in BIONDI I., Storia e antologia della letteratura greca. Vol. 3 – L’Ellenismo e la tarda grecità, Messina-Firenze 2004, 639-644. Testo greco: Dionis Prusaensis quem vocant Chrysostomum quae exstant omnia, ed. J. VON ARNIM, I, Berlin 1893, 190-191; 202-203.

L’incontro con il cacciatore
I passi presi in esame sono tratti dall’opera più originale di Dione, una lunga orazione intitolata Euboico o il cacciatore. Essa ha tutte le caratteristiche di un ampio racconto autobiografico, in cui, peraltro, è difficile distinguere la realtà oggettiva dal processo di idealizzazione al quale sono stati sottoposti molti particolari. L’autore, vittima di un naufragio, fu costretto ad approdare in una zona della costa meridionale dell’isola Eubea, particolarmente solitaria e impervia, nei pressi del promontorio Cafareo. Qui egli fu accolto cortesemente da un cacciatore incontrato per caso. La semplice e cordiale ospitalità dello sconosciuto permise così a Dione di venire per qualche tempo a contatto con uno stile di vita ormai lontano da quello, più lussuoso, ma certo meno tranquillo, delle grandi città.
[1] τόδε μὴν αὐτὸς ἰδών, οὐ παρ᾽ ἑτέρων ἀκούσας, διηγήσομαι. ἴσως γὰρ οὐ μόνον πρεσβυτικὸν πολυλογία καὶ τὸ μηδένα διωθεῖσθαι ῥᾳδίως τῶν ἐμπιπτόντων λόγων, πρὸς δὲ τῷ πρεσβυτικῷ τυχὸν ἂν εἴη καὶ ἀλητικόν. αἴτιον δέ, ὅτι πολλὰ τυχὸν ἀμφότεροι πεπόνθασιν, ὧν οὐκ ἀηδῶς μέμνηνται. ἐρῶ δ᾽ οὖν οἵοις ἀνδράσι καὶ ὅντινα βίον ζῶσι συνέβαλον ἐν μέσῃ σχεδόν τι τῇ Ἑλλάδι.
[2] ἐτύγχανον μὲν ἀπὸ Χίου περαιούμενος μετά τινων ἁλιέων ἔξω τῆς θερινῆς ὥρας ἐν μικρῷ παντελῶς ἀκατίῳ. χειμῶνος δὲ γενομένου χαλεπῶς καὶ μόλις διεσώθημεν πρὸς τὰ κοῖλα τῆς Εὐβοίας· τὸ μὲν δὴ ἀκάτιον εἰς τραχύν τινα αἰγιαλὸν ὑπὸ τοῖς κρημνοῖς ἐκβαλόντες διέφθειραν, αὐτοὶ δὲ ἀπεχώρησαν πρός τινας πορφυρεῖσὑφορμοῦντας ἐπὶ τῇ πλησίον χηλῇ, κἀκείνοις συνεργάζεσθαι [3] διενοοῦντο αὐτοῦ μένοντες. καταλειφθεὶς δὴ μόνος, οὐκ ἔχων εἰς τίνα πόλιν σωθήσομαι, παρὰ τὴν θάλατταν ἄλλως ἐπλανώμην, εἴ πού τινας ἢ παραπλέοντας ἢ ὁρμοῦντας ἴδοιμι. προεληλυθὼς δὲ συχνὸν ἀνθρώπων μὲν οὐδένα ἑώρων· ἐπιτυγχάνω δὲ ἐλάφῳνεωστὶ κατὰ τοῦ κρημνοῦ πεπτωκότι παρ᾽ αὐτὴν τὴν ῥαχίαν, ὑπὸ τῶν κυμάτων παιομένῳ, φυσῶντι ἔτι. καὶ μετ᾽ ὀλίγον ἔδοξα ὑλακῆς ἀκοῦσαι κυνῶν ἄνωθεν μόλις πως διὰ τὸν ἦχον τὸν ἀπὸ τῆς θαλάττης.
[4] προελθὼν δὲ καὶ προβὰς πάνυ χαλεπῶς πρός τι ὑψηλὸν τούς τε κύνας ὁρῶ ἠπορημένους καὶ διαθέοντας, ὑφ᾽ ὧνεἴκαζον ἀποβιασθὲν τὸ ζῷον ἁλέσθαι κατὰ τοῦ κρημνοῦ, καὶ μετ᾽ ὀλίγον ἄνδρα, κυνηγέτην ἀπὸ τῆς ὄψεως καὶ τῆς στολῆς, τὰ γένεια ὑγιῆ κομῶντα οὐ φαύλως οὐδὲ ἀγεννῶς ἐξόπισθεν, οἵους ἐπὶ Ἴλιον Ὅμηρός φησιν ἐλθεῖν Εὐβοέας, σκώπτων, ἐμοὶ δοκεῖν, καὶ καταγελῶν, ὅτι τῶν ἄλλων Ἀχαιῶν καλῶς ἐχόντων οἱ δὲ ἐξ ἡμίσους [5] ἐκόμων. καὶ ὃς ἀνηρώτα με, Ἀλλ᾽ ἦ, ὦ ξεῖνε, τῇδέ που φεύγοντα ἔλαφον κατενόησας; κἀγὼ πρὸς αὐτόν, Ἐκεῖνος, ἔφην, ἐν τῷ κλύδωνι ἤδη· καὶ ἀγαγὼν ἔδειξα. ἑλκύσας οὖν αὐτὸν ἐκ τῆς θαλάττης τό τε δέρμα ἐξέδειρε μαχαίρᾳ, κἀμοῦ ξυλλαμβάνοντος ὅσον οἷός τε ἦν, καὶ τῶν σκελῶν ἀποτεμὼν τὰ ὀπίσθια ἐκόμιζεν ἅμα τῷ δέρματι.παρεκάλει δὲ κἀμὲ συνακολουθεῖν καὶ συνεστιᾶσθαι τῶν κρεῶν· εἶναι δὲ οὐ μακρὰν τὴν οἴκησιν.
[6] ἔπειτα ἕωθεν παρ᾽ ἡμῖν, ἔφη, κοιμηθεὶς ἥξεις ἐπὶ τὴν θάλατταν, ὡς τά γε νῦν οὐκ ἔστι πλόϊμα. καὶ μὴ τοῦτο, εἶπε, φοβηθῇς. βουλοίμην δ᾽ ἂν ἔγωγε καὶ μετὰ πέντε ἡμέρας λῆξαι τὸν ἄνεμον· ἀλλ᾽ οὐ ῥᾴδιον, εἶπεν,ὅταν οὕτως πιεσθῇ τὰ ἄκρα τῆς Εὐβοίας ὑπὸ τῶν νεφῶν ὥς γε νῦν κατειλημμένα ὁρᾷς. καὶ ἅμα ἠρώτα με ὁπόθεν δὴ καὶ ὅπως ἐκεῖ κατηνέχθην, καὶ εἰ μὴ διεφθάρη τὸ πλοῖον. μικρὸν ἦν παντελῶς, ἔφην, ἁλιέων τινῶν περαιουμένων, κἀγὼ μόνος ξυνέπλεον ὑπὸ σπουδῆς τινος. διεφθάρη δ᾽ ὅμως ἐπὶ τὴν γῆν ἐκπεσόν.
[7] οὔκουν ῥᾴδιον, ἔφη, ἄλλως· ὅρα γὰρ ὡς ἄγρια καὶ σκληρὰ τῆς νήσου τὰ πρὸς τὸ πέλαγος. ταῦτ᾽, εἶπεν, ἐστὶ τὰ κοῖλα τῆς Εὐβοίας λεγόμενα, ὅπου κατενεχθεῖσα ναῦς οὐκ ἂν ἔτι σωθείη· σπανίως δὲ σῴζονται καὶ τῶν ἀνθρώπων τινές, εἰ μὴ ἄρα, ὥσπερ ὑμεῖς, ἐλαφροὶ παντελῶς πλέοντες. ἀλλ᾽ ἴθι καὶ μηδὲν δείσῃς. νῦν μὲν ἐκ τῆς κακοπαθείας ἀνακτήσῃ σαυτόν· εἰς αὔριον δέ, ὅ τι ἂν ᾖ δυνατόν, ἐπιμελησόμεθα ὅπως σωθῇς, ἐπειδή σε ἔγνωμεν ἅπαξ.
[8] δοκεῖς δέ μοι τῶν ἀστικῶν εἶναί τις, οὐ ναύτης οὐδ᾽ ἐργάτης, ἀλλὰ πολλήν τινα ἀσθένειαν τοῦ σώματος ἀσθενεῖν ἔοικας ἀπὸ τῆς ἰσχνότητος. ἐγὼ δὲ ἄσμενος ἠκολούθουν· οὐ γὰρ ἐπιβουλευθῆναί ποτε ἔδεισα, οὐδὲν ἔχων ἢ φαῦλον ἱμάτιον.
[9] καὶ πολλάκις μὲν δὴ καὶ ἄλλοτε ἐπειράθην ἐν τοῖς τοιούτοις καιροῖς, ἅτε ἐν ἄλῃ συνεχεῖ, ἀτὰρ οὖν δὴ καὶ τότε ὡς ἔστι πενία χρῆμα τῷ ὄντι ἱερὸν καὶ ἄσυλον, καὶ οὐδεὶς ἀδικεῖ, πολύ γε ἧττον ἢ τοὺς τὰ κηρύκεια ἔχοντας· ὡς δὴ καὶ τότε θαρρῶν εἱπόμην.
[1] Vi racconterò tutto questo avendolo vissuto io stesso in prima persona, non avendolo udito raccontare da altri. Infatti, forse, l’aver da narrare molte cose e il non lasciarsi distogliere facilmente da nessuno dei discorsi che vengono in mente non è proprio solo della vecchiaia; oltre che caratteristico degli anziani potrebbe esserlo anche dei giramondo. Il motivo è che entrambi rievocano con piacere le molte avventure che si sono trovati a vivere. Vi racconterò dunque quali uomini incontrai quasi nel cuore della Grecia e che genere di vita conducevano.
[2] Per caso, dunque, verso la fine dell’estate, ero salpato da Chio insieme ad alcuni pescatori a bordo di un’imbarcazione molto piccola. Ma, scoppiata una tempesta, con difficoltà e fatica riuscimmo a scamparla presso le Grotte d’Eubea; gli uomini, dopo aver diretto la barca verso un aspro tratto di costa sotto alcuni scogli dirupati, la sfasciarono; essi, invece, si rifugiarono presso alcuni pescatori di porpora, ormeggiati in una baia vicina e pensarono, rimanendo lì, [3] di lavorare insieme a quelli. Lasciato da solo e non avendo una città in cui rifugiarmi, mi aggiravo senza meta lungo il litorale, se per caso riuscissi a vedere qualcuno che navigava o che fosse ormeggiato nei pressi. Ma dopo aver camminato a lungo, non incontrai anima viva; mi imbattei, però, in un cervo che era da poco precipitato giù dai dirupi proprio sulla spiaggia, bagnato dalle onde e che respirava ancora. E dopo un po’ mi parve di sentire, seppur con difficoltà, a causa del rumore della risacca, un latrato di cani, che proveniva dall’alto.
[4] Dopo essere andato avanti ed essermi arrampicato a fatica su un rialzo, vidi i cani che cercavano e correvano qua e là, e mi immaginai che l’animale fosse caduto giù dalla scogliera, spinto a forza da loro; e poco dopo, anche un uomo, un cacciatore, dall’aspetto e dall’abbigliamento, con le guance colorite e con i capelli non tirati indietro in modo trascurato – come Omero racconta che gli Euboici giunsero a Troia, prendendoli in giro, credo, e deridendoli, perché, mentre gli Achei erano ben acconciati, [5] essi avevano soltanto metà capigliatura[1]. Costui mi domandò: «Ehi, straniero, hai visto per caso un cervo che fuggiva per di qua?». Io, allora, gli risposi: «Quello ormai è giù nella risacca»; e, dopo averlo accompagnato, glielo mostrai. Tiratolo fuori dall’acqua, lo scuoiò con un coltello, mentre io lo aiutavo come potevo. Poi, dopo aver tagliato i quarti posteriori delle zampe, se li portava via insieme alla pelle. Invitò anche me ad accompagnarlo e a banchettare insieme a lui con quella carne; infatti, egli non abitava molto lontano.
[6] Poi aggiunse: «Domani all’alba, dopo aver dormito da noi, tornerai sul mare, perché ora non è il momento di imbarcarsi. Non ti preoccupare; vorrei anch’io che il vento cessasse, magari fra cinque giorni; ma non è facile, quando le cime dell’Eubea sono così oppresse dalle nubi, fittamente coperte come le vedi ora». Poi mi chiese anche da dove e in che modo mi fossi spinto fin là, e se la mia barca fosse andata in pezzi. Io risposi: «Era molto piccola, di alcuni pescatori che andavano per mare; e io solo navigavo insieme a loro, per affari miei. Appena ha toccato terra, si è sfasciata».
[7] «Non era facile che accadesse diversamente», rispose lui; «guarda com’è aspra e dirupata la costa dell’isola in direzione del mare aperto. Queste sono le cosiddette Grotte d’Eubea e una nave che sia stata spinta qua non potrebbe mai salvarsi; raramente si salvano alcuni degli uomini, a meno che, come voi, non navighino su un’imbarcazione molto leggera. Ma vieni, e non temere nulla; ora ti riprenderai da quella brutta avventura. Poi, domani, per quanto sarà possibile, ci preoccuperemo di come sistemarti, dopo che avremo fatto conoscenza.
[8] Mi sembra che tu venga dalla città e non un marinaio o un contadino; e dalla magrezza mi pare anche che tu soffra di qualche malessere fisico». Io lo seguii volentieri; infatti, non temevo che mi tendesse qualche insidia, non avendo altro che una povera veste.
[9] Spesso, in altre occasioni, mi ero trovato in simili circostanze, poiché ero sempre in viaggio e avevo sperimentato, come in quel caso, che la miseria è sacra e inviolabile, e nessuno ti fa torto, molto meno che a quelli che portano le insegne di araldo; perciò, anche allora lo seguii fiducioso.

L’orazione dalla quale proviene il passo preso in esame è considerata, in genere, l’opera più originale e interessante di Dione di Prusa: […] essa è probabilmente ispirata da una vicenda autobiografica, un’avventura di viaggio che costrinse l’autore a trascorre qualche giorno presso una piccola comunità di agricoltori e cacciatori d’Eubea, un’isola prossima alle coste della Beozia e dell’Attica, che i Romani avevano annesso alla provincia di Macedonia. La descrizione del naufragio denota, tra l’altro, una buona conoscenza della geografia dei luoghi; infatti, nella parte di costa ricordata da Dione l’approdo è difficilissimo e, a causa della conformazione accidentata di tutta la zona, non vi furono mai fondate città, ma solo piccoli villaggi litoranei. Inoltre, le scogliere del promontorio Cafareo, prossimo alle Grotte d’Eubea menzionate dall’autore, erano tristemente famose per l’alto numero di naufragi che vi si verificavano, il più celebre dei quali (a parte quello, mitico, dell’armata achea di ritorno da Troia) era avvenuto durante la Seconda guerra persiana, quando duecento navi, inviate da Serse a circumnavigare l’isola, erano perite in una volta sola, infrangendosi sulle rocce a causa di una violenta burrasca, e che i Greci avevano interpretato come un segno del favore di Poseidone nei loro confronti[2].
Tuttavia, se la topografia si distingue per la sua concreta precisione, il racconto del naufragio assume subito le tinte avventurose del romanzo, con la descrizione della sconsolata solitudine del protagonista, abbandonato dai suoi occasionali compagni, e poi inaspettatamente rassicurato dall’arrivo del buon cacciatore, vero e proprio deus ex machina giunto al momento opportuno per risolvere una situazione difficile. L’abilità retorica di Dione, letterato di raffinata cultura, si nota appunto nella sapiente gradualità con cui egli – narratore e protagonista – prepara l’incontro fra il naufrago e il suo salvatore: prima, la squallida solitudine della spiaggia rocciosa battuta dai marosi e l’ansioso scrutare alla ricerca di una presenza umana o di un’imbarcazione; poi, il cervo ferito, precipitato dall’alto della scogliera; subito dopo, il latrato dei cani, a mala pena udibile in mezzo allo scroscio delle onde; infine, l’arrivo del cacciatore, un uomo forte, dall’aspetto sano, la cui schietta cordialità rassicura subito il povero naufrago.
La scena dell’offerta e della pronta accettazione dell’ospitalità riconduce a uno dei concetti etici più antichi e più profondamente radicati nell’animo greco: quello della sacralità dell’ospite, oggetto, per sua stessa natura, di αἰδώς, di «rispetto» reverenziale. Tale condizione si fondava su motivi religiosi (lo sconosciuto in difficoltà poteva essere un dio sotto false sembianze, sceso in terra per saggiare l’animo degli uomini), ma anche sulla necessità di instaurare rapporti sociali stabili e duraturi anche al di fuori della propria patria, perché la πολιτεία («lo Stato») non garantiva in alcun modo la sicurezza di chi si allontanasse dalla protezione delle leggi cittadine. Ma, se in altri tempi il forestiero avrebbe seguito il suo ospite con piena fiducia nella sua lealtà, ora le certezze non sono più così solide; nel cuore del narratore non manca un’inquietante punta di diffidenza, che lo induce a dichiarare ai lettori di essere pronto a seguire lo sconosciuto non tanto perché creda alla sua sensibilità verso i tradizionali valori della ξενία («ospitalità»), quanto perché sa di avere un aspetto talmente miserando da scoraggiare qualunque tentazione.
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Serenità campestre e miseria urbana
[…] Strada facendo, il cacciatore racconta all’ospite occasionale la storia della sua famiglia e di quella di un suo vicino di casa, entrambi di stirpe libera, discendenti da pastori salariati, trasformatisi, dopo la morte del loro signore, in cacciatori e coltivatori. Le due famiglie hanno dato origine a una minuscola comunità autosufficiente, soddisfatta di un genere di vita estremamente semplice, ma sereno e tranquillo; lo dimostra la familiare affabilità con cui è accolto il forestiero, invitato a banchettare con la carne di cervo.
[65] εἰσελθόντες οὖν εὐωχούμεθα τὸ λοιπὸν τῆς ἡμέρας, ἡμεῖς μὲν κατακλιθέντες ἐπὶ φύλλων τε καὶ δερμάτων ἐπὶ στιβάδος ὑψηλῆς, ἡ δὲ γυνὴ πλησίον παρὰ τὸν ἄνδρα καθημένη. θυγάτηρ δὲ ὡραία γάμου διηκονεῖτο, καὶ ἐνέχει πιεῖν μέλανα οἶνον ἡδύν. οἱ δὲ παῖδες τὰ κρέα παρεσκεύαζον, καὶ αὐτοὶ ἅμα ἐδείπνουν παρατιθέντες, ὥστε ἐμὲ εὐδαιμονίζειν τοὺς ἀνθρώπους ἐκείνους καὶ οἴεσθαι μακαρίως ζῆν πάντων μάλιστα ὧν ἠπιστάμην.
[66] καίτοι πλουσίων οἰκίας τε καὶ τραπέζας ἠπιστάμην, οὐ μόνον ἰδιωτῶν, ἀλλὰ καὶ σατραπῶν καὶ βασιλέων, οἳ μάλιστα ἐδόκουν μοι τότεἄθλιοι, καὶ πρότερον δοκοῦντες, ἔτι μᾶλλον, ὁρῶντι τὴν ἐκεῖ πενίαν τε καὶ ἐλευθερίαν, καὶ ὅτι οὐδὲν ἀπελείποντο οὐδὲ τῆς περὶ τὸ φαγεῖν τε καὶ πιεῖν ἡδονῆς, ἀλλὰ καὶ τούτοις ἐπλεονέκτουν σχεδόν τι.
[67] ἤδη δ᾽ ἱκανῶς ἡμῶν ἐχόντων ἦλθε κἀκεῖνος ὁ ἕτερος. συνηκολούθειδὲ υἱός αὐτῷ, μειράκιον οὐκ ἀγεννές, λαγὼν φέρων. εἰσελθὼν δὲ οὗτος ἠρυθρίασεν· ἐν ὅσῳ δὲ ὁ πατὴρ αὐτοῦ ἠσπάζετο ἡμᾶς, αὐτὸς ἐφίλησε τὴν κόρην καὶ τὸν λαγὼν ἐκείνῃ ἔδωκεν. ἡ μὲν οὖν παῖς ἐπαύσατο διακονουμένη καὶ παρὰ τὴν μητέρα ἐκαθέζετο, [68] τὸ δὲ μειράκιον ἀντ᾽ ἐκείνης διηκονεῖτο. κἀγὼ τὸν ξένονἠρώτησα, Αὕτη, ἔφην, ἐστίν, ἧς τὸν χιτῶνα ἀποδύσας τῷ ναυαγῷ ἔδωκας; καὶ ὃς γελάσας, Οὐκ, ἔφη, ἀλλ᾽ ἐκείνη, εἶπε, πάλαι πρὸς ἄνδρα ἐδόθη, καὶ τέκνα ἔχει μεγάλα ἤδη, πρὸς ἄνδρα πλούσιον εἰς κώμην. οὐκοῦν, ἔφην, ἐπαρκοῦσιν ὑμῖν ὅ, τι ἂν δέησθε; οὐδέν, [69] εἶπεν ἡ γυνή, δεόμεθα ἡμεῖς. ἐκεῖνοι δὲ λαμβάνουσι καὶ ὁπηνίκ᾽ ἄντι θηραθῇ καὶ ὀπώραν καὶ λάχανα· οὐ γὰρ ἔστι κῆπος παρ᾽ αὐτοῖς. πέρυσι δὲ παρ᾽ αὐτῶν πυροὺς ἐλάβομεν, σπέρμα ψιλόν, καὶ ἀπεδώκαμεν αὐτοῖς εὐθὺς τῆς θερείας. τί οὖν; ἔφην, καὶ ταύτην διανοεῖσθε διδόναι πλουσίῳ, ἵνα ὑμῖν καὶ αὐτὴ πυροὺς δανείσῃ; ἐνταῦθα μέντοι ἄμφω ἠρυθριασάτην, ἡ κόρη καὶ τὸ μειράκιον.
[70] ὁ δὲ πατὴρ αὐτῆς ἔφη, Πένητα ἄνδρα λήψεται, ὅμοιον ἡμῖν κυνηγέτην· καὶ μειδιάσας ἔβλεψεν εἰς τὸν νεανίσκον. κἀγώ, τί οὖν οὐκ ἤδη δίδοτε; ἢ δεῖ ποθεν αὐτὸν ἐκ κώμης ἀφικέσθαι; δοκῶ μέν, εἶπεν, οὐ μακράν ἐστίν· ἀλλ᾽ ἔνδον ἐνθάδε. καὶ ποιήσομέν γε τοὺς γάμους ἡμέραν ἀγαθὴν ἐπιλεξάμενοι. κἀγώ, Πῶς, ἔφην,κρίνετε τὴν ἀγαθὴν ἡμέραν; καὶ ὅς, Ὅταν μὴ μικρὸν ᾖ τὸ σελήνιον· [71] δεῖ δὲ καὶ τὸν ἀέρα εἶναι καθαρόν, αἰθρίαν λαμπράν. κἀγώ, Τί δέ; τῷ ὄντι κυνηγέτης ἀγαθός ἐστιν; ἔφην. ἔγωγε, εἶπεν ὁ νεανίσκος, καὶ ἔλαφον καταπονῶ καὶ σῦν ὑφίσταμαι. ὄψει δὲ αὔριον, ἂν θέλῃς, ὦ ξένε. καὶ τὸν λαγὼν τοῦτον σύ, ἔφην, ἔλαβες; ἐγώ, ἔφη γελάσας, τῷ λιναρίῳ τῆς νυκτός· ἦν γὰρ αἰθρία πάνυ καλὴ καὶ ἡ σελήνη τηλικαύτη τὸ μέγεθος ἡλίκη οὐδεπώποτε ἐγένετο.
[65] Dopo essere entrati, banchettammo per il resto della giornata, noi distesi su un alto giaciglio fatto di frasche e coperto di pelli, la moglie seduta presso il marito. Una figlia in età da sposarsi serviva a tavola e versava da bere vino nero dolce. I figli cucinavano la carne ed essi stessi, imbandendola, partecipavano al pranzo, così che io consideravo fortunate quelle persone e ritenevo che conducessero una vita felice più di tutte quelle che avevo conosciuto.
[66] Eppure, conoscevo le case e le mense dei ricchi, non solo di cittadini privati, ma anche di satrapi e di sovrani, e allora, come già altre volte, mi sembravano ancora più miseri, vedendo qui povertà e generosità, e constatando che non mancava loro niente del piacere del mangiare e del bere, ma che anzi, in un certo senso, ne abbondavano veramente.
[67] Quando ne avevamo già avuto a sazietà, giunse anche l’altro cacciatore. Lo accompagnava il figlio, un bel ragazzo che portava una lepre. Appena entrò, subito arrossì; e mentre suo padre ci salutava, egli diede un bacio alla fanciulla e le diede la lepre. Allora la ragazza smise di servire a tavola e si sedette accanto alla madre, [68] mentre il giovane serviva in sua vece. E io, allora, chiesi al mio ospite: «È lei la figlia alla quale togliesti la tunica per darla al naufrago?[3]». Ed egli: «No», mi rispose ridendo; «quella è andata a marito da tempo, a un uomo ricco del villaggio e ha già dei figli grandi». «Allora», feci io, «vi aiutano, quando ne avete bisogno?». «Ma noi», [69] intervenne la moglie, «non abbiamo bisogno di nulla; loro, piuttosto, ricevono da noi cacciagione, quando ce n’è, frutta di stagione e ortaggi; essi, infatti, non dispongono di un orto. L’anno scorso abbiamo comprato del frumento, proprio per seme, ma subito, al raccolto, lo abbiamo restituito». «E allora?», dissi, «pensate di dare in moglie a un ricco anche costei, perché lei vi presti il frumento?». A questo punto tutti e due, la fanciulla e il ragazzo, arrossirono.
[70] Allora il padre di lei disse: «Prenderà un uomo povero, un cacciatore come noi»; e sorridendo guardò verso il giovane. Allora io: «Perché dunque non gliela date? O bisogno che lo sposo arrivi dal villaggio?». «Io credo», rispose quello, «che non sia lontano; anzi, è già qui dentro. Celebreremo le nozze dopo aver scelto un giorno propizio». E io: «In che modo scegliete un giorno di buon auspicio?». E lui: «Quando la luna non è all’ultimo quarto; [71] è opportuno che l’aria sia pura, e il sereno limpidissimo». E io, di nuovo: «Allora? È davvero un bravo cacciatore?». «Io sì!», rispose il ragazzo, «sono capace di stancare un cervo e di affrontare un cinghiale. Lo vedrai domani, se vorrai, o straniero». E io: «Hai preso tu anche questa lepre?». «Certo», mi rispose ridendo, «stanotte, con la rete; era, infatti, un sereno splendido e la luna tanto grande come non era mai stata».

L’Euboico era composto da due parti, diverse per contenuto e per finalità; la prima, descrittiva, si concludeva con il passo qui riportato, l’annuncio delle nozze imminenti tra la figlia del cacciatore e il cugino; la seconda, di tono riflessivo, affrontava il grave problema della povertà nei grandi centri urbani dell’Impero, che nessun intervento filantropico o autoritario era mai stato in grado davvero di risolvere. Bisogna osservare che, nella prima sezione, Dione capovolgeva il tradizionale atteggiamento che, secoli prima, Omero e i tragici (soprattutto Euripide) avevano mostrato nei confronti dell’ospitalità, della ricchezza e della povertà. Essi, infatti, erano apparsi convinti che il povero, anche se lo desiderava, non fosse in grado di ospitare decorosamente un forestiero, perché gliene mancavano i mezzi: basterebbero, a questo proposito, le parole con cui Eumeo, accogliendo Odisseo nella propria capanna, si scusa di non potergli offrire una mensa più ricca e di essere costretto a dargli il mantello soltanto in prestito, perché non ne possiede un altro per sé[4].
Al contrario, chi era ricco poteva donare con larghezza e, se non l’avesse fatto, oltre ad attirarsi biasimo e critiche, si esponeva alla collera delle divinità. Nell’Euboico, invece, l’esperienza personale dell’autore conduce a conclusioni diametralmente opposte: non solo i poveri offrono generosamente tutto ciò che possono donare agli ospiti occasionali, ma appaiono pure soddisfatti del proprio stile di vita e non mostrano di desiderare alcun cambiamento nella propria tranquilla esistenza – assai simile a quella descritta negli Idilli di Teocrito o, più ancora, in alcune scene aristofanesche (Acarnesi, Pace), in cui si ricorda con nostalgia il quieto vivere dei contadini dell’Attica, reso impossibile dalla Guerra del Peloponneso.
La descrizione di Dione presenta molte caratteristiche che contribuiscono a farla considerare un quadro idealizzato e lontano dalla realtà; ma, nell’intenzione dell’autore, l’utopistica serenità del cacciatore e dei suoi parenti, isolati dal resto del mondo nella loro isola aspra ma non avara per chi sa scoprirne le agresti ricchezze, doveva servire a evidenziare, per contrasto, la miseria materiale e morale delle plebi cittadine – oggetto di riflessione nella seconda parte dell’orazione. L’autore, infatti, conosceva bene la situazione delle grandi metropoli imperiali, in cui il fasto di pochi appariva in stridente contrasto con la miseria di una massa innumerevole che, strumentalizzata da demagoghi privi di scrupoli, poteva divenire in qualunque circostanza un elemento capace di mettere drammaticamente in crisi l’equilibrio politico.
Per questo, Dione suggeriva di favorire con ogni mezzo possibile l’allontanamento dalla città di chi non disponesse di sufficienti mezzi di sussistenza, offrendo terre da coltivare, anche gratis, in modo da diminuire, se non da cancellare del tutto, le due massime cause di instabilità sociale e di degrado morale: l’ozio e la miseria, che già intorno al 360 a.C. erano stati additati come due gravi problemi di ordine economico ed etico, oltre che politico, da Isocrate nell’Areopagitico. Questi motivi giustificavano, almeno in parte, il nostalgico quadro di un’esistenza immersa nella pace agreste, fondata sulla semplicità, la schiettezza e la solidarietà, che però traeva origine da una precisa ottica programmatica, non dall’osservazione della vita reale. Tuttavia, in esso traspariva anche quel desiderio di quiete e di serenità dello spirito che, fino alla prima età ellenistica, era apparso come il sogno e il rimpianto dell’uomo di città, consapevole di aver sacrificato al benessere materiale la parte migliore di sé. Da questo punto di vista, il motivo del contrasto fra la lieta povertà della vita campestre e le ricchezze della città, ingiustamente distribuite e fonte di ansie e di intrighi, capaci di corrompere ogni più nobile sentimento, sarebbe divenuto topico nella letteratura posteriore, latina e italiana; per non citarne che un solo, illustre esempio, basterà ricordare l’episodio di Erminia fra i pastori nella Gerusalemme liberata di Torquato Tasso (VII, ott. 1-22, vv. 1-176).
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Note
[1] In Il. II 541-544 Omero descrive gli Abanti, antichi abitatori dell’Eubea, che si rasavano la parte anteriore del capo per impedire che gli avversari li afferrassero per i capelli, combattendo corpo a corpo. Essi, infatti, sono detti ὄπιθεν κομόωντες («con le chiome fluenti all’indietro»).
[2] Hdt. VIII 7; 13.
[3] Nella parte omessa del racconto, il cacciatore ha raccontato al suo ospite di aver accolto in casa un altro naufrago; e, non avendo di che vestirlo, aveva tolto la veste alla figlia, per darla a lui.
[4] Od. XIV 80-82; 507-514.
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[…] via Ospitalità e rispetto (D. Chr. Eub. 1-9; 65-71) — Studia Humanitatis – παιδεία […]
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