Il progresso della scienza (Sᴇɴ. 𝑁𝑎𝑡. 𝑞𝑢𝑎𝑒𝑠. VII 25, 3-6)

di  Lucio Anneo Seneca, Questioni naturali, a cur. di R. MUGELLESI, Milano 2004, pp. 564-567.

 

Il libro VII delle Naturales quaestiones riguarda il fenomeno delle comete, sulla cui natura gli antichi avevano elaborato diverse teorie. Per Seneca la mancanza di certezza su questo particolare problema non deve intaccare la fiducia nel progresso scientifico: verrà un giorno in cui le verità ora nascoste saranno svelate, grazie alla ricerca condotta da più generazioni. Il tempo breve della vita umana, sembra riconoscere il filosofo, non è sufficiente per la scienza, che richiede un impegno costante attraverso i secoli.

 

[3] Quid ergo miramur cometas, tam rarum mundi spectaculum, nondum teneri legibus certis nec initia illorum finesque notecere, quorum ex ingentibus interuallis recursus est? Nondum sunt anni mille quingenti ex quo Graecia

 

stellis numeros et nomina fecit,

 

multaeque hodie sunt gentes quae facie tantum nouerunt caelum, quae nondum sciunt cur luna deficiat, quare obumbretur. Haec apud nos quoque nuper ratio ad certum perduxit. [4] Veniet tempus quo ista quae nunc latent in lucem dies extrahat et longioris aeui diligentia. Ad inquisitionem tantorum aetas una non sufficit, ut tota caelo uacet; quid quod tam paucos annos inter studia ac uitia non aequa portione diuidimus? Itaque per successiones ista longas explicabuntur.

[5] Veniet tempus quo posteri nostri tam aperta nos nescisse mirentur. Harum quinque stellarum, quae se ingerunt nobis, quae alio atque alio occurrentes loco curiosos nos esse cogunt, qui matutini uespertinique ortus sint, quae stationes, quando in rectum ferantur, quare agantur retro, modo coepimus scire; utrum mergeretur Iupiter an occideret an retrogradus esset,—nam hoc illi nomen imposuere cedenti,—ante paucos annos didicimus. [6] Inuenti sunt qui nobis dicerent: «Erratis, quod ullam stellam aut supprimere cursum iudicatis aut uertere. Non licet stare caelestibus nec auerti; prodeunt omnia; ut semel missa sunt, uadunt; idem erit illis cursus qui sui finis. Opus hoc aeternum irreuocabiles habet motus; qui si quando constiterint, alia aliis incident, quae nunc tenor et aequalitas seruat».

Andreas Cellarius, Harmonia Macrocosmica, 1661 – Il sistema tolemaico dei moti celesti.

 

[3] Perché dunque meravigliarsi che le comete, spettacolo così raro dell’universo, non siano ancora sottomesse a leggi fisse[1], e che non sappiamo dove inizi e dove termini una corsa il cui ritorno si verifica con immensi intervalli? Non sono ancora millecinquecento anni[2] che la Grecia

 

ha contato le costellazioni e ha dato loro dei nomi[3].

 

Ancora oggi molti popoli non conoscono del cielo che il suo aspetto e ignorano perché la Luna si eclissi, perché si copra di ombra. Anche presso di noi è da poco[4] che la scienza ha dato delle certezze su questa materia. [4] Verrà il tempo in cui uno studio attento e condotto per un lungo periodo farà luce su questi fenomeni della natura. Anche ammesso che si dedichi tutta quanta alla conoscenza del cielo, una sola vita non basterebbe a così vaste ricerche; e noi non dividiamo forse in modo ineguale tra lo studio e i vizi questi così pochi anni? Così, per risolvere tutti questi problemi, occorreranno lunghe successioni di lavoro. [5] Verrà il tempo in cui i nostri posteri si meraviglieranno che noi ignorassimo cose tanto manifeste. Questi cinque pianeti che a noi s’impongono e stimolano la nostra curiosità, poiché si presentano ora in un luogo ora in un altro, abbiamo cominciato da poco a conoscerne il sorgere al mattino e alla sera, le loro soste[5], quando si spostino avanti, perché regrediscano. Se Giove nasca o tramonti o sia retrogrado[6] – è il nome che gli hanno dato quando si ritira –, lo abbiamo appreso da pochi anni.

[6] Alcuni sono venuti a dirci: “Siete nell’errore quando ritenete che un pianeta fermi la sua corsa o cambi direzione. I corpi celesti non possono né restare fermi né allontanarsi dal loro cammino. Tutti quanti avanzano e seguono la direzione nella quale sono stati lanciati una volta per tutte. La loro corsa finirà con loro stessi. Questa opera eterna ha movimenti irrevocabili. Se mai questi si fermassero, quei corpi che ora sono conservati da continuità ed equilibrio cadrebbero gli uni sugli altri”.

 

***

Note:

[1] Quasi che le leggi esistano solo in quanto gli uomini le conoscono: è questo uno dei limiti maggiori dell’indagine scientifica romana, che non può esistere in quanto tale, autonomamente, ma è sempre subordinata al prevalente interesse per l’uomo.

[2] Seneca, come si riteneva nell’antichità, sembra qui riferirsi alla spedizione degli Argonauti, collocabile appunto quindici secoli prima della sua età.

[3] Verg. Georg. I 137: sarebbe stato un marinaio (il soggetto è nauita) a numerare e a dar nome alle stelle: altre volte Seneca cita da questo passo virgiliano, in cui si parlava del passaggio dall’età dell’oro a quella del ferro (De vita beata 14, 4; Ep. 90, 9 etc.).

[4] Potrebbe riferirsi al più antico astronomo romano, Sulpicio Gallo, vissuto nel II sec. a.C. e vicino al circolo degli Scipioni, ma potrebbe anche tener conto delle ricerche astronomiche contemporanee a Seneca, se pensiamo agli Astronomica di Manilio o ad altre opere perdute, come i Phaenomena  di Ovidio o quelli di Germanico.

[5] Cfr. Plinio il Vecchio, Nat. hist. II 70.

[6] È un neologismo senecano che è rimasto ancora oggi nel linguaggio tecnico-astronomico.

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