di G. REALE, Il pensiero antico, Milano 2001, pp. 244-247 [= ID., D. ANTISERI, Il pensiero occidentale, 1. Antichità e Medioevo, Brescia 2013, pp. 229-231].
Il concetto di scienze produttive. – Il terzo genere di scienze è dato dalle «scienze poietiche» (o «scienze produttive»), le quali, come indica il nome, insegnano a “fare” e a “produrre” cose e strumenti, secondo regole e conoscenze precise: si tratta delle varie arti o, come noi ancora diciamo con un termine greco, delle tecniche. I Greci, tuttavia, nel formulare il concetto di «arte», puntavano più di quanto non facciamo noi moderni sul momento conoscitivo che l’arte stessa implica, sottolineando in maniera speciale la contrapposizione fra arte ed esperienza: quest’ultima, infatti, implica un ripetersi prevalentemente meccanico e non va oltre la conoscenza del dato di fatto, mentre l’arte è capace di andare oltre, cerca di toccare la conoscenza del perché e come tale costituisce una forma di conoscenza. Pertanto, le arti rientrano nel quadro generale del sapere, ma sono collocate all’ultimo grado, in quanto sono un sapere che non è né fine a se stesso né volto a beneficio di chi agisce (come il sapere pratico), bensì un sapere volto a beneficio dell’oggetto prodotto.
Le «scienze poietiche», nel loro complesso, non interessano, se non indirettamente, la ricerca filosofica, a eccezione delle «arti belle», che si distinguono da tutte le altre sia nella loro struttura, sia nella loro finalità. Dice Aristotele: «Alcune cose che la natura non sa fare l’arte le fa; altre invece le imita» (Phys. II 8). Vi sono, pertanto, arti che completano e integrano la natura e hanno, dunque, come fine la pura utilità pragmatica; ed esistono arti che, invece, imitano la natura stessa, riproducendone o ricreandone alcuni aspetti, e i cui fini non coincidono con gli scopi della mera utilità pratica. Queste ultime sono le cosiddette «arti belle», che Aristotele esamina nella Poetica. In verità, lo Stagirita si limita alla trattazione della sola poesia tragica e, a questa subordinata, della poesia epica (in una parte dell’opera – andata perduta – egli doveva aver trattato anche della commedia; tuttavia, alcune cose che egli afferma possono essere estese anche alle altre «arti belle»).
[…]
La domanda che si pone lo Stagirita è questa: qual è la natura del fatto e del discorso poetico, e a che cosa esso mira? Due sono i concetti su cui va concentrata l’attenzione per poter comprendere la risposta data dal nostro filosofo al problema: a) il concetto di mimési e b) il concetto di catarsi.

La mimési poetica. – Incominciamo dall’illustrazione del concetto di mimési. Platone aveva fortemente biasimato l’arte, appunto perché essa è mimési, cioè «imitazione di cose fenomeniche», le quali (com’è noto) sono a loro volta imitazione degli eterni paradigmi – le Idee –, cosicché l’arte non sarebbe altro che una copia della copia, parvenza di una parvenza, che estenua il vero fino a farlo scomparire.
Aristotele, dal canto suo, si oppone nettamente a questo modo di concepire l’arte e interpreta la mimési («imitazione») artistica secondo una prospettiva antitetica, al punto da fare di essa un’attività che, lungi dal riprodurre passivamente la parvenza delle cose, quasi ricrea le cose secondo una nuova dimensione:
Compito del poeta è di dire non le cose avvenute, ma quelle che potrebbero accadere e le possibilità secondo verisimiglianza e necessità. E, infatti, lo storico e il poeta non differiscono per il fatto di parlare l’uno in prosa e l’altro in versi (giacché l’opera di Erodoto, se fosse in versi non per questo sarebbe meno storia, di quanto non lo sia senza), ma differiscono in questo: che l’uno racconta le cose accadute e l’altro quelle che potrebbero succedere. E perciò la poesia è cosa più nobile e più filosofica della storia, perché la poesia tratta piuttosto dell’universale, mentre la storia del particolare. L’universale, poi, è questo: quali specie di cose e quali specie di persone capiti di dire o di fare secondo verisimiglianza o necessità, al che mira la poesia pur ponendo nomi propri; mentre è particolare che cosa Alcibiade fece “e che cosa patì”.
(Poet. 9)
In primo luogo, dunque, Aristotele comprende benissimo che la poesia è poesia non tanto perché utilizza i versi: potrebbe, infatti, non essere in versi ed essere ugualmente poesia. Il poeta ha da essere poeta di favole anziché di versi, in quanto egli è poeta solo in virtù della propria capacità mimetica («imitatrice») o creatrice, e sono azioni che egli imita o crea, non versi. E, in generale, si può ben dire che non sono i mezzi usati dall’arte, i quali fanno sì che l’arte sia arte.
In secondo luogo, Aristotele individua altrettanto bene che la poesia (e l’arte, in genere) non dipende nemmeno dal suo oggetto, o meglio dal contenuto di verità del proprio oggetto. Non è la verità storica delle persone, dei fatti e delle circostanze che essa deve rappresentare e che le danno valore. L’arte può certo narrare anche cose effettivamente accadute, ma diviene arte soltanto se a queste cose essa aggiunge un certo quid che manca alla narrazione puramente storica (si ricordi che lo Stagirita intende la narrazione storica prevalentemente come cronaca, come descrizione di fatti e persone cronologicamente legati fra loro). Se le Storie di Erodoto fossero messe in versi, con questo non si genererebbe poesia: tuttavia, cose effettivamente successe e narrate da Erodoto potrebbero diventare poesia.
Risulta chiaro, in terzo luogo, che la poesia possiede una superiorità sulla storia, per il diverso modo con cui essa tratta i fatti. In effetti, mentre la storia resta agganciata interamente al particolare e lo considera proprio in quanto particolare, la poesia, quando anche tocca gli stessi fatti che tratta la storia, li trasfigura, per così dire, in virtù del suo modo di affrontarli e di vederli «sotto l’aspetto della possibilità e della verisimiglianza»; e così li fa assurgere a un più ampio significato, e, in certo senso, universalizza questo oggetto. Aristotele usa proprio il termine tecnico di «universali» (tà kauthòlou). Ma che tipi di «universali» possono mai essere questi della poesia, ossia questi tipi di universali che non disdegnano i nomi propri?
Evidentemente, non si ha qui a che fare con degli universali logici, del tipo di quelli di cui tratta la filosofia teoretica – e, in particolare, la logica. Infatti, se la poesia non deve riprodurre verità empiriche, non deve rappresentare neppure verità ideali di tipo astratto (verità logiche, appunto!). La poesia non solo può e deve sganciarsi dalla realtà e presentare fatti e personaggi non come sono, ma come potrebbero o dovrebbero essere, ma può anche introdurre l’irrazionale e l’impossibile, e può perfino dire menzogne e far conveniente uso di paralogismi (cioè di «ragionamenti fallaci»); e può far questo a patto che renda l’impossibile e l’irrazionale verosimili (cfr. Poet. 24-25).
Naturalmente, così stando le cose, la poesia potrà benissimo rappresentare gli dèi in modo fallace, perché così se li figura il volgo; e come credenza del volgo fanno parte della vita.
L’universalità della rappresentazione della poesia, infine, nasce dalla sua capacità di riprodurre gli eventi «secondo la legge della verosimiglianza e della necessità», cioè da quella sua capacità di presentare gli eventi in maniera tale che essi risultino legati in connessione perfettamente unitaria, quasi come in un organismo in cui ogni parte ha un proprio senso in funzione del tutto di cui fa parte. La poesia, in ogni caso, è più filosofica della storia, ma non è filosofia; l’universale della poesia non è l’universale logico e, dunque, è qualcosa a se stante, avente un proprio valore, pur non essendo questo né il valore del vero storico né il valore del vero logico. La posizione platonica è pertanto nettamente superata.

Il bello. – L’estetica moderna ci ha abituati a considerare i problemi dell’arte in una maniera tale che ci riesce difficile pensare che sia possibile una definizione di essa, prescindendo da un’adeguata definizione del bello. Platone – com’è noto – collegò il bello con l’erotica più che non con l’arte; e Aristotele, invece, lo collegò proprio con l’arte. Il bello, allora, per lo Stagirita, implica ordine, simmetria di parti, in una parola – potremmo dire – proporzione (cfr. Poet. 7).
E si capisce quindi come, applicando questi canoni alla tragedia, Aristotele la volesse né troppo lunga né troppo corta, ma capace di essere colta con la mente come in uno sguardo dal principio alla fine. E la stessa cosa certamente varrebbe, per lui, per ogni altra opera d’arte.
È un modo di concepire il bello, questo di Aristotele, che reca la chiara impronta ellenica del «nulla di troppo» e della «misura» e, in particolare, la chiara cifra del pensare platonico, che nel «limite» poneva la perfezione.

La catarsi. – Si è detto che Aristotele nella Poetica tratta fondamentalmente della tragedia e che, in relazione a essa, svolge la sua teorica dell’arte. Qui non possiamo addentrarci nei dettagli sull’argomento; ma un punto resta da rilevare che, mentre la natura dell’arte consiste nell’imitazione del reale secondo la dimensione del possibile, la finalità di essa sta nella purificazione delle passioni. Questo il filosofo sostiene, facendo esplicito riferimento alla tragedia, con una definizione che, però, può essere estesa anche all’arte in generale:
Tragedia, dunque, è mimési [«imitazione»] di un’azione seria e compiuta in se stessa, con una certa estensione; in un linguaggio abbellito di varie specie di abbellimenti, ma ciascuno a suo luogo nelle diverse parti; in forma drammatica e non narrativa; la quale, mediante una serie di casi che suscitano pietà o terrore, ha per effetto di sollevare e purificare l’animo da siffatte passioni.
Che cosa significa, dunque, purificazione delle passioni?
Il testo originale usa l’espressione catarsi (kàtharsis) delle passioni, la quale risulta alquanto ambigua ed è stata, di conseguenza, oggetto di differenti interpretazioni. Alcuni hanno ritenuto che Aristotele parlasse di purificazione delle passioni in senso morale, quasi di una loro sublimazione ottenuta mediante l’eliminazione di ciò che esse hanno di deteriore. Altri, invece, hanno inteso la «catarsi delle passioni» nel senso di rimozione o di eliminazione temporanea delle passioni, in senso quasi fisiologico, e quindi nel senso di liberazione dalle passioni.
Aristotele, dunque, doveva aver spiegato più a fondo il senso della catarsi nel secondo libro della Poetica, il quale, purtroppo, è andato perduto. Tuttavia, vi sono due passi nella Politica (VIII 6-7) che ne fanno cenno. Da questi passi risulta chiaramente che la catarsi poetica non è certamente un purificazione di carattere morale (giacché è da questa espressamente distinta), ma risulta altrettanto bene che essa non possa ridursi a un fatto puramente fisiologico. È probabile o, in ogni caso, possibile che, pur con oscillazioni e incertezze, Aristotele intravvedesse in quella piacevole liberazione operata dall’arte qualcosa di analogo a quello che noi oggi chiamiamo «piacere estetico».
Platone aveva condannato l’arte – tra l’altro – anche perché essa scatena sentimenti ed emozioni, allentando l’elemento razionale che le domina. Aristotele capovolge esattamente l’interpretazione del suo maestro: l’arte non ci carica, ma ci scarica dell’emotività, delle tensioni, e quel tipo di emozione che essa ci fa provare (che è di natura del tutto particolare) non solo non ci nuoce, ma ci risana.
L’ha ripubblicato su ilcantooscuro.
"Mi piace""Mi piace"
[…] le sue opere su questo specifico argomento sono andate perdute; resta solo il primo libro della Poetica, nel quale l’autore, confrontando i caratteri del genere epico e di quello tragico, affronta in […]
"Mi piace""Mi piace"
[…] le fonti letterarie più tarde si hanno le indicazioni contenute nella Poetica aristotelica, che si preoccupa soprattutto di evidenziare il processo di catarsi operato sul […]
"Mi piace""Mi piace"
[…] verso l’apice del rapporto scrittore-lettore che è il climax. Il climax è, come diceva Aristotele, un’esperienza artistica che riunisce la vita reale e l’emozione […]
"Mi piace"Piace a 1 persona
[…] si fondano su testimonianze antiche, talora discordi e prive di un sicuro fondamento. Aristotele (Poetica IV 1449a, 10), subito dopo aver fornito indicazioni sulle origini del genere tragico, afferma che la […]
"Mi piace""Mi piace"