Cfr. PIAZZI F., GIORDANO RAMPIONI A., Multa per aequora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina. 1 – Dall’età arcaica all’età di Cesare, Bologna 2004, 513-520; CONTE G.B., PIANEZZOLA E., Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 1. L’età arcaica e repubblicana, Milano 2010, 586-589; BALESTRA A. et alii, In partes tres. 1. Dalle origini all’età di Cicerone, Bologna 2016, 316-319.
Nel VI libro del De rerum natura, alla luce della fisica epicurea, Lucrezio spiega svariati fenomeni naturali di fronte ai quali l’uomo si sente talmente impotente da provare una profonda angoscia: terremoti, fulmini, eruzioni vulcaniche ed epidemie. Da qui prende le mosse l’excursus finale contenente l’agghiacciante e macabra descrizione della peste di Atene (430 a.C.), mediata dal racconto di Tucidide, che ne fu diretto testimone e vittima.
Per il poeta latino la peste è certo un’orribile realtà, ma è anche un fenomeno prodotto da cause naturali (l’alterazione dell’aria dovuta a turbamenti dell’equilibrio atmosferico). Perciò, la descrizione dell’epidemia che colpì Atene rientra perfettamente nell’argomento del VI libro, che fornisce spiegazioni razionali di calamità, che altrimenti creerebbero terrore e religio nell’animo del lettore-discepolo.
Per spiegare perché il poema della ragione e della voluptas termini con immagini di morte e di desolazione si è supposta l’incompiutezza dell’opera, cui sarebbe mancata l’ultima revisione. E poiché Lucrezio, nel libro precedente, aveva annunciato la descrizione delle sedi beate degli dèi, senza però tener fede alla promessa, si è pensato che quella rappresentazione di suprema atarassia fosse la chiusa originariamente progettata.
Non sono mancati, fra i critici, coloro che, sempre preoccupati di accertare l’ortodossia epicurea del poeta, hanno cercato in questa pagina la conferma estrema di un presunto «pessimismo lucreziano», di una «tragica antinomia […] tra la dottrina e il carattere del poeta» (Giussani), applicando all’episodio le categorie rigide e forzatamente attualizzanti del “pessimista” (in senso leopardiano), dell’“antiepicureo”, dell’“esistenzialista”, talora invocando seducenti, ma poco pertinenti, ermeneutiche psicanalitiche[1].
C’è stato, poi, chi ha addotto ragioni d’ordine strutturale: negli antichi trattati di Fisica le malattie vengono all’ultimo posto nella rassegna dei fenomeni naturali. E c’è stato anche chi ha visto questo «trionfo della Morte» in un rapporto di contrapposizione isonomica con il «trionfo della Vita», rappresentato dall’Inno a Venere dell’ouverture. La contrapposizione di queste due parti, programmaticamente «forti», sarebbe l’esito strutturale più vistoso di una polarità che attraversa l’intero poema, opponendo ansia e ragione, ignoranza e sapienza, religione e filosofia, schiavitù e liberazione, ecc. «All’interno di tale sistema oppositivo […] in particolare il primo proemio e l’ultimo finale sembrano fissare definitivamente questo carico di tensione in un ideale e meraviglioso duello tra le forze della vita e quelle della morte» (Dionigi).
Secondo Commager, il quadro tucidideo di un popolo malato, arso dalla sete insaziabile e autodistruttiva, assurge nel finale lucreziano a simbolo dello stato di malattia mentale dei tempi di Cesare, e, in genere, dei mali cronici dello spirito umano[2].
C’è stato, infine, chi ha ravvisato nella chiusa espressionistica sulla peste l’ultima e più compiuta manifestazione del lepos, che è alla base della poetica del De rerum natura. Lucrezio – con la parafrasi erudita della scrittura tucididea, impreziosita da contaminazioni con altri autori e tesa all’effetto patetico conforme ai modi del vertere latino – intenderebbe fornire al suo pubblico colto l’estrema prova di consumata perizia tecnica. Così l’episodio avrebbe il valore di un preciso «segno culturale», nell’ambito di una concezione allusiva dell’arte fondata sull’aemulatio con il modello illustre, che nel caso specifico era un autore assai in voga a Roma (come dimostra l’opera di Sallustio)[3].

Metro: esametri
1145 Principio caput incensum feruore gerebant
et duplices oculos suffusa luce rubentis.
Sudabant etiam fauces intrinsecus atrae
sanguine et ulceribus uocis uia saepta coibat
atque animi interpres manabat lingua cruore
1150 debilitata malis, motu grauis, aspera tactu.
Inde ubi per fauces pectus complerat et ipsum
morbida uis in cor maestum confluxerat aegris,
omnia tum uero uitai claustra lababant.
Spiritus ore foras taetrum uoluebat odorem,
1155 rancida quo perolent proiecta cadauera ritu.
Atque animi prorsum uires totius ‹et› omne
languebat corpus leti iam limine in ipso.
Intolerabilibusque malis erat anxius angor
assidue comes et gemitu commixta querela.
1160 Singultusque frequens noctem per saepe diemque
corripere assidue neruos et membra coactans
dissoluebat eos, defessos ante, fatigans.
Nec nimio cuiquam posses ardore tueri
corporis in summo summam feruescere partem,
1165 sed potius tepidum manibus proponere tactum
et simul ulceribus quasi inustis omne rubere
corpus, ut est per membra sacer dum diditur ignis.
Intima pars hominum uero flagrabat ad ossa,
flagrabat stomacho flamma ut fornacibus intus.
1170 Nil adeo posses cuiquam leue tenueque membris
uertere in utilitatem, at uentum et frigora semper.
In fluuios partim gelidos ardentia morbo
membra dabant nudum iacientes corpus in undas.
Multi praecipites lymphis putealibus alte
1175 inciderunt ipso uenientes ore patente:
insedabiliter sitis arida, corpora mersans,
aequabat multum paruis umoribus imbrem.
Nec requies erat ulla mali: defessa iacebant
corpora. Mussabat tacito medicina timore,
1180 quippe patentia cum totiens ardentia morbis
lumina uersarent oculorum expertia somno.
Multaque praeterea mortis tum signa dabantur,
perturbata animi mens in maerore metuque,
triste supercilium, furiosus uultus et acer,
1185 sollicitae porro plenaeque sonoribus aures,
creber spiritus aut ingens raroque coortus,
sudorisque madens per collum splendidus umor,
tenuia sputa minuta, croci contacta colore
salsaque, per fauces rauca uix edita tussi.
1190 In manibus uero nerui trahere et tremere artus
a pedibusque minutatim succedere frigus
non dubitabat. Item ad supremum denique tempus
compressae nares, nasi primoris acumen
tenue, cauati oculi, caua tempora, frigida pellis
1195 duraque, in ore truci rictum, frons tenta tumebat.
Nec nimio rigida post artus morte iacebant. […]

1145 Dapprima avevano il capo bruciante di un ardore infuocato,
gli occhi iniettati di sangue per un bagliore diffuso.
E dentro le livide fauci sudavano sangue,
si serrava cosparsa di ulcere la via della voce,
e la lingua, interprete dell’animo, stillava di umore sanguigno,
1150 fiaccata dal male, ruvida al tatto e inerte.
Quando poi il violento contagio attraverso le fauci
invadeva il petto, e affluiva per intero al cuore dolente dei malati,
tutte davvero le barriere della vita vacillavano.
L’alito effondeva dalla bocca un orribile olezzo
1155 come quello che emanano le marce carogne insepolte.
Le forze dell’animo intero e tutta la fibra
del corpo languivano sulle soglie stesse della morte.
Agli atroci dolori era assidua compagna un’ansiosa
angoscia, e un pianto mischiato a continui lamenti.
1160 E spesso un singulto incessante di giorno e di notte,
costringendoli a contrarre assiduamente i nervi e le membra,
tormentava e sfiniva gli infermi già prima spossati.
Né avresti potuto notare sulla superficie del corpo
la parte esteriore avvampare di ardore eccessivo,
1165 ma piuttosto offrire alle mani un tiepido tatto
e insieme tutto il corpo arrossato da ulcere simili a ustioni,
come quando il fuoco sacro si sparge su tutte le membra.
Ma l’intima parte dell’uomo ardeva fino al fondo delle ossa,
una fiamma bruciava nello stomaco come dentro un forno.
1170 Non vesti sottili e leggere potevano giovare alle membra
inferme, ma vento e frescura sempre.
Alcuni, riarsi dalla febbre, abbandonavano il corpo
ai gelidi fiumi, le nude membra distese nelle onde.
Molti piombarono a capofitto nelle acque dei pozzi,
1175 protesi verso di essi con bocca anelante:
un’arida insaziabile arsura, sommergendo quei corpi,
uguagliava gran copia di liquido a povere stille.
Né vi era una tregua al male, ma i corpi giacevano sfiniti.
In silenzioso timore esitava l’arte dei medici,
1180 e intanto i malati volgevano senza posa lo sguardo
dagli occhi sbarrati, riarsi dal male e insonni.
Allora apparivano numerosi presagi di morte:
la mente sconvolta e in preda al terrore e all’affanno,
il torvo cipiglio, lo sguardo demente e furioso,
1185 e, inoltre, l’udito assillato da una folla di suoni,
il respiro affrettato, oppure lento e profondo,
il collo madido di sudore e lucente umore,
rari ed esili gli sputi, amari, d’un giallo rossastro,
espulsi a fatica dalle fauci con rauchi insulti di tosse.
1190 I nervi delle mani non tardavano a contrarsi, e gli arti
a tremare, e man mano a succedere un gelo alla pianta
dei piedi. E, infine, nell’ora suprema, le nari sottili,
la punta del naso affilata, gli occhi infossati,
le concave tempie, la gelida pelle indurita,
1195 sul volto un’immobile smorfia, la fronte tirata e gonfia.
Non molto più tardi le membra giacevano nella rigida morte. […]
[trad. Canali]

1230 Illud in his rebus miserandum magnopere unum
aerumnabile erat, quod ubi se quisque uidebat
implicitum morbo, morti damnatus ut esset,
deficiens animo maesto cum corde iacebat,
funera respectans animam amittebat ibidem.
1235 Quippe etenim nullo cessabant tempore apisci
ex aliis alios auidi contagia morbi,
lanigeras tamquam pecudes et bucera saecla.
Idque uel in primis cumulabat funere funus.
Nam quicumque suos fugitabat uisere ad aegros,
1240 uitai nimium cupidos mortisque timentis
poenibat paulo post turpi morte malaque,
desertos, opis expertis, incuria mactans.
Qui fuerant autem praesto, contagibus ibant
atque labore, pudor quem tum cogebat obire
1245 blandaque lassorum uox mixta uoce querelae.
Optimus hoc leti genus ergo quisque subibat.
***
Inque aliis alium, populum sepelire suorum
certantes: lacrimis lassi luctuque redibant;
inde bonam partem in lectum maerore dabantur.
1250 Nec poterat quisquam reperiri, quem neque morbus
nec mors nec luctus temptaret tempore tali.
Praeterea iam pastor et armentarius omnis
et robustus item curui moderator aratri
languebat, penitusque casa contrusa iacebant
1255 corpora paupertate et morbo dedita morti.
Exanimis pueris super exanimata parentum
corpora nonnumquam posses retroque uidere
matribus et patribus natos super edere uitam.
Nec minimam partem ex agris is maeror in urbem
1260 confluxit, languens quem contulit agricolarum
copia conueniens ex omni morbida parte.
Omnia complebant loca tectaque; quo magis aestu
confertos ita aceruatim mors accumulabat.
Multa siti prostrata uiam per proque uoluta
1265 corpora silanos ad aquarum strata iacebant
interclusa anima nimia ab dulcedine aquarum,
multaque per populi passim loca prompta uiasque
languida semanimo cum corpore membra uideres
horrida paedore et pannis cooperta perire
1270 corporis inluuie, pelli super ossibus una,
ulceribus taetris prope iam sordeque sepulta.
Omnia denique sancta deum delubra replerat
corporibus mors exanimis onerataque passim
cuncta cadaueribus caelestum templa manebant,
1275 hospitibus loca quae complerant aedituentes.
Nec iam religio diuum nec numina magni
pendebantur enim: praesens dolor exsuperabat.
Nec mos ille sepulturae remanebat in urbe,
quo prius hic populus semper consuerat humari;
1280 perturbatus enim totus trepidabat, et unus
quisque suum pro re ‹compostum› maestus humabat.
Multaque ‹res› subita et paupertas horrida suasit.
Namque suos consanguineos aliena rogorum
insuper exstructa ingenti clamore locabant
1285 subdebantque faces, multo cum sanguine saepe
rixantes potius quam corpora desererentur.
1230 Ma in tal frangente, questo era più miserabile
e doloroso, che, quando ciascuno vedeva se stesso
avvinto dal male, da esserne votato alla fine,
perdutosi d’animo, giaceva con il cuore dolente,
e lì stesso perdeva la vita guardando immagini di morte.
1235 Infatti, davvero non cessavano mai di raccogliere
gli uni dagli altri il contagio dell’avido morbo,
come greggi lanose e cornigere mandrie di buoi.
Ciò soprattutto ammucchiava morti su morti.
Quanti, infatti, rifuggivano dal visitare i parenti infermi,
1240 troppo cupidi della vita e timorosi della morte,
poco dopo, immolandoli, la stessa assenza di cure li puniva,
derelitti e privi d’aiuto, con una morte vergognosa e infame.
Chi, invece, era stato vicino ai suoi, incorreva nel contagio
e nella fatica che la sua dignità gli imponeva,
1245 tra le fievoli voci dei malati, miste a lamenti.
Tutti i migliori si esponevano a questa forma di morte.
***
gli uni sugli altri, lottando per seppellire la turba dei propri defunti,
e, infine, tornavano, spossati dal pianto e dai gemiti;
e gran parte di loro cadeva affranta sui letti.
1250 Né poteva trovarsi nessuno che in questo frangente
non fosse toccato dal male, dalla morte o dal lutto.
Inoltre, già il pastore e il guardiano di armenti
e il robusto guidatore dell’aratro ricurvo
languivano, e dentro il modesto abituro giacevano a mucchi
1255 i corpi dati alla morte dalla miseria e dal morbo.
Non di rado avresti veduto gli esanimi corpi
dei padri giacere sugli esanimi corpi dei figli,
e, al contrario, spirare la vita i figli sulle madri e sui padri.
Il contagio in gran parte si diffuse dai campi
1260 nella grande città, portato da una folla sfinita
di bifolchi, affluita da tutte le zone già infette.
Riempivano ogni luogo, ogni asilo, e in tal modo la morte
più facilmente ammucchiava la turba ondeggiante.
Molti, prostrati per la via dalla sete, giacevano
1265 riversi e distesi accanto agli sbocchi delle fonti,
il respiro mozzato dalla dolcezza eccessiva dei sorsi,
e molti ne avresti veduti qua e là per la strada
e nei pubblici luoghi abbattuti coi corpi morenti,
e squallidi e lerci perire, coperti di cenci
1270 e lordure sul corpo; sulle ossa soltanto la pelle
quasi tutta sepolta da orribili piaghe e marciume.
La morte aveva colmato persino i santuari degli dèi
di corpi inerti, e tutti i tempi dei celesti
restavano ingombri di cadaveri sparsi e ammucchiati,
1275 luoghi, che i custodi avevano affollato di ospiti.
Non più si teneva in onore, infatti, il culto divino
e il potere dei numi: il dolore presente vinceva.
Né più resisteva in città quell’usanza di funebri riti
che da sempre avvezzava le genti a inumare pietose gli estinti;
1280 infatti, tutti si affannavano in preda al disordine,
e ognuno, angosciato, seppelliva i suoi cari composti come poteva.
La miseria e l’evento improvviso indussero a orribili cose.
Con alto clamore ponevano i loro congiunti
sulle grandi cataste erette per il rogo di altri,
1285 appiccandovi il fuoco e spesso lottando fra loro
in zuffe cruente piuttosto che abbandonare i cadaveri.
[trad. Canali]

Una chiusa inadeguata? | Un poema che si apre con il trionfo della vita (l’inno a Venere, premio al I libro) e si chiude con quello della morte: l’accanita esposizione della peste che devastò Atene nel 430 a.C., nel finale del VI (e ultimo) libro ha sempre turbato lettori e critici. Si è pensato che il finale sia incompiuto, che il poema dovesse concludersi con la descrizione delle sede dei beati degli dèi.
Si è detto anche che la peste, con le sue scene di morte, è una manifestazione del pessimismo lucreziano: ma la morte, in tutte le sue forme, è per Lucrezio (e per Epicuro) l’altra faccia della vita, un aspetto, terribile ma necessario, della natura. E, in effetti, la dialettica tra vita e morte non resta isolata ai “margini” del poema, all’inizio e alla fine, ma prosegue al suo interno, ripetuta in mille contesti più limitati, fino a creare nel lettore l’impressione che tale alternativa sia una regola fondamentale dell’universo, in cui creazione e distruzione si susseguono senza pause. D’altra parte, questo grandioso affresco finale di morte sembra davvero contenere in sé l’ultima lezione moral del poema: giunto al termine del viaggio verso la sapientia, il lettore-discepolo deve saper guardare senza sgomento anche agli aspetti più scabrosi della natura; conquistare le vette dei sapientum templa serena (II 8), riscattato dall’asservimento ai mali fisici e morali che affliggono l’umanità, è ormai in grado di contemplare dall’alto, senza vertigini d’orrore, l’abisso delle profondità cosmiche.
I signa della peste | Nella sua opera storica Tucidide decise di descrivere l’epidemia di peste che colpì Atene a memoria dei posteri, affinché potesse essere riconosciuta fin da suoi prodromi, se si fosse ripresentata (II 48, 3), e la descrisse in modo affidabile, essendone rimasto contagiato anche lui, anche se in modo guaribile. Nei confronti del brano tucidideo Lucrezio esegue una vera e propria opera di riscrittura, operando scarti significativi che danno un senso nuovo all’evento.
I primi sintomi | Riguardo ai prodromi della malattia Tucidide scrisse: «Dapprima erano colti da forti calori alla testa e da arrossamenti e bruciori agli occhi: e gli organi interni, cioè la gola e la lingua, subito erano di colore sanguigno ed emanavano un alito strano e fetido» (II 49, 2). Lucrezio, significativamente, inserisce qui la descrizione della voce soffocata e della lingua inerte (vv. 1148-1150): in polemica con gli stoici, che consideravano la gola come via vocis per dimostrare il mirabile funzionamento del corpo umano, opera della divina provvidenza, Lucrezio la applica alla degenerazione patologica di quell’organismo, attaccato dal male, per mostrare l’assenza di ogni tipo di disegno divino.
L’avanzare della malattia | Nel descrivere la progressione della peste, Tucidide (II 49, 3) procede dalla testa alla gola, dalla gola al petto e dal petto allo stomaco, dove la malattia provoca dolorosi travasi di bile. Lucrezio (vv. 1151-1159) sostituisce allo stomaco il cuore, che per gli epicurei era la sede dell’intelletto, perché nella sua descrizione la degenerazione fisica è strettamente correlata alla degenerazione delle facoltà intellettuali (si noti anche l’aggettivo maestum, indicante un’emozione, v. 1152). Nel testo lucreziano, dunque, l’epidemia viene vista da vicino, nei suoi dettagli più brutali, e, per raggiungere un tono il più possibile macabro, il poeta fa ricorso al registro dell’orrido: volvebat, «riversava (l’odore)», v. 1154; cadavera e il raro composto perolent (v. 1155, marcato dall’allitterazione con proiecta).
La fase acuta | Nel descrivere gli effetti del calore interno (Thuc. II 49, 5: «Ma gli organi interni bruciavano a tal punto che non sopportavano di essere coperti né da vesti assolutamente leggere o da lini, né da altro che non fosse l’essere nudi, e il gettarsi con gran piacere nell’acqua fredda»), Lucrezio dà rilievo al rovesciamento dell’ordine naturale nei bisogni sentiti dall’uomo e rimanda il lettore al proemio del II libro (vv. 34 ss.), in cui aveva già descritto l’inquietudine dei febbricitanti come esempio emblematico dell’angoscia esistenziale che opprima l’umanità stolta.
L’ultimo stadio | Il fitto dialogo con Tucidide si interrompe nel quarto stadio della malattia (i segni di morte imminente, vv. 1182-1196): l’argomento non era stato affrontato dallo storico greco e Lucrezio utilizza come fonte il corpus delle opere ippocratiche, in cui, tuttavia, la trattazione non aveva riferimento specifico alla peste. I materiali della scienza medica – un sapere fondato, al pari della fisiologia epicurea, sull’osservazione dei signa – permettono di seguire fino in fondo lo stravolgimento operato dalla peste nella psiche e nel corpo.
La morte in Epicuro e in Lucrezio | Negli scritti di Epicuro pervenuti, la morte è un argomento trattato con astrattezza intellettuale: essa è vista come la dispersione degli atomi che prima erano aggregati tra loro. Lucrezio, invece, nell’ambito della rievocazione della peste di Atene, si sofferma sugli aspetti più concreti e materiali del fenomeno, facendo appello a diverse percezioni sensoriali: l’olfatto (per il puzzo della decomposizione dei cadaveri), la vista (per il rossore delle pustole nelle quali il sangue si coagula), l’udito (per il lamento dei malati), il tatto (per le insopportabili sensazioni di caldo e di freddo connesse al decorso della malattia).
***
Note
[1] Perelli L., Lucrezio, in La Penna A. (ed.), Cultura latina, 3, Firenze 1986, 222: «Il confronto [con Thuc. II 47-53] è di grande interesse per cogliere nel suo formarsi la poesia di Lucrezio. Il poeta latino omette quei passi in cui Tucidide parla dei risanati presi da improvvisa letizia, e dell’immorale febbre di godimenti che suole diffondersi in tale calamità: troppo sarebbe stato il contrasto col tono apocalittico sempre più cupo che grava su questo finale, dove all’uomo è negata ogni speranza e ogni facoltà di reazione. Nei passi in cui segue la fonte, Lucrezio sostituisce all’esattezza scientifica e positivistica di Tucidide una visione surrealistica e magica, e le variazioni al testo tucidideo si svolgono lungo tre linee direttrici: l’esasperazione dei particolari orripilanti e ripugnanti, la sottolineatura delle ripercussioni del male fisico sugli animi e dell’angoscia di fronte alla morte, e l’ingigantire delle proporzioni e della violenza del morbo, che condanna gli uomini ad universale e inarrestabile rovina. Inoltre, Tucidide non lascia trasparire alcuna emozione, mentre Lucrezio qui più che altrove partecipa alle sofferenze dell’umanità e cede alla voce della pietà e della compassione. Il sentimento di pietà per la sofferenza umana, che nel corso del poema affiora solo episodicamente, dominato, o almeno mascherato, dall’opposto atteggiamento di sdegno e di condanna, investe diffusamente la pagina della peste. Di fronte all’estrema miseria dell’uomo oppresso dalla natura crudele il poeta svela una commozione dolente e pietosa per la sorte dell’umanità, in una tacita e impotente solidarietà di affetti che ricorda la conversione leopardiana della Ginestra. […] Nella descrizione della peste si assommano gli aspetti, per così dire, antiepicurei della poesia lucreziana: il senso attonito del mistero, l’orrore della vita come sofferenza, tormento e degradazione, la nullità dell’uomo oppresso dalla natura crudele. La scienza si rivela inutile e incapace a strappare alla natura il suo segreto, a lenire la sofferenza dell’uomo; la natura ostile non distingue nella sua furia devastatrice il malvagio dall’onesto, l’ignorante dal saggio, e anche gli animali sono coinvolti nell’universale rovina.
[2] Commager H.S., Lucretius’ Interpretation of the Plague, HSCPh 62 (1957), 115-118 [trad. it. Perelli] [Jstor]: «Per Tucidide, due sono le cose più terribili (II 51, 4): da un lato l’apatia, dall’altro il pericolo di contagio. Lucrezio vede solo una cosa come miserandum magnopere (VI 1230). Egli attribuisce massima importanza all’apatia (deficiens animo, 1233), mentre il diffondersi del contagio acquista una posizione subordinata (quippe etenim, 1235). La disposizione mentale o psicologica, che deriva dalla mancanza di ogni certa ratio, appare a Lucrezio come l’aspetto principale. L’aspetto fisico è relegato in una posizione dipendente, con un notevole disordine sintattico. Implicitum morbo (v. 1232) sembra indicare la via in cui si muove il pensiero di Lucrezio. Il termine compare solo una volta altrove. L’uomo può sfuggire dalle reti d’amore, implicitus, a meno che egli da sé non si ostacoli nel suo cammino (nisi tute tibi obuius obstes, IV 1150). Le forze esterne non sono più di pari importanza, come erano per Tucidide. La disperazione dell’uomo davanti al suo stato incurabile è assai significativa: egli si ostacola nel suo stesso cammino. […] Io avanzo solo l’ipotesi che il quadro tucidideo di un popolo malato, ardente di una sete insaziabile e autodistruttiva, spossato e incerto, può oscuramente aver richiamato a Lucrezio la sua personale immagine dell’umanità. Per questo motivo egli fa proprio il racconto di Tucidide. Esso diventa non la mera climax fisica dei fenomeni fisici del VI libro, ma il culmine morale dell’intero poema. Mentre Tucidide menziona la peste come un esempio utile per le future generazioni (II 48, 3), Lucrezio la assume come un simbolo del presente stato di malattia mentale».
[3] Salemme C., Strutture semiologiche nel De rerum natura di Lucrezio, Napoli 1980, 86-87: «A motivare l’episodio della peste di Atene e nell’espressione poetica e nella struttura generale del libro e del poema è stato proprio quel lepos, col quale è così apparentemente in contrasto. Nel brano finale Lucrezio ha dato un quadro poetico di finissima fattura: lo spunto gli veniva direttamente dall’argomento trattato prima, i morbi, prodotti dalla vis, in relazione con la summa rerum; ma i “modi” della resa del brano dovevano conferire all’episodio un tono particolarmente sostenuto e dotto, un tono attraverso il quale il lepos e la consumata perizia poetica dello scrittore dovevano celebrare la loro ultima, più scaltrita manifestazione. E, in realtà, il brano non è altro che una serie di dotte, allusive parafrasi del testo tucidideo, di accurate inserzioni, di contaminazioni da altri autori, di precise intensificazioni patetiche sulla scia della vetusta tradizione del vertere latino. Il pubblico colto, al quale il poema era in particolare destinato, non poteva non affermare la consumata perizia poetica dell’autore: in tal senso, l’intero episodio della peste d’Atene s’atteggia a preciso segno culturale e, proprio per il carattere composito e inconfondibile della sua “scrittura”, mostra le interrelazioni tra autore e destinatario dell’opera».
***
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Stock F., Peste e letteratura, in Medicina e letteratura, Atti del Convegno svoltosi a Salerno il 25 ottobre 2012, Salerno 2013, 55-75 [academia.edu].
West D., Virgil, Georgics 3.478–566 and Lucretius 6.1090–1286, in West D. – Woodman T. (eds.), Creative Imitation and Latin Literature, Cambridge 1979, 71-88 [cambridge.org].
[…] via La peste di Atene (Lucr. VI 1145-1196; 1230-1286) — Studia Humanitatis – παιδεία […]
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