlat.
Essere padrone di un animo equilibrato, affinché la tracotanza non provochi danno e disonore[14].
Sed res docuit id uerum esse quod in carminibus Appius ait, fabrum esse sua quemque fortunae.
Ma l’esperienza ha mostrato che è vero ciò che afferma Appio nei carmina, e cioè che ognuno è artefice della propria sorte[15].

C(ai) f(ilius) Caecus
censor co(n)s(ul) bis dict(ator) interrex III
pr(aetor) II aed(ilis) cur(ulis) II q(uaestor) tr(ibunus) mil(itum) III com=
plura oppida de Samnitibus cepit
Sabinorum et Tuscorum exerci=
tum fudit pacem fieri cum [P]yrrho
rege prohibuit in censura viam
Appiam stravit et aquam in
urbem adduxit aedem Bellonae
fecit.
È significativo che di Appio Claudio, considerato il progenitore della “prosa” a Roma, Cicerone citi (Tusc. IV 4, 7) l’esistenza di un carmen (mihi quidem etiam Appii Caeci carmen, quod ualde Panaetius laudat epistula quadam quae est ad Q. Tuberonem, Pythagoreum uidetur); questo, tuttavia, non autorizza a ritenere che Appio fosse stato, propriamente parlando, anche un poeta[16].
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WINTERBOTTOM 1985 = M. Winterbottom, The Roman Orator and his Education, Akroterion 30 (1985), pp. 53-57.
***
Note:
[1] NARDUCCI 1991.
[2] CAVARZERE 2000.
[3] WINTERBOTTOM 1985.
[4] AMATUCCI 1893-94; HUMM 2005; BOTTIGLIERI 2017.
[5] Liv. IX 42, 4: creatus consul, cum collegae noum bellum Sallentini hostes decernerentur, ‹Appius Claudius› Romae mansit, ut urbanis artibus opes augeret, quando belli decus penes alios esset.
[6] Liv. IX 33, 4–34; Diod. XX 36; cfr. CIL XI 1827. Si vd. NICOLET 1961; FERENCZY 1967; MacBAIN 1980; HUMM 1996.
[7] MASSA-PAIRAULT 2001.
[8] Liv. X 7, 1-2. STAVELEY 1959.
[9] Liv. X 15, 12: nobilitas obiectare Fabio fugisse eum Ap. Claudium collegam, eloquentia ciuilibusque artibus haud dubie praestantem.
[10] Enn. Ann. 9, 202-203 V2 = 199-200 Sk; Cic. Brut. 14, 55; 16, 61; Cato 6, 16; Quint. Inst. Or. II 16, 7; ined. Vat. 34-35; Plut. Pyrrh. 19, 1-4; App. bell. Samn. 10, 2; Liv. per. 13; Isid. or. I 38, 2.
[11] Pomp. ench. 1 (apud Dig. I 2, 2, 7): postea cum Appius Claudius proposuisset et ad formam redegisset has actiones; ench. 1 (apud Dig. I 2, 2, 36): hunc etiam actiones scripsisse traditum est primum de usurpationibus, qui liber non extat. Cfr. GUARINO 1981; D’IPPOLITO 1986, pp. 39-61; SCHIAVONE 1990, pp. 418-419, MAGDELAIN 1995, pp. 90-91.
[12] MARX 1897 è arrivato a dimostrare che alcuni di questi proverbi si ispirano probabilmente a un’opera di Filemone, riutilizzata più tardi da Plauto, e che sarebbe pervenuta ad Appio Claudio sotto forma di uno Gnomologion, cioè un “florilegio di massime”, trasmesso a Roma tramite la Magna Grecia; cfr. FERRERO 1955, pp. 168-172. Nella seconda metà del IV secolo a.C., il Pitagorismo, che là era probabilmente la dottrina filosofica principale, penetrò nella classe dirigente romana, della quale divenne in qualche modo «l’ideologia ufficiale» (GABBA 1990, p. 56).
[13] BAEHRENS 1886, pp. 36-37; MOREL 1927, pp. 5-6; BLÄNSDORF 1995, pp. 11-13.
[14] Fest. s.v. stuprum, p. 418, 11-13 Lindsay. A proposito della padronanza di sé e del dominio delle passioni dell’anima, insegnamenti tipici della dottrina pitagorica e, in particolare, quella di Archita di Taranto, si vd. Cic. Cato 12, 39-40. Cfr. HUMM 2000.
[15] Cfr. Ps.-Sall. rep. I 1, 2. BILIŃSKI 1981.
[16] LEJAY 1920, p. 137 e GARZETTI 1947, p. 208 hanno considerato la testimonianza di Cicerone troppo soggettiva e troppo incerta per poter essere utilizzata.
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[…] dopo la venuta di Livio Andronico. A portarcelo sarebbe stato, secondo la tradizione, Catone, all’epoca quaestor in Sicilia e in Africa, che lo avrebbe incontrato in Sardinia, dove il futuro […]
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[…] Marco Catone, nato nella cittadina di Tusculum[1], durante la giovinezza, prima di darsi alla vita pubblica, visse tra i Sabini[2], perché vi aveva un piccolo fondo lasciatogli in eredità dal padre. Di là – come soleva narrare Marco Perpenna[3], l’ex censore – si trasferì a Roma e, su esortazione di Lucio Valerio Flacco, che gli fu poi collega nel consolato e nella censura[4], cominciò a frequentare il Foro. A diciassette anni guadagnò la prima paga da soldato. Sotto il consolato di Quinto Fabio Verrucoso e di Marco Claudio Marcello fu tribuno militare in Sicilia[5]. Ebbene, quando ne ritornò, militò agli ordini di Gaio Claudio Nerone, e la sua partecipazione alla battaglia di Sena[6] in cui cadde il fratello di Annibale, Asdrubale, fu considerata di gran peso. La sorte lo designò come questore del console Publio Cornelio Scipione Africano[7], con il quale, però, non ebbe la dimestichezza che quel sorteggio avrebbe voluto; anzi, fu in contrasto con lui per tutta la vita[8]. Fu creato edile della plebe insieme a Gaio Elvio[9]; in qualità di pretore[10], ottenne la provincia di Sardegna, dalla quale, in precedenza, e cioè tornando dalla questura dell’Africa, aveva condotto a Roma il poeta Quinto Ennio[11]: cosa che non considero meno di qualsivoglia magnifico trionfo sui Sardi. […]
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