Lesbia, il passerotto e Catullo (Catull. Carm. II)

di CONTE G.B. – PIANEZZOLA E., Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 1. L’età arcaica e repubblicana, Milano 2010, pp. 651-653.

Il poeta osserva o ricorda i giochi del passer e della donna amata e li schizza in pochi versi. La composizione slitta dalla descrizione vivace a un livello più intimo di riflessione: Lesbia trova in questo modo un qualche sollievo al tormento d’amore, mentre Catullo sa che le proprie graues curae non possono placarsi neppure per poco tramite un passatempo così lieve.

 

Passer, deliciae meae puellae,

quicum ludere, quem in sinu tenere,

cui primum digitum dare adpetenti

et acris solet incitare morsus,

5   cum desiderio meo nitenti

carum nescio quid libet iocari

et solaciolum sui doloris,

credo, ut tum grauis adquiescat ardor,

tecum ludere sicut ipsa possem

10 et tristis animi leuare curas!

 

Passero, gioia della mia ragazza,

che gioca con te, che ti tiene in grembo,

a te che balzelli porge la punta del dito,

ed è solita provocare le tue dure beccate,

5   quando al mio fulgido desiderio

piace fare un non so che caro gioco,

e un piccolo sollievo al suo dolore,

io credo, perché allora si plachi il tormento della passione:

potessi anch’io giocare, come lei, con te,

10 e alleviare i tristi affanni del cuore!

 

Edward Poynter, Lesbia e il suo passero. Olio su tela, 1907.

Dietro l’impressione di immediatezza espressiva, il carme mostra una struttura calibrata: l’esclamazione conclusiva, dove tecum (v. 9) si ricollega a Passer (v. 1), chiudendo circolarmente la composizione, si innesta su un lungo e ininterrotto periodo, sviluppato per otto versi divisi in due gruppi di quattro.

I vv. 1-4, infatti, presentano il passer e la sua stretta relazione con la puella: all’apostrofe (v. 1) segue la descrizione dei giochi in una serie di tre proposizioni relative di ampiezza crescente (tricolon ascendente), messa in rilievo dall’anafora del pronome variato dal poliptoto (quicum…, quem…, cui…, vv. 2-3), a sua volta seguita da una quarta frase relativa più sciolta, con pronome sottinteso (v. 4). Nei vv. 5-8 il lieve bozzetto digrada verso un tono più intimo e personale: l’accento si sposta dall’uccellino (vv. 1-4) alla donna (vv. 5-8). Al v. 6 iocari riprende ludere del v. 2: un elemento di circolarità che chiude la scena del gioco, in opposizione al ludere impossibile del v. 9. Dal gioco si passa nei vv. 7-8 alla sua funzione di sollievo dalle curae d’amore; entra in scena esplicitamente il punto di vista del poeta con credo (v. 8), che attribuisce alle schermaglie leggere fra la donna e il passer un significato profondo: la puella con quel passatempo cerca di lenire la sua pena d’amore (dolor, grauisardor).

Così, la sezione centrale su Lesbia fa da tramite tra i momenti leggeri del passer e le tristis curae dell’uomo: il poeta conclude con una nota di rimpianto per una dimensione della passione più superficiale, più facile da controllare e placare, come è appunto quella di Lesbia, mentre il suo tormento d’amore non è riconducibile a un gioco leggero, reale o letterario.

Il legame affettivo della puella con il passer è sottolineato con evidenza al v. 1 attraverso il triplice omoteleuto deliciae meae puellae. Il diminutivo solaciolum (v. 7) appartiene alla lingua d’uso e ricorre soltanto qui nel latino classico: l’uso dei diminutivi, del resto, è un tratto tipico della poesia neoterica. Qui il diminutivo affettivo connota sia il rapporto di intimità fra passer e padroncina sia lo sguardo affettuoso e deliziato del poeta che ritrae la scena.

Il sentimento di Lesbia è designato al v. 7 con dolor, termine generico, impiegato da Catullo in contesto erotico soltanto in questo passo, dove è specificato al verso seguente da grauis… ardor, che invece appartiene proprio al lessico erotico: ardor, infatti, da ardeo («bruciare») rimanda alla tradizionale metafora della fiamma d’amore (in particolare, Catullo predilige il verbo uror, «bruciare»). Anche il termine curae (v. 10), con cui il poeta definisce il proprio sentimento, è proprio del lessico erotico.

Giardino con fontana e passero fra le fronde (dettaglio). Affresco, 14-37 d.C. c. dalla Casa del Bracciale d’oro, Insula occidentalis 42, Pompei.

Al v. 5 la puella è indicata con la metonimia desiderium (secondo un uso corrispondente a quello del greco πόθος), che appartiene alla lingua degli affetti. Cicerone, per esempio, chiama così la moglie Terenzia: mea lux, meum desiderium, ad fam. XIV 2, 2. Ma desiderium si utilizza, in genere, per designare «la persona di cui si sente la mancanza»: nella scelta di questo termine, così come nell’uso del generico dolor (v. 7), si è voluta riconoscere la spia di un distacco forzato dei due amanti.

In base a questi riferimenti lessicali, dunque, il carme è stato collocato in un momento di separazione degli amanti, messi a dura prova dalla lontananza: sembra, però, preferibile non ricostruire in base a pochi e generici indizi una tappa altrimenti sconosciuta del “romanzo” d’amore catulliano. Nel carmen 2, infatti, il poeta si limita a osservare con quanta facilità e aggraziata compostezza Lesbia trovi distrazione e sollievo dalla passione – che per lui, invece, è un tormento incessante.

Alcuni interpreti, però, si spingono oltre e individuano uno scarto ironico tra il sentimento profondo che anima il poeta e il più superficiale coinvolgimento della donna. Al distacco fisico si sommerebbe, dunque, una diversità di sentire, un distacco spirituale: ma i presunti segnali dell’ironia (carum nescium quid, credo, solacium) risultano troppo velati (si è troppo lontani dai toni con cui Catullo esprime delusione e distacco da Lesbia). Anzi, l’autocontrollo mostrato dalla ragazza, condito con la leggerezza e la grazia della situazione, non fa che accrescere agli occhi del poeta il fascino irresistibile dell’amata.

Apprezzato dagli antichi come animale da compagnia, il passer non è il comune passerotto, ma il cosiddetto “passero solitario”, dal canto melodioso e più facile da addomesticare. Poiché il passero era animale caro ad Afrodite/Venere (nel fr. 1 Voigt di Saffo, la famosa preghiera alla dea, il cocchio con cui ella scende sulla Terra è appunto trainato da questi uccellini), è stato ipotizzato che si trattasse di un dono da innamorati e, in questo caso, di Catullo a Lesbia.

 

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