Aureliano: una riforma graduale

di F. CERATO, Aureliano: una riforma graduale.

L’acclamazione di Lucio Domizio Aureliano[1], magister equitum di Claudio[2], al soglio imperiale, avvenuta nel 270 d.C. a Sirmium, in Pannonia, nell’attuale Serbia[3], ristabiliva una prassi ormai consolidata: già da tempo, infatti, erano le gerarchie militari a scegliere l’imperator e l’avallo del Senato di Roma era una pura formalità. Inoltre, Aureliano apparteneva – tanto come il suo predecessore, Claudio il Gotico, quanto il suo successore, Probo – a quella covata di generali che dovevano la propria fortuna a Gallieno. Per la tradizione storiografica superstite, ancor più di Claudio II, il cui regno fu anche fin troppo breve, Aureliano rappresenta l’anti-Gallieno; e, in effetti, il nuovo Augustus dovette affrontare il difficile problema di rimarginare le ferite territoriali che l’Impero aveva subito proprio sotto Gallieno (253-268). Austerità, disciplina, rigore furono le virtutes che marcarono la figura di Aureliano nella tradizione, appunto, e probabilmente anche nei fatti, in contrapposizione all’“effemminato” Gallieno.

L. Domizio Aureliano. Busto, bronzo, III sec. d.C. ca. Brescia, Museo di S. Giulia.

Il tentativo da parte del Senato di eleggere imperator Quintillo, fratello del defunto Cesare, non poteva che scontrarsi con lo strapotere dell’esercito[4]. Alla notizia della morte del fratello, infatti, lo stesso Quintilio, che presidiava Aquileia con una parte dell’esercito, fu abbandonato dai soldati e si tolse la vita[5]. Quanto ad Aureliano, anche lui di origini illirica[6], era stato vicinissimo a Claudio II e la sua designazione fu fatta accompagnare dalla voce, con ogni probabilità inventata ad arte, che lo stesso Claudio lo avesse scelto suo successore. Aureliano, inoltre, non fu certamente estraneo all’eliminazione di Manlio Acilio Aureolo, un ex generale di Gallieno, che avrebbe potuto essere un potenziale rivale nell’ascesa al potere[7].

Finalmente, senza più ostacoli, la prima decisione del nuovo imperator fu quella di recarsi immediatamente a Roma per ottenere la ratifica del Senato nella sua nuova dignitas: da qui, forse, un atteggiamento di reciproca diffidenza, se non ostilità, tra imperatore e Senato nel corso del suo regno. Volitivo e deciso rappresentante di quei quadri dell’esercito il cui potere si era ormai accresciuto a dismisura, il nuovo Cesare si trovò subito a confrontarsi con una serie di scorrerie organizzate dalle più diverse tribù germaniche: gli Juthungi, che tornavano in Raetia dopo essere penetrati in Italia, i Vandali, che avevano invaso la Pannonia, e gli ormai noti e sempre irrequieti Alamanni e Marcomanni[8].

Soldati romani ausiliari dell’età di Aureliano (III sec.). Illustrazione di G. Sumner.

Pertanto, prima di scendere a Roma a certificare la propria posizione, Aureliano si rendeva perfettamente conto che il problema degli sconfinamenti barbarici era della massima urgenza. Riprendendo la strategia del predecessore, l’imperator lasciò i propri presidi pannonici per dirigersi verso la Pianura padana per tagliare la via del ritorno al nemico: le orde juthungiche, infatti, dilagate in Italia settentrionale per fare bottino, venute a conoscenza dell’arrivo di un nuovo imperatore, tentarono di ritirarsi, ma furono intercettate dai Romani nei pressi del Danubio e sbaragliate. Non distrutti completamente, i barbari furono costretti a scendere a patti, ma le loro istanze di rinnovo dei precedenti trattati e del riconoscimento di nuovi sussidi furono rifiutate da Aureliano con estrema fermezza. In compenso, in quell’occasione, pare che egli abbia compiuto un gesto emblematico della sua personalità: davanti a tutto l’esercito schierato, ricevette gli emissari juthungici, accordò loro la pace, ma rifiutò il foedus (che avrebbe reso l’Impero tributario dei barbari), avvertendo così la controparte di un netto cambiamento di rotta nella politica imperiale[9].

Mappa dell’invasione della Raetia e dell’Italia settentrionale negli anni 268-271.

Compiute tali imprese, discese quindi a Roma per pretendere l’ufficializzazione della sua posizione imperatoria dalle mani del Senato. Assumendo la carica governativa, Aureliano ricevette un Impero diviso in tre parti: l’Imperium Galliarum, costituito dalle province più occidentali (Hispaniae, Galliae, Britannia), retto da Gaio Pio Esuvio Tetrico, in piena crisi interna ed esposto a continui sconfinamenti di incursori d’oltre Reno; in Oriente, Syria, Asia ed Aegyptus avevano defezionato a favore del Regno di Palmira, fondato da Settimio Odenato, e allora governato da Zenobia e dal figlio Settimio Vaballato[10].

Zenobia, Antoniniano, Antiochia apud Oronten, 272 d.C. AR 2,52 gr. Recto: S(eptimia) Zenobia Aug(usta). Busto drappeggiato, voltato a destra, con stephané e luna crescente.

Pur deciso a adempiere al suo compito, Aureliano doveva temporeggiare a causa delle insufficienti risorse militari: per quanto temprate da anni di esperienza sul campo, poteva contare solo su quattordici legioni, tutte schierate sul limes danubiano, ma sarebbe stato rischioso disimpegnarle da là e trasferirle su altri fronti. Quanto all’Imperium Galliarum, l’usurpatore Tetrico versava in una situazione forse più grave di quella di Roma, vessato dalle tribù germaniche e non in grado di perseguire alcuna politica di espansione[11]. Ben diversa era la condotta da tenere verso il Regnum Palmyrense, ormai all’apogeo: Aureliano dovette ricorrere a concessioni, riconoscendo al principe Vaballato il possesso delle province orientali, i titoli di vir consularis, rex, imperator e dux Romanorum e il diritto di battere moneta con la propria effigie sul diritto (purché sul rovescio apparisse quella di Aureliano): in questo modo l’imperatore poté garantirsi, almeno formalmente, l’unità dell’Impero.

Aqmat, figlia di Hagagu, di Zebida con iscrizione. Busto a rilievo, pietra locale, fine II sec. d.C. da Palmira. London, British Museum.

Mentre si trovava ancora nell’Urbe, nel novembre del 270, Aureliano fu raggiunto dalla notizia di una nuova invasione che stava diffondendo il panico in Pannonia, rimasta sguarnita dopo l’impresa contro gli Juthungi[12]. Questa fu la volta dei Vandali Asdingi, al cui seguito militavano alcune bande di Sarmati Iazigi[13]. Il rapido intervento dell’imperator in persona costrinse l’orda a capitolare e a chiedere la pace. Aureliano, dopo essersi consultato con i suoi uomini,  concesse l’armistizio, ma a patto che i capi barbari consegnassero in ostaggio molti dei loro figli e fornissero un contingente di cavalleria ausiliaria da 2.000 uomini; non potendo rifiutare, i razziatori accordarono quanto richiesto e poterono far rientro nei loro territori oltre Danubio[14]. Per questi successi l’imperatore ottenne l’appellativo di Sarmaticus maximus[15].

Scena di battaglia fra Romani e Sarmati. Bassorilievo, marmo, 113 d.C. ca. Dettaglio dalla Colonna Traiana (attribuito ad Apollodoro di Damasco).

Non era trascorso molto tempo che già una nuova minaccia si profilava all’orizzonte: stavolta si trattava di una cospicua invasione congiunta di Alamanni, Marcomanni e alcune bande juthungiche. Ancora una volta, Aureliano fu costretto ad accorrere verso l’Italia, ora che gli invasori avevano ormai superato i passi alpini. Raggiunto il cuore della Pianura padana a marce forzate percorrendo la via Postumia, nei pressi di Piacenza l’imperatore stesso fu colto da un’imboscata tesagli dalla coalizione nemica[16]. Se, da una parte, la pesante sconfitta inflisse un duro colpo all’immagine pubblica dell’imperatore, dall’altra, è vero che i vincitori non seppero coglierne i frutti, perché, spinti da un’irrefrenabile smania di bottino, si divisero in orde più piccole, sparpagliandosi in tutta l’area padana. Ciò permise all’imperatore di radunare nuovamente le forze e di dare la caccia ai razziatori. Con due scontri campali, uno a Fanum e uno a Ticinum, Aureliano riuscì a stornare la minaccia barbarica e a ricacciare i nemici al di là del limes danubiano[17].

Cavaliere barbaro disarcionato. Statuetta, bronzo, III sec. d.C.

Insomma, fin da subito l’attività dell’imperatore non si limitò alla semplice azione di contenimento: grazie all’esperienza delle campagne condotte vittoriosamente nel primo anno di regno, Aureliano concepì e attuò una radicale riforma territoriale e amministrativa dell’area del basso Danubio, finalizzata a facilitare il controllo di quell’area sulla lunga durata. Punto cardine dell’operazione fu una decisione sofferta, ma inevitabile: l’abbandono del territorio occupato a nord del fiume, divenuto ormai del tutto incontrollabile[18]. L’area dacica sulla sponda destra, invece, fu suddivisa in due province: la Dacia Ripensis, in cui si attestarono le due legioni che prima tenevano il territorio transdanubiano, e la Dacia Mediterranea, più a sud[19]. Quanto all’ex provincia di Dacia, Aureliano concesse ai Goti di stanziarvisi liberamente, attestando il limes romano sul Danubio[20].

Monumento funebre a un argentarius (P. Curtilius P.L. Agat. Faber Argentarius). Marmo, I sec. d.C. dall’Italia.

Nel 271, preoccupato per gli intrighi del Senato, che tentava con ogni mezzo di riacquistare l’antica auctoritas, il nuovo imperatore, per conservare il potere, prese a pretesto le reali condizioni di corruzione, malversazione e disservizio in cui versava l’apparato amministrativo dell’Impero, zecca inclusa, promuovendo una riforma fiscale. E proprio mentre si apprestava a indagare e punire i reati commessi, in relazione alla coniazione delle monete d’argento, si scatenò una ribellione dei monetarii, gli addetti alla zecca di Roma: proprio quegli operai erano stati accusati di appropriazione indebita di metallo prezioso. Ben presto, tuttavia, la ribellione a tal punto da coinvolgere anche parte della popolazione urbana, alcuni membri del Senato, il praefectus Urbi e i funzionari dell’Aerarium: pare, inoltre, che a capo della sedizione si fosse posto Felicissimo il procurator fisci[21]. L’intervento dell’Augustus fu spietato e la sommossa fu repressa in modo estremamente cruento: tutti i magistrati e i maggiorenti coinvolti furono epurati. Per alcuni anni le attività della zecca furono sospese[22].

L. Domizio Aureliano, Antoniniano, Sciscia, 273 d.C. AR 4,26 gr. Recto: Imp(erator) C(aesar) Aurelianus Aug(ustus). Busto corazzato e radiato dell’imperatore, voltato a destra.

Fu in quella circostanza – pare – che l’imperator decise la fortificazione dell’Urbe con poderose mura merlate, intervallate ogni 30 metri da 381 torri a pianta rettangolare, e da 17 o 18 porte principali, per una circonferenza totale di dodici miglia[23]. Questa importantissima opera pubblica, ancora oggi nota come mura Aureliane, era sintomo di come ormai non fosse nemmeno sicuro il cuore dell’Impero[24].

Mura Aureliane, Roma.

Al di là delle pur pressanti questioni interne, il nodo da affrontare per Aureliano era, però, un altro: si trattava di tentare di ristabilire l’unità statale, minacciata dall’Imperium Galliarum e dall’incredibile espansione di Palmira in Oriente.

Il Regno palmireno, sotto la guida della geniale regina Zenobia, che agiva come reggente del giovane figlio Vaballato, aveva accresciuto enormemente la propria sfera d’influenza grazie a una serie di fortunate campagne militari, approfittando del momento di incertezza, seguito alla morte di Claudio II: dietro il paravento dell’incarico di corrector totius Orientis, affidato al defunto re Odenato dagli stessi Romani, Zenobia mirava ormai all’impero personale per sé e per il figlio[25]. Dopo un iniziale accordo con il potere centrale, si era avuta a livello ufficiale la ratifica di quella che già da tempo era una vera e propria usurpazione: dalla monetazione palmirena, infatti, era scomparsa l’effigie di Aureliano, sostituita da quella di Zenobia e di Vaballato, i quali si fregiavano del titolo di Augusti; era una vera e propria proclamazione di indipendenza da Roma e un’aperta dichiarazione di ostilità nei confronti dell’imperatore[26].

Tempio di Beelshamên. 131. Palmira.

In breve tempo le truppe di Zenobia si erano impadronite delle limitrofe province romane di Arabia, Aegyptus, Syria e parte dell’Asia Minore. Nell’ottobre 270 un corpo d’armata palmireno di 70.000 uomini, guidato dal generale Settimio Zabdas, aveva approfittato del fatto che il praefectus Aegypti, Teagino Probo, fosse impegnato con la flotta per combattere i pirati, e aveva occupato la provincia nilotica. L’ingresso dei Palmireni ad Alessandria fu salutato come un trionfo e una liberazione dai fautori della regina[27]. Zenobia aveva rivelato passo a passo i propri piani di conquista del potere: all’inizio, infatti, aveva presentato se stessa e il figlio come paladini degli interessi di Roma in Oriente; poi nel 271 si era autoproclamata Augusta e imperatrix Romanorum, reggente per conto di Vaballato. Inoltre, la regina non solo aveva stretto un accordo segreto con i Sasanidi, ma aveva persino cercato il consenso in certi ambienti cristiani, giudaici e intellettuali: ella diede il suo appoggio al vescovo eretico Paolo di Samosata perché si insediasse ad Antiochia e si servì dei consigli di importanti intellettuali del tempo, lo storico Nicostrato di Trapezunte, il sofista Callinico di Petra e il retore neoplatonico Cassio Longino[28].

Iscrizione in onore di Giulio Aurelio Zenobio, padre di Zenobia. Colonna, arenaria, III sec. d.C. Palmira.

Nel 272 Aureliano decise di passare ai fatti, inviando in Aegyptus la sua flotta, guidata da Marco Aurelio Probo, che recuperò la provincia senza colpo ferire, e congiuntamente occupando senza trovare resistenza la provincia di Bithynia[29]; poi conquistò le città di Ancyra[30] e Tyana (quest’ultima per tradimento), riservando nei confronti dei civili un trattamento mite al fine di sgretolare il consenso verso Zenobia[31]. Tale condotta fu tenuta dall’imperatore ogni volta che si trovò ad assediare una città orientale per tutto il corso della campagna.

Soldati palmireni. Illustrazione di A. McBride.

Perduto il controllo sull’Asia Minore e sull’Egitto, Zenobia ordinò a Zabdas di radunare l’esercito nel cuore del suo dominio e di attendere il nemico. Le truppe palmirene, composte da due legioni, arcieri e cavalleria pesante (i clibanarii), assembrate fuori dalla capitale siriaca, Antiochia sull’Oronte, mossero allora incontro all’imperatore, che fu intercettato sulle sponde del fiume, nella località di Immae. Aureliano, memore della sua esperienza di magister equitum, al primo assalto dei cavalieri palmireni, fiduciosi delle loro corazzature, ordinò alla fanteria di attestarsi al di là dell’Oronte e diede istruzione ai suoi cavalieri, più leggeri e veloci, di non contrattaccare il nemico, ma di andargli incontro e di simulare una ritirata tattica. Raccomandò loro di insistere in questo senso finché i clibanarii nemici, appesantiti dalle corazze e sfiancati dalla corsa, non avessero desistito dall’inseguimento. Solo in quel momento, gli equites avrebbero contrattaccato e distrutto gli avversari, mentre la fanteria e il grosso dell’esercito imperiale, varcato il fiume avrebbero attaccato sul fianco di Zabdas. Il Palmireno subì una pesantissima sconfitta[32].

Ritiratosi in fretta e furia entro le mura della città vicina, dove si era insediata anche la corte di Zenobia per meglio seguire gli eventi, nottetempo i Palmireni decisero di abbandonare la piazzaforte nelle mani di Aureliano.

Esempio di eques clibanarius. Illustrazione di S. James.

Significativa allo scopo di fiaccare gli avversari fu la decisione assunta dall’imperatore in merito alla comunità cristiana di Antiochia, quando conquistò la città: nel 264 un concilio di vescovi, tenutosi nella città sull’Oronte, aveva condannato la condotta e la dottrina di Paolo di Samosata e lo aveva sostituito con Donno[33]. Durante la spedizione di Aureliano contro Zenobia, il vescovo eretico aveva rivendicato il possesso della casa episcopale e aveva preteso la propria reintegrazione a capo della comunità dei fedeli. La diatriba, all’avviso di questi ultimi, aveva richiesto l’attenzione dell’imperator vittorioso, il quale stabilì una volta per tutte che l’ufficio pastorale spettasse al vescovo che fosse stato in comunione con quello romano e quelli d’Italia. In forza di questa sentenza, Paolo di Samosata fu bandito dalla città[34].

Statua di Tyche-Fortuna di Antiochia. Marmo, copia romana del I secolo d.C. da originale di Eutichide del III secolo a.C. Musei Vaticani.

Aureliano, dunque, venuto a sapere che i nemici si erano attestati nei pressi di Emesa, fu sul punto di muovere loro incontro. Tuttavia, avvisato della presenza di un nutrito contingente di arcieri collocato sulla cima della collina di Dafne, nei sobborghi di Antiochia, ordinò alle sue truppe di prendere l’altura e di eliminare quella potenziale spina nel fianco[35]. Alla notizia della brillante vittoria romana, le città di Apamea, Larissa e Aretusa, tutte sull’Oronte, aprirono le porte al passaggio del vincitore[36]. Aureliano si diresse alla volta di Emesa, dove lo attendevano i 70.000 Palmireni guidati dal solito Zabdas: ancora una volta il generalissimo di Zenobia, che, evidentemente, non aveva imparato la lezione, puntò tutto sulla cavalleria, in effetti, in superiorità numerica rispetto a quella romana. Inaspettatamente, l’imperatore, pur volgendo la battaglia a suo svantaggio, ricevette il rinforzo di contingenti da tutta l’area circostante, anche da quelli che avevano defezionato dalla causa di Zenobia, e riportò una vittoria schiacciante[37].

Divinità palmirene. (Da sinistra a destra) il dio lunare Agli-Bol, il dio supremo Beelshamên ed il dio solare Malakbêl. Calcare, I secolo da Bir Wereb (Wadi Miyah, Siria). Paris, Musée du Louvre

Zenobia, avendo deciso di ritirarsi nella propria capitale, nella concitazione della fuga, aveva dimenticato di recuperare il tesoro reale custodito in Emesa: qui l’imperatore, salutato dalla popolazione civile come un liberatore, fu riconosciuto come il prescelto di El-Gabal, il dio Sol Invictus. Per questa ragione, Aureliano stabilì di restaurare il santuario urbano e di assumere il culto del dio nel proprio pantheon personale[38].

Scutum. Legno e pelle, III sec. d.C. da Dura Europos. Yale University.

Dopo un breve assedio[39], anche Palmira, l’ultima resistenza, capitolò e la regina ribelle fu catturata, sorpresa a fuggire verso gli alleati sasanidi[40]. L’atteggiamento dell’imperatore fu, ancora una volta, deliberatamente di estrema mitezza: solo i funzionari, i consiglieri e i generali di Zenobia furono messi a morte. Solo la sovrana fu risparmiata, per servire al vincitore come preda eccellente da esibire nel trionfo[41].

Mappa della campagna orientale di Aureliano (272).

Nel 273, mentre si apprestava a fare rientro a Roma, Aureliano fu raggiunto dalla notizia che gli abitanti di Palmira si erano nuovamente ribellati, sobillati da un certo Apseo, e avevano cercato la connivenza del praefectus Mesopotamiae e rector Orientis, Marcellino. Siccome, però, quest’ultimo esitava, avevano cercato di innalzare alla porpora un parente di Zenobia, un certo Achilleo (o Antioco)[42]. Senza alcun indugio l’imperatore tornò indietro e sedò la rivolta: stavolta si mostrò duro e spietato, comminando esecuzioni sommarie e radendo al suolo la città; agli abitanti superstiti concesse la facoltà di riedificare il centro urbano[43]. Pacificato in questo modo l’Oriente, ottenuti gli appellativi di Palmyrenicus maximus[44], Adiabenicus[45], Parthicus maximus[46], Persicus maximus[47], e soprattutto di Restitutor orbis[48], tornò nell’Urbe da trionfatore[49].

Tornato in Italia e respinti nuovamente gli Alamanni, Aureliano poté finalmente rivolgersi all’altro grande fattore di disgregazione dell’Impero: l’Imperium Galliarum. All’interno di quell’organismo statale la situazione era tutt’altro che tranquilla, anzi, probabilmente, versava in condizioni peggiori di quelle affrontate dal governo legittimo. Nel 271, infatti, l’usurpatore Marco Piavonio Vittorino era stato assassinato da uno dei suoi ufficiali e gli era succeduto Tetrico, già governatore dell’Aquitania, che aveva nominato il figlio omonimo prima Cesare e poi Augusto, associandoselo all’impero. Nel 274 Aureliano mosse guerra all’usurpatore gallico e le truppe romane affrontarono quelle nemiche in campo aperto, apud Catalaunos (Châlons-sur-Marne). La versione ufficiale vuole che Tetrico avesse contattato Aureliano prima della battaglia, chiedendogli di accoglierlo dalla sua parte e di aiutarlo per guerreggiare contro Faustino, che lo aveva spodestato nella sua capitale, Augusta Treverorum. Sta di fatto che, abbandonato dalla maggior parte dei suoi, Tetrico fu sconfitto in uno scontro sanguinoso e che accompagnò il trionfo di Aureliano insieme a Zenobia[50].

C. Pio Esuvio Tetrico, Doppio antoniniano, Colonia Agrippinensis o Augusta Treverorum, 271-274 d.C. Æ 5,62 gr. Recto: Imp(erator) Tetricus P(ius) F(elix) Aug(ustus). Busto radiato e corazzato dell’imperatore, voltato a destra.

È curioso che sia la regina palmirena sia l’ex imperatore delle Galliae sarebbero stati risparmiati: l’una confinata a vita a Tivoli, l’altro perdonato e rivestito addirittura della carica di corrector Lucaniae et Bruttiorum, in ossequio alla sua dignità senatoria[51].

Nel 274, dunque, Aureliano aveva finalmente realizzato la restitutio imperii. Alla rinnovata unità politica egli volle far corrispondere l’unità ideologico-religiosa, promuovendo e anzi imponendo ai cittadini dell’Impero il culto del suo nume protettore, il Sol Invictus: quello tributato a questa divinità era un culto di ispirazione monoteistica e orientale, ed era tipico dell’elemento militare; stando così le cose, Aureliano, essendo il comandante in capo delle forze armate, era anche il sommo sacerdote del nuovo culto: insomma, in lui si realizzava una perfetta sintesi fra le istanze politiche e quelle spirituali (dominus et deus)[52]. Anche l’apparato e il cerimoniale di corte furono condizionati da questo monoteismo solare protettore dell’Impero e dell’Augusto al tempo stesso; l’imperatore fu il primo nella storia romana a indossare il diadema orientale e la corona radiata: queste novità dimostrano quanto la suggestione dello sconfitti Regno palmireno avesse colpito l’immaginario di Aureliano e, inoltre, celano i germi della concezione e rappresentazione dell’assolutismo e della sacralità del potere che avrebbero caratterizzato il successivo Dominatus. L’imperatore dedicò un colossale tempio al Sol Invictus, eretto presso le pendici del Quirinale, e pretese che fossero resi onori superiori a qualsiasi altra divinità[53].

L. Domizio Aureliano. Antoniniano, Serdica, inizi 274 d.C. Æ-AR 3, 31 gr. Verso: Sol, radiato, stante, verso sinistra; regge nella mano sinistra un globo e la destra è alzata sopra un prigioniero ai suoi piedi; in leggenda: Oriens Aug(usti).

Sotto il suo principato, nella città di Roma si incrementarono le distribuzioni gratuite agli aventi diritto di pane, carne di maiale, olio, sale e probabilmente anche vino: per queste si rese necessario creare alcune corporazioni di mestiere, indispensabili per assicurare la continuità del servizio, come i navicularii (battellieri) del Nilo e del Tevere, oppure i fornai di Roma.

Scene di vita pastorale. Bassorilievo, marmo, III sec. d.C. dal sarcofago di Giulio Achilleo. Roma, Museo Nazionale Romano.

Il sostegno materiale e logistico fu cercato attraverso una importante riforma monetaria, in un tentativo di miglioramento qualitativo del denaro: nella primavera del 274, infatti, Aureliano tentò di porre rimedio alla costante svalutazione della moneta d’argento e all’instabilità dell’emissione dei tipi aurei, ormai tendenti al ribasso. Secondo Zosimo, l’imperatore adottò nuove misure che avevano il loro punto focale nell’introduzione di una nuova moneta argentea (ἀργύριον νέον), ritirando, al contempo, i coni adulterati (τὸ κίβδηλον)[54]. Segno tangibile dei provvedimenti fu l’emissione di nuovi antoniniani, chiamati aurelianiani, dal peso medio di 1/50 di libbra[55].

Aureliano. Aureo. Mediolanum, 271-272 d.C., AV 4,70 g. Recto: Imp(erator) C(aesar) L(ucius) Dom(itius) Aurelianus P(ius) F(elix) Aug(ustus). Busto dell’imperatore voltato verso destra, laureato e corazzato.

L’opera di risistemazione e di riaggregazione dell’Impero avrebbe dovuto avere un suggello nella vendetta contro i Sasanidi per la cattura di Valeriano: nel 275 Aureliano si mise in viaggio per raggiungere l’Asia Minore e da lì guidare una campagna contro il nemico orientale[56]. Mentre l’imperatore si trovava sulla via di Bisanzio, dove lo attendeva l’esercito, il liberto Erote, uno dei suoi segretari, più volte segnalato per malversazione, temendo la punizione del padrone, ordì una congiura contro di lui. Avendo una certa familiarità con le generalità e con i documenti dell’imperatore, conoscendone perfettamente la grafia, decise di stilare una lista di ufficiali sospettati di corruzione e di lesa maestà da processare e mettere a morte, siglandola con la firma dell’Augustus. Nell’accampamento di Caenophrurium, tra Perinto e Bisanzio, gli ufficiali della guardia pretoriana intercettarono il documento e, colti dall’ira, massacrarono l’imperatore[57].

***

Note:

[1] Sulla figura di questo imperatore, essenziali sono le fonti citate già in E. Groag, s.v. Domitius(36) Aurelian, in RE V 1 (1903), coll. 1347-1419. Cfr., inoltre, J. Scarborough, Aurelian: Questions and Problems, CJ 68 (1973), pp. 334-345; S. Dmitriev, Traditions and Innovations in the Reign of Aurelian, CQ 54 (2004), pp. 568-578; U. Hartmann, Claudius Gothicus und Aurelianus, in K.-P. Johne (ed.), Die Zeit der Soldatenkaiser. Krise und Transformation des Römischen Reiches im 3. Jahrhundert n. Chr., I, Berlin 2008, pp. 297-323; si vd. anche la recente biografia di J.F. White, The Roman Emperor Aurelian, Barnsley 2016.

[2] Cfr. S.H.A. III Aurel. 16, 4; 18, 1.

[3] Sull’appellatio imperatoria di Aureliano, cfr. C. Scarre, Chronicle of the Roman Emperors, New York 1999, p. 184; A. Watson, Aurelian and the Third Century, London-New York 1999, p. 45.

[4] Sul rapporto conflittuale con il Senato, si vd. R. Suski, Aurelian and the Senate. A Few Remarks upon Emperor Aurelian’s Policy of Political Nominations, in T. Derda et al. (eds), Euergesias charin. Studies presented to Benedetto Bravo and Ewa Wipszycka, Warsaw 2002, 279-291.

[5] Cfr. Zonar. XII 26. Su Quintillo, si vd. D.T. Barnes, Some Persons in the Historia Augusta, Phoenix 26 (1972), pp. 168-170.

[6] Sulle origini di Aureliano, si vd. S.H.A. III Aurel. 1-2; Eutr. IX 13, 1; Aur. Vict. Caes. 35, 1.

[7] Cfr. S.H.A. III Aurel. 5, 1-3; Zonar. ibid.; Zos. I 41,1; M. Grant, Gli imperatori romani: storia e segreti, Roma 1984, p. 241; Aur. Vict. Caes. 33. Su Aureolo, in part., si vd. Barnes, 1972, p. 149.

[8] Cfr. Grant, 1984, p. 245.

[9] A proposito delle imprese dell’imperatore contro gli Juthungi, si vd. R.T. Saunders, Aurelian’s “Two” Juthungian Wars, Historia 41 (1992), pp. 311-327.

[10] Sul Regno di Palmira, si vd. D. Potter, Palmyra and Rome: Odaenathus’ Titulature and the Use of the Imperium Maius, ZPE 113 (1996), pp. 271-285; R. Stoneman, Palmyra and its Empire. Zenobia Revolt against Rome, Michigan 1994. Sull’ascesa di Zenobia, si vd. P. Southern, Empress Zenobia: Palmyra’s Rebel Queen, 2008, pp. 84-92; T. Bryce, Ancient Syria: A Three Thousand Year History, Oxford 2014, p. 299. Per una discussione intorno alle fonti, si vd. D. Burgersdijk, Zenobia’s Biography in the Historia Augusta, TALANTA 36-37 (2004-2005), pp. 139-152. Si vd. ancora P. Jones, Rewriting Power. Zenobia, Aurelian, and the Historia Augusta, CW 109 (2016), pp. 221-233.

[11] Sulla figura di Tetrico, si vd. PIR², E 99; S. Estiot, Tétricus I et II : les apports de la statistique à la numismatique de l’empire gaulois, H&M 4 (1989), pp. 243-266; R. Ziegler, Kaiser Tetricus und der senatorische Adel, Tyche 18 (2003), pp. 223-232; M. Polfer, Tetricus I (AD 271–273), in De Imperatoribus Romanis: An Online Encyclopedia of Roman Rulers and Their Families [http://www.roman-emperors.org/tetrici.htm].

[12] Cfr. Zos. I 48, 1.

[13] S.H.A. III Aurel. 18, 2; Zos. I 48, 2; Watson, 1999, p. 217. Cfr. anche M. Colombo, La presenza di Sarmati e di altri popoli nei trionfi di Gallieno, Aureliano e Probo: contributo alla storia dei Sarmati e all’esegesi della Historia Augusta, Hermes 138 (2010), pp. 470-486.

[14] Si vd. Dexip. Scyth. fr. 7; cfr. Grant, 1984, p. 246.

[15] CIL III 13715; S.H.A. III Aurel. 30, 5; Watson, 1999, p. 221.

[16] Cfr. S.H.A. III Aurel. 21, 1-3; Watson, 1999, p. 50; D.S. Potter, The Roman Empire at Bay, AD 180-395, London-New York 2005, p. 269, sugli sviluppi successivi alla battaglia.

[17] Cfr. CIL IX, 6308; 6309. Si vd. anche S.H.A. III Aurel. 18, 4; 19, 4; Zos. I 49; Aur. Vict. Caes. 35, 2; Watson, 1999, pp. 51, 216 e sgg.; Grant, 1984, p. 246.

[18] Cfr. Watson, 1999, pp. 155-157; si vd. anche S.H.A. III Aurel. 39, 7; Eutr. IX.

[19] Su questa ripartizione, si vd. P. Petit, Histoire générale de l’Empire romain : La crise de l’Empire (des derniers Antonins à Dioclétien), Paris 1974, p. 482.

[20] Sul rapporto fra Aureliano e i Goti, e soprattutto sulla campagna contro Cannabaude, si vd. S.H.A. III Aurel. 22, 2; Grant, 1984, p. 247; P. Southern, The Roman Empire: from Severus to Constantine, London-New York 2001 p. 225. Sulla figura di Cannabaude, cfr. H. Wolfram, Die Goten, Münich 1990, p. 106; A. Goltz, Die Völker an der mittleren und nordöstlichen Reichsgrenze, in K-P. Johne, 2008, pp. 449-464 [p. 461].

[21] Su Felicissimo, si vd. Barnes, 1972, p. 157.

[22] Cfr. S.H.A. III Aurel. 38, 2-4; Aur. Vict. Caes. 35, 6. Sulla rivolta dei monetarii, si vd. R. Turcan, Le délit des monétaires rebellés contre Aurélien, Latomus 28 (1969), pp. 948-959, e V. Cubelli, Aureliano imperatore: la rivolta dei monetieri e la cosiddetta riforma monetaria, Firenze 1992.

[23] L. Cozza, Roma: le Mura Aureliane dalla Porta Flaminia al Tevere, PBSR 57 (1989), pp. 1-5.

[24] Zos. I 49, 2.

[25] Si vd. S.H.A. III Aurel. 22, 1. Cfr. R. Rémondon – A. Pastorino, La crisi dell’impero romano, da Marco Aurelio ad Anastasio, Milano 1975, p. 82.

[26] Sui tipi monetali dei sovrani palmireni, si vd. R. Bland, The Coinage of Vabalathus and Zenobia from Antioch and Alexandria, NC 171 (2011), pp. 133-186.

[27] Sulla conquista dell’Egitto da parte dei Palmireni, si vd. Zos. I 44.

[28] Sulla cultura di Zenobia, si vd. G. Bowersock, L’Ellenismo nel mondo tardoantico, Roma-Bari 1992, pp. 20-21. A proposito di Longino, si vd. J. Lamb, Longinus, the Dialectic, and the Practice of Mastery, ELH 60 (1993), pp. 545-567.

[29] S.H.A. III Aurel. 22, 4. Cfr. Bryce, 2014, p. 307.

[30] Zos. I 50, 2.

[31] Cfr. Zos. ibid.; S.H.A. III Aurel. 23.

[32] S.H.A. III Aurel. 25, 1; Zos. I 50, 2-4. Sulla vittoria a Immae, si vd., in particolare, G. Downey, Aurelian’s Victory over Zenobia at Immae, A.D. 272, TAPhA 81 (1950), pp. 57-68. Cfr. anche Bryce, 2014, p. 309.

[33] Euseb. Hist. Eccl. 30, 7.

[34] Cfr. F. Millar, Paul of Samosata, Zenobia and Aurelian: The Church, Local Culture and Political Allegiance in Third-Century Syria, JRS 61 (1971), pp. 1-17; K. Butcher, Roman Syria and the Near East, Malibu 2003, p. 378; Southern, 2008, p. 138.

[35] Zos. I 52, 1-2.

[36] Zos. I 52, 3.

[37] S.H.A. III Aurel. 25, 2-3; Zos. I 52, 3-54, 3. Cfr. Bryce, 2014, p. 310.

[38] S.H.A. III Aurel. 25, 6.

[39] Zos. I 54, 2.

[40] Sull’assedio di Palmira, si vd. Zos. I 55-56. S.H.A. III Aurel. 27-30.

[41] Secondo la versione di Zos. I 59, Zenobia sarebbe morta durante il viaggio.

[42] Per questa rivolta si vd. Zos. I 60, 1-2; S.H.A. III Aurel. 31, 2. Si vd. Barnes, 1972, pp. 145-146 (su Achilleo/Antioco).

[43] S.H.A. III Aurel. 31, 3-10.

[44] CIL V, 4319.

[45] S.H.A. III Aurel. 30, 5.

[46] S.H.A. III ibid.; CIL XII, 5456; AE 1980, 640; CIL VI, 1112 (p. 4324); VIII, 9040; XII, 5549; XIII, 8973; AE 1949, 35.

[47] CIL XII, 5561; 5571a; AE 1936, 129.

[48] AE 1981, 917; 1992, 1847; CIL VIII, 10205; 22361; 22449; XI, 1214; XII, 5456.

[49] Zos. I 61, 1.

[50] Sulla resa di Tetrico, si vd. E. Cizek, L’empereur Aurélien et son temps, Paris 1994, pp. 119-122. Sull’immagine dell’imperatore vittorioso sull’usurpatore gallico e sulla regina palmirena, si vd. A. Mastino – A. Ibba, L’imperatore pacator orbis, in M. Cassia et. al. (eds.), Pignora amicitia. Scritti di storia antica e di storiografia offerti a Mario Mazza, Catania 2012, pp. 192-196.

[51] Sul destino riservato a Zenobia, si vd., in particolare, S.H.A. III Tyr. Trig. 24; ma anche 30, 27; Eutr. IX 10-13; Grant, 1984, p. 248. A proposito di Tetrico, invece, si vd. S.H.A. III Tyr. Trig. 25, 1-4.

[52] A proposito dell’associazione della gens Aurelia al culto solare, si vd. J.C. Richard, Le culte de Sol et les Aurelii: à propos de Paul Fest. p. 22 L., in Mélanges offerts à Jacques Heurgon: L’Italie préromaine et la Rome républicaine, Rome 1976, pp. 915-925.

[53] Sulla dedicatio e sulla aedificatio del tempio, si vd. Jer. ab Abr. 2291 (275 d.C.); Cassiod. Chron. 990; S.H.A. III Aurel. 1, 3; 25, 4-6; 35, 3; 39, 2. Cfr. J. Calzini Gysens – F. Coarelli, s.v. Sol, templum, in E.M. Steinby (ed.), Lexicon Topographicum Urbis Romae, IV, Roma 1999, pp. 331-333

[54] Zos. I 61, 3.

[55] Cfr. A. Savio, Monete romane, Roma 2001, p. 198, e G.G. Belloni, La moneta romana, Roma 2004, p. 263. Sulla riforma monetaria di Aureliano, in generale, si vd. R.A.G. Carson, The Reform of Aurelian, RN 7 (1965), pp. 225-235, W. Weiser, Die Münzreform des Aurelian, ZPE 53 (1983), pp. 279-295, e il più recente M. Haklai-Rotenberg, Aurelian’s Monetary Reform. Between Debasement and Public Trust, Chiron 41 (2011), pp. 1-40. Sulle conseguenze della riforma, si vd. C. Crisafulli, La riforma di Aureliano e la successiva circolazione monetale in Italia, in M. Asolati – G. Gorini (eds.), I ritrovamenti monetali e i processi storico-economici nel mondo antico, Padova 2012, pp. 255-282.

[56] A proposito delle intenzioni di Aureliano, si vd. S.H.A. III Aurel. 35, 4; Grant, 1984, p. 249; Watson, 1999, p. 102.

[57] S.H.A. III Aurel. 35-37.