di N. ABBAGNANO, Storia della filosofia. 1. Il pensiero greco e cristiano: dai Presocratici alla scuola di Chartres, Novara 2006, 39-52.
La tradizione ha complicato di tanti elementi leggendari la figura di Pitagora che riesce difficile delinearla nella sua realtà storica. Gli accenni di Aristotele si limitano a poche e semplici dottrine, riferite per di più non a Pitagora stesso, ma, in generale, ai Pitagorici; e se la tradizione si arricchisce a misura che si allontana nel tempo dal Pitagora storico, questo è segno evidente che si arricchisce di elementi leggendari e fittizi, che poco o nulla hanno di veramente storico.

Figlio di Mnesarco, Pitagora nacque a Samo, probabilmente intorno al 571/70 a.C., venne in Italia nel 532/1 e morì nel 497/6. Si dice che sia stato discepolo di Ferecide di Siro e di Anassimandro e che abbia viaggiato in Egitto e nei paesi del Medio Oriente. Certo è soltanto che da Samo emigrò nella Magna Grecia e prese dimora a Crotone, dove fondò una scuola che fu insieme un’associazione religiosa e politica. La leggenda rappresenta Pitagora come profeta e operatore di miracoli; la sua dottrina gli sarebbe stata trasmessa direttamente dal suo nume tutelare, Apollo, per bocca della sacerdotessa di Delfi, Temistoclea[1].
È assai probabile che Pitagora non abbia lasciato scritto nulla. Aristotele, infatti, non conosce nessun suo testo e l’affermazione di Giamblico che gli scritti dei primi Pitagorici fino a Filolao sarebbero stati conservati come secreto della scuola, non vale se non come una prova del fatto che, anche più tardi, non si possedevano scritti autentici del maestro, anteriori proprio a Filolao[2]. Posto ciò, è molto difficile riconoscere nel Pitagorismo la parte che spetta al suo fondatore. Una sola dottrina, invero, gli può essere attribuita con tutta certezza: quella della sopravvivenza dell’anima dopo la morte e della sua trasmigrazione in altri corpi. Secondo questa dottrina, che fu fatta propria da Platone, il corpo è una prigione per l’anima, che vi è stata rinchiusa dalla divinità per punizione. Finché l’anima è nel corpo, essa ha bisogno del corpo perché solo per mezzo di esso può sentire; ma quando ne è fuori, essa vive in un mondo superiore una vita incorporea. A questa vita l’anima ritorna, se si è purificata durante la vita corporea; in caso contrario, essa riprende, dopo la morte, la catena delle trasmigrazioni[3].

La scuola di Pitagora, come si accennava, fu un’associazione religiosa e politica, oltre che filosofica in senso stretto. Pare che l’ammissione alla società fosse subordinata a prove rigorose e all’osservanza di un silenzio di vari anni. Nei più alti gradi, inoltre, i Pitagorici vivevano in piena comunione dei beni. Ma di tutte queste notizie il fondamento storico è assai poco sicuro. Molto probabilmente il Pitagorismo fu una delle tante sette celebratrici di misteri ai cui iniziati veniva imposta una certa disciplina e certe regole di astinenza, che non dovevano essere gravose. Il carattere politico della setta ne determinò, però, la rovina. Contro il governo aristocratico, tradizionale nelle città magnogreche, al quale avevano dato il proprio appoggio i membri dell’associazione, si determinò un movimento democratico che provocò rivoluzioni e tumulti.
I Pitagorici furono resi oggetto di persecuzioni: le sedi della loro scuola furono date alle fiamme, essi stessi furono massacrati o costretti all’esilio; e solo in seguito, dopo alterne vicende, i fuoriusciti poterono rientrare in patria. È probabile che Pitagora fosse stato costretto a lasciare Crotone per Metaponto proprio a causa di quei rivolgimenti.
Dopo la diaspora delle comunità pitagoriche in Italia meridionale si ha notizia di filosofi di questo indirizzo anche fuori della Magna Grecia. Il primo di essi è Filolao, che era contemporaneo di Socrate e di Democrito e visse a Tebe negli ultimi decenni del V secolo a.C. Nello stesso periodo, Platone colloca Timeo di Locri, dell’esistenza storica del quale non si è nemmeno tanto sicuri. Nella seconda metà del IV secolo a.C. il Pitagorismo assunse nuova importanza politica per opera di Archita, tiranno di Taranto, di cui fu ospite lo stesso Platone durante il suo viaggio in Magna Grecia. Dopo il Tarentino, la filosofia pitagorica sembra essersi estinta anche in Italia. Si rifaceva al Pitagorismo, anche se non è stato (come alcuni sostengono) scolaro di Pitagora, il medico Alcmeone di Crotone, che riprese alcune dottrine della scuola; costui è notevole soprattutto per aver posto nel cervello l’organo della vita spirituale dell’uomo.
La dottrina dei Pitagorici aveva essenzialmente carattere religioso: lo stesso Pitagora si mostrava come depositario di una sapienza che gli era stata trasmessa dalla divinità; a questa sapienza i suoi discepoli non potevano apportare alcuna modificazione, ma dovevano rimanere fedeli alle parole del maestro (ipse dixit). Inoltre, gli scolari erano tenuti a conservare il segreto e, perciò, la scuola si ammantava di misteri e di simboli che velavano il significato dei suoi insegnamenti ai profani.

La dottrina fondamentale dei Pitagorici è che la sostanza delle cose sta nel numero. Secondo Aristotele, i Pitagorici, che erano stati i primi a far progredire la matematica, credevano che i principi della disciplina fossero quelli di tutte le cose[4]; e poiché i principi della matematica sono i numeri, parve loro di vedere in essi, più che nel fuoco, nella terra o nell’aria, molte somiglianze con le cose che sono o che divengono. Aristotele, quindi, riteneva che i Pitagorici avessero attribuito al numero quella funzione di causa materiale che gli Ionici avevano assegnato a un elemento corporeo: il che è un’indicazione senza dubbio preziosa per intendere il significato del Pitagorismo, ma non è ancora sufficiente a renderlo chiaro.
In realtà, se gli Ionici per spiegare l’ordine del mondo avevano fatto ricorso a una sostanza corporea, i Pitagorici facevano di quell’ordine stesso la sostanza dell’universo. Il numero come sostanza del mondo, dunque, è l’ipostasi dell’ordine misurabile dei fenomeni. La grande scoperta dei Pitagorici – quella che ne determinò l’importanza nella storia della scienza occidentale – consiste appunto nella funzione fondamentale che essi avevano riconosciuto alla misura matematica per intendere l’ordine e l’unità del cosmo. Del resto, l’ultima fase del pensiero platonico sarebbe stata dominata dalla medesima preoccupazione, ovvero trovare quella scienza della misura che fosse, al contempo, il fondamento dell’essere in sé dell’essenza umana. Per primi i Pitagorici hanno dato espressione tecnica all’aspirazione fondamentale dello spirito ellenico verso la misura, quell’aspirazione che Solone esprimeva dicendo: «La cosa più difficile di tutte è cogliere l’invisibile misura della conoscenza, che è la sola a disporre i limiti di tutte le cose»[5]. Come sostanza del mondo, il numero è il modello originario delle cose, giacché costituisce, nella sua perfezione ideale, l’ordine in esse implicito[6].

Il concetto di numero come ordine misurabile consente di eliminare l’ambiguità tra significato aritmetico e significato spaziale del numero pitagorico, ambiguità che ha dominato le interpretazioni antiche e recenti del Pitagorismo. Aristotele afferma che i Pitagorici trattavano i numeri come grandezze spaziali e riporta anche l’opinione che le figure geometriche siano l’elemento sostanziale di cui consistono i corpi[7]. I suoi commentatori sono andati anche oltre, ritenendo che i Pitagorici considerassero le figure geometriche quali principi della realtà corporea e che le riconducessero a un insieme di punti, ritenendo, a loro volta, i punti unità estese[8]. E interpreti più recenti hanno insistito nel definire il significato geometrico come il solo che consenta di intendere il principio pitagorico che tutto risulta composto di numeri.
In realtà, se per numero si intende l’ordine misurabile del mondo, il significato aritmetico e quello geometrico risultano fusi, giacché la misura suppone sempre una grandezza spaziale ordinata (quindi, geometrica) e, nello stesso tempo, un numero che la esprima. Si può dire che il vero significato del numero pitagorico sia espresso da quella figura sacra – la τετρακτύς (tetraktys) – per la quale i Pitagorici avevano l’abitudine di giurare e che era la seguente:
La τετρακτύς rappresenta il numero 10 come il triangolo che ha il 4 per lato. La figura costituisce, dunque, una disposizione geometrica che esprime un numero o un numero espresso con una disposizione geometrica: il concetto che essa presuppone è quello dell’ordine misurabile.
Se il numero è la sostanza delle cose, tutte le opposizioni delle cose vanno ricondotte a opposizioni tra numeri. Ora, l’opposizione fondamentale delle cose rispetto all’ordine misurabile che ne costituisce la sostanza è quella di limite e illimitato: il limite, che rende possibile la misura, e l’illimitato che la esclude. A questa opposizione corrisponde quella fondamentale tra i numeri, cioè pari e impari, dove l’impari corrisponde al limite e il pari all’illimitato. E difatti ne numero impari l’unità dispari costituisce il limite del processo di numerazione, mentre nel numero pari questo limite è assente e il processo rimane, perciò, inconcluso. L’unità è poi il parimpari, perché l’aggiunta di essa rende pari l’impari e impari il pari. A questa opposizione ne corrispondono altre nove fondamentali, secondo questo ordine: 1) limite vs illimitato; 2) impari vs pari; 3) unità vs molteplicità; 4) destra vs sinistra; 5) maschio vs femmina; 6) quiete vs movimento; 7) retta vs curva; 8) luce vs tenebre; 9) bene vs male; 10) quadrato vs rettangolo. Il limite, cioè l’ordine, è la perfezione; perciò, tutto ciò che si trova dalla stessa parte nella serie degli opposti è bene e ciò che si trova dall’altra parte è male.

I Pitagorici, tuttavia, sostenevano che la lotta tra gli opposti fosse conciliata da un principio di armonia; questa, in quanto fondamento e vincolo degli stessi opposti, costituiva per loro il significato ultimo della realtà. Filolao definiva l’armonia come «l’unità del molteplice e la concordia del discordante»[9]. Come dappertutto c’è l’opposizione degli elementi, così dappertutto c’è l’armonia; e si può altrettanto dire bene che tutto è numero o che tutto è armonia, perché ogni numero è un’armonia dell’impari e del pari. La natura dell’armonia è poi rivelata dalla musica: i rapporti musicali, infatti, esprimono nel modo più evidente la sostanza dell’armonia universale e, perciò, erano assunti dai Pitagorici come modello di tutte le armonie del cosmo[10].
Più o meno coerentemente alla dottrina metafisica del numero, i Pitagorici svilupparono una concezione cosmologica e antropologica di cui si conoscono soltanto scarsi elementi. Filolao affermò che il principio che la diversità degli elementi corporei (acqua, aria, fuoco, terra ed etere) dipendesse dalla diversità della forma geometrica delle particelle più piccole che li compongono. Questa teoria, che in lui si trova appena accennata, fu poi ripresa e precisata da Platone nel Timeo, in cui si attribuisce a ogni elemento la costituzione di un determinato solido geometrico; ma questa precisazione, resa possibile dallo sviluppo dato alla geometria solida dal matematico Teeteto (al quale fu intitolato l’omonimo dialogo platonico), non era stata possibile a Filolao. Circa la formazione del cosmo, i Pitagorici ritenevano, infatti, che al cuore dell’universo esistesse un fuoco centrale, chiamato madre degli dèi, perché da esso sarebbero nate tutte le creature e i corpi celesti; tale fuoco era anche detto Hestia, focolare o altare dell’universo, cittadella o trono di Zeus, perché era considerato il fulcro da cui emanava la forza capace di conservare il mondo. Nella concezione pitagorica, poi, da questo fuoco sarebbero attratte tutte le parti più vicine dell’illimitato che lo circonda (spazio o materia infinita), parti che da questa attrazione vengono limitate, e quindi plasmate dall’ordine. Questo processo, ripetuto più volte, avrebbe condotto, via via, alla formazione dell’intero universo, nel quale, perciò – come riferisce anche Aristotele – la perfezione non sarebbe al principio, ma al termine[11].

L’aspetto notevole di questa cosmogonia è il fatto che la concezione dell’universo che ne deriva fa annoverare i Pitagorici tra i primi anticipatori di Copernico. Essi, infatti, concepivano il mondo come una sfera, al centro della quale vi era il fuoco originario; attorno a esso orbitavano da occidente a oriente, dieci corpi celesti: il cielo delle stelle fisse, che era più lontano dal centro, e poi, a distanze sempre minori, i cinque pianeti, il Sole – che, come una lente, raccoglieva i raggi del fuoco primordiale –, la Luna, la Terra e l’Anti-terra – un ipotetico pianeta che i Pitagorici calcolavano per completare la sacra decina. Il limite estremo del cosmo, dunque, doveva essere formato da una sfera avvolgente di fuoco, corrispondente al fuoco celeste.
Le stelle fisse erano credute fissate a sfere trasparenti dalla cui rotazione erano portate in giro[12]. Poiché ogni corpo mosso velocemente produce un proprio suono musicale, questo doveva accadere anche per i corpi celesti: il movimento delle sfere, così, dava origine a una serie di toni musicali che, nel loro complesso, formava un’ottava. Secondo i Pitagorici, i comuni mortali non potevano percepire queste musiche, perché li avevano sentiti ininterrottamente fin dalla nascita o anche perché i loro orecchi, nel corso del tempo, diventavano sempre meno adatti a udirle.

Come ogni altra cosa anche l’anima umana è armonia, quella che intercorre fra gli elementi che compongono il corpo. A questa dottrina, che è esposta da Simmia, discepolo di Filolao, nel Fedone platonico, Platone stesso obietta che, se considerata armonia, l’anima non potrebbe essere immortale perché dipenderebbe da elementi corporei, che si dissolvono con la morte. Tale obiezione è apparsa così seria che si è negato che la dottrina dell’anima-armonia fosse intesa dai Pitagorici nel senso chiarito da Platone e la si è riportata, invece, all’interpretazione di Claudiano Mamerto, secondo la quale l’anima sarebbe piuttosto la convenienza (cioè il vincolo che unisce anima e corpo)[13]. In realtà, se si tiene fermo il principio pitagorico che l’armonia è numero e il numero è sostanza, l’obiezione platonica perde valore: è l’armonia che determina e condiziona la mescolanza degli elementi corporei, non già questa è condizione di quella.
Alla dottrina dell’armonia si collega pure l’etica pitagorica con la sua definizione di giustizia. Quest’ultima è un numero quadrato; consiste cioè nel numero uguale moltiplicato per il numero uguale, perché rende l’uguale con l’uguale. Per questo, i Pitagorici la indicavano con il 4, che è il primo numero quadrato, o con il 9, che è il primo numero quadrato dispari. Per tutto il resto, l’etica pitagorica era di carattere eminentemente spirituale: il suo precetto fondamentale era, infatti, quello di seguire la divinità e di diventare simile a essa. Le massime e prescrizioni di carattere pratico, che costituiscono il patrimonio etico della scuola, non hanno uno speciale significato filosofico, se non in quanto, forse, si incomincia a intravedere in esse quella subordinazione dell’azione alla contemplazione, della morale pratica alla sapienza, che sarebbe riuscita vittoriosa con l’Aristotelismo. Il Pitagorismo aveva additato la purificazione dell’anima, che altre sette analoghe avevano conosciuto in riti e pratiche propiziatori, nell’attività teoretica, sola capace di sottrarre l’anima alla catena delle nascite e di ricondurla alla divinità.
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Nota bibliografica
Le testimonianze su Pitagora in H. Diels – W. Kranz (eds.), Die Fragmente der Vorsokratiker, Berlin 1951-19526, cap. XIV. Le Vite di Pitagora, composte da Porfirio e da Giamblico, sono utili per la conoscenza della leggenda del maestro e delle dottrine neopitagoriche e neoplatoniche, ma non per la ricostruzione della biografia storica dell’uomo. La Vita di Porfirio si legge nell’edizione di A. Nauck (Leipzig 1886); quella di Giamblico nell’edizione curata da L. Deubner (ibi 1937). Su Pitagora, si vd. Th. Gomperz, Griechische Denker, Leipzig 1869-1909 [= 1922-19232], I, 108 ss.; J. Burnet, Early Greek Philosophy, London 1920, 93 ss.; A. Rostagni, Il verbo di Pitagora, Torino 1924. Cfr. anche K. Kerényi, Pythagoras und Orpheus, Amsterdam-Leipzig 1940; E. Bindel, Pythagoras. Leben und Lehre in Wirkdichkeit und Legende, Stuttgart 1962; R. Cuccioli Melloni, Ricerche sul pitagorismo. I. Biografia di Pitagora, Bologna 1969; F. Gorman, Pythagoras: A Life, London 1979; A. Slosman, La vie extraordinaire de Pythagore, Paris 1983. I frammenti dei Pitagorici sono stati raccolti, con traduzione italiana, introduzione e commento da M. Timpanaro Cardini, Firenze 1958-1964 [19692], 3 voll.
Sulle vicende della scuola pitagorica, si vd. A. Rostagni, Pitagora e i Pitagorici in Timeo (1914), ora in Scritti minori, II 1, Torino 1956, 3-50. I frammenti di Filolao in Diels – Kranz, op. cit., cap. XLIV; quelli di Archita ibid., cap. XLVII; quelli di Alcmeone ibid., cap. XXIV. Su questi Pitagorici, si vd. A. Olivieri, Civiltà greca nell’Italia meridionale, Napoli 1931; K. von Fritz, Pythagorean Politics in Southern Italy, New York 1940; D. Teti, Alcmeone e Pitagora. Scuola medica crotoniate e scuola pitagorica italica, Padova 1970.
Sulla dottrina pitagorica, si vd. ancora E. Frank, Plato und die sogenannten Pythagoreer, Halle 1923 (rist. Darmstadt 1962); J.E. Raven, Pythagoreans and Eleatics, Cambridge 1948 (rist. Amsterdam 1966); H. Strainge Long, A Study of the Doctrine of Metempsychosis in Greece from Pythagoras to Plato, Princeton 1948; W. Burkert, Weisheit und Wissenshaft. Studien zu Pythagoras, Philolaos und Plato, Nürnberg 1962 (trad. engl. Cambridge Mass. 1972); J.A. Philip, Pythagoras and Early Pythagoreanism, Toronto 1966; C.J. De Vogel, Pythagoras and Early Pythagorism, Assen 1966; W. Burkert, Lore and Science in Ancient Pythagoreanism, Cambridge Mass. 1972.
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Note
[1] Aristox. fr. 2 F.H.G. II = 15 Wehrli, in Diog. VIII 21: Ὁ δ᾽ αὐτός φησιν, ὡς προείρηται, καὶ τὰ δόγματα λαβεῖν αὐτὸν παρὰ τῆς ἐν Δελφοῖς Θεμιστοκλείας: «La stessa fonte [= Aristosseno], come abbiamo detto, asserisce che egli desunse le proprie dottrine da Temistoclea, sacerdotessa di Delfi».
[2] Iambl. v. Pyth. 199: θαυμάζεται δὲ καὶ ἡ τῆς φυλακῆς ἀκρίβεια˙ ἐν γὰρ τοσαύταις γενεαῖς ἐτῶν οὐθεὶς οὐδενὶ φαίνεται τῶν Πυθαγορείων ὑπομνημάτων περιτετευχὼς πρὸ τῆς Φιλολάου ἡλικίας, ἀλλ’ οὗτος πρῶτος ἐξήνεγκε τὰ θρυλούμενα ταῦτα τρία βιβλία, ἃ λέγεται Δίων ὁ Συρακούσιος ἑκατὸν μνῶν πρίασθαι Πλάτωνος κελεύσαντος, εἰς πενίαν τινὰ μεγάλην τε καὶ ἰσχυρὰν ἀφικομένου τοῦ Φιλολάου, ἐπειδὴ καὶ αὐτὸς ἦν ἀπὸ συγγενείας τῶν Πυθαγορείων, καὶ διὰ τοῦτο μετέλαβε τῶν βιβλίων: « S’ammira anche la cura che ebbero a tener segrete le loro dottrine. Perché in tante generazioni fino a Filolao nessuno conobbe memorie di Pitagorici: fu Filolao il primo a divulgare i tre libri famosi, di cui si dice che furono acquistati per cento mine da Dione siracusano per incarico di Platone, quando Filolao si trovò in dura e grave povertà. Filolao faceva parte della setta dei Pitagorici, e per questo aveva potuto avere i libri».
[3] Cfr. Plat. Gorg. 493a: καὶ ἡμεῖς τῷ ὄντι ἴσως τέθναμεν: ἤδη γάρ του ἔγωγε καὶ ἤκουσα τῶν σοφῶν ὡς νῦν ἡμεῖς τέθναμεν καὶ τὸ μὲν σῶμά ἐστιν ἡμῖν σῆμα, τῆς δὲ ψυχῆς τοῦτο ἐν ᾧ ἐπιθυμίαι εἰσὶ τυγχάνει ὂν οἷον ἀναπείθεσθαι καὶ μεταπίπτειν ἄνω κάτω, καὶ τοῦτο ἄρα τις μυθολογῶν κομψὸς ἀνήρ, ἴσως Σικελός τις ἢ Ἰταλικός, παράγων τῷ ὀνόματι διὰ τὸ πιθανόν τε καὶ πειστικὸν ὠνόμασε πίθον, τοὺς δὲ ἀνοήτους ἀμυήτους: «Anche noi, in realtà, forse siamo morti. Io ho già sentito dire, infatti, anche da sapienti, che noi, ora, siamo morti e che il corpo è per noi una tomba, e che questa parte dell’anima in cui si trovano le passioni è tale da cedere alle seduzioni e da mutare facilmente direzione in su e in giù. Un uomo ingegnoso, un Siculo o forse un Italico, parlando per immagini, mutando di poco il suono del nome, chiamò “orcio” questa parte dell’anima perché seducibile e credula e chiamò “dissennati” i non iniziati».
[4] Aristot. Met. I 5.
[5] Sol. fr. 20 G.-P.2 = 16 W.2: γνωμοσύνης δ’ ἀφανὲς χαλεπώτατόν ἐστι νοῆσαι / μέτρον, ὃ δὴ πάντων πείρατα μοῦνον ἔχει.
[6] Aristot. Met. I 6, 987b 10.
[7] Aristot. Met. XIII 6, 1080b 18; VII 2, 1028b 15.
[8] Cfr. Alex. in Met. I 6, 987b 33, ed. Bonitz, p. 41.
[9] Philol. fr. 10 D.
[10] Id. fr. 6 D.
[11] Cfr. Aristot. Met. XII 7, 1072b 28.
[12] Aristot. Coel. II 13.
[13] Claud. Mam. de stat. anim. II 7 § 172.