«Non abbiamo poco tempo, ne perdiamo molto» (Sᴇɴ. 𝐷𝑖𝑎𝑙. X 1)

da F. PIAZZI, A. GIORDANO RAMPIONI, Multa per aequora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina, 3. L’alto e il basso Impero, Bologna 2004, p. 118; e da A. BALESTRA et al. (eds.), In partes tres. 3. L’età imperiale, Bologna 2016, pp. 76-78.

Il dialogo De brevitate vitae rappresenta uno degli scritti in cui più chiaramente si trova l’indicazione dei primi passi che un uomo deve compiere, quando vuole mettersi in cammino per raggiungere una stabile e duratura condizione di felicità. Seneca si rivolge a Paolino, dedicatario dell’opera e suo suocero (padre di Paolina, che Seneca sposò nel 49 d.C.); il lessico è privo di tecnicismi, ma l’autore si serve della comprensione e dell’affetto necessari verso chi pare necessitare dei primi rudimenti della filosofia. Nell’esordio del dialogo si trova un assunto fondamentale: è necessario convincersi che la vita di ciascun uomo, per quanto possa risultare paradossale, è lunga a sufficienza per raggiungere la felicità. Il punto sarà capire come distribuire il proprio tempo.

Mosaico raffigurante un uomo che guarda una meridiana; l’epigrafe cita: ἐνάτη παρήλασεν («la nona è passata»). Durante la giornata degli antichi la nona era la terza ora prima del tramonto e segnava la fine di ogni attività lavorativa o pubblica. IV sec. d.C. da Daphne (Turchia). Antakya, Museo Archeologico.

[1] Maior pars mortalium, Pauline, de naturae malignitate conqueritur, quod in exiguum aeui gignimur, quod haec tam uelociter, tam rapide dati nobis temporis spatia decurrunt[1], adeo ut exceptis admodum paucis[2] ceteros in ipso uitae apparatu uita destituat. Nec huic publico, ut opinantur, malo turba tantum et inprudens uulgus ingemuit: clarorum quoque uirorum hic adfectus querellas euocauit. Inde illa maximi medicorum[3] exclamatio est, «uitam breuem esse, longam artem»[4]; [2] inde Aristotelis cum rerum natura exigentis minime conueniens sapienti uiro lis[5] est: «aetatis illam animalibus tantum indulsisse[6] ut quina aut dena[7] saecula educerent, homini in tam multa ac magna genito tanto citeriorem terminum stare[8]».

[3] Non exiguum temporis habemus, sed multum perdimus[9]. Satis longa uita[10] et in maximarum rerum consummationem[11] large data est, si tota bene conlocaretur[12]; sed ubi per luxum ac neglegentiam diffluit[13], ubi nulli bonae rei[14] inpenditur, ultima demum necessitate cogente[15] quam ire non intelleximus transisse sentimus[16]. [4] Ita est: non accipimus breuem uitam sed facimus nec inopes eius sed prodigi sumus[17]. Sicut amplae et regiae opes, ubi ad malum dominum peruenerunt, momento dissipantur[18], at quamuis modicae, si bono custodi[19] traditae sunt, usu crescunt[20], ita aetas nostra bene disponenti multum patet[21].

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[1] La maggior parte dei mortali, Paolino, si lamenta per la malignità della natura, perché siamo messi al mondo per un breve spazio di tempo, perché questo lasso a noi concesso trascorre così velocemente, così in fretta che, tranne pochissime persone, la vita pianta in asso gli altri proprio nel momento in cui si preparano alla vita. Né di tale comune calamità, come credono, si è lamentata solo la gente e il popolo ignorante; questo sentimento ha suscitato le lamentele anche dei personaggi illustri. Da qui deriva la famosa sentenza del più grande fra i medici: «La vita è breve, l’arte lunga»; [2] di qui la controversia, poco decorosa per un saggio, di Aristotele, che si mette a discutere con la natura: «Ha concesso agli animali tanto tempo, che possono vivere ciascuno cinque o dieci generazioni, mentre un termine tanto più breve è stato riservato per l’uomo, nato per azioni tanto numerose e grandi».

[3] Noi non disponiamo di poco tempo, ma ne perdiamo molto. La vita è sufficientemente lunga e ci è stata data con larghezza per la realizzazione delle imprese più grandi, se fosse messa a frutto tutta intera con attenzione; ma quando essa scivola via nel lusso e nell’indifferenza, quando non viene spesa per nulla di buono, una volta che l’ora estrema ci incalza, ci accorgiamo che è trascorsa quella che non abbiamo capito che stava passando. [4] Già: non riceviamo una vita breve, ma breve l’abbiamo resa noi, e non ne siamo poveri, ma prodighi. Come sontuose e regali ricchezze, venute in mano a un cattivo padrone, sono dissipate in un attimo, mentre, benché modeste, se sono state affidate a un buon amministratore, crescono con l’impiego, così la nostra vita molto si estende, per chi la sa bene organizzare.

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Un breve dialogo d’occasione

Secondo la maggior parte degli studiosi, il De brevitate vitae fu composto nel 49 d.C., poco dopo il ritorno dall’esilio, quando a Seneca non era ancora giunta la chiamata a corte come precettore di Nerone. Il libello, assai breve (20 capitoletti), pare inserirsi nella scia delle numerosi opere filosofiche che, a partire dall’inizio dell’Ellenismo, riflettevano su come utilizzare positivamente il tempo della vecchiaia e che prendevano di solito le mosse da considerazioni sulla brevità della vita umana: nella letteratura latina, per esempio, sullo stesso tema si legge il Cato Maior de senectute di Cicerone. L’apparente garbato manierismo dell’opera senecana viene però smentito dal fatto che, sviluppando la tesi iniziale, il filosofo giunge, nei capitoli centrali dell’opera, a conclusioni sul valore del tempo assai importanti, che sarebbero rimasti fondamentali nel suo pensiero.

La scelta dell’argomento dipende probabilmente dall’occasione in cui l’opuscolo fu redatto: Seneca, sulla soglia dei cinquant’anni, risolte le travagliate vicende che lo avevano portato in esilio, forse pensava di ritirarsi a vita privata, come il dedicatario Pompeo Paolino, suo suocero, di poco più anziano di lui; è probabile, infatti, che anche Paolino proprio allora intendesse lasciare il delicato – e lucroso – incarico di prefetto dell’annona (l’ufficio incaricato di rifornire l’Urbe delle derrate necessarie alle distribuzioni di olio, vino e frumento alla plebe).

Una brillante conferenza

L’andamento del De brevitate vitae sembra richiamare le caratteristiche dei testi che gli oratori predisponevano per le recitazioni: vere e proprie conferenze, spesso tenute in ambito privato. In questo testo, infatti, si può riconoscere una veste retorica abilmente studiata, che si muove su due piani, quello stilistico e quello concettuale.

A livello stilistico, sono particolarmente curate la scelta e la disposizione delle parole. Anche solo soffermandoci sull’esordio, si notano espressioni di tono epico, come il sostantivo mortalium per «uomini» (I 1) e le perifrasi exiguum aeui e dati… temporis spatia, ma anche le insistenze su termini affini etimologicamente (decurrant e destituat, conqueritur e querellas, malignitate e malo) o semanticamente (aeui e temporibus). La letterarietà del passo è evidente anche nel richiamo all’incipit del Bellum Iugurthinum di Sallustio (Falso queritur de natura sua genus humanum, quod inbecilla atque aevi brevis forte potius quam virtute regatur, Jug. 1). Particolarmente cara a Seneca è anche l’abitudine di evitare parallelismi troppo evidenti, variando un elemento del costrutto, come si evidenzia nell’alternanza di indicativo e di congiuntivo nelle due brevi causali iniziali (gignimur… decurrant, con variatio anche della persona). Infine, si può notare l’antitesi brevem / longam (1, 1) messa in evidenza dal chiasmo vitam brevem… longam artem, assente nell’originale greco di Ippocrate, Aph. 1, 1: ὁ βίος βραχὺς, ἡ δὲ τέχνη μακρὴ.

Argomentare per induzione

Dal punto di vista concettuale, si può notare che il testo, proprio perché probabilmente pensato per un’agile conferenza, non si sviluppa mediante argomentazioni rigorosamente fondate sul processo logico deduttivo, ossia non procede per sillogismi con la deduzione di verità particolari da assunti generali: Seneca sceglie di agire più sulla sfera emotiva che su quella razionale dell’ascoltatore. Dopo aver evidenziato la tesi con un’icastica sententia (procedimento frequente nelle sue opere) a 1, 3 (Non exiguum temporis habemus, sed multum perdidimus), l’oratore “martella” l’ascoltatore replicando il concetto con leggere variazioni (Satis longa vita et in maximarum rerum consummationem large data est, 1, 3; non accipimus brevem vitam sed fecimus, 1, 4).

Le sententiae hanno tutte una natura vagamente paradossale, ne senso che sembrano in contrasto con quella che potrebbe essere l’opinione comune. L’uso di paradossi, oltre a essere caratteristico della scuola stoica e richiamare il modo di argomentare di Socrate (del quale, per esempio, è assai nota l’affermazione di «sapere di non sapere»), è un modo per incuriosire l’ascoltatore. L’esordio stesso, con la confutazione di una massima di Aristotele, filosofo di indubbia autorevolezza, ha il sapere di una sfida all’ascoltatore. L’argomentazione vera e propria è affidata a un esempio (Sicut… patet, 1, 4), in modo che l’ascoltatore ricavi intuitivamente da un caso particolare una verità generale, con metodo opposto rispetto a quello sillogistico. La similitudine è tratta dall’ambito finanziario, forse per catturare meglio l’interesse di Paolino, persona che nella propria vita professionale si era occupata di finanza.

Anche nel resto dell’opera la validità della tesi sarà sostenuta da numerosi esempi, da imitare o da respingere.

L’essere e il tempo

Il tema del tempo in Seneca percorre molte pagine della sua opera, dai dialoghi alle Epistulae ad Lucilium, in cui significativamente viene trattato già nella prima lettera. Ma «il tempo in Seneca non è mai puro oggetto di speculazione, come sarà in Agostino; è il tempo vissuto nell’ansia della sua fugacità» (A. Traina). Da qui il bisogno di riconquistarlo all’insegna della qualità. Quando abbiamo qualcosa in quantità ridotta rispetto a quello che desidereremmo, ecco che scatta il desiderio di possederlo almeno al meglio. Così Seneca sia nel De brevitate vitae, opera tutta incentrata sulla durata della vita umana e l’uso che ne fa l’individuo, sia in numerose lettere ribadisce più volte che la vita non è breve, come per lo più si afferma, ma tale appare perché se ne fa un cattivo uso (de brev., 1, 4); che bisogna rimpossessarsi del tempo che ci viene portato via perché è l’unica cosa che veramente ci appartiene (Ep. ad Luc. I, 1); che bisogna vivere il presente e nel presente perché è l’unico tempo su cui si può contare per cercare di raggiungere la perfezione morale, fine ultimo del sapiens, per il quale, unico, la vita è abbastanza lunga. Una valutazione qualitativa del tempo, dunque, che esclude passato e futuro che non ci appartengono se non come «dimensioni psichiche», un invito alla vita interiore.

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Note

[1]quod gignimur, quod decurrunt: i due quod individuano due proposizioni causali; la prima ha l’indicativo ed esprime oggettività, mentre la seconda ha il congiuntivo ed esprime la valutazione soggettiva dei parlanti (cong. obliquo). haecspatia: questo iperbato ne contiene a sua volta un altro, dati… temporis.

[2] exceptispaucis: ablativo assoluto con valore temporale.

[3] Si tratta di Ippocrate di Cos (460-377 a.C. ca.).

[4] È la traduzione latina di una massima attribuita a Ippocrate (Aforismi 1, 1), il cui significato probabilmente è che non è sufficiente lo spazio di una vita, ma è necessario il lavoro di generazioni, per conoscere i segreti dell’arte medica.

[5] inde Aristotelislis: il soggetto è lis, che ha come participio congiunto conveniens, completato dal dativo sapienti viro (participio e sostantivo); exigentis è participio congiunto con Aristotelis, complemento di specificazione del soggetto.

[6] aetatisindulsisse: la proposizione infinitiva sottintende un verbo di dire che la introduce; illam è la «natura», soggetto dell’infinitiva; indulsisse ha sia il complemento oggetto (tantum da unire a aetatis, genitivo partitivo), sia il complemento di termine, animalibus.

[7] quinadena: aggettivi numerali distributivi.

[8] hoministare: proposizione infinitiva unita alla precedente mediante asindeto avversativo; genito è participio attributivo del complemento di vantaggio homini; il soggetto dell’infinitiva è terminum, lett. «cippo miliare», che allude metaforicamente alla vita come strada da percorrere. Non è noto se la massima attribuita ad Aristotele risalga proprio a quest’ultimo: da Cicerone (Tusc. III 69), infatti, è attribuita a Teofrasto (371-287 a.C.), successore del filosofo nella direzione della scuola peripatetica.

[9] Non exiguum perdimus: in questa frase è compendiato tutto il pensiero di Seneca riguardo il rapporto che ha l’uomo (non così sapiens) con il tempo della vita, pensiero che trova la sua espressione nello schema compositivo, frequente nei suoi scritti, non… sed; exiguum… multum: reggono entrambi il genitivo di qualità temporis. La contrapposizione fra la prima e la seconda parte della frase continua a livello semantico; perdidimus è perfetto (da perdo, -is, perdidi, perditum, –ere che indica il «perdere inutilmente con il proprio fare») risultativo: «Seneca guarda al passato da un presente già compromesso» (Traina).

[10] Satis longa vita: è la risposta dell’autore a quanti affermano, lamentandosene, che la vita è breve.

[11] in maximarum consummationem: «per il compimento…»; consummare è composto da cum + summare (da summa), cioè «fare la somma».

[12] data estconlocaretur: periodo ipotetico misto in cui la protasi, di I tipo (obiettività), dice ciò che effettivamente la natura dà all’uomo (una vita abbastanza lunga), l’apodosi, di III tipo (irrealtà), ciò che l’uomo non fa (cioè non la fa fruttare); il verbo conlocaretur è qui usato nel senso tecnico di «mettere a frutto», proprio del lessico finanziario. Spesso nelle sue opere, Seneca parla del tempo attraverso metafore tratte dal campo della finanza: il tempo è un «capitale» che può essere «messo a frutto» o dilapidato; ciascuno è «amministratore» del proprio tempo.

[13] per luxumdiffluit: «scivola via nel lusso e nell’indifferenza»; diffluo (composto di dis + fluo) indica «lo scorrere in diverse parti» e di conseguenza il perdersi in mille rivoli; per con accusativo ha valore strumentale.

[14] nulli bonae rei: dativo di fine.

[15] ultima cogente: ablativo assoluto; con ultima necessitas Seneca vuole indicare eufemisticamente la morte.

[16] quam sentimus: «ci accorgiamo che è trascorsa quella che non abbiamo capito che stava passando»; la contrapposizione fra i sinonimi intellegere / sentire affida la comprensione la prima all’intelletto, la seconda ai sensi, come l’antitesi fra ire / transisse è soprattutto nel valore temporale.

[17] non accipimussumus: con lo stesso movimento antitetico Seneca esprime il concetto del non habemus… sed perdidimus; uguale è anche la contrapposizione temporale presente/passato dei verbi. nec inopessumus: Seneca sottolinea con vigore il concetto riprendendolo e in tal modo rinforzandolo.

[18] momento dissipantur: «sono dissipate in un attimo»; dissipare (da dis + spargo), il cui significato etimologico è «spargere qua e là», viene usato, conservandone l’immagine, come termine proprio, riferito a sostanze e patrimoni.

[19] bono custodi: buon custode delle ricchezze, quindi «buon amministratore».

[20] usu crescunt è contrapposto a momento dissipantur.

[21] aetas nostra… patet: «la nostra vita molto si estende, per chi la sa bene organizzare»; in aetatem disponere c’è l’idea del disporre in ordine, distribuire il tempo.

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