T. Lucrezio Caro

di G.B. CONTE, in Letteratura latina. Manuale storico dalle origini alla fine dell’Impero romano, Milano 2011, pp. 135-151 = Id., E. Pianezzola, Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 1. L’età arcaica e repubblicana, Milano 2010, pp. 518-531.

1. Il poeta dell’Epicureismo

Tito Lucrezio Caro è, insieme a Catullo, il più grande poeta dell’età di Cesare – un periodo in cui predomina la prosa – e l’unico la cui opera ci sia giunta per intero. Il suo lungo poema in sei libri, De rerum natura [Sulla natura delle cose], espone la filosofia di Epicuro con rigore, ma anche con coraggio, perché le teorie dell’Epicureismo erano sempre state guardate con sospetto a Roma.

Ma il poema di Lucrezio non è un arido manuale di filosofia. È soprattutto una grande opera di poesia, dall’ispirazione possente e dallo stile personalissimo, che trasuda l’entusiasmo dell’autore per la sua missione di divulgazione. Un’opera tanto più interessante perché, come accade per Catullo, ignora deliberatamente i terribili sconvolgimenti e le violenze che segnarono la politica romana del I secolo a.C. per concentrarsi sulla contemplazione intellettuale e sulla poesia.

2. Una biografia con molte incertezze

La notizia biografica più ampia su Lucrezio compare nel Chronicon di san Girolamo (circa 347-420), che è una traduzione dell’opera omonima del greco Eusebio, con l’aggiunta di notizie su vari scrittori latini tratte dal De poetis di Svetonio:

Nasce il poeta Tito Lucrezio. Costui in seguito, indotto alla pazzia da un filtro d’amore, dopo avere scritto alcuni libri negli intervalli di lucidità che gli lasciava la follia, libri che furono poi riveduti da Cicerone, si uccise di propria mano a 43 anni di età[1].

Alcuni manoscritti di Girolamo collocano questa notizia della nascita nel 96, altri nel 94 a.C.; la data di morte oscillerebbe così tra il 53 e il 51 a.C.

Ma questa non è l’unica difficoltà. Il grammatico Elio Donato (IV secolo) così scrive nella sua Vita Vergilii:

A Cremona Virgilio trascorse i primi anni fino alla toga virile, che assunse al compimento del diciassettesimo anno, sotto quei medesimi consoli sotto i quali era pure nato: avvenne che in quello stesso giorno morisse il poeta Lucrezio[2].

Ora, Virgilio compì diciassette anni nel 53 a.C.; invece, i consoli sotto i quali nacque (70 a.C.), Marco Licinio Crasso e Gneo Pompeo Magno, furono eletti per la seconda volta non nel 53, ma nel 55 a.C. Per accordare le due indicazioni, si è supposto che nei manoscritti si sia corrotta l’indicazione d’età di Virgilio (che avrebbe avuto quindici anni e non diciassette), e si ricava così la data del 15 ottobre 55 a.C.

Ma come accordare questa data con il 53/1 di Girolamo? È necessario ammettere che quest’ultimo abbia confuso il nome dei consoli del 94 e del 98 a.C. e collocare la nascita in quest’ultima data. Oggi 98 e 55 sono ritenute le date più verosimili, anche se permangono notevoli incertezze; si può affermare con una certa sicurezza, tuttavia, solo che il poeta nacque negli anni ‘90, e morì verso la metà degli anni ‘50 del I secolo a.C.

Nulla di concreto si può affermare sulla sua provenienza: si è pensato che fosse campano, poiché a Napoli era fiorente una scuola epicurea e perché il De rerum natura si apre con inno a Venere molto simile alla Venus fisica venerata a Pompei. Ma tanto questa ipotesi quanto quella di chi vuole il poeta nato a Roma, per via di alcuni, pochi riferimenti a luoghi precisi dell’Urbs, sono prive di basi convincenti.

Sarebbe interessante determinare la classe sociale di provenienza di Lucrezio, ma dal tono delle parole che rivolge all’aristocratico Memmio, dedicatario del poema, nel corso dell’opera, non è possibile capire se egli si collocasse sullo stesso livello o non fosse, piuttosto, un liberto; in ogni caso, è fuori discussione l’ampiezza della cultura ricevuta. Qualche notizia più approfondita su questi temi è, in verità, presente nella cosiddetta Vita Borgiana, una succinta biografia scoperta nel 1894, in cui si sostiene che il poeta visse «in stretta intimità» con Cicerone (da cui avrebbe accolto suggerimenti stilistici), Attico, Bruto, Cassio, cioè con le personalità di maggior rilievo della prima metà del I secolo a.C. Ma la maggior parte degli studiosi ritiene che la Vita sia un falso, composto dall’umanista Gerolamo Borgia all’inizio del Cinquecento.

Va, con ogni probabilità, respinta la notizia di san Girolamo sulla follia di Lucrezio, un’invenzione che dovrebbe essere nata in ambiente cristiano nel IV secolo al fine di screditare la polemica antireligiosa di Lucrezio come frutto della follia del poeta. Prima di san Girolamo, questa notizia della follia non si trova neppure nel cristiano Lattanzio (circa 240-320), che pure accusa metaforicamente di «delirare», e che certamente non avrebbe mancato di accennare a un elemento così importante, se solo lo avesse conosciuto.

Alcuni critici contemporanei interpretano questa follia come una depressione patologica del poeta, per spiegare – ma in modo poco convincente – il “pessimismo” lucreziano così contrario all’“ottimismo” di Epicuro, il filosofo di cui illustra le dottrine.

Busto di Lucrezio
Busto di Lucrezio

3. L’opera: il poema che traduce Epicuro

Lucrezio è autore di un poema in esametri, De rerum natura, in sei libri (ogni libro va da un minimo di quasi 1100 versi a un massimo di quasi 1500, per un totale di 7415 esametri), forse non finito o comunque mancante dell’ultima revisione. Il titolo traduce fedelmente quello dell’opera più importante di Epicuro, il perduto Περί φύσεως in trentasette libri.

Il De rerum natura è dedicato all’aristocratico Memmio, verisimilmente da identificare con il Gaio Memmio che fu amico e patronus di Catullo e di Cinna. La data di composizione del poema non è sicura. Nel I libro l’autore afferma che Memmio non può sottrarsi alla cura del bene comune «in un momento difficile per la patria» (v. 41 s.); tutta la prima metà del secolo, infatti, è funestata da eventi bellici, ma si tende a pensare che il riferimento sia alle turbolenze interne degli anni successivi al 59 a.C., anche perché Memmio fu pretore nel 58 a.C.: non è però impossibile pensare a date anteriori.

Girolamo, nello stesso passo del Chronicon in cui riferisce le notizie biografiche su Lucrezio, asserisce che il De rerum natura, dopo la morte del poeta, fu rivisto e pubblicato a opera di Cicerone. Certo è che in una lettera al fratello Quinto del febbraio 54 (Ad Quintum fratrem II 9, 3), Cicerone mostra di aver già letto e apprezzato il poema: Lucreti poemata, ut scribis, ita sunt, multis luminibus ingeni, multae tamen artis [«Nei poemi di Lucrezio, come tu mi scrivi, ci sono davvero i bagliori del talento, ma anche i segni di una grande arte letteraria»].

Epicuro. Busto, bronzo, copia da originale greco del 250 a.C., dalla Villa dei Papiri (Ercolano). Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

4. L’Epicureismo a Roma

Il poema lucreziano divulga, in lingua latina e in versi, il pensiero di Epicuro. La penetrazione dell’Epicureismo a Roma era stata da sempre ostacolata dalla classe dirigente, che nella scelta dell’atteggiamento da tenere verso il pensiero greco era molto attenta a eliminare gli elementi potenzialmente pericolosi per la res publica o per il mos maiorum. Certo, non tutti mostravano la chiusa intolleranza di Catone verso la cultura ellenica; ma anche un autore come Cicerone, amante della filosofia, eresse un argine insormontabile proprio nei confronti dell’Epicureismo. Questa dottrina era considerata pericolosa, perché, da un lato, predicando la ricerca del piacere e della tranquillità, distoglieva i cittadini dall’impegno politico, dall’altro, negando l’intervento degli dèi negli affari umani, corrodeva quella religione ufficiale che la classe dirigente usava come strumento di potere.

Ma se nel II secolo a.C. si era arrivati a un provvedimento di espulsione nei confronti dei filosofi Alceo e Filisco, che volevano divulgare l’Epicureismo a Roma, nel I secolo a.C. questa dottrina era riuscita a diffondersi anche negli strati elevati della società romana. Un personaggio di rango consolare, Calpurnio Pisone Cesonino, era protettore di filosofi epicurei e nella sua villa di Ercolano teneva lezione Filodemo di Gadara; un altro cenacolo epicureo sorgeva a Napoli, dove, sotto la guida di Sirone, studiavano giovani di diversa estrazione sociale, fra i quali futuri poeti come Virgilio e, probabilmente, Orazio. Sappiamo anche delle propensioni epicuree di Tito Pomponio Attico, di Cesare e del cesaricida Cassio.

Meno sappiamo sulla penetrazione delle dottrine epicuree nelle classi inferiori; ma è interessante un passo di Cicerone, il quale, nelle Tuscolanae disputationes (4, 7), ci informa del fatto che le divulgazioni dell’Epicureismo in cattiva prosa latina, dovute ad Amafinio (età incerta; forse fine del II-inizi del I secolo a.C.) e Cazio (I secolo a.C.), circolavano presso la plebe, attratta dalla facilità di comprensione di quei testi e dagli inviti al piacere in essi disseminati. In effetti, lo stesso Epicuro raccomandava l’estrema chiarezza e semplicità dell’espressione, coerentemente con l’universalismo del suo messaggio.

L. Calpurnio Pisone Cesonino. Busto, bronzo, fine I sec. a.C., dalla Villa dei Papiri (Ercolano). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

5. Il contenuto del poema

Il De rerum natura è articolato in tre gruppi di due libri (diadi), che illustrano fenomeni di dimensioni progressivamente più ampie: dagli atomi (I-II) si passa al mondo umano (III-IV) per arrivare, infine, ai fenomeni cosmici (V-VI).

Il De rerum natura non ha probabilmente ricevuto l’ultima revisione da parte dell’autore, come dimostrano alcune ripetizioni di versi e qualche incongruenza. Problemi particolari ha destato il finale del poema: poiché nel V libro Lucrezio annuncia la descrizione delle sedi beate degli dèi, ma non mantiene fede alla promessa, si è pensato che proprio questi descrizione, e non quella della peste di Atene, fosse la chiusa progettata del De rerum natura. Se si dovesse accogliere questa supposizione, il poema avrebbe dovuto concludersi con una nota serena – che avrebbe fatto da pendant al gioioso inno a Venere con il quale si apre – e non con il terrificante quadro della peste di Atene. Ma probabilmente risponde meglio ai reali intenti di Lucrezio la supposizione che la fine progettata del poema fosse proprio la peste di Atene: Lucrezio potrebbe aver voluto contrapporre l’ouverture e il finale come una sorta di “trionfo della vita” e di “trionfo della morte”, per mostrare come non esista alcuna conciliazione del contrasto eterno di queste due potenze.

Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Vat. lat. 1569 (1483), Frontespizio del De rerum natura di Lucrezio, f. 1r.

6. Il genere letterario

Per divulgare la dottrina epicurea a Roma Lucrezio si mosse su una strada radicalmente diversa da quella, prosastica, seguita da Amafinio e Cazio, perché optò per la forma del poema epico-didascalico. Questa scelta dovette destare sorpresa, perché Epicuro aveva condannato la poesia (soprattutto quella omerica, base dell’educazione greca) per la sua connessione con il mito e per le belle invenzioni in cui irretiva pericolosamente i lettori, allontanandoli da una comprensione razionale della realtà. Gli altri epicurei si erano attenuti scrupolosamente alle direttive del maestro, coltivando tutt’al più, come Filodemo, la poesia scherzosa o di puro intrattenimento.

Nella sua scelta, Lucrezio fu probabilmente guidato dal desiderio di raggiungere gli strati superiori della società con un messaggio che non avesse niente da invidiare alla “bella forma” di cui talora si ammantavano le altre filosofie. In due luoghi distinti del poema (I 136-145; IV 1-25) Lucrezio giustifica questa sua scelta, ricorrendo nel secondo caso a una celebre similitudine: come si fa con i fanciulli, cospargendo di miele gli orli della coppa che contiene l’assenzio amaro destinato a guarirli, così egli vuole «cospargere con il miele delle Muse» una dottrina apparentemente amara.

Michael Burghers, Lucrezio. Dal frontespizio del T. Lucretius Carus, Of the Nature of Things di Thomas Creech, riprodotto nell’edizione di John Digby, London 1714.

La novità di Lucrezio | Diversamente dal suo maestro Epicuro, Lucrezio non solo ostenta ammirazione per Omero, ma ebbe modelli importanti in tutta la tradizione epico-didascalica. In particolare, Lucrezio guarda con dichiarata simpatia al Περί φύσεως di Empedocle, il poeta-filosofo del V secolo a.C., che proprio nell’età di Lucrezio stava conoscendo a Roma un periodo di rinnovato interesse. Certo, Lucrezio ne respingeva l’ispirazione misticheggiante e le posizioni filosofiche, ma ne ammirava diversi elementi: l’argomento trattato, l’ardore di apostolo, l’atteggiamento profetico di rivelatori della verità, l’organizzatore del materiale e alcuni caratteri formali come l’uso dell’esametro. Questo spiega il fervido omaggio che Lucrezio gli rivolge verso la fine del I libro (vv. 716-733).

Ancora più grande è la differenza tra Lucrezio e gli altri poeti didascalici latini, sia precedenti sia successivi a lui. Infatti, questi si ricollegavano più direttamente alla tradizione ellenistica, che ricercava l’ispirazione in argomenti tecnici in gran parte sprovvisti di implicazioni filosofiche e si limitava per lo più a descrivere fenomeni. Lucrezio, invece, ambisce non solo a descrivere, ma anche a indagare le cause e a spiegare ogni aspetto importante della vita del mondo e dell’uomo; inoltre, egli vuole convincere il lettore della validità della dottrina epicurea attraverso argomentazioni e dimostrazioni serrate, proponendogli una verità una ratio sulla quale è obbligato a esprimere un chiaro giudizio di consenso o di rifiuto.

L’ethos (cioè l’intenzione) del genere didattico ellenistico era eminentemente encomiastico: il testo rendeva lode alle cose e suggeriva che l’oggetto della descrizione era di per sé anche meraviglioso. Al contrario, Lucrezio articola spesso le proprie argomentazioni con le formule non mirandum e nec mirum: «non c’è da meravigliarsi» davanti a questo o a quel fenomeno perché esso è connesso necessariamente con questa o quella regola oggettiva, e chi abbia capito i principi delle cose e i loro concatenamenti non può rimanerne stupito. Alla “retorica del mirabile” («ammira e stupisciti, tu che ascolti») Lucrezio sostituisce la “retorica del necessario”, che è, di fatto, il contrario del miracoloso; e così necesse est è un’altra delle formule più frequenti nell’argomentare lucreziano.

Rembrandt van Rijn, Lo studioso al leggio. Olio su tela, 1641. Warsaw, Castello Reale.

Lucrezio e il lettore-discepolo | La consapevolezza dell’importanza della materia trattata determina il tipo di rapporto che Lucrezio instaura con il lettore-discepolo, il quale viene continuamente esortato, talora minacciato, affinché segua con diligenza il percorso educativo che l’autore gli propone. Così, per esempio, nel I libro: «Perciò, benché tu indugi adducendo molte obiezioni, / è inevitabile che tu ammetta l’esistenza del vuoto tra i corpi» (v. 398 s.); o nel II: «Perciò, smettila, spaventato dalla stessa novità, / di espellere dall’animo il vero, ma con più attento / giudizio valuta e, se ti appaiono verità, / cedi, o, se invece è falso, combatti» (v. 1040 ss.).

Il destinatario del messaggio – fatto direttamente responsabile – deve reagire agli insegnamenti diventando consapevole della propria grandezza intellettuale. È questa la radice del “sublime” lucreziano, quegli spettacoli alti e grandiosi che ricorrono nel poema: la furia dei venti, gli universi infiniti, l’eternità del tempio passato e futuro sono spettacoli sublimi che coinvolgono il lettore spettatore e lo spronano. Il lettore di Lucrezio è chiamato a trasformarsi in “eroe”, a emozionarsi a trovare in sé la forza di accettare la dottrina, anche qualora le verità proclamata dal poeta siano terribili e perfino paurose[3].

Da questo approccio discendono alcune caratteristiche essenziali del poema, prima fra tutte la rigorosa struttura argomentativa. Tra i procedimenti dimostrativi Lucrezio non trascura il sillogismo, strumento principe dell’argomentazione filosofica, ma anche la dimostrazione per assurdo della falsità di tesi o possibili obiezioni. Uno spazio assai considerevole occupa anche l’analogia, grazie alla quale si tenta di ricondurre al noto ciò che è troppo lontano o piccolo per essere osservato direttamente, come per esempio i fenomeni astronomici (libro VI) o l’esistenza degli atomi e del vuoto in cui essi si muovono (libri I e II).

Il libro che forse più di ogni altro testimonia la perizia argomentativa di Lucrezio è il III, dedicato alla confutazione del timore della morte. La sua struttura complessiva è semplice. Prima c’è un’introduzione (vv. 1-93), che si apre con un inno a Epicuro. Poi, viene la trattazione vera e propria (vv. 94-829), a sua volta suddivisa in due sezioni: prima si dimostra che l’anima è materiale, cioè composta di atomi estremamente sottili e di vuoto (vv. 94-416), poi che l’anima, in quanto materiale, è anche mortale, soggetta al ciclo di nascita e morte proprio di tutti i corpi (vv. 417-829). In quest’ultima parte Lucrezio propone ben ventinove diverse prove per sostenere il suo assunto: il loro accumularsi, il dispiego di strumenti retorici, la scelta degli esempi e delle immagini creano un insieme di innegabile forza persuasiva, anche se Lucrezio si rende conto che questo non è sufficiente a distogliere l’uomo dal dolore di dover abbandonare la vita. Infine, nell’ultima parte (vv. 830-1094) Lucrezio dà la parola alla Natura stessa, che si rivolge direttamente all’uomo (vv. 933 ss.): se la vita trascorsa è stata colma di gioie ci si può ritirare come un convitato sazio e felice dopo un banchetto; se, al contrario, è stata segnata da dolori e tristezze, perché desiderare che essa prosegua? Solo gli stulti vogliono a ogni costo continuare a vivere, anche se nulla di nuovo li può attendere, perché eadem sunt omnia semper (III 945).

In questo libro è particolarmente chiaro un ultimo carattere dell’opera, il suo contatto con la letteratura diatribica. La diàtriba (letteralmente «discussione») si era sviluppata in Grecia in età ellenistica, e il rappresentante più noto ne era stato Bione di Boristene (ca. 325-255 a.C.), un filosofo viaggiatore che esponeva alla gente per strada argomenti di carattere filosofico-morale. Anche se il suo orientamento filosofico era prevalentemente cinico, Bione aveva contribuito a sviluppare una presentazione semi-drammatica del contenuto, con frequenti spunti satirici assai vivaci e con la partecipazione di più personaggi fittizi.

Filosofo di Antikythera. Testa, bronzo, III-I sec. a.C. ca. dal Relitto di Antikythera. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

8. I temi del De rerum natura

La religione | Subito dopo il proemio con l’invocazione a Venere e una sommaria esposizione del piano dell’opera, Lucrezio si rivolge al lettore invitandolo a non considerare empia la dottrina che egli si accinge a trattare. Ben più empia e crudele è la religio, ovvero la religione tradizionale basata sulla paura degli dèi e quasi una «superstizione», che aveva imposto ad Agamennone il sacrificio della figlia Ifigenia per assicurare la partenza della flotta greca per Troia. All’assassinio della fanciulla è dedicata una scena tra le più elaborate del poema (I 80-101), impostata su un tono volutamente molto patetico. La religio è in grado di opprimere sotto il suo peso la vita degli uomini, turbare ogni loro gioia con la paura: ma se gli uomini sapessero che dopo la morte non c’è che il nulla e diventassero quindi insensibili alle minacce di pene eterne profferite dagli indovini, smetterebbero di essere succubi della superstizione religiosa e dei timori che essa comporta. A tal fine è quindi necessaria una conoscenza sicura delle leggi che regolano l’universo e rivelano la natura materiale e mortale del mondo, dell’uomo e dell’anima stessa.

Si vede come già dai primi versi Lucrezio descrive con chiarezza il nesso tra superstizione religiosa, timore della morte e necessità di speculazione scientifica. Il suo messaggio fu di fatto ignorato non solo per intrinseca difficoltà dell’opera, ma anche perché capace di mettere in discussione i fondamenti culturali, sociali e politici dello Stato romano, che della religio aveva fatto un essenziale elemento di coesione.

Se l’insistenza sui «terribili detti» (I 103) dei vates costituisce probabilmente una accentuazione polemica ispirata dal clima culturale del suo tempo, Lucrezio resta peraltro fedele alle teorie di Epicuro in materia di religione. Il filosofo greco è descritto fin da subito come un nuovo Prometeo (il titano che rubò il segreto del fuoco agli dèi per aiutare gli uomini), come un guerriero omerico impegnato in un duello eroico: fu il primo uomo che «osò levare gli occhi contro la religione che incombeva minacciosa dal cielo» (I 66)[4]. Per questo egli può essere venerato quasi come un dio, perché ha liberato gli uomini da enormi sofferenze morali: tranne il II e il IV, tutti i libri dell’opera si aprono con un’appassionata celebrazione dei meriti del filosofo.

Filosofo. Busto, bronzo, I secolo a.C. ca. dalla Villa dei Papiri, Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Epicuro credeva che gli dèi fossero figure dotate di vita eterna, perfette e felici nella pace degli intermundia (la zona tra terra e cielo in cui abitavano), incuranti delle vicende della Terra e dell’uomo: a loro poteva andare la pietas dei terrestri e potevano costituire un punto di riferimento ideale. Era invece radicalmente esclusa l’ipotesi che l’uomo fosse soggetto agli dèi in un rapporto di dipendenza e che da essi egli potesse attendersi benefici o punizioni come da un padrone. Anche Lucrezio recupera questo senso intimo della religiosità, intesa come capacità di vivere serenamente e «contemplare ogni cosa con mente sgombra da pregiudizi» (V 1203).

Nell’ambito del V libro una sezione della storia dell’umanità (vv. 1161-1240) è dedicata alla nascita del timore religioso, che sorge spontaneo per ignoranza delle leggi scientifiche. La loro conoscenza, invece, permette di capire, per esempio, che il fulmine o le tempeste non sono i segni di una punizione divina, anche perché colpiscono indiscriminatamente colpevoli e innocenti. Alcuni hanno visto a torto in questi versi quasi un cedimento di Lucrezio nei confronti di quelle paure che lui stesso tenta di combattere: sua intenzione è, invece, quella di delineare l’origine storica di un fenomeno del quale non è difficile ricostruire le cause e che, quindi, va affrontato ed eliminato.

Il corso della storia | Oltre a temi fisici (come la natura della materia e la formazione dei corpi) ed etico-morali (la religione, la paura della morte, l’amicizia, l’amore), Lucrezio dedica un’ampia parte dell’opera alla storia del mondo, del quale era stata anzitutto chiarita la natura mortale, originato com’è da una casuale aggregazione di atomi e destinato alla distruzione (II 1024-1174).

Tu tutta la seconda metà del libro V (vv. 772-1457) tratta invece dell’origine della vita sulla Terra e della storia dell’uomo. Né gli animali né gli esseri umani sono stati creati da un dio, ma si sono formati grazie a particolari circostanze: il terreno umido e il calore hanno spontaneamente generato i primi esseri viventi. Notevole attenzione è riservata alla confutazione delle tradizioni su esseri mitici che avrebbero popolato l’alba della Terra. A tali fantasticherie Lucrezio oppone la saldezza delle leggi naturali della fisica epicurea, che dimostrano l’impossibilità che due esseri di natura diversa, come l’uomo e il cavallo, per esempio, si congiungono e generino un centauro: è questo uno degli insegnamenti basilari di Epicuro. È invece possibile che la natura, non governata da esseri superiori, commetta alcuni “sbagli” dando vita a uomini mancanti di parti vitali del corpo (V 837 ss.).

I primi uomini conducevano una vita agreste, al di fuori di ogni vincolo sociale: la natura forniva il poco di cui avevano davvero bisogno; non per questo la loro vita era priva di pericoli, perché molti venivano sbranati dalle fiere. In seguito (vv. 1011-1457) Lucrezio tratta delle tappe del progresso umano, positive (la scoperta del linguaggio, del fuoco, dei metalli, della tessitura e dell’agricoltura) e negative (l’origine e lo sviluppo della guerra, il sorgere del timore religioso). Spesso è stata la natura a mostrare casualmente gli uomini come agire: del metallo surriscaldato un incendio fortuito virgola e raccolto sin una buca del terreno, per esempio, può avere indicato la tecnica della fusione. La necessità di comunicare, invece, ha spinto l’uomo a creare le prime forme di linguaggio: caso i bisogni materiale sono stati fattori di avanzamento della civiltà.

Prometeo, Gaia, Aion, le stagioni e i venti. Mosaico, IV secolo, da Damasco (Siria).

È evidente in tutta la trattazione il desiderio del poeta di contrapporsi alle visioni teleologiche del progresso umano assai diffuse nella cultura del tempo: la natura segue le sue leggi, nessun dio la piega ai bisogni dell’uomo. Ovviamente, Lucrezio non poteva credere in una mitica «età dell’oro», in cui l’umanità viveva come in un paradiso terrestre dal quale il degenerare delle razze l’avrebbe irrimediabilmente allontanata, come invece sosteneva Esiodo nelle Opere e i giorni.

Lucrezio critica alcuni aspetti di decadenza morale che il progresso ha portato con sé, come il sorgere dei bisogni naturali, della guerra, delle ambizioni e cupidigie personali, ma la sua non è una visione sconsolata e pessimistica: a questi problemi l’Epicureismo è in grado di fornire una risposta invitando a riscoprire che «di poche cose ha davvero bisogno la natura del corpo» (II 20), cioè a evitare i desideri non naturali e non necessari, badando a soddisfare solo quelli naturali e necessari[5]. Come si vede, l’Epicureismo non era affatto quella forma di edonismo sfrenato che i suoi avversari dipingevano.

Perciò, il saggio deve allontanarsi dalle inutili ricchezze e dalle tensioni della vita, secondo il consiglio di Epicuro, λάθε βιώσας («vivi nascosto»). L’unica vera ricchezza è lo studio della natura con gli amici più fidati (come diceva Epicuro: «Di tutti quei beni che la saggezza procura per a completa felicità della vita il più grande di tutti è l’acquisto dell’amicizia», Massime capitali, trad. it. G. Arrighetti). Celebre è la similitudine che apre il libro II: il saggio che vive secondo i precetti di Epicuro è come colui che, al sicuro sulla terraferma, osserva distaccato l’altrui pericolo nel mare in tempesta.

8. L’interpretazione dell’opera

Nell’interpretazione dell’opera di Lucrezio, di certo, ha avuto un peso determinante la notizia di san Girolamo sulla follia del poeta, notizia che, come abbiamo visto, è dovuta al desiderio da parte del dotto cristiano di screditare un poeta materialista. Perciò, non possono essere accettate le tesi di coloro che, confondendo l’autore con il narratore, hanno affannosamente ricercato nel De rerum natura tracce di uno squilibrio mentale di Lucrezio, o come crisi maniaco-depressive o come generica angoscia esistenziale[6]. Anche la tesi più recente (1868) del francese Patin è dovuta all’avversione per il credo materialista del poeta: secondo Patin, infatti, per tutto il poema Lucrezio si affanna a persuadere un “anti-Lucrezio” scettico, ovvero lotta con se stesso in una specie di sdoppiamento della personalità.

Strumenti da scrittura (tabulae ceratae, stilus, volumen). Affresco, I secolo d.C. da Pompei.

Al contrario, il De rerum natura è pervaso da una tensione che può ben essere definita «illuministica», volta a convincere razionalmente il lettore e a trasmettergli i precetti di una dottrina di liberazione morale in cui l’autore crede profondamente. E se nel poema hanno una loro parte innegabile anche descrizioni a tinte fosche e violentemente drammatiche, questo non è dovuto al fatto che Lucrezio non riesca a convincere se stesso dell’ottimismo epicureo, ma a precisi motivi di contesto. Per esempio, per confutare la tesi stoica di una natura provvidenziale, Lucrezio sottolinea la totale indifferenza della natura verso l’uomo con immagini forti: la “colpa” della natura è evidente nelle asperità del terreno, nelle difficoltà di lavorarlo, nella durezza del clima, nel gran numero di animali nocivi all’uomo che la Terra nutre, nelle malattie e nella morte prematura. E, quando nel finale del IV libro Lucrezio si scaglia aspramente contro le insensatezze della passione amorosa, è probabilmente mosso dalla volontà di ribadire che il saggio epicureo deve tenersi lontano da una passione tanto irrazionale[7]. Più in generale, alla base di questi quadri fortemente espressivi del poema e radicata l’inclinazione a ricercare un registro stilistico elevato ed efficace.

Bisogna ammettere però che a tratti in forte pessimismo sembra separare Lucrezio dalla serenità del suo maestro Epicuro. Questo problema ha un ruolo centrale in buona parte della critica, e non è facile giungere a una valutazione equilibrata che tenga conto di tutte le sfumature, dei toni qualora diversi tra una parte e l’altra del poema. Lucrezio ripete molto spesso che la ratio da lui esposta è foriera di serenità e libertà interiori e invita all’accettazione consapevole di ogni cosa in quanto esistente; ma questo stesso razionalismo, a tratti, mostra i suoi limiti.

Albert Bierstadt, L’incombere della tempesta nella valle. Olio su tela, 1891. Nordsee Museum Husum.

Nel III libro, per esempio, l’autore insiste sul fatto che la morte «per noi non è nulla» (nihil est ad nos neque pertinet hilum, v. 830), perché con essa la nostra sensibilità si perde del tutto. Tutto questo, però, non basta a eliminare l’angoscia dell’uomo di fronte all’idea che la sua vita debba avere un termine: se la vita trascorsa è stata piacevole e nella di diverso può essere esperito in futuro, perché «tutto è sempre uguale» (v. 945), conviene allontanarsi come un convitato sazio, serenamente (aequo animo, v. 939, un’espressione tipicamente epicurea che ritroveremo in Orazio); in caso contrario, meglio comunque concludere un’esperienza ricca solo di dolore. Ma è proprio questa rigidità razionalistica a contrastare vivamente con la vivida descrizione dell’uomo in preda all’angoscia irrazionale che Lucrezio stesso ci offre.

In realtà, proprio queste, che sono state considerate come contraddizioni da critici desiderosi di screditare Lucrezio, non fanno che aggiungere fascino alla sua personalità poetica: la sua insoddisfazione amara è il segno oggettivo di un interiorità tormentata, e forse i luoghi più eloquenti dell’opera sono proprio quelli in cui le contraddizioni non risolte lasciano il segno sul corpo della dottrina.

9. Lingua e stile

Il giudizio di Cicerone nella lettera al fratello Quinto, riportato sopra, testimonia che l’Arpinate ammirava in Lucrezio non solo l’acutezza del pensatore, ma anche grandi capacità di elaborazione artistica. La critica moderna ha a lungo esitato a sottoscrivere la seconda delle due affermazioni, giudicando lo stile del poeta troppo rude e legato all’uso arcaico, a tratti prosaico e ripetitivo, ma da qualche tempo gli studiosi hanno modificato questa prospettiva.

Certamente, il tratto distintivo dello stile lucreziano va individuato nella concretezza dell’espressione, che deriva quasi obbligatoriamente dalla mancanza nella lingua latina di un vocabolario astratto: la lingua si fa vivida perché, per supplire a tale mancanza, deve ricorrere a una gamma vastissima di immagini, similitudini ed esempi esplicativi. E così un discorso di per sé intellettuale guadagna in emotività ed efficacia poetica attraverso la descrizione, ora stupita ora curiosa, di cose immense e piccolissime, distanti e vicine, statiche e dinamiche.

A queste antitesi corrisponde stilisticamente il contrasto efficace tra le movenze di una lingua colloquiale e la scelta di uno stile sublime, tra l’energia del parlato e la preziosità della dizione epico-tragica, tra la durezza e l’eleganza, tra la meraviglia e la commozione, tra il ragionamento pacato e l’invettiva profetica. Questa varietà si fonde nel registro dell’enthusiasmós poetico, posto al servizio di una missione didattica vissuta con un ardore eccezionale.

Lo stile, come l’organizzazione complessiva della materia, si piega al fine di persuadere il lettore. Le ripetizioni, nelle quali si è a lungo visto un segno di “immaturità” stilistica di Lucrezio, sono frequenti, ma Epicuro stesso raccomandava di riassumere alcuni concetti in brevi formule facilmente ricordabili. Così, per esempio, il principio essenziale per cui l’incessante divenire degli aggregati è possibile solo grazie al loro continuo disfacimento è ripetuto quattro volte (I 670; 792; II 753; III 519).

Anche l’invito all’attenzione del lettore doveva essere reiterato spesso; e alcuni termini tecnici della fisica epicurea, nonché i nessi logici di grande uso (per esempio, le formule di transizione tra argomenti diversi: adde quod, quod superest, praeterea, denique), dovevano restare il più possibile fissi per consentire al lettore di familiarizzarsi con un linguaggio non certo facile.

Non va neppure trascurato il fatto che alla lingua latina mancava la possibilità di esprimere certi concetti filosofici, e Lucrezio si trovò quindi costretto a ricorrere a perifrasi nuove (quali semina o primordia rerum, e corpora prima per designare gli atomi), a coniazioni, talora a calchi diretti dal greco (come homoeomerìa): è appunto in questa circostanza che egli lamenta la «povertà del vocabolario avito» (I 832: patrii sermonis egestas).

Al di fuori del lessico strettamente tecnico, Lucrezio sfrutta una gran mole di vocaboli poetici che la tradizione arcaica (soprattutto Ennio) gli fornisce specie nel campo degli aggettivi composti (per esempio, suaviloquens, altivolans, navigerum, frugiferens), e molti ne crea egli stesso, rivelando una spiccata propensione per nuovi avverbi (filatim, moderatim, praemetuenter) e perifrasi (natura animi = animus; equi vis = equus, sul modello omerico). Da Ennio trae le più caratteristiche forme dell’espressione: un intensissimo uso di allitterazioni, assonanze, costrutti arcaici. In campo grammaticale i due fenomeni sicuramente più vistosi sono il gran numero di infiniti passivi in -ier (più arcaico di -i), e il prevalere della desinenza bisillabica -ai nel genitivo singolare della 1^ declinazione (anziché -ae), che contribuiscono all’elevazione del tono del discorso.

L’esametro lucreziano si differenzia nettamente da quello arcaico di Ennio, rispetto al quale predilige l’incipit dattilico che sarà usuale nella poesia augustea. Il moderato ricorso all’enjambement (peraltro diffuso nelle sezioni in cui si intende accentuare il pathos) annulla soprattutto nelle parti tecniche argomentative la tensione che si crea tra un verso e l’altro, permettendo una più pacata e lineare comprensione del contenuto e accentuando il senso di accumulazione di fatti e prove convincenti.

Lucrezio dimostra di possedere una vasta conoscenza della letteratura greca, come testimoniano le riprese di Omero, Platone, Eschilo, Euripide; tutta la descrizione della peste di Atene nel finale dell’opera è naturalmente basata sul racconto di Tucidide. Non mancano allusioni ai poeti ellenistici: nel proemio del IV libro Lucrezio si presenta come il poeta che raggiunge per primo «gli impervi terreni delle Muse Pieridi» per attingere a una nuova fonte di poesia, riproducendo così il gesto di consapevolezza che Callimaco aveva canonizzato a inizio degli Aitia.

Vincenzo Foppa, Fanciullo che legge Cicerone. Affresco, 1464, dal Banco Mediceo di Milano. London, Wallace Collection.

10. La fortuna di Lucrezio

Le prime fasi della fortuna di Lucrezio sono oggetto di discussione: è sicuramente strana la completa assenza del poeta dalle opere filosofiche di Cicerone, dove pure la confutazione dell’ Epicureismo ha larga parte. Si è pensato (ma le ipotesi sono molteplici) che Cicerone abbia voluto, in tale sede, appositamente ignorare il De rerum natura e sminuirne così il valore. Tutto sommato, scarsa è la presenza di Lucrezio anche in altri autori di I secolo a.C., anche se Virgilio, Orazio e Ovidio non mancano di riprendere alcuni aspetti e di tributargli alte lodi.

La lettura del poema continua anche nei secoli successivi, come testimoniano Seneca, Quintiliano, Stazio (cui si deve la bella definizione docti furor arduus Lucreti, in Silv. II 7, 76) e Plinio il Vecchio.

Gli autori cristiani leggono Lucrezio e ne criticano apertamente le posizioni, ma a partire dai secoli successivi incominciano a perdersi le tracce dell’opera. Nel 1418 Poggio Bracciolini scopre in Alsazia un manoscritto del De rerum natura e lo invia a Firenze perché sia copiato: è l’inizio della rinnovata fortuna dell’opera in epoca moderna. Alla prima edizione a stampa (Brescia 1473) e al fiorire delle attività filologica sull’opera (studiata tra gli altri da Marullo, Avancio e soprattutto Lambino) si affianca la ripresa di interesse, da parte dei dotti dell’epoca, anche di tendenze filosofiche diverse: è il caso di Pontano e Poliziano (anche da alcune Stanze per la Giostra di quest’ultimo, ispirate alla Venere di Lucrezio Botticelli trasse spunto per la sua Primavera).

Nel Cinquecento appaiono le prime «confutazioni di Lucrezio». Si tratta di opere in versi che riprendono da vicino la lingua e lo stile latino dell’autore per propugnare tesi sovente opposte a quelle materialiste del De rerum natura. Un celebre esempio di questa produzione è, senz’altro, l’Anti-Lucretius, sive de Deo et Natura del Cardinale di Polignac (1747).

Il filosofo francese Gassendi (1592-1655), con il suo Empirismo, riporta in auge, in pieno XVII secolo, la dottrina di Epicuro (e, naturalmente, di Lucrezio) conciliandola con la presenza di un Dio creatore. Molière ne traduce nel Misantropo il celebre passo del IV libro sui difetti delle donne; l’Illuminismo, poi, confesserà la sua ammirazione per l’arte e (non sempre) per la filosofia del poeta latino.

La prima traduzione italiana dell’opera è del dotto fiorentino Alessandro Marchetti, pubblicata a Londra nel 1717, dopo il divieto impostogli in patria.

Non si può affermare con certezza una lettura integrale di Lucrezio da parte di Giacomo Leopardi, anche se alcune tracce nei suoi testi indicano, comunque, un certo grado di conoscenza diretta (per esempio, i vv. 111-114 de La ginestra: «Nobil natura è quella / che a sollevar s’ardisce / gli occhi mortali incontra al comun fato», riprendono forse I 65-66: Graius homo mortalis tollere contra / est oculos ausus primusque obsistere contra).

Nel 1850 l’edizione critica del De rerum natura curata da Karl Lachmann è il banco di prova del moderno metodo filologico basato sulla valutazione dei rapporti tra i vari rami della tradizione, individuati grazie alla presenza di errori guida che li accomunano o li separano.

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Note

[1] Suet. Poet. 16, 1 Rostagni = Hier. Euseb. 171, 1-3: Titus Lucretius poeta nascitur. Qui postea amatorio poculo in furorem uersus, cum aliquot libros per interualla insaniae, conscripsisset, quos postea Cicero emendauit, propria se manu interfecit anno aetatis XLIV.

[2] Don. Vit. Verg. 6: Initia aetatis Cremonae egit usque ad uirilem togam, quam XVII anno natali suo accepit isdem illis consulibus iterum duobus, quibus erat natus, euenitque ut eodem ipso die Lucretius poeta decederet.

[3] Il sublime diventa non solo una forma stilistica che rispecchia per l’autore, che costruisce il suo discorso, e una forma di percezione delle cose per il lettore, che assiste allo spettacolo grandioso dell’universo e delle sue leggi. Il sublime, coinvolgendo colui che è lettore del testo e, perciò spettatore della grande di emozionante descrizione lucreziana, gli suggerisce un bisogno morale. Ecco che allora il sublime, per il destinatario, funziona anche come un invito all’azione. Attraverso la rappresentazione del sublime il poeta esprime con ansia un esortazione al lettore: che scelga per sé, anche lui, un modello di vita alto e forte. E tutto il De rerum natura si configura allora come un protreptikós lógos, come insegnamento che contiene insieme un drammatico consiglio: tu stesso, lettore, devi divenire quasi lo specchio di questa sublimità universale, maestosa e terribile, che io cerco di rappresentare adeguatamente in questo mio stile sublime; tu stesso devi trasformarti in un «lettore sublime», emozionarti e trovare dentro di te la forza dell’accettazione e dell’adeguamento.

[4] A parte certi diffusi accenti genericamente “prometeici” che suggeriscono nella figura di Epicuro il campione della liberazione umana, fin dall’inizio del poema (I 62-79) l’immagine del filosofo (armato di vivida vis animi e forte della ratio naturae) si modella apertamente sui tratti del guerriero omerico impegnato in un duello eroico: il rituale delle “scene di sfida”, codificate nell’Iliade, con le varie movenze che preludono allo scontro fra guerrieri (guardare il nemico negli occhi, disporsi di fronte a lui saldamente, ecc.) costituisce il modello implicito della descrizione che Lucrezio fa del suo campione impegnato contro quell’avversario temibile che è il mostro gigantesco della superstizione (mortales tollere contra / est oculos ausus, primusque obsistere contra). Segno, questo, dell’intonazione epico-eroica che Lucrezio voleva aggiungere all’ardore didascalico della sua poesia di genere sublime.

[5] Epic. 6, 33: «Grida la carne: non aver fame, non aver sete, non aver freddo; chi abbia queste cose e speri di averle [in futuro], anche con Zeus può gareggiare in felicità» (trad. Arrighetti).

[6] La confusione fra la figura storica dell’autore e l’immagine del “narratore”, che prende la parola all’interno del poema, continua a nuocere alla lettura critica dell’opera. Le due figure non vanno sovrapposte meccanicamente: nessuno, infatti, penserebbe di far coincidere sic et simpliciter il Dante-personaggio della Commedia con l’uomo Alighieri.

[7] In questo particolare caso, avranno agito anche stimoli culturali diversi, quali la volontà di contrapporsi all’ideologia erotica dei neoteroi (Catullo) e l’orientamento della morale tradizionalista a condannare con severità gli amanti che sconsideratamente dissipavano le loro sostanze in doni e lussi (IV 1123-1124: «e intanto il patrimonio si dissolve, si trasforma in tappeti babilonesi; i doveri sono trascurati, la reputazione vacilla e soffre»).

15 pensieri su “T. Lucrezio Caro

  1. […] Tuttavia, nella letteratura latina esiste una solida, ancorché esigua, tradizione di opere scientifiche, concepite con intento didascalico, in forma enciclopedica e rivolte a un pubblico di media cultura. Lo scopo di questi manuali era quello di fornire un’informazione il più possibile ampia, puntuale, precisa su tutti gli argomenti che il buon pater familias avrebbe dovuto conoscere. In generale, il prestigio della retorica impediva la nascita di una prosa che – sul modello di quella filosofica di Aristotele – rinunciasse agli ornamenti e puntasse alla definizione di una terminologia precisa e al rigore dell’argomentazione. D’altra parte, a che una vera e propria prosa scientifica non si formasse, contribuiva anche la forte tradizione del poema didascalico, cui aveva già fatto ricorso, per esempio, Lucrezio. […]

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  2. […] È, dunque, una fortuna per i moderni che gli interessi di Nonio andassero prevalentemente in direzione degli autori di età repubblicana – anche molto antica (e questa predilezione, che ha fatto vedere in Nonio uno degli ultimi esponenti della corrente degli arcaisti, è confermata anche dalle citazioni degli altri autori, quelli che ci sono arrivati anche per tradizione diretta: oltre ai nomi scontati di Virgilio e Cicerone, quelli che ricorrono più frequentemente nel De compendiosa doctrina sono Plauto, Terenzio e Lucrezio). […]

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Annotazioni e osservazioni dei lettori

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