Tito Livio

di CONTE G.B., PIANEZZOLA E., Livio, in Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 2. L’età augustea, Milano 2010, 483-489.

 

 

1. Una storia magistra vitae

Livio è sicuramente uno degli storici romani che ha goduto di maggior fortuna presso la posterità. Nella sua monumentale opera, conosciuta sotto il nome di Ab Urbe condita libri, ripercorre le vicende romane dalle origini troiane fino al Principato di Augusto, fornendo una descrizione artisticamente elevata del glorioso passato di Roma in un momento in cui la città ha raggiunto l’apice della grandezza e della potenza. Livio era consapevole della crisi che Roma aveva attraversato nell’età delle guerre civili e sapeva che il Principato di Ottaviano non avrebbe rappresentato la panacea a tutti i mali che attraversavano la società romana. A differenza di Sallustio, tuttavia, egli non volle indagare le cause profonde della degenerazione morale dei Quiriti, ma preferì concentrarsi sulle glorie del passato che, con il loro valore esemplare, avrebbero potuto esercitare un’influenza in senso pedagogico e morale sulla coscienza dei contemporanei. In lui prevalse dunque l’interesse per una descrizione dei fatti drammatica ed efficace dal punto di vista letterario, funzionale al proprio intento moralistico, piuttosto che per una ricostruzione storica del passato basata su una rigorosa disamina delle fonti.

 

Antonio Lafreri, Tito Livio. Incisione, 1572. Wien, Österreichischen Nationalbibliothek.

 

2. La vita e le opere

Tito Livio (il cognomen è ignoto) nacque a Patavium nel 59 a.C. Venuto a Roma, non partecipò alla vita pubblica, ma entrò in contatto con Ottaviano. I suoi interessi si rivolsero dapprima alla filosofia ma ben presto, cioè tra il 27 e il 25 a.C., Livio dovette concentrarsi interamente sulla sua grande opera storica, gli Ab Urbe condita libri. Si guadagnò notevole prestigio e ammirazione e, tra l’altro, si occupò di guidare gli interessi storiografici del futuro imperatore Claudio. Alternò la vita a Roma con lunghi soggiorni nella città natia, dove morì nel 17.

Ab Urbe condita libri è il titolo dato dai codici più autorevoli e da altre testimonianze antiche all’opera di Livio: questi, infatti, si riferisce a essa una sola volta con il nome di annales, mentre altrove, genericamente, con libri. Si tratta di una grande storia di Roma dalla sua fondazione fino all’epoca a lui contemporanea, in 142 libri. Di questi se ne sono conservati i libri I-X e XXI-XLV (quest’ultimo è tuttavia mutilo dell’ultima parte) e scarsi frammenti degli altri, fra cui sono celebri quelli relativi alla morte di Cicerone e al giudizio di Livio sulla sua figura, tramandati da Seneca il Vecchio.

La narrazione liviana, dunque, cominciava dalle origini remote dell’Urbe, cioè con la fuga di Enea da Troia, e arrivava, con il libro CXLII, alla scomparsa di Druso, figliastro di Augusto, avvenuta in Germania nel 9 a.C., o forse anche fino alla disfatta di Varo nella selva di Teutoburgo, nel 9 d.C. Non si esclude che, secondo il progetto di Livio, interrotto dalla sua morte, l’opera dovesse comprendere 150 libri e giungere fino alla scomparsa di Augusto, cioè al 14.

Il naufragio di vaste porzioni del testo è probabilmente da imputare alla sua suddivisione in gruppi separati di libri, che andarono incontro a diverse vicende. Alla divisione in “decadi” si fa cenno per la prima volta verso la fine del V secolo, ma è probabile che essa risalga parecchio addietro. Anzi, secondo alcuni studiosi, potrebbe essere dovuta addirittura allo stesso Livio: quest’ultimo, infatti, pubblicò la propria opera per gruppi di libri comprendenti periodi distinti, premettendo dichiarazioni introduttive ad alcuni dei libri, con in quali, ogni volta, apriva un ciclo. Una delle più celebri, difatti, è il proemio con il quale si apre la terza “decade”, che contiene la narrazione della Seconda guerra punica: la presenza di un proemio in apertura di una “decade” ha fatto pensare, perciò, che questo tipo di suddivisione rispecchiasse sostanzialmente le fasi della pubblicazione dell’opera da parte dell’autore stesso.

 

Arras, Bibliothèque Municipale. Ms. 944, 2 (Jacques Le Boucq, c. 1570), Recueil d’Arras, f. 285. Ritratto di Tito Livio.

 

3. Il metodo storiografico e il rapporto con le fonti

Negli Ab Urbe condita libri Livio rifiuta implicitamente l’impianto monografico delle prime opere di Sallustio, ritornando alla struttura annalistica che aveva caratterizzato fin dall’inizio la storiografia latina: la narrazione di ogni impresa, per esempio, delle campagne militari, si estende per l’arco di un anno, al compiersi del quale viene sospesa, mentre ha inizio il racconto di altri avvenimenti contemporanei; quindi, viene adottato lo stesso metodo narrativo nei confronti dei fatti dell’anno seguente, riprendendo la narrazione di quanto lasciato in sospeso allo spirare dell’anno precedente, e così via.

Come buona parte degli storici latini venuti prima di lui, a cominciare da Catone, Livio dilatava l’ampiezza della propria narrazione man mano che si avvicinava al proprio presente: su 142 libri, 85 contenevano la storia di Roma a partire dall’età graccana, cioè meno di un secolo e mezzo. La dilatazione corrispondeva alle aspettative dei lettori, che mostravano maggiore interesse per le vicende più recenti, soprattutto per la narrazione della tremenda crisi politico-sociale dalla quale era emerso il Principato augusteo: di questa impazienza del pubblico, del resto, informa lo stesso Livio nella Praefatio generale all’opera.

Le fonti utilizzate dall’autore furono ovviamente numerose; per la prima decade, contenente la storia più antica di Roma, c’erano a disposizione quasi esclusivamente gli annalisti, fra i quali Livio mostra una preferenza per i più recenti: l’utilizzazione di Valerio Anziate, di Licinio Macro (un annalista di tendenze mariane, che scrisse dopo i conflitti civili degli anni Ottanta del I secolo a.C.) e di Claudio Quadrigario sembra molto più vasta di quella di Fabio Pittore. Nelle decadi successive, in cui veniva narrata l’espansione di Roma in Oriente, agli annalisti romani veniva ad affiancarsi il grande storico greco Polibio (II secolo a.C.), dal quale Livio attinse soprattutto la visione unitaria del mondo mediterraneo e dei legami fra Roma e i regni ellenistici; sporadica pare invece essere stata l’utilizzazione delle Origines di Catone.

È stato spesso sottolineato il fatto che Livio non sembra procedere a un attento vaglio critico delle proprie fonti: in certi casi, la facilità di accesso e di reperibilità sembra essere stata il criterio di scelta determinante. È inoltre notevole che Livio non abbia cercato di colmare le lacune della tradizione storiografica con il ricorso a documentazione di altro genere, che pure sarebbe stata facilmente accessibile: Livio fa un uso estremamente scarso dei documenti contenuta in manoscritti e antiche iscrizioni, come pure dei risultati delle ricerche scrupolose degli antiquari della precedente generazione, come Attico e Varrone.

Di conseguenza, si è visto in lui abbastanza spesso soprattutto un exornator rerum, principalmente preoccupato di amplificare e adornare la traccia che trovava nella propria fonte per mezzo di una drammatizzazione piena di varietà e di movimento. Su questa strada, si è arrivati al tentativo di escludere Livio dallo sviluppo della maggiore storiografia latina da Sallustio a Tacito, cioè dalla grande storiografia senatoria: si è visto, insomma, in Livio non lo storico senatore e uomo politico, che l’esperienza spesso amara e deludente della vita pubblica contemporanea metteva in grado di formarsi un giudizio personale e approfondito anche sugli eventi del passato, e al quale la posizione ricoperta facilitava l’accesso a fonti riservate di documentazione come gli acta Senatus, ecc., ma lo storico-letterato che lavora soprattutto di seconda mano sulla narrazione di storici precedenti. È una tesi che contiene vari elementi di verità, ma che non va spinta fino al punto di contrapporre frontalmente una storiografia senatoria fatta da chi sapeva come la storia fosse fatta, e destinata a fornire una guida all’uomo politico, a una storiografia come esercitazione letteraria di uomini incapaci di fare storia e, di conseguenza, viziata da insipido moralismo.

 

Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Vat. lat. 10696 (sec. IV-V), Fragmenta Liviana, T. Livius, Ab Urbe condita IV, 39, 10; 4, 36, 6-37, 7.

 

4. L’atteggiamento nei confronti del regime augusteo

A quanto pare, il Principato augusteo non operò, nei confronti della storiografia, un tentativo di egemonia paragonabile a quello attuato nei confronti della poesia. Livio non si collocava certamente all’opposizione, ma neppure svolgeva una propaganda di sostegno acritico. È noto da una testimonianza di Tacito (Ann. IV 34) che Augusto avrebbe affibbiato all’amico storico l’epiteto scherzoso di «Pompeiano», per la nostalgica simpatia verso gli ideali repubblicani che probabilmente si rifletteva anche nella sua opera. Il naufragio della sezione di quest’ultima relativa alle recenti guerre civili rende impossibile farsi un’idea adeguata del modo in cui Livio narrò la crisi della res publica e soprattutto degli umori che dal racconto trasparivano; ciononostante, si sa sempre da Tacito che Livio avesse coperto di lodi Pompeo e ostentasse rispetto verso gli altri avversari di Cesare, fra i quali i suoi stessi uccisori, Bruto e Cassio.

Un atteggiamento del genere non destava, in età augustea, particolari fastidi: Ottaviano, soprattutto dopo la riforma costituzionale del 27, era più desideroso di presentarsi come il restitutor rei publicae che come l’erede di Cesare; di conseguenza, tollerava, ed egli stesso in qualche misura utilizzava, il culto dei martiri della res publica. Su alcuni temi si poteva perciò registrare un accordo sostanziale fra il nuovo regime e lo storico patavino, senza che su quest’ultimo venisse esercitata la minima pressione: il principale fra questi temi era probabilmente la condanna del disordine politico-sociale degli ultimi decenni dell’età repubblicana, dei conflitti fra factiones, dell’avidità degli optimates ma ancor di più delle rivendicazioni dissennate dei ceti più umili. Il nuovo regime proclamava di aver ristabilito la concordia nel corpo civico, eliminando la faziosità: c’erano tutte le condizioni per l’incontro con uno storico che spesso si trova impegnato nell’esecrazione dei mali della demagogia. Per cogliere questa tematica, data la perdita delle sezioni relative alla storia più recente, occorre rifarsi alla narrazione liviana dei conflitti interni dei primi secoli della res publica, sui quali lo storico sembra tuttavia aver proiettato abbastanza frequentemente problematiche e moduli interpretativi legati a conflitti ben più recenti. Un altro importante fattore  di convergenza ideale con il princeps era costituito dalla politica augustea di restaurazione degli antichi valori morali e religiosi, una tematica comprensibilmente cara allo storico di Patavium.

Si è già detto, tuttavia, che il consenso liviano verso il regime non si traduceva in un’esaltazione incondizionata; questo aspetto apparirebbe in tutta chiarezza se si possedesse la narrazione degli eventi delle guerre civili e del Principato augusteo, ma alcune tendenze di fondo si lasciano ugualmente indovinare dalla Praefatio generale che Livio ha premesso alla propria opera. Dall’introduzione, infatti, traspare una consapevolezza acuta della crisi che Roma aveva di recente attraversato e che lo storico non sembra considerare come risolta del tutto felicemente.

In realtà, Livio rimase estraneo a tutta quella parte dell’ideologia augustea che insisteva sul valore “carismatico” del principatus, che lo presentava come la realizzazione di una nuova età dell’oro. Se Virgilio, pur fra molte contraddizioni, finiva per giustificare un disegno provvidenziale il quale aveva sancito che alla pienezza dei tempi si potesse giungere solo attraverso il molto sangue versato nelle guerre civili, Livio probabilmente non riusciva a scorgere nella vittoria finale di Ottaviano il rimedio miracoloso che aveva estinto una volta per tutte i germi della corruzione che avevano provocato il declino di S.P.Q.R.

 

Jacques-Louis David, I littori riportano a Lucio Giunio Bruto i corpi dei suoi figli. Olio su tela, 1789. Paris, Musée du Louvre.

 

5. Le caratteristiche della storiografia liviana

Nella Praefatio, che racchiude il suo manifesto programmatico, Livio dichiara l’intento fortemente moralistico e pedagogico della sua storia: attraverso la rassegna degli uomini e delle virtù che costruirono la potenza romana egli vuole fornire ai lettori un repertorio di exempla morali da seguire, di modelli cui guardare in un periodo di crisi come quella vissuta da Roma. Per raggiungere il suo obiettivo Livio si affida a una narrazione avvincente che mira non tanto a fornire un’analisi oggettiva dei fatti quanto a coinvolgere il lettore e a farlo identificare nei personaggi.

 

Leggenda del Lago Curzio. Bassorilievo, marmo, II sec. a.C. ca. Roma, Musei Capitolini.

 

5.1. Le tematiche

Più volte, sia nella Praefatio sia altrove, l’autore accenna al fatto che la narrazione del glorioso passato di Roma è per lui un rifugio rispetto alla cura che gli apporta il racconto degli eventi più recenti e contemporanei: un atteggiamento implicitamente polemico nei confronti della storiografia sallustiana, che aveva posto la crisi di Roma al centro della propria indagine. Il pessimismo liviano, che pure esiste, non è altrettanto lucido quanto quello di Sallustio; pur riconoscendo il carattere “epocale” e non episodico della crisi, Livio rifiuta di concentrare l’interesse su di essa, sforzandosi invece di non considerarla separatamente dal quadro generale della storia di Roma. Egli riconosce che la corruzione e la decadenza dei costumi si sono fatte strada anche nell’Urbe, ma più tardi che in qualunque altra realtà politica: complessivamente, nessun altro popolo può offrire esempio più insigni di grandezza morale e di integrità di costumi.

Dalle parti conservatesi dell’opera liviana emerge con prepotenza la giustificazione dell’imperium e della sua conquista, alla cui edificazione hanno validamente cooperato una fortuna sostanzialmente non diversa dalla providentia divina e la virtus propria del popolo romano. A quest’ultimo nessun’altra civiltà o condottiero sono stati in grado di opporsi validamente, perché nessuno è stato capace di esprimere una forza paragonabile a quella su cui fonda la res publica Romana. Una volta Livio giunge addirittura a porsi il problema di come sarebbero andate le cose se Alessandro Magno, il più grande conquistatore dell’antichità, anziché andare contro l’Oriente persiano si fosse rivolto a Occidente e contro la stessa Roma: ma non ha alcun dubbio ad affermare che nemmeno il Macedone sarebbe riuscito a sopraffare i Quirites. Ipotesi del genere probabilmente avranno contribuito a consolare lo storico dall’amarezza che gli ispiravano i tempi presenti. Molto più impregnata di pessimismo, appunto, doveva essere la narrazione delle epoche più vicine a lui. Forse ciò che in Livio appare come continuo orgoglio “nazionale”, costante e tenace esaltazione e abbellimento di tutte le gesta dei Romani – per esempio, il resoconto della Seconda guerra punica – potrebbe solo essere dovuto alla sua generale tendenza a idealizzare il passato: probabilmente egli oscurava in adeguata proporzione il quadro dell’ultimo secolo di storia romana.

Quando Livio rivolge il proprio sguardo a quel percorso di oltre settecento anni che ha portato una piccola città del Lazio all’egemonia sul mondo, mostra reverenza, quasi sgomento, davanti a tanto spazio di tempo e di fatti. Nella rievocazione dell’imponente cammino, Livio sente la pressione della storia, percepisce il peso e il condizionamento che le immagini del passato esercitano sulla coscienza del tempo presente. Quelle immagini agiscono come modelli di comportamento sociale e individuale, sia positivi sia negativi, sono inviti alla virtù o avvertimenti contro le atrocità. Il grandioso passato indica la via della salvezza a chi dovrà rinnovarne nel presente il prezioso esempio. La mitologia del passato, insomma, non solo ha senso per gli uomini del presente, ma anche dà senso al loro agire, in quanto sa illustrare esemplarmente i loro bisogni ideologici.

La concezione liviana della storia è dunque caratterizzata da una passione moralistica: non è uno studio politico che spieghi atteggiamenti ed eventi, che tenga conto di strategie di parti o di fazioni, di ideologie e di interessi materiali, bensì una narrazione da condurre in termini di personalità umane e di singoli individui rappresentativi, che fungono da exempla da imitare o da rifuggire per i futuri uomini di Stato.

 

Generale romano. Statua, marmo, 75-50 a.C. ca. dal Santuario di Ercole (Tivoli).

 

5.2. La drammatizzazione della storia

Per dare vividezza alla narrazione e suscitare così una maggiore presa sui lettori, Livio, ereditando una tendenza presente già da lungo tempo nella storiografia latina, ma che era stata fortemente ridotta da Sallustio, lascia largo spazio alla drammatizzazione del racconto, senza tuttavia permettere che essa soffochi l’impostazione pragmatica. Sono famosi i drammi, in cui si susseguono scene ricche di pathos, di Lucrezia, leggendaria eroina della Roma arcaica, e di Sofonisba, la nobildonna cartaginese figlia di Asdrubale e sposa di Massinissa, che preferì bere coraggiosamente il veleno piuttosto che cadere preda dei Romani.

La drammatizzazione è una tendenza praticamente onnipresente nella narrazione liviana: la si ritrova nella descrizione delle battaglie (spesso rappresentate secondo lo schema della peripezia, cioè del repentino rovesciamento in vittoria di una situazione inizialmente sfavorevole ai Romani), delle sommosse popolari, nei resoconti dei dibattiti in Senato.

 

Mattia Preti, La morte di Sofonisba. Olio su tela, 1660-1670 c. Lyon, Musée des Beaux-Arts.

 

Nella sua maniera di narrare la storia, ricca di pathos e intensità drammatica, Livio risente molto della tradizione storiografica ellenistica, in particolare quello stile che si usa chiamare «tragico». Nella concezione di autori come Eforo, Duride e Filarco, esponenti della cosiddetta «storiografia tragica», le cui opere sono purtroppo andate perdute, l’utilità della storia non consiste nella precisione ricostruttiva degli eventi e nell’analisi oggettiva dell’accaduto, quanto piuttosto nella capacità di descrivere efficacemente i fatti, in modo da suscitare emozioni nel lettore. Così la historia, più che “ricerca” della verità, poteva diventare attività retorica, rientrare nella categoria del letterario (per taluni teorici era cosa vicina all’oratoria, per altri alla poesia).

Per sua esplicita ammissione, Livio fa passare avanti alla ricerca della verità per se stessa la concezione (e l’esposizione) drammatica della storia. Il suo scopo diventa quello di mostrare che qualità mentali e morali hanno un impatto decisivo sugli eventi: l’atmosfera di una città agitata, i sentimenti di un popolo o di una folla, i pensieri e i desideri di un personaggio, le sue incertezze psicologiche e i suoi calcoli, tutto questo non è “obiettività”, non è il distacco impersonale che ogni teorico (antico e moderno) pretenderebbe da uno storico fededegno. Livio si immerge nelle cose e vuole dare, con tutta una serie di notazioni parziali, di cui sarebbe difficile garantire l’esattezza, l’impressione di un testimone che ha vissuto dentro il dramma che sta raccontando. Così commenta, per esempio, a conclusione del resoconto della Seconda guerra punica (XXXI 1, 1):

 

Anche per me è un ristoro essere giunto alla fine della guerra punica, come se ne avessi condiviso i travagli e i pericoli.

 

Scrivere la storia è per Livio anzitutto far vivere gli uomini che l’hanno fatta: se l’autore giudica i suoi personaggi, essi si giudicano anche l’un l’altro. E in questo, le sue doti letterarie – sicuramente non comuni – ottengono risultati di grande effetto. Si possono ammirare il senso della gradazione e della composizione, l’arte della frase costruita, e soprattutto le qualità “impressionistiche” di chi con le parole sa raffigurare grandi scene di massa.

I frequenti discorsi indiretti diventano la forma espressiva capace di evocare gli stadi d’animo segreti di folle e gruppi di persone. Spesso abili discorsi diretti sono composti, con efficace arte oratoria, per delineare i pensieri di singoli individui; e la loro foga impetuosa sbocca – quasi se ne volessero rappresentare gli effetti – nei commenti e nelle considerazioni degli spettatori-ascoltatori. Capita anzi spesso che il punto estremo e più altamente “patetico” di un episodio sia reso con un discorso diretto o indiretto, che ben caratterizza l’animo dei protagonisti.

Ma la “pateticità” di Livio non ha nulla che sia paragonabile al pathos acceso di Sallustio, alla forte passionalità di uno stile di scrittura che aveva scandito la narrazione sul ritmo di giudizi acri e l’aveva serrata in un pensiero sempre vigile e denso, severo. Quello di Livio è piuttosto un modo arioso di rappresentare e di narrare: un modo, si potrebbe dire, “sentimentale” (c’è più ethos che pathos), il quale sa associare, al piacere suscitato dal racconto, una certa grandezza delle raffigurazioni. E questo non di rado ottiene l’effetto di aggiungere al testo una suggestione di maestà epica: i personaggi acquistano spesso un carattere monumentale, mai tuttavia accademicamente manierato o eccessivamente enfatico.

 

Nicolas Poussin, Coriolano riceve le suppliche della sua famiglia. Olio su tela, 1652-53. Les Andelys, Musée Nicolas-Poussin.

 

6. Lo stile della narrazione liviana

Nel gusto stilistico, Livio si oppone nettamente alla tendenza di Sallustio, di cui, secondo una testimonianza di Seneca il Vecchio (I secolo), egli criticava apertamente il senso dell’espressione oltremodo concisa e la ricerca di brevitas che spesso lo faceva cadere nell’oscurità. Livio si avvicinò piuttosto allo stile che Cicerone aveva vagheggiato per la storiografia romana: nel II libro del De oratore questi aveva teorizzato uno stile che doveva avere «varietà di toni», ma soprattutto doveva distinguersi per il «corso dolce e regolare dell’espressione» (54); più chiaramente ancora, Cicerone aveva auspicato «uno stile scorrevole e largo, che si riversi con dolcezza, seguendo un corso piano e regolare» (64, genus orationis fusum atque tractum et cum lenitate quadam aequabiliter profluens; vd. anche Orat. 66). Questi precetti ciceroniani Livio dovette sentire buoni per sé e vi si adeguò con facile disponibilità.

Ma è pur vero che il periodare liviano, confrontato con quello del modello ciceroniano, risulta spesso carico, affollato, quasi lo impacci il desiderio di accumulare troppi particolari importanti in un unico lungo movimento discorsivo: se il periodo dell’Arpinate è fatto per essere ascoltato, quello del Patavino si attende invece di essere letto.

Quintiliano, che riconosceva la superiore grandezza di Sallustio come storico, contrapponeva alla sua brevitas austera e sentenziosa la lactea ubertas (l’«abbondanza dolce come il latte») di Livio (Inst. or. X 1, 32): uno stile ampio, fluido e luminoso, senza artifici e senza restrizioni, che evita ogni asperitas, e dove i periodi scorrono con facilità. Sempre Quintiliano accennava al candor, la limpida chiarezza dello stile liviano.

Ma lo storico patavino sapeva conferire al proprio stile anche un’ammirevole duttilità e varietà: la prima “decade”, infatti, è caratterizzata da un gusto arcaizzante, volto a sottolineare la remota solennità degli eventi narrati; nelle parti successive, invece, si fanno predominanti i tratti classicistici. Spesso, inoltre, il testo appare caratterizzato da una forte coloritura poetica.

 

Cairo, Egyptian Museum. PSI XII 1291 (Ossirinco, III-IV sec.), Epitome di Livio, libri XLVII-XLVIII.

 

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32 pensieri su “Tito Livio

  1. […] Negli anni della vita di Cicerone il popolo romano avrebbe avuto più di un’occasione di panico collettivo. Ricordo solo la calata di Cimbri e Teutoni negli anni 105-102 a.C. o la strage di cittadini romani e italici nell’89 a.C., in ossequio a Mitridate. Non cito le proscrizioni sillane, perché non toccarono il popolo, rivolte come erano ai grandi nobiles, senatori o cavalieri, nemici di Silla[1]. Solo per i Cimbri abbiamo tracce di terrore dopo la sconfitta di Cepione, che causò la morte di 120.000 uomini. Nella scarsità di fonti conservate, dobbiamo arrivare a un misero cenno di Eutropio (5, 1), che sicuramente riflette Livio: […]

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  2. […] Tito Livio menziona Brescia e Verona come i principali insediamenti della popolazione dei Cenomàni, di origine celtica; Plinio il Vecchio aggiunge alle prime due anche Cremona; per il geografo Tolomeo il dominio dei Cenomàni si estendeva fino a Bergamo, Mantova e Trento. Il nome di Brescia (lat. Brixia) deriva da *brig-(e)s-ia (dalla radice, probabilmente ligure, bric-, «montagna tagliata a picco»). Altri nomi di centri della Gallia Cisalpina hanno la stessa etimologia: ad esempio, Brixellum (Brescello). Brescia è nota alle fonti letterarie, a partire dal I secolo a.C., come caput Cenomanorum («capitale dei Cenomàni»), sorta nelle vicinanze del fiume Mella; per Catullo essa è la «città madre» di Verona. È molto probabile che l’insediamento cenomàno fosse situato in posizione elevata (sul colle Cidneo) ma non si può escludere che si estendesse anche nel piano, come lasciano immaginare materiali di scavo di età preromana rinvenuti nell’area del foro, allora forse adibita a mercato. Prima che i Bresciani ricevessero, nell’89 a.C., il diritto latino e lo statuto di colonia, venendo così assimilati alle popolazioni latine e instaurando rapporti privilegiati con Roma (come si dirà più avanti), la storia di Brescia coincide sostanzialmente con la storia dei Cenomàni. Successivamente, la rapida e intensa romanizzazione della Cisalpina favorì la completa integrazione delle popolazioni di origine celtica e dei tanti immigrati di origine romana e italica che si erano insediati sul territorio padano. L’appartenenza originaria alla stirpe celtica rimase ancora evidente nell’onomastica degli indigeni e nei culti religiosi, sebbene le divinità celtiche subissero anch’esse un processo di romanizzazione attraverso l’attribuzione di caratteristiche proprie di divinità romane (la cosiddetta interpretatio romana). […]

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