La vita ritirata e la vera libertà (Sᴇɴ. 𝐸𝑝. 𝑎𝑑 𝐿𝑢𝑐. VIII 1-3; 6-7)

da F. PIAZZI, A. GIORDANO RAMPIONI, Multa per aequora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina, 3. L’alto e il basso Impero, Bologna 2004, pp. 112-113; e da A. BALESTRA et al. (eds.), In partes tres. 3. L’età imperiale, Bologna 2016, p. 122. Cfr. Seneca, Lettere morali a Lucilio, a cur. di F. SOLINAS, Milano 2010, pp. 593-595.

Nell’epistola VIII Seneca svolge un’appassionata difesa della vita ritirata vista non come inattività, ma come momento di riflessione per essere utile a tutti gli uomini, anche ai posteri. L’impossibilità di agire utilmente sulla vita pubblica (Nerone lo aveva privato di ogni influenza sugli affari politici) indusse Seneca a dedicarsi all’otium filosofico; ma rimase in lui il desiderio di prodesse, “giovare”, e nello studium egli trovò modo di farlo, insegnando quell’autosufficienza che era presupposto essenziale della libertà.

Filosofo o pedagogo. Affresco, 60 d.C. c. dal cubiculum H della Villa romana di Boscoreale. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

 

[1] «Tu me» inquis «uitare turbam iubes, secedere et conscientia esse contentum?[1] ubi illa praecepta uestra quae imperant in actu mori?»[2]. Quid? ego tibi uideor inertiam suadere? In hoc me recondidi et fores clusi, ut prodesse pluribus possem[3]. Nullus mihi per otium dies exit[4]; partem noctium studiis uindico; non uaco somno sed succumbo, et oculos uigilia fatigatos cadentesque in opere detineo. [2] Secessi non tantum ab hominibus sed a rebus, et in primis a meis rebus: posterorum negotium ago[5]. Illis aliqua quae possint prodesse conscribo; salutares admonitiones, uelut medicamentorum utilium compositiones[6], litteris mando, esse illas efficaces in meis ulceribus expertus, quae etiam si persanata non sunt, serpere desierunt. [3] Rectum iter, quod sero cognoui et lassus errando, aliis monstro […].

[6] Si haec mecum, si haec cum posteris loquor, non uideor tibi plus prodesse quam cum ad uadimonium[7] aduocatus[8] descenderem aut tabulis testamenti anulum inprimerem[9] aut in senatu candidato uocem et manum commodarem[10]? mihi crede, qui nihil agere uidentur maiora agunt: humana diuinaque simul tractant[11]. [7] Sed iam finis faciendus est et aliquid, ut institui[12], pro hac epistula dependendum. Id non de meo fiet[13]: adhuc Epicurum compilamus, cuius hanc uocem hodierno die legi: «philosophiae seruias oportet, ut tibi contingat uera libertas»[14]. Non differtur in diem qui se illi subiecit et tradidit: statim circumagitur; hoc enim ipsum philosophiae seruire libertas est […].

***

[1] Mi dici: «Proprio tu mi inviti a evitare la folla, a starmene sulle mie e a essere soddisfatto della mia coscienza? Dove sono quei precetti della vostra filosofia che impongono di morire nel pieno dell’attività?». Ma come? Ti pare che proprio io ti esorti all’inerzia? Per questo mi sono isolato e ho sprangato le porte per poter giovare a molti. Nell’inerzia non mi scorre via nemmeno un giorno: dedico una parte della notte ai miei studi; non mi lascio andare al sonno, ma ne sono vinto, e tengo fissi sul lavoro gli occhi stanchi e cadenti per la veglia. [2] Mi sono isolato non tanto dalla gente quanto dagli impegni e soprattutto dai miei impegni personali: curo gli affari dei posteri. Scrivo per loro qualcosa che possa essere utile; affido alla scrittura precetti salutari come utili ricette mediche, avendone sperimentati gli effetti sulle mie ferite, che, anche se non sono guarite del tutto, hanno cessato di estendersi. [3] La retta via, che ho conosciuto tardi e quand’ero stanco di errare, la indico agli altri […].

[6] Se mi trattengo su questi temi con me stesso, se mi rivolgo con tali argomentazioni ai posteri, non ti sembra che io sia più utile di quando mi presentavo in tribunale come avvocato difensore o imprimevo il sigillo del mio anello sulle tavole testamentarie o se impiegassi la mia voce e i miei gesti per sostenere un candidato in Senato? Credimi: quelli che sembrano non combinare nulla, svolgono le cose più importanti: trattano cose a un tempo umane e divine. [7] Ma ormai devo concludere e bisogna pagare, come sono solito, qualcosa per questa lettera. Non attingerò alle mie risorse personali: saccheggiamo, dunque, ancora una volta Epicuro, di cui oggi ho letto questa sentenza: «Bisogna che tu metta al servizio della vera filosofia, perché ti sia concessa una libertà autentica». Non subisce rimandi da un giorno all’altro chi si è sottomesso e consegnato alla filosofia: egli viene immediatamente emancipato, perché questo servire la filosofia è di per se stesso un atto di libertà […].

 

 

L’Epistula VIII rappresenta un vero e proprio compendio della morale di Seneca, sebbene il filosofo, come sua abitudine, non intenda presentarsi come una persona arrivata al culmine della saggezza, ma solo un po’ più avanti rispetto a tanti altri («avendone sperimentati gli effetti sulle mie ferite, che, anche se non sono guarite del tutto, hanno cessato di estendersi», 2). Nella lettera ritroviamo argomenti ampiamente trattati in diversi suoi scritti: per esempio, Seneca ricorda che cadere nelle passioni è frutto di un errore di valutazione in merito ai falsi beni e che, una volta preda delle passioni, la rovina è completa. Infine, torna anche al confronto tra occupati e otiosi: dopo una vita da occupatus, infatti, forse ora Seneca è finalmente giunto fra gli otiosi (VIII 6). E questa nuova condizione si traduce nella possibilità di aiutare gli altri: scrivere per esortare alla virtù non è meno utile che agire nella società (VIII 2).

Egli, insomma, ha fiducia nella possibilità di trasmettere la filosofia attraverso la scrittura e quindi pensa che la lettura rivesta una funzione di primo piano nel percorso verso la saggezza. Sappiamo che Seneca era un appassionato lettore: in un’altra lettera a Lucilio (XLVI), ricorda di aver letto un libro dalla prima all’ultima riga senza interrompersi nemmeno per mangiare e per dormire. In altre lettere specifica, però, che la lettura deve essere finalizzata allo studio («La lettura nutre l’intelligenza e la ristora – certo non senza applicazione – qualora sia affiancata dallo studio», Ep. ad Luc. LXXXIV 1, trad. F. Solinas), mentre in Ep. ad Luc. CVIII chiarisce anche come deve essere affrontata la lettura dei testi filosofici: dopo aver chiarito che i «filologi» leggono per capire a quali modelli si sia ispirato un autore e per individuare eventuali incoerenze nell’uso delle fonti, che i «grammatici» leggono per studiare gli aspetti linguistici, Seneca aggiunge che «i filosofi si devono ascoltare e leggere con il proposito di raggiungere la felicità, non per cercare di cogliere gli arcaismi o i neologismi, le metafore troppo ardite e le figure retoriche, ma i precetti utili, le massime nobili e coraggiose da mettere subito in pratica» (trad. M. Natali).

***

Note

[1] Nella lettera precedente Seneca aveva invitato Lucillio a evitare la folla, da cui è facile lasciarsi trascinare, e a disprezzare il consenso e il plauso della gente, accontentandosi dell’approvazione della propria coscienza. Secedere è termine particolarmente frequente in età imperiale per indicare il ritirarsi dalle attività pubbliche. Seneca è fra i primi scrittori a noi noti a usare il termine conscientia, come qui, in senso morale (cfr. l’espressione sibi conscium esse).

[2] Gli stoici, in polemica con gli epicurei, avevano sempre proclamato la necessità di lavorare per il bene della società e anche Seneca aveva cercato di fare la propria parte, dedicandosi all’attività politica. In realtà, Seneca raccomandava spesso la vita ritirata, ma soprattutto nelle prime fasi del percorso filosofico, quando uno spirito non ancora solido, frequentando ogni sorta di persone, avrebbe potuto corrompersi e tornare al vizio; invece, una volta che i primi gradini dell’apprendistato filosofico fossero stati superati, era auspicabile che il filosofo stoico stesse nella società e agisse lasciando che la sua virtù desse i propri frutti.

[3] Qui appare chiaramente il mutato orientamento di Seneca che, dopo il fallimento della sua azione, una volta tagliato fuori dall’attività pubblica, cercò nello studio della filosofia e nel suo insegnamento un nuovo modo di giovare agli altri.

[4] Nell’ultimo periodo della sua vita Seneca si dedicò intensamente allo studio, come risulta anche da altri passi delle lettere e delle Naturales quaestiones: «Un bisogno di stordimento in mezzo ai pericoli dell’ostilità imperiale, un desiderio di risollevare lo spirito offeso e conturbato nella pura e serena attività degli studi, fecero di lui, in quegli ultimi anni, uno scrittore e un pensatore mirabilmente operoso» (C. Marchesi).

[5] Attraverso la scrittura, Seneca riteneva di poter raggiungere, anche dal chiuso della sua casa, assai più persone nello spazio e nel tempo rispetto a quanto avrebbe potuto fare a voce. Anche Cicerone sosteneva che l’insegnamento della virtù e la trasmissione ai posteri delle regole della saggezza erano una delle principali forme in cui poteva manifestarsi la naturale tendenza dell’uomo a giovare agli altri.

[6] Il termine compositio è tecnicismo proprio della medicina antica; si ha qui forse un’allusione a un’opera Compositiones medicae di Scribonio Largo, medico personale dell’imperatore Claudio. D’altra parte, nelle pagine senecane è ricorrente la metafora della filosofia come medicina dell’anima: immagine che risale a Socrate, secondo la testimonianza di Platone.

[7] Il vadimonium era l’impegno, preso versando in garanzia una cauzione, di comparire in un determinato giorno davanti al magistrato.

[8] La parola advocatus ha qui il significato, assunto in epoca imperiale, di «difensore»; in precedenza, in età repubblicana, questo termine indicava chi era stato invitato ad assistere qualcuno in giudizio per consigli o consulenze giuridiche, ma che non poteva comunque pronunciare arringhe.

[9] Era costume in Roma convalidare un testamento imprimendo l’impronta del proprio anello e di quello dei testimoni (che avevano la funzione della firma oggi).

[10] Ancora un’attività pubblica contrapposta, nella sua utilità, allo studio.

[11] Anche Cicerone aveva affermato che la filosofia era rerum diuinarum et humanarum scientia (de off. I 153; Tusc. IV 57).

[12] Sulla consuetudine di Seneca di concludere le proprie lettere con la citazione di qualche filosofo, si vd. Ep. ad Luc. XXVI 8.

[13] Cfr. ibid.: de domo fiet numeratio.

[14] «La frase riportata è dichiaratamente riferita a Epicuro, e, secondo la tipica tecnica senecana, rielaborata con maggiore concentrazione, che mette a contatto i termini antitetici, prima distribuiti chiasticamente agli estremi del periodo: hoc enim ipsum philosophiae seruire libertas est» (A. Traina).

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