Il conflitto degli ordini: patrizi e plebei nel V e all’inizio del IV secolo

di W. BLÖSEL, Roma: l’età repubblicana. Forum ed espansione del dominio (trad. it. a cura di U. COLLA), Torino 2016, pp. 24-35.

L’ammissione dei plebei al consolato, nel 367/6, costituisce una pietra miliare nel cosiddetto «conflitto degli ordini» dal quale la tradizione più tarda, in Livio e in Dionigi di Alicarnasso, vede caratterizzata la storia romana per più di duecento anni, dall’inizio del V secolo fino al 287. La netta dicotomia tra plebei e patrizi nella lotta sugli stessi punti controversi (come ad esempio la protezione dall’arbitrio dei magistrati, la certezza del diritto, la liberazione dalla servitù per debiti e la parità nei diritti politici) offre ai confusi rapporti degli inizi della repubblica una struttura chiara e temi concreti ai quali gli autori più tardi poterono sempre di nuovo ricorrere, senza troppa fatica, nei diversi momenti di queste contrapposizioni, interrotte da fasi di quiete anche decennali. In questo modo, fu loro possibile presentare tutte le diverse conquiste di Roma repubblicana (come il diritto di provocatio, il tribunato della plebe, la legislazione delle dodici tavole, il tribunato consolare, l’ammissione dei plebei alle cariche pubbliche e sacerdotali, l’abolizione della servitù per debiti e l’attribuzione di forza di legge ai plebisciti) come altrettanti prodotti di un unico conflitto degli ordini protrattosi per più generazioni. I compromessi che i plebei e i patrizi accettarono accogliendo la maggior parte di queste nuove istituzioni, centrali nella coscienza che i Romani ebbero di sé, esaltano come tratto fondamentale di entrambe le parti la loro pronta disponibilità alla conciliazione, e il desiderio di concordia, per quanto distanti fossero state le posizioni iniziali. Nondimeno, i due ceti furono sempre costretti alla pace interna da qualche pressione militare dall’esterno. E la grande regolarità con la quale, a ogni nuova contesa interna tra Romani, i vicini popoli dei Volsci, degli Equi e dei Sabini avrebbero invaso il territorio di Roma, induce a sospettare che questi assalti siano una costruzione degli storici.

Ritratto di patrizio romano (vista frontale). Busto, marmo, prima metà del I sec. a.C. Roma, Collezione Torlonia.

Riassumendo, molti dubbi sono stati sollevati sulla visione del conflitto degli ordini come del lunghissimo travaglio necessario alla nascita della repubblica romana. Infatti, esso è ignoto come tale ai primi cronisti di Roma, da Fabio Pittore a Catone il Vecchio e a Polibio, e fino a Cicerone: nella loro esposizione, gli atti di fondazione della repubblica risalgono all’indietro solo fino alla legislazione delle dodici tavole, verso il 450. Questa va considerata una conseguenza dell’origine orale delle tradizioni (oral tradition) relative alla fase di fondazione dello Stato romano, che naturalmente comprende anche il periodo della monarchia. Negli autori citati, a quest’epoca di fondazione, come c’è da aspettarsi date le strutture che caratterizzano la oral tradition, segue una fase intermedia, dalla metà del V fino alla metà del III secolo circa, con un elenco di pochi, aridi fatti e alcuni nomi di persone che con il loro comportamento esemplare servono a illustrare il funzionamento di quelle istituzioni che si erano lentamente e faticosamente consolidate. Infine, con la prima guerra punica (264-241), nei primi storiografi subentrarono i ricordi personali, che anche agli autori successivi avrebbero fornito i contenuti per una storiografia che da allora fu soggetta alle leggi della letteratura.

Con l’estensione temporale del conflitto degli ordini, altrettanto poco chiara è l’identità dei suoi attori. Dalle fonti, infatti, soltanto in modo frammentario è possibile comprendere perché e a partire da quando i patrizi si staccarono dai plebei. Un confronto tipologico con altre aristocrazie nelle società arcaiche indica come caratteristici del patriziato i seguenti elementi: privilegi religiosi, come il monopolio delle cariche sacerdotali; insieme a questo, il monopolio della giurisdizione, che aveva un fondamento sacrale; riti nuziali caratteristici e propri; stretti rapporti economici e familiari con gli aristocratici stranieri; orgoglio per il proprio albero genealogico; possesso di vasti terreni coltivabili, e di cavalli; gran numero di agricoltori dipendenti; infine, il monopolio di magistrature che certamente erano collegate a funzioni sacrali, come l’accoglimento degli auspici, e l’esercizio dell’imperium.

Scena di battaglia. Bassorilievo, pietra calcarea. Isernia, Museo Civico.

La tradizione letteraria ascrive già a Romolo, il primo re, la scelta dei primi senatori, che vengono indicati come patres, e dai quali sarebbero derivati i patrizi. La rilevante importanza della vicinanza genealogica di famiglie tra di loro imparentate si può dedurre, non soltanto a Roma, ma in tutta l’Italia centrale, dall’introduzione del nome gentilizio, che, a partire dall’ultimo terzo del VII secolo, sostituì il patronimico, il nome del padre, con quello di un antenato comune, al quale veniva aggiunto il suffisso -ius; così, ad esempio, dal preteso fondatore della stirpe, Iulus, veniva fatto derivare il nome gentilizio di Iulius.

Anche l’istituzione dell’interregnum, certamente da far risalire all’epoca dei re, testimonia a favore dell’esistenza di un ben definito gruppo di nobili. Ma la distinzione tra le antiche stirpi nobiliari come maiores gentes e le minores gentes aggiunte dai re successivi ai senatori indica chiaramente come questi nobili non formassero affatto una cerchia chiusa di «patrizi». Altrimenti, sarebbe stata impossibile l’integrazione del sabino Attus Clausus, che, secondo la tradizione, si sarebbe trasferito a Roma con ben cinquemila tra clienti e accoliti, un numero a stento credibile. Anche se i Fasti consulares per il periodo fino al 450 non danno grande affidamento, una decina di consoli, che vi sono indicati e che possono essere collegati soltanto a tarde gentes nobili di origine plebea, testimonia di un’aristocrazia ancora aperta.

Calendario rurale (Fasti PraenestiniCIL I2 1, p. = I.It. XIII, 2, 17 = AE 1898, 14 = 1922, 96 = 1953, 236 = 1993, 144 = 2002, 181 = 2007, 312), ante 22 d.C. Roma, Museo Nazionale Romano.

Ciononostante, già a partire dalla metà del V secolo, si possono notare chiare tendenze esclusivistiche interne al patriziato nella distinzione tra i senatori che sarebbero stati nominati dopo la cacciata dei re, indicati come conscripti, e i patres di antico insediamento. Come è mostrato dall’accoglimento dei Claudii tra i patrizi, si può escludere che già alla fine del VI secolo si sia formato il concetto delimitativo di patricius, riferito soltanto a chi faceva parte della parentela, o della discendenza, di uno degli antichi patres. Sappiamo per certo che nel 458 il magistrato supremo di Tusculum (l’odierna Frascati), Lucio Mamilio, non poté più essere ammesso a far parte del patriziato, quando, in grazia dei suoi meriti per aver salvato Roma dal colpo di Stato di Appio Erdonio, ottenne la cittadinanza romana. Il motivo di questo crescente separatismo dei patrizi va cercato nella decennale fase di rivolgimenti seguita alla cacciata dei re.

In quell’epoca, si deve ipotizzare una dura lotta di concorrenza tra le stirpi nobiliari romane per il possesso delle posizioni di potere. Infatti, la cacciata dell’ultimo re, il quale evidentemente aveva accentrato nella propria persona una quantità di ruoli di comando, aveva lasciato un cospicuo vuoto di potere, che doveva suscitare brame ovunque. Il grande predominio esercitato dagli ultimi tre sovrani etruschi di Roma, Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo, lascia supporre che gli aristocratici romani ora desiderassero soltanto avere sommi magistrati più deboli, la cui autorità non moderasse pesantemente le loro possibilità di azione. In questo modo, diventa evidentemente comprensibile la limitazione dei pieni poteri del magistrato supremo, il praetor maximus, al solo comando delle operazioni belliche.

Guerriero con elmo calcidese. Testa fittile, terracotta policroma, V sec. a.C. da Albano.

Neppure in quel campo, però, né il magistrato né lo «Stato» romano ebbero il monopolio: i warlords dell’età regia, come i fratelli Vibenna, Macstrna o Lars Porsenna, trovano i loro successori tra numerosi aristocratici romani che condussero vere e proprie guerre private insieme ai loro clienti e accoliti: simili compagnie di armati vengono citate per Poplios Valesios, sul lapis Satricanus e anche per Gneo Marcio Coriolano. Il caso più famoso di una guerra privata è quella che nel 479/8 la gens Fabia condusse, guidando a quel che si narra i suoi quattromila clienti, contro la vicina città di Veio, anche se la stilizzazione della fine di quasi tutti i trecentosei Fabii sulle rive del torrente Cremera, secondo il modello del sacrificio dei trecento Spartani, che l’anno precedente, guidati da re Leonida, erano morti alle Termopili, opponendosi all’avanzata persiana, desta più di un dubbio sulla veridicità di molti particolari quali ci sono stati conservati dalla tradizione.

La mancanza di un monopolio della forza nelle mani dello Stato mise in pericolo il labile equilibrio del potere nella stessa Roma. Ad esempio, si narra che nel 460 il sabino Appio Erdonio con la sua compagine di armati, composta da esuli e servi, occupasse il Campidoglio, chiamando addirittura i plebei alla rivolta, e che, infine, fosse sconfitto soltanto dal tuscolano Lucio Mamilio.

Anche all’interno della società romana, però, c’era un numero sufficiente di scontenti che potevano essere mobilitati per combattere l’aristocrazia dominante. Non a caso, nella tradizione annalistica si trovano cronache simili a proposito dei tre adfectatores regni («aspiranti al trono»). Si dice infatti che il plebeo Spurio Cassio Vicellino, che secondo i Fasti fu console nel 502, nel 493 e nel 486, si ingraziò i plebei per i propri progetti di colpo di Stato con una legge per la spartizione dei territori strappati agli Ernici, che erano bottino di guerra, e anche dell’ager publicus; per questo motivo, sarebbe stato infine condannato a morte e fatto giustiziare dai questori. Qualcosa di simile toccò al ricco mercante plebeo Spurio Melio nel 439: dopo che si era procurato numerosi consensi tra i Romani, con laute elargizioni di grano, fu ucciso dal magister equitum Gaio Servilio Ahala, per ordine del Senato. Perfino a un patrizio viene attribuita un’alleanza, poco consona al suo rango, con i plebei: a Marco Manlio Capitolino, il console dell’anno 392, nonché salvatore del Campidoglio contro i Galli. Si dice infatti che egli accusò l’eccessiva avidità dei compagni del suo stesso ordine, con il proprio denaro evitò a molti plebei la servitù per debiti e, insomma, fece causa comune con i Romani meno abbienti. Ciononostante, nel 384, per le sue ambizioni dispotiche fu condannato a morte dall’assemblea popolare e precipitato dalla rupe Tarpea.

Guerrieri senoni (dettaglio). Rilievo, terracotta policroma, II sec. a.C. dal fregio del tempio di Civitalba. Ancona, Museo Nazionale delle Marche.

Anche se tutte queste narrazioni di leggi agrarie, distribuzioni di grano e lotta all’indebitamento sono incentrate su progetti che furono al centro dell’azione dei grandi populres della tarda repubblica, e appaiono perciò anacronistiche, non ci sono dubbi sulla storicità dei tentativi, compiuti nel V secolo da alcuni singoli aristocratici romani, di acquisire un vantaggio, nella lotta per il potere con i loro compagni di ceto, alleandosi con i cittadini romani meno abbienti, se non addirittura di accentrare tutto il potere nelle proprie mani. I patrizi si premunirono di fronte a tale minaccia, cercando di limitare la possibilità di accesso al potere a quelle stirpi nobiliari che possedevano sufficienti proprietà, cariche sacerdotali e un seguito tra i cittadini tale da potersi misurare nella competizione alle magistrature. Questi nobili, infatti, non avevano certo bisogno di cercarsi nuovi accoliti facendosi paladini delle esigenze sociali ed economiche degli strati più poveri della comunità. Si poteva ben temere, invece, una defezione dalla solidarietà di ceto proprio da parte di coloro che ambivano alla scalata verso l’élite di potere, e che non avevano però a disposizione tante risorse. A tenere distanti simili parvenus era diretta la chiusura a riccio delle stirpi patrizie, e formare un ceto a parte; essa va quindi intesa come una reazione all’acuirsi della competizione interna tra gli aristocratici nei primi decenni della repubblica. La forte diminuzione del numero delle gentes (famiglie nobiliari), che riuscivano ad accedere alle supreme magistrature, rilevabile soltanto verso la fine del V secolo, indica che, a quel punto, questo processo di esclusione era ormai compiuto. Quindi, non sarebbe da ritenersi puramente frutto del caso, nella tradizione, se nelle parti a noi pervenute della legge delle dodici tavole, del 451, non troviamo né il concetto di patricius né quello di plebs.

Proprio come la cerchia dei patrizi non si poteva affatto considerare chiusa prima della metà del V secolo, così non si possono intendere i plebei degli inizi dell’età repubblicana meramente come il grande resto dei non patrizi, seguendo il punto di vista polarizzante della tradizione più tarda. Presumibilmente, i clienti dei patroni patrizi, originariamente, non erano annoverati tra i plebei. Non pochi agricoltori romani si trovavano in una simile duratura dipendenza, economica e giuridica, da un aristocratico. La relazione tra cliente e patrono fu descritta, nel caso ideale, come un rapporto di fedeltà, fides, destinato a durare per tutta la vita, nel quale entravano automaticamente, rispetto al patronus, anche i servi liberati. In cambio dell’aiuto economico in caso di cattivo raccolto, o del sostegno in giudizio da parte del patrono, il cliente, dal canto suo, doveva partecipare alle spese che il patrono doveva affrontare per la dote delle proprie figlie, a quelle dovute a multe pecuniarie e a quelle che gli potevano essere necessarie per accedere a cariche pubbliche. Gli artigiani e i mercanti, i recenti immigrati e i vecchi clienti dell’ultimo re verosimilmente non erano integrati in queste strutture. Questi gruppi così eterogenei potrebbero quindi aver formato il nucleo originario dei plebei.

Scena pastorale. Bassorilievo, pietra locale, I sec. a.C. CIL IX 3128 ([- – – ho]mines ego moneo niquei diffidat [- – -]), da Sulmona. L’Aquila, Museo Civico.
I plebei si vedono in azione per la prima volta, nelle loro strutture e nei loro obiettivi, nel 494: minacciati dalla servitù per debiti, i soldati plebei dell’esercito romano che erano stati vittoriosi nella lotta contro i popoli vicini si ammutinarono e si recarono sul Monte Sacro (Mons Sacer), cinque chilometri a nord della città, presso il fiume Aniene (Anio), dove rimasero finché non venne presso concordato un compromesso con i patrizi. Secondo tale accordo, i plebei dovevano eleggere ogni anno due tribuni della plebe, tribuni plebis, ai quali era consentito difendere i plebei, all’interno del pomerio, dagli altri magistrati. I plebei giurarono allora una legge (Lex sacrata) per cui chiunque avesse impedito fattivamente a uno dei tribuni della plebe l’esercizio delle sue funzioni di difesa doveva essere considerato sacer, cioè «consacrato agli dèi», e perciò poteva essere ucciso senza incorrere in alcuna pena. Una simile comunità giurata, quale si trova, come istituto militare, anche tra i vicini popoli dei Volsci e dei Sanniti, era necessaria per procurare alla nuova carica, i cui titolari potevano essere eletti soltanto dalla parte plebea della comunità cittadina di Roma, la necessaria autorità nei confronti dei magistrati patrizi.

Tutte le principali rivendicazioni che i plebei avanzarono lungo due secoli paiono concentrarsi nel momento di questa cosiddetta prima secessione. Già la sua datazione al 494, però, appare dubbia; infatti, la tarda tradizione in tal modo fa esplodere il conflitto tra gli ordini in tutta la sua violenza nello stesso anno in cui per la giovane costituzione repubblicana di Roma il pericolo era cessato per la morte di Tarquinio il Superbo, in esilio a Cuma. Inoltre, questa prima uscita in campo della plebe pare sincronizzata a bella posta con il 493, la data, verosimilmente autentica, della fondazione del tempio di Libero, Libera e Cerere sull’Aventino, considerato come il santuario tipico dei plebei, e con l’istituzione della magistratura plebea degli edili, il cui titolo deriva da aedes, tempio, e che perciò in origine potrebbero essere stati i suoi custodi.

Demetra. Statua, terracotta, II-I sec. a.C. da Ariccia. Roma, Museo Nazionale.

La prima secessione della plebe, per quanto concerne la richiesta di riduzione dei debiti, pare evidentemente modellata sull’ultima, del 287, per la quale il motivo fu realmente questo. Infatti, stranamente i tribuni della plebe, di nuova istituzione, secondo le indicazioni della legge delle dodici tavole, non avevano ancora la possibilità di proteggere i debitori dalla servitù. È inoltre accertato per la prima metà del V secolo un forte crollo economico, e quindi proprio i Romani più poveri potrebbero essere stati maggiormente colpiti da spietate richieste di riscossione dei crediti.

Anche il mezzo impiegato dai plebei, un ammutinamento, pare poco verosimile. In primo luogo, una misura simile non avrebbe comportato pericoli solo se i Romani avessero condotto una campagna di guerra a grande distanza dalla metropoli, come accadde al più presto verso l’inizio del III secolo. In secondo luogo, un ammutinamento avrebbe avuto possibilità di successo solo se i plebei a quell’epoca avessero fornito una parte considerevole degli opliti delle truppe di Roma. Ma la distinzione tra il populus, nel senso di «popolo in armi, esercito», in cui certamente nel V secolo gli opliti erano forniti, tra gli agricoltori, dai grandi o medi proprietari, e la plebs (dal latino plere, «riempire, colmare») indica che i plebei originariamente non potevano servire con armi pesanti, perché non erano in grado di procurarsi i costosi armamenti necessari (elmo, corazza, schinieri, scudo, spada, giavellotto), ma soltanto come frombolieri, armati perciò in modo leggero.

Guerriero ferito (dettaglio). Statua frontonale, terracotta, V sec. a.C. dal Tempio di Sassi Caduti. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

Tanto la rigida delimitazione dell’ambito di competenza dei tribuni della plebe esclusivamente a Roma, all’interno del pomerium, quanto la probabile derivazione del termine tecnico tribunus dalle quattro tribus urbane indicano un’origine puramente civile della carica. Nel 471 il numero dei tribuni della plebe dovette poi, secondo la tradizione, salire a quattro, e, cosa ancora più importante, la loro elezione, e quella degli edili plebei, fu assegnata per legge ai concilia plebis. I plebei in questa assemblea, riservata esclusivamente a loro, erano ordinati per tribù: cioè gli appartenenti ai ventuno distretti abitativi dell’epoca (alle quattro antiche tribù urbane e alle diciassette tribù rustiche) per prima cosa decidevano all’interno della propria tribù quali magistrati eleggere, oppure sulle proposte di legge che venivano loro presentate. Decisiva poi era la maggioranza delle tribù, non la maggioranza del numero complessivo dei cittadini aventi diritto di voto. Come già per i comitia centuriata, anche qui nella votazione valeva il principio corporativo – tipicamente romano – e fondamentalmente diverso dal diritto di voto individuale caratteristico delle poleis greche. I concilia plebis potevano essere convocati soltanto dai tribuni della plebe o dagli edili plebei. Le loro decisioni non diventavano leggi (leges), ma venivano chiamati plebiscita, ed erano cogenti soltanto per i plebei, non per i patrizi.

Nella tradizione ci sono state conservate notizie sporadiche su un’assemblea ugualmente ordinata secondo le tribù, i comitia tributa, che sotto la guida dei pretori e più tardi dei consoli eleggevano i questori e gli edili curuli (costituiti nel 366), e votavano leggi (leges) cogenti per tutti i cittadini. Poiché, al contrario di quanto accade per i comitia centuriata e i concilia plebis, non abbiamo nessuna storia delle origini dei comitia tributa dell’intera cittadinanza romana, le loro grandi somiglianze con i concilia plebis (e, talvolta, perfino la loro confusione nelle fonti) indicano che nel corso del IV secolo i comitia tributa vennero identificati con questi.

Scena di assemblea. Bassorilievo, calcare, 50 d.C. c. dal sarcofago di Lusio Storace. Chieti, Museo Nazionale.

La rivendicazione, da parte plebea, volta a ottenere la parità di diritti politici rispetto ai patrizi nel governo della comunità, anch’essa tramandata dalla tradizione per questa prima fase del conflitto degli ordini, è certamente da ritenere anacronistica per il primo periodo repubblicano. Infatti, anche dopo la presunta prima secessione della plebe, i debiti continuarono a gravare, per nulla diminuiti, sui Romani più poveri, e i privilegi giuridici degli aristocratici continuarono a essere schiaccianti.

Per questi motivi, non stupisce che lo stadio successivo del conflitto degli ordini portasse alla formazione del decenvirato, con il compito di introdurre nuove leggi. A proposito di questa prima, ampia codificazione giuridica in ambito romano la tradizione letteraria offre estese narrazioni. Nel corso della loro contesa sull’uguaglianza giuridica per tutti i cittadini, nel 451 i patrizi e i plebei si sarebbero accordati per costituire un collegio di dieci uomini, formato soltanto da patrizi, sospendendo sia i magistrati supremi sia i tribuni della plebe. I decemviri, guidati da Appio Claudio Crasso Irregillense, fino a quel momento nemico della plebe, avrebbero allora redatto una serie di leggi sul modello di quelle ateniesi, che sarebbe stata incisa su dieci tavole di bronzo. Poiché, però, parvero necessarie due ulteriori tavole, sarebbe stato eletto un secondo decemvirato, nel quale lo stesso Appio Claudio, ora manifestamente ben disposto verso i plebei, avrebbe fatto eleggere soltanto questi ultimi. Sotto la sua guida, però, il secondo decemvirato sarebbe diventato presto una tirannia, pronta a perseguitare sanguinosamente i propri avversari: ma poiché i patrizi e i plebei, diffidando gli uni degli altri, non riuscirono a concordare un’azione comune contro i decemviri, questi sarebbero rimasti al potere per tutto l’anno in corso, come stabilito, finché l’indignazione generale per la violenza minacciata da Appio Claudio sulla plebea Virginia, alla quale il padre poté sottrarla soltanto uccidendola, avrebbe costretto infine i decemviri a dimettersi.

Scena di lettura del testamento davanti al magistrato. Bassorilievo, marmo, I sec. a.C. da un sarcofago.

Mentre sia il fatto che Appio Claudio, nel secondo mandato, venga stilizzato come tiranno, sia il suo preteso rovesciamento in seguito alla seconda secessione della plebe, nel 449, non sono probabilmente che parabole sul valore della solidarietà all’interno di una società, è assolutamente verosimile, dal punto di vista storico, l’attività legislatrice del primo collegio decemvirale. La stessa cosa vale per l’origine greca di parecchie disposizioni di legge, anche se si deve pensare ai Greci dell’Italia meridionale, come ad esempio Cuma, piuttosto che a Solone di Atene.

È da notare come i contenuti specifici delle dodici tavole non si trovino nelle narrazioni letterarie relative ai due decemvirati (a parte la significativa eccezione del presunto divieto di matrimonio tra patrizi e plebei), ma invece siano disseminati in notizie antiquarie. Anche se il loro latino arcaico è sempre stato modernizzato dalle varie fonti intermedie, non c’è motivo di dubitare dell’autenticità delle singole disposizioni, tanto più che esse venivano imparate a memoria dai bambini, in quanto costituirono fino all’età imperiale l’unico codice romano di diritto esistente. La legislazione delle dodici tavole rimase, fino alla tarda antichità, l’unico tentativo da parte dei Romani di regolare giuridicamente tutti i campi della vita; manifestamente, la rapida diminuzione dei conflitti tra i ceti dopo il 451 fece cessare il bisogno di una tale fissazione di principi.

Le prime due tavole erano dedicate alla procedura del processo civile (ad esempio, ai termini di tempo per la citazione in giudizio), la terza al diritto delle obbligazioni, che consentiva di tenere prigioniero il debitore moroso e perfino di venderlo come servo «al di là del Tevere». Questo dimostra l’antichità, almeno di quest’ultima disposizione, poiché il Tevere al più tardi dopo la conquista di Veio, avvenuta nel 396, non costituiva più il confine del territorio di Roma. La quarta e la quinta tavola avevano per oggetto il diritto di famiglia, tra l’altro prevedendo un diritto di successione per gli appartenenti a una stessa gens. La sesta e la settima regolavano il diritto sulle cose e sui beni immobili. L’ottava tavola determinava le pene per chi facesse incantesimi, per i ferimenti, gli incendi e i furti. La nona disponeva che sulla vita di un cittadino potesse decidere soltanto il maximus comitiatus (l’assemblea di tutto il popolo). La decima tavola limitava considerevolmente l’ostentazione di ricchezza e di lusso da parte dei nobili nelle cerimonie funebri e nelle sepolture. Mentre nella dodicesima l’argomento è il furto commesso da un servo e l’intervento del pretore su una ingiusta pretesa di possesso, il divieto di matrimonio tra patrizi e plebei, attribuito all’undicesima tavola, è probabilmente una finzione degli annalisti, che doveva servire come dimostrazione (l’unica) della degenerazione del secondo decemvirato; perciò, gli stessi annalisti pensarono di far sparire questo divieto, dopo neppure cinque anni, per mezzo di un plebiscito molto spettacolare, inscenato dal tribuno della plebe del 445, Gaio Canuleio, pur se un plebiscito non potesse in nessun modo vincolare i patrizi. Inoltre, questo divieto di matrimonio costituirebbe l’unica testimonianza della divisione tra patrizi e plebei contenuta nelle dodici tavole. Furono invece rilevanti, sul piano giuridico, la distinzione sociale tra l’adsiduus, un proprietario di terreni agricoli per il quale poteva garantire soltanto un altro adsiduus, e il proletarius, il cittadino privo di terre, e quella tra cliens e patronus, il quale ultimo, nel caso in cui avesse ingannato il proprio cliens, sarebbe diventato sacer, esecrato e maledetto.

Corteo funebre. Bassorilievo, pietra calcarea, metà I sec. a.C. da S. Vittorino (Amiternum). L’Aquila, Museo Nazionale d’Abruzzo.

La legislazione delle dodici tavole, in quanto codificazione di un diritto tramandato fino a quel momento soltanto oralmente, costituì un grande passo verso la certezza del diritto e l’uguaglianza giuridica fra tutti i cittadini romani. Infatti, in tal modo potevano essere controllate le sentenze che prima i patrizi emettevano nella loro funzione sacerdotale. Quanto invece dalla legislazione delle dodici tavole venissero fissati i privilegi dei patrizi non è ancora chiaro. È molto evidente, piuttosto, il rafforzamento della gerarchia economica, perché i cittadini ricchi vennero chiaramente favoriti. Mentre le dodici tavole rappresentano una nitida istantanea a colori della società romana verso la metà del V secolo, l’evoluzione sociale di Roma fino all’inizio del IV secolo è ricostruibile soltanto in modo molto vago. Secondo la tradizione, l’indebitamento rimase un problema sempre irrisolto.

L’aumento a dieci, successivamente al decemvirato, del numero dei tribuni della plebe, come difesa contro gli abusi dei patrizi, aveva creato per un numero considerevole di plebei ambiziosi e benestanti un nuovo campo d’azione in cui proporsi come difensori dei propri compagni di ceto. Il tribunato della plebe, con la sua inviolabilità, che ogni plebeo era tenuto a difendere, costituiva il punto focale della solidarietà della plebe, che intendeva se stessa come una comunità giurata. In tal modo, con il tempo si formò uno strato di plebei che, basandosi sul sostegno sociale acquisito, durante il periodo in cui avevano rivestito la carica di tribuno, o anche di edile plebeo, e sull’esperienza maturata nel rappresentare gli interessi politici del proprio ceto, iniziò, al di sopra di questo compito puramente difensivo, a pretendere di configurare la politica cittadina nel suo complesso. Poiché i plebei costituivano inoltre senza dubbio la maggioranza degli ufficiali della legione eletti dall’assemblea popolare, i tribuni militum, con il tempo inevitabilmente dovette espandersi la rivendicazione, da parte della plebe, dell’accesso anche alle magistrature regolari. E, a questo punto, la chiusura della cerchia delle famiglie patrizie, che va collocata proprio nella seconda metà del V secolo, fu soltanto una conseguenza, destinata evidentemente ad avere un certo successo. Comunque, nel collegio dei questori, che dal 421 era formato da quattro componenti, per il 409 sono attestati per la prima volta dei plebei, anzi addirittura tre.

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