Lucio Cecilio Firmiano Lattanzio

di G.B. CONTE, Letteratura latina. Manuale storico dalle origini alla fine dell’Impero romano, Milano 2011, pp. 537-539.

 

Lucio Cecilio Firmiano Lattanzio nacque intorno alla metà del III secolo in Africa, fu allievo di Arnobio e divenne anch’egli maestro di retorica. Insegnò retorica latina in Bitinia, a Nicomedia, dove si trovava all’epoca delle persecuzioni di Diocleziano, che lo costrinsero a lasciare l’insegnamento: a Nicomedia, infatti, Lattanzio si era convertito al Cristianesimo. Nel 317 fu scelto da Costantino come precettore per il figlio, Crispo, e si recò in Gallia per assolvere questo compito. Morì dopo il 324.

Sono completamente perduti gli scritti del periodo pagano, cioè un Symposium, un Hodoeporicum, con la descrizione in versi del viaggio dall’Africa alla Bitinia, ed un trattato grammaticale. Del periodo successivo sono perdute anche le Lettere, in otto libri, e ci rimangono invece sei opere. De opificio Dei, scritto fra il 303 e il 305, sulla perfetta armonia della natura e sull’immortalità dell’anima, che Lattanzio difende con convinzione. Divinae institutiones, in sette libri, dedicate a Costantino, che furono iniziate nel 304 e completate nel 314, ma con aggiunte degli anni fra il 322 e il 324: i primi due libri sono contro il paganesimo, il III contro la filosofia, il IV sul Cristo, il V e il VI sulla teologia cristiana, il VII sul giudizio universale e il destino delle anime. Del 314 è un’Epitome che riassume e rielabora le Divinae institutiones. Dello stesso anno è il De ira Dei, sulla necessità che Dio si adiri contro i malvagi per dimostrare il suo amore verso i buoni. De mortibus persecutorum, del 315, con aggiunte del 320, che ricorda le drammatiche morti di quanti hanno perseguitato i Cristiani. Il carme De ave phoenice è, infine, un’elegia sulla fenice, simbolo di Cristo, la cui attribuzione a Lattanzio resta incerta.

 

Ms. Schøyen 1369 (1420-1430). Pagina manoscritta miniata dalle Divinae institutiones I di Lattanzio.

 

Benché sia allievo di Arnobio, Lattanzio, soprattutto nelle sue prime e maggiori opere, è un pensatore sistematico, assai equilibrato, lontano dagli eccessi del maestro sia per l’argomentazione sia per lo stile: tradizionalmente paragonato a Cicerone, Lattanzio procede con periodi ampi e ben articolati, non ama le battute ad effetto, si affida ad un ragionamento coinvolgente e abbastanza pacato. Se il De opificio Dei risente ancora di un’impostazione filosofica che rinvia alle scuole di pensiero classiche, e soprattutto allo stoicismo, e mostra solo qua e là tratti più definitivi di Cristianesimo, le Divinae institutiones ambiscono invece ad essere un libro fondamentale di sistemazione della dottrina cristiana, così come le molte institutiones composte nella tarda antichità su vari argomenti, e soprattutto sul diritto. Altro problema è se Lattanzio sia riuscito o meno a delineare il quadro organico che si era proposto, e se l’acume della sua riflessione sia paragonabile a quello dei grandi pensatori cristiani greci o, tra i latini, di un Agostino. Non c’è dubbio che Lattanzio sia un attento filologo, uno studioso pieno di scrupolo, assai più che un filosofo originale o un creatore di teorie; ma si deve, in più, cogliere l’importanza dell’operazione da lui compiuta nel trasportare l’apologetica dal piano della disputa passionale a quello dell’analisi razionale. Lattanzio studia il politeismo cercandone le radici nella divinizzazione di grandi uomini defunti, esplorando una linea di continuità del sapere antico a quello moderno; tende quindi a ridurre le contrapposizioni ad un criterio di evoluzione, dall’errore alla verità, dalla filosofia alla fede.

Lattanzio rompe così con la tradizione apologetica di Tertulliano, ancora tanto presente in Arnobio, e, in coerenza col programma costantiniano, tende a presentare un Cristianesimo egemone perché capace di arricchirsi del meglio della cultura antica. Il Cristianesimo diventa quasi il frutto naturale della sapientia classica: non deve perciò incutere paura, e può senza troppi problemi divenire la nuova religione di Roma. La conferma degli antichi valori, riproposti senza eccessive modificazioni alla luce della nuova fede, un’ispirazione «liberale» profondamente coerente con il pacato classicismo dello stile, una prospettiva di salvezza che passa attraverso una fine del mondo non più catastrofica, ma descritta con i colori dell’età dell’oro, sono un chiaro segnale di quanto sia cambiato il mondo occidentale nei dieci anni che vanno dalle persecuzioni di Diocleziano all’editto di Costantino.

Ritratto (probabile) di Lattanzio. Affresco, IV sec. d.C.

Anche le due opere dal titolo più severo e vendicativo, il De ira Dei e il De mortibus persecutorum, non contraddicono questo quadro. Il primo testo conferma l’equilibrio del mondo, attraverso la punizione divina per i malfattori, e finisce in realtà con l’essere consolatorio più che minaccioso; il secondo, quello apparentemente più lontano dalle posizioni di Lattanzio, tanto che si è spesso dubitato della sua autenticità, si inserisce altrettanto bene nel programma costantiniano, ma da un altro punto di vista e secondo le linee di un altro genere letterario, quello storiografico. Gli imperatori si dividono in due categorie: quelli che hanno tollerato o aiutato il Cristianesimo e quelli che l’hanno perseguitato. Questi ultimi sono gli imperatori malvagi, che hanno fatto male allo Stato e hanno giustamente subito la punizione divina, mentre i primi sono gli imperatori buoni, e fra tutti il migliore è Costantino. Sono così poste le condizioni per il sorgere di una storiografia religiosa in lingua latina, e nello stesso tempo si fornisce un contributo alla creazione del mito di Costantino, simbolo del rapporto fra potere e Chiesa.

È interessante osservare che i due temi conduttori del De mortibus (trionfalismo della Chiesa ed esaltazione di Costantino) sono presenti, con assai più ampio respiro, nell’opera del contemporaneo di lingua greca Eusebio di Cesarea; in quegli stessi anni, con la sua Historia Ecclesiastica, egli apriva al genere storiografico una prospettiva nuova, nella quale la Chiesa e le sue vicende si facevano centro di interesse per la narrazione.

 

 

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