di G. GARBARINO, L. PASQUARIELLO (eds.), Veluti flos. Cultura e letteratura latina: testi, temi, lessico, Torino 2012, pp. 738-740; 742-743.
Seneca ha appreso con piacere che l’amico Lucilio tratta i suoi servi con familiarità. Allo spunto iniziale, colto da un episodio occasionale, il filosofo fa seguire alcune considerazioni di carattere etico desunte dallo Stoicismo antico, per confutare certe opinioni sulla schiavitù tanto diffuse quanto false. Tutti gli uomini sono partecipi della ragione, che compenetra l’intero universo, e sono, di conseguenza, uguali. Anche i servi, dunque, hanno piena dignità di uomini, sono compagni di abitazione, amici di umile condizione e soggetti – come tutti – alle bizzarrie della sorte. Eppure, essi sono considerati alla stregua delle bestie da padroni crudeli e arroganti, come se la condizione servile fosse uno stato connaturato. Al momento del pasto, in particolare, sono obbligati ad assistere in piedi, immobili e in silenzio, agli eccessi del padrone e degli ospiti.
Nella prospettiva delineata da Seneca, ogni relazione interpersonale, anche tra individui appartenenti a ordines differenti, si dovrebbe fondare sul rispetto reciproco e non sulla paura: tuttavia, l’organizzazione della società romana, basata sullo sfruttamento di manodopera servile, non viene qui condannata né posta in discussione.

[1] Libenter ex iis qui a te ueniunt cognoui familiariter te cum seruis tuis uiuere: hoc prudentiam tuam, hoc eruditionem decet. «Serui sunt». Immo homines. «Serui sunt». Immo contubernales. «Serui sunt». Immo humiles amici. «Serui sunt». Immo conserui, si cogitaueris tantundem in utrosque licere fortunae. [2] Itaque rideo istos qui turpe existimant cum seruo suo cenare: quare, nisi quia superbissima consuetudo cenanti domino stantium seruorum turbam circumdedit? Est ille plus quam capit, et ingenti auiditate onerat distentum uentrem ac desuetum iam uentris officio, ut maiore opera omnia egerat quam ingessit. [3] At infelicibus seruis mouere labra ne in hoc quidem, ut loquantur, licet; uirga murmur omne conpescitur, et ne fortuita quidem uerberibus excepta sunt, tussis, sternumenta, singultus; magno malo ulla uoce interpellatum silentium luitur; nocte tota ieiuni mutique perstant. [4] Sic fit ut isti de domino loquantur quibus coram domino loqui non licet. At illi quibus non tantum coram dominis sed cum ipsis erat sermo, quorum os non consuebatur, parati erant pro domino porrigere ceruicem, periculum inminens in caput suum auertere; in conuiuiis loquebantur, sed in tormentis tacebant.
[1] Ho sentito con piacere di persone provenienti da Siracusa che i suoi servi in modo familiare: questo comportamento si confà alla tua saggezza e alla tua istruzione. «Sono servi». No, sono uomini. «Sono servi». No, vivono nella tua stessa casa. «Sono servi». No, sono umili amici. «Sono servi». No, compagni di schiavitù, se rifletti sul fatto che la sorte abbia ugual potere su noi e su loro. [2] Perciò, me la rido di chi giudica disonorevole cenare in compagnia del proprio servo; e per quale motivo, poi, se non perché è una consuetudine dettata dalla più grande superbia che intorno al padrone, mentre si mangia, ci sia una turba di servi in piedi? Egli si abbuffa oltre la capacità del suo stomaco e con grande avidità riempie il ventre rigonfio ormai disavvezzo alle sue funzioni: è più affaticato a vomitare il cibo che a ingerirlo. [3] Ma a quei servi infelici non è dato neppure di muovere le labbra per parlare: ogni bisbiglio è represso con il randello e non sfuggono alle percosse neppure i rumori casuali, la tosse, gli starnuti, il singhiozzo: interrompere il silenzio con una parola si sconta a caro prezzo; devono stare tutta notte in piedi, digiuni e zitti. [4] Così accade che costoro, che non possono parlare in presenza del padrone, ne parlino male. Invece, quei servi che potevano parlare non solo in presenza dei padroni, ma anche con il padrone medesimo, quelli che non avevano la bocca cucita, erano pronti a offrire la propria testa per lui e a stornare su di sé un pericolo che lo minacciasse; parlavano durante i banchetti, ma tacevano sotto tortura.

«Servi sunt». Immo homines. | Secondo il diritto romano, i servi facevano parte del patrimonio del pater familias, che li impiegava come se fossero strumenti, a proprio totale arbitrio. Fin dai tempi più antichi, egli esercitava un potere assoluto, con diritto di vita e di morte, su tutti i componenti della familia – moglie e figli compresi.
Nel mondo antico il passaggio dalla condizione di liber a quella di servus poteva avvenire in modo drammatico e cruento: il condottiero vincitore di una guerra aveva il diritto di ridurre in schiavitù i propri prigionieri, che a Roma erano venduti all’asta a beneficio di tutta la civitas. A partire dal III secolo a.C., con le Guerre puniche e poi con le campagne di conquista dell’Oriente ellenistico, la disponibilità di schiavi e il loro commercio ebbero un impressionante incremento.
A Roma esisteva anche la schiavitù per debiti, di solito di durata limitata nel tempo, che consegnava come servus al creditore il debitore insolvente. Inoltre, molti bambini nati liberi, rapiti o non riconosciuti dal pater familias ed esposti, diventavano proprietà di chi li raccoglieva e li allevava, e poteva decidere di venderli o sfruttarli personalmente (per esempio, nella prostituzione): situazione, quest’ultima, rispecchiata molto spesso nelle trame delle commedie, anche se, nella realtà, forse, il lieto fine (cioè il ritrovamento della famiglia d’origine e il recupero della libertas) non doveva essere molto frequente.
Infine, si poteva nascere già servi, in quanto figli degli schiavi di un padrone. La schiavitù, peraltro, non era una condizione irreversibile: attraverso l’istituto della manumissio era possibile passare allo status di libertus, o per generosa concessione del padrone o con il pagamento della somma necessaria al riscatto, di cui molti schiavi potevano disporre attingendo al loro peculium (una somma di denaro messa da parte, frutto di regali o del compenso per lavori accessori).

A Roma, e in molte città del suo dominio, esistevano per gli schiavi veri e propri mercati: nel I secolo a.C. particolarmente fiorente fu quello sull’isola di Delo, nelle Cicladi. La merce era esposta su un palco e ogni schiavo portava al collo un cartello (titulus), contenente informazioni essenziali sul soggetto messo in vendita (nome, provenienza, età, pregi e difetti): i compratori potevano scegliere, a seconda delle proprie esigenze, giovinetti graziosi da esibire come coppieri nei banchetti, abili cuochi, flautiste, ballerine, ancelle, persone istruite da impiegare come precettori per i propri figli, amministratori, contabili, copisti, ecc. Il prezzo variava in base all’età, all’aspetto e alle competenze dello schiavo.
Le condizioni dei servi variavano notevolmente a seconda delle mansioni loro assegnate. In generale, anche se tutti potevano essere sottoposti a pene corporali molto dure, quelli della familia urbana, che si occupavano dell’andamento della casa e delle necessità del padrone e dei suoi congiunti, godevano di una situazione incomparabilmente migliore rispetto agli schiavi della familia rustica, adibiti a lavori molto pesanti e soggetti a una disciplina più rigida, come ben testimoniano le figure servili della commedia, sempre terrorizzate alla prospettiva di essere mandati – per punizione – a lavorare la terra o a girare la macina. Ancora peggiore era la condizione di quelli impiegati nelle miniere o addestrati nelle scuole dei gladiatori, ambiente in cui prese forma la più famosa delle rivolte servili dell’antichità, quella capeggiata da Spartaco, che tenne testa per tre anni (73-71 a.C.) gli eserciti regolari della res publica.

A parte l’uccisione del padrone, la colpa più grave che un servus potesse commettere era la fuga: egli, infatti, apparteneva al proprio padrone, il quale poteva disporre di lui come meglio credeva. Nonostante questa realtà, mai messa seriamente in discussione nel mondo antico, sono attestati rapporti assai vari tra schiavi e padroni. Mentre, ad esempio, il De agri cultura di Catone rappresenta perfettamente la concezione utilitaristica, che considera i servi meri strumenti e adegua al vantaggio che se ne può trarre il trattamento da riservare loro, molte lettere dell’epistolario di Cicerone mostrano che egli nutriva per il suo dotto schiavo, e poi liberto, Tirone, sentimenti di vero affetto, stima e amicizia. Anche Seneca, sia pure con un atteggiamento condiscendente e non privo di risvolti utilitari, nell’Epistula 47 elogia e approva Lucilio perché tratta familiarmente i propri servi.
[…] Come trattare i servi (Sen. ad Luc. V 47, 1-4) — Studia Humanitatis – παιδεία […]
"Mi piace""Mi piace"