Atticismo e Asianesimo

da A. BALESTRA et al., In partes tres. 3. L’età imperiale, Bologna 2016, 437-438.

Cicerone nell’Orator, una delle sue opere teoriche sulla retorica, usa la locuzione novi Attici («nuovi atticisti») con tono dispregiativo per riferirsi alla generazione di giovani oratori che muoveva critiche al suo stile retorico. La definizione richiama da vicino quella di poetae novi, che lo stesso Arpinate utilizzava per indicare i poeti della medesima generazione, come Catullo, e ugualmente in tono dispregiativo. Lo stile di quegli oratori, per quanto è possibile intendere in un contesto abbastanza povero di dati, cercava semplicità di espressione, rigore, ordine espositivo ed estrema chiarezza, avvalendosi di un lessico particolarmente sorvegliato e depurato da forme troppo vicine al sermo cotidianus. La definizione data da Cicerone si dovette al fatto che questi giovani retori si ispirarono agli oratori attici di V-IV secolo a.C., come Lisia e Iperide. Nel gruppo dei novi Attici si annoveravano personaggi assai vicini allo stesso Arpinate, come Celio Rufo (82-48 a.C., il giovane amante di Lesbia, rivale di Catullo, che la donna coinvolse in un processo politico), o Marco Giunio Bruto (85 c.-42 a.C.), il futuro cesaricida, al quale Cicerone avrebbe dedicato il trattato di oratoria che prende il titolo dal suo nome, Brutus.

Alla base delle scelte linguistiche compiute dai cosiddetti «atticisti» c’erano le dottrine analogiste, che raccomandavano l’uso di una lingua che non prevedesse neologismi o termini rari o di intonazione popolaresca. La critica che Cicerone mosse a costoro fu di essere poco incisivi e di risultare freddi all’uditorio. Forse, come oratore, anche Gaio Giulio Cesare appartenne alla linea atticista; tuttavia, bisogna considerare che la prosa dei Commentarii, pensati come rapporti al Senato, non è detto che fosse la medesima delle sue orazioni. D’altronde, tutte le testimonianze di Cesare retore, comprese quelle fornite dallo stesso Cicerone, affermano che il condottiero possedesse un’eloquenza tutt’altro che fredda, anzi addirittura travolgente!

Ritratto di togato. Statua, marmo, I sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Romano di P.zzo Massimo alle Terme.

Anche il nomignolo di Asiatici («asiani») riferito ad alcuni retori comparve per la prima volta nelle opere teoriche di Cicerone (per esempio, in Brutus 51, 8), sempre con intonazione negativa: con tale epiteto, infatti, l’Arpinate designava gli oratori attivi nelle città d’Asia successivamente alla grande stagione dell’oratoria politica ateniese. A suo giudizio, una certa incompetenza nell’uso della lingua greca aveva determinato forme espressive poco controllate, che avevano prodotto il moltiplicarsi di perifrasi ridondanti. Sempre secondo Cicerone, l’Asianesimo si manifestava secondo due tendenze, una che prediligeva periodi brevi e un andamento sentenzioso, un’altra, viceversa, caratterizzata da espressione piena e vigorosa, un vero e proprio flumen orationis (Brutus 325). Inoltre, Cicerone, individuando un indirizzo che la moderna critica ha denominato “rodiese”, ricordava che i retori delle scuole di Rodi – pure «asiani» – mantenevano un’eloquenza più controllata, più vicina a quella degli oratori attici di età classica.

Dopo la morte di Cicerone, con l’instaurazione del Principato di Augusto, a Roma prevalse nettamente l’Atticismo: si ha testimonianza di ciò dagli scritti di retori successivi o dai passi inseriti nella raccolta antologica di Seneca il Vecchio. A questo fenomeno contribuirono due circostanze: in primo luogo, la presenza nell’Urbe di Cecilio di Calatte (vissuto nella seconda metà del I secolo a.C.) e di Dionigi di Alicarnasso (60-7 a.C.), due retori greci decisamente schierati a favore dell’Atticismo (in particolare, al primo risale la codificazione del canone degli oratori attici del V-IV secolo a.C.); in secondo luogo, la preferenza manifestata verso questa tendenza dallo stesso princeps, il cui gusto naturalmente influenzò l’epoca. Come sottolineato dai maggiori studiosi del fenomeno, l’importanza di questo fatto va individuata nel formarsi di quello che si può considerare il primo “classicismo” della letteratura latina, dove si intende per “classicismo” la tendenza a imitare i lineamenti estetici di un nucleo di autori considerati canonici, nei quali si riconoscevano movenze espressive equilibrate, ordinate e regolari.

Cecilio di Kalé Akté

Trad. parziale da M. WEISSENBERGER, s.v. Caecilius [III.5], BNP 2, Leiden 2003, 885.

 

Cecilio di Cale Acte (Καικίλιος Καλακτῖνος) fu retore greco di età augustea. Oltre al suo amico Dionigi di Alicarnasso, più vecchio di lui di una decina d’anni, fu il più grande oratore e grammatico greco del Principato e nacque intorno al 50 a.C. a Καλὴ Ἀκτή (od. Caronia) in Sicilia. Di probabile origine giudaica, secondo la Suda il suo nome originario sarebbe stato Arcàgato (Αρχάγαθος). Suo maestro fu forse Apollodoro di Pergamo (Quint. IX 1, 12). Insieme a Dionigi, Cecilio è considerato il fondatore dell’Atticismo letterario, ma la sua effettiva influenza sugli autori successivi non può essere confermata, dal momento che dei suoi numerosi scritti rimangono solo pochi lacerti. I titoli noti delle sue opere possono essere approssimativamente ricondotti a tre diversi ambiti di studio: la storiografia (Σύγγραμμα περὶ τῶν δουλικῶν πολέμων, Περὶ ἱστορίας); gli scritti tecnici retorici (Τέχνη ῥητορική, Περὶ σχημάτων, Περὶ ὕψους, Κατὰ Φρυγῶν); la critica letteraria (Τίνι διαφέρει Ἀσιανὸς ζῆλος τοῦ Ἀττικοῦ, Περὶ τοῦ χαρακτῆρος τῶν δέκα ῥητόρων, Σύγκρισις Δημοσθένους καὶ Κικέρωνος). Oltre a questi testi, egli compilò anche un lessico – il primo «atticista» – in ordine alfabetico, grazie al quale si sviluppò l’ampia produzione lessicografica successiva. Cecilio fu uno dei massimi fautori del “classicismo” atticista e uno dei retori più rinomati del suo tempo. Ora, un giudizio complessivo sull’opera di questo autore è praticamente impossibile a causa della scarsità di fonti e testimoni: se si fa fede, comunque, all’autore del Περὶ ὕψους (Del sublime), che si scagliò con aspre critiche contro l’omonimo testo di Cecilio, costui doveva essere un lettore superficiale e, al contempo, un pedante cavillatore (cfr. Ps.-Longin. I 1-2; 8). Nel suo trattatello Cecilio combatteva il falso sublime della retorica «asiana» e lodava la perfetta mediocritas (μετριότης) a scapito della grandezza difettosa, esaltando Lisia e svalutando Platone (cfr. fr. 150 Ofenloch).

 

Ritratto di Cecilio di Calacte, da G.E. Ortolani, Biografia degli uomini illustri della Sicilia ornata de’ loro rispettivi ritratti, Tomo I, Napoli 1817.

 

***

Bibliografia:

AX W. Ax, Quadripertita ratio, in TAYLOR D.J. (ed.), The History of Linguistics in the Classical Period, Amsterdam 1986, 191-214.

BATEMAN J.J., The critiques of Isocrates’ style in Photius’ Bibliotheca, ICS 6 (1981), 182-196.

BRZOSKA J., s.v. Caecilius (2), RE III, 1 (1897), coll. 1174-1188 [link].

CAVALLARO M.A., Dionisio, Cecilio di Kale Acte e l’Ineditum Vaticanum, Helikon 13-14 (1973-74), 118-140.

COULTER J.A., Περὶ ὕψους 3,3-4 and Aristotle’s Theory of the Mean, GRBS 5 (1964), 197-213.

DOUGLAS A.E., Cicero, Quintilian and the Canon of Ten Attic Orators, Mnemosyne 4 (1956), 30-40 [link].

FANAN G., Il lessico di P. Oxy. 1012, SCO 26 (1977), 187-248.

GOOLD G.P., A Greek Professorial Circle at Rome, TAPhA 92 (1961), 168-192.

KENNEDY G., The Art of Rhetoric in the Roman World, 300 B.C. to A.D. 300, Princeton 1972.

MÜLLER K. (ed.), Fragmenta Historicorum Graecorum 3, Paris 1849, 330-333.

OFENLOCH E. (ed.), Caecilii Calactini Fragmenta, Leipzig 1907 (rist. 1967) [link].

RHYS ROBERTS W., The Literary Circle of Dionysius of Halicarnassus, CR 14 (1900), 441-442.

RICHARDS G.C., The Authorship of the Περὶ Ὕψους, CQ 32 (1938), 133-134.

Contro le declamazioni di scuola [Quint. V 12, 17-23]

da A. BALESTRA et al., In partes tres. 3. L’età imperiale, Bologna 2016, 441-444.

Dopo aver esposto gli accorgimenti necessari affinché un’argomentazione sia efficace (tema del V libro), con particolare attenzione al metodo per costruire le prove di ragionamento (i cosiddetti «sillogismi retorici»), Quintiliano specifica che tanta accuratezza sia dovuta al fatto che le orazioni preparate per le esercitazioni scolastiche (le declamationes) spesso sono infarcite di ragionamenti capziosi, che rendono il complesso del discorso debole, se non ridicolo. Con una metafora di forte impatto emotivo, l’autore paragona l’atteggiamento degli autori di arzigogolate declamazioni, gradevoli all’ascolto, ma prive di sostanza, a quello dei venditori di schiavi che evirano i fanciulli prima di metterli in vendita, nella convinzione che i giovani dai tratti effemminati riscuoteranno maggior favore presso i clienti. In questa parte del testo Quintiliano riprende il tema che caratterizzava la sua opera andata perduta, il De causis corruptae eloquentiae.

[17] […] Quod eo diligentius faciendum fuit quia declamationes, quibus ad pugnam forensem uelut praepilatis exerceri solebamus, olim iam ab illa uera imagine orandi recesserunt, atque ad solam compositae uoluptatem neruis carent, non alio medius fidius uitio dicentium quam quo mancipiorum negotiatores formae puerorum uirilitate excisa lenocinantur. [18] nam ut illi robur ac lacertos barbamque ante omnia et alia quae natura proprie maribus dedit parum existimant decora, quaeque fortia, si liceret, forent ut dura molliunt: ita nos habitum ipsum orationis uirilem et illam uim stricte robusteque dicendi tenera quadam elocutionis cute operimus et, dum leuia sint ac nitida, quantum ualeant nihil interesse arbitramur. [19] sed mihi naturam intuenti nemo non uir spadone formosior erit, nec tam auersa umquam uidebitur ab opere suo prouidentia ut debilitas inter optima inuenta sit, nec id ferro speciosum fieri putabo quod si nasceretur monstrum erat. libidinem iuuet ipsum effeminati sexus mendacium, numquam tamen hoc continget malis moribus regnum, ut si qua pretiosa fecit fecerit et bona. [20] quapropter eloquentiam, licet hanc (ut sentio enim, dicam) libidinosam resupina uoluptate auditoria probent, nullam esse existimabo quae ne minimum quidem in se indicium masculi et incorrupti, ne dicam grauis et sancti, uiri ostentet. [21] an uero statuarum artifices pictoresque clarissimi, cum corpora quam speciosissima fingendo pingendoue efficere cuperent, numquam in hunc ceciderunt errorem, ut Bagoam aut Megabuxum aliquem in exemplum operis sumerent sibi, sed doryphoron illum aptum uel militiae uel palaestrae, aliorum quoque iuuenum bellicorum et athletarum corpora decora uere existimarunt: nos qui oratorem studemus effingere non arma sed tympana eloquentiae demus? [22] igitur et ille quem instituimus adulescens quam maxime potest componat se ad imitationem ueritatis, initurusque frequenter forensium certaminum pugnam iam in schola uictoriam spectet, et ferire uitalia ac tueri sciat, et praeceptor id maxime exigat, inuentum praecipue probet. nam ut ad peiora iuuenes laude ducuntur, ita laudati in bonis manent. [23] nunc illud mali est, quod necessaria plerumque silentio transeunt, nec in dicendo uidetur inter bona utilitas. sed haec et in alio nobis tractata sunt opere et in hoc saepe repetenda: nunc ad ordinem inceptum.

[17] […] Ho dovuto spiegare questo in modo particolarmente attento in quanto le declamazioni, con le quali eravamo soliti prepararci alle battaglie forensi come si fa con le armi d’addestramento, si sono ormai allontanate dalla funzione originaria di arringhe simulate e, composte solo per diletto, mancano di nerbo, sebbene per chi parli in pubblico non ci sia difetto maggiore, a dire il vero, di quello che è in uso tra i venditori di schiavi che rendono più graziosi i fanciulli evirandoli. [18] Come infatti quelli ritengono poco eleganti in primo luogo il vigore dei muscoli e la barba e poi gli altri attributi che la natura propriamente ha assegnato al maschio, e ammorbidiscono in quanto duri tutti i caratteri che dovrebbero essere robusti, se fosse consentito, così noi copriamo con uno strato sdolcinato di bello stile la consistenza propriamente virile di un discorso e la capacità di parlare con rigore e veemenza e, purché tutte le frasi sono levigate e nitide, crediamo che non abbia alcuna importanza il loro effettivo valore. [19] Al contrario, per me, basandomi sulla natura, un uomo sarà più bello di un eunuco, né la saggezza sarà mai tanto contraria rispetto al suo naturale corso in modo da operare che la debolezza sia da collocare tra le virtù, né mai riterrò che diventi bello grazie a un bisturi ciò che, se fosse nato così, sarebbe stato ritenuto deformità. Un corpo artificialmente reso femminile gioverà forse ai piaceri dell’erotismo, ma alla depravazione non toccherà mai la facoltà di rendere anche onesto ciò che ha reso pregiato. [20] Perciò, per quanto gli spettatori con passivo compiacimento approvino questa eloquenza viziata (dirò infatti come penso), io riterrò che non ci sia nessuna eloquenza che non mostri in sé nemmeno il minimo indizio di provenire da un uomo di autentica mascolinità, per non dire austero e venerando. [21] Del resto, i più noti scultori e pittori, desiderando realizzare con la scultura o la pittura corpi i più belli possibile, mai sono caduti nell’errore di prendersi un Bagoa o un Megabizo come modello dell’opera, ma giudicarono il doriforo il soggetto adatto per raffigurare il mestiere del soldato o l’attività sportiva, e anche di altri giovani combattenti e atleti ritennero veramente bello il corpo: e noi, che pretendiamo di formare un oratore, daremo alla sua eloquenza non armi vere ma dei sonaglietti? [22] Perciò, il giovane che stiamo educando si ispiri il più possibile all’imitazione della realtà, e, pronto a intraprendere frequentemente la battaglia delle contese forensi, già a scuola miri alla vittoria, e sappia colpire e individuare le parti vitali, e l’insegnante esiga soprattutto quello e, una volta ottenutolo, dia senza riserve l’approvazione. Infatti, come i giovani con gli elogi sono allettati addirittura al male, così, se opportunamente gratificati, permangono nei buoni costumi. [23] Attualmente di male c’è questo, che per lo più si passa sotto silenzio il necessario e nell’oratoria l’utile non sembra compreso tra i pregi.

Giovane nobile con l’himation. Statua, bronzo, età augustea, da Rodi. New York, Metropolitan Museum of Art.

Quintiliano dunque spiega chiaramente che la declamazione è nata come esercizio di scuola. Da Seneca il Vecchio si apprende che l’abitudine di trattare di fronte al pubblico un argomento assegnato dal maestro è stata introdotta nelle scuole di retorica di Atene fin dal IV secolo a.C. A Roma l’usanza della declamatio si diffuse dal I secolo a.C. (declamare significa letteralmente «recitare ad alta voce»; in seguito, il termine declamatio prese il significato di «discorso fittizio»). Il pubblico, come in moderni saggi scolastici, era composto anche da persone esterne alla scuola, amici e parenti dei ragazzi. D’altra parte, anche oratori ormai in carriera potevano saltuariamente tornare a declamare per amici e conoscenti. Un significativo cambiamento intervenne verso la fine dell’età repubblicana – sempre secondo la testimonianza di Seneca il Vecchio – quando la declamazione divenne uno spettacolo indipendente dalla prassi scolastica. In vere e proprie conferenze, in cui non mancava una certa dose di mondanità, si esibivano gli oratori più famosi. Per ottenere l’applauso degli astanti furono adottati espedienti sempre più appariscenti e artificiali, perché la scelta degli argomenti astrusi dava modo ai relatori di mettere in luce la propria competenza argomentativa. Questo fenomeno era per Quintiliano una mostruosità! Il vero male dell’eloquenza del suo tempo era quello di aver perso il contatto con la realtà – concetto espresso anche con la similitudine fondata sull’esempio dei grandi scultori dell’antichità.

Boulanger Gustave Clarence Rudolphe, Il mercato degli schiavi.

Secondo Quintiliano, la causa della decadenza dell’oratoria era un fenomeno dipendente esclusivamente da un processo avvenuto all’interno delle scuole: aver trasformato un esercizio in una forma di spettacolo aveva condotto a cercare soggetti sempre meno collegati con l’effettiva pratica forense (nec in dicendo uidetur inter bona utilitas, 23), tanto che i maestri, pensando ormai di dover preparare declamatori più che effettivi avvocati, trascurarono nell’insegnamento quanto fosse davvero necessario (necessaria plerumque silentio transeunt). Lo stile di eloquenza che Quintiliano rigettava con forza, in quanto artificiale e vuoto, era quello da lui attribuito a Seneca, come spiegava nella parte del libro X in cui prendeva in considerazione lo stile del filosofo, franto e sentenzioso, ma di grande impatto psicologico sui giovani di quella generazione. È probabile che un parere di questo tipo fosse rimarcato da Quintiliano anche nel De causis corruptae eloquentiae.

L’autore sembrava però ottimista di fronte alla decadenza dell’oratoria, in quanto riteneva che si potesse porre rimedio cambiando il metodo d’insegnamento e sostituendo i modelli da indicare agli alunni come riferimento. La similitudine del paragrafo 21, con il riferimento all’arte di Policleto, è indicativa di una concezione “classicistica” della retorica, che non doveva cercare modelli al di fuori di quelli consacrati dalla tradizione e soprattutto ispirati a un criterio di chiarezza e di equilibrio formale. La posizione di Quintiliano è, quindi, diversa rispetto a quella di Seneca il Vecchio, che, pur lamentando il medesimo problema, presupponeva per la decadenza dell’oratoria cause riconducibili a un peggioramento morale del mondo romano: ciò aveva ridotto la disciplina a mero strumento per facili guadagni.

Giovane intento alla lettura. Affresco (dettaglio), I secolo, da Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale
Giovane intento alla lettura. Affresco (dettaglio), I secolo, da Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Anche Seneca filosofo, la cui eloquenza era additata da Quintiliano come scadente, aveva lamentato ai suoi tempi un forte peggioramento qualitativo nell’arte della parola. Seneca aveva dedicato all’argomento una delle lettere a Lucilio (ad Luc. CXIV), mostrandosi in accordo con le affermazioni del padre e individuando nello scadimento morale dei Romani una delle principali cause di quella decadenza. Entrambi i Seneca, pertanto, rispetto a Quintiliano manifestavano un netto pessimismo riguardo alle possibilità che l’oratoria potesse tornare agli antichi splendori.

Marco Fabio Quintiliano

Al periodo turbolento del principato di Nerone (54-68) seguì quello della «restaurazione» di Tito Flavio Vespasiano e dei suoi successori (69-96): con un parallelo stilistico si potrebbe far corrispondere l’età neroniana le irregolarità dell’eloquenza asiana e alla successiva età flavia un’esigenza di ordine e organizzazione di tipo piuttosto atticista. I Flavi infatti sostituirono alla figura del filosofo e consigliere imperiale quella del retore e funzionario amministrativo, e di conseguenza attribuirono grande importanza alla formazione oratoria della nuova classe politica romana. È a questo punto che entra in gioco la figura di Quintiliano, già insegnante di retorica nella nativa Hispania e primo maestro a ricoprire la cattedra di eloquenza stipendiata dall’Impero per volontà di Vespasiano nel 71. Il fatto che divenisse poi precettore dei figli e dei nipoti di Domiziano potrebbe farlo apparire irrimediabilmente compromesso con la politica di regime del princeps, ma, nonostante egli considerasse la realtà dell’Impero come necessaria (e, quindi, come imprescindibile posizione di partenza), tracciò una figura nobile di oratore, con il cui contributo giovare certo più al bene della res publica che del singolo principe.

Scena di scuola. Rilievo, marmo, inizi III sec. d.C. ca. da Neumagen. Trier, Rheinisches Landesmuseum.

 

La vita

Ciò che si sa di Quintiliano è noto prevalentemente dalla sua opera e dal Chronicon di Girolamo, fonte preziosa peraltro di notizie riguardanti numerosi altri autori latini. Alcuni cenni sul suo conto si trovano in varie fonti, per esempio, in Marziale II 90 e Giovenale VII 186 ss. Marco Fabio Quintiliano nacque fra il 35 e il 40 a Calagurris (od. Calahorra) in Hispania Tarraconensis. Il padre, anch’egli maestro di retorica, lo condusse giovanissimo a Roma, dove seguì gli insegnamenti del grammatico Remmio Palemone e dell’oratore Domizio Afro, personaggio da lui più volte ricordato con ammirazione. Tornò in patria dove esercitò la professione di avvocato, raggiungendo fama e successo, fino a quando nel 68 fu ricondotto a Roma da Galba, allora legatus Augusti della provincia, acclamato imperatore dalle legioni ispaniche. Nell’Urbe rimase anche dopo l’assassinio del princeps, dedicandosi all’avvocatura e all’insegnamento dell’oratoria. Dagli imperatori che governarono durante la sua vita ebbe grandi prove di stima: da Vespasiano, come si è ricordato, gli fu attribuita una delle prime cattedre di retorica (ebbe come allievi Plinio il Giovane e forse anche Tacito e Giovenale) con uno stipendio annuo di centomila sesterzi; da Domiziano gli furono conferiti gli ornamenta consularia e, dopo il suo ritiro dalla professione di docente durata circa vent’anni, l’incarico di istruire i suoi pronipoti. Quintiliano scomparve presumibilmente fra il 96 e il 100.

Durante la sua vita quest’uomo vide succedersi numerosi imperatori in Roma. Durante la sua giovinezza, infatti, governarono prima Claudio (41-54) e poi Nerone (54-68): in tal periodo il potere si era spostato progressivamente dal Senato al principe, con conseguente perdita della libertas, presupposto indispensabile per la lotta politica, la militanza e l’attività pubblica, nonché linfa vitale per l’oratoria, che da essa aveva tratto vigore e passione nei secoli precedenti.

Lo studio della retorica, in particolare, che a Roma aveva rivestito grande importanza nell’iter formativo della classe dirigente dal III-II secolo a.C. circa, all’epoca di Nerone non fu più diretto prevalentemente alla preparazione dell’oratore che avrebbe dato prova di sé nel foro e nella vita pubblica, ma divenne elemento base dell’istruzione superiore a cui si dedicavano intellettuali e alti funzionari imperiali. Spia della mutata situazione era la pratica delle declamationes, che, nate come esercitazioni da parte del maestro o degli allievi delle scuole di retorica, divennero discorsi fittizi che si tenevano in pubblico. Di conseguenza, si era affermato uno stile più ricercato, spesso artificioso, mirante a suscitare diversi effetti sull’uditorio e strappare applausi.

Questa ondata anticlassicista della tarda età giulio-claudia si andò esaurendo con l’avvento degli imperatori della dinastia Flavia. Tutto il loro programma, imperniato sulla ricerca di un nuovo equilibrio, rivelava un’impostazione di tipo conservatore: segni evidenti di ciò furono il riavvicinamento al Senato (sul piano della politica interna) e il ritorno agli antichi ideali e costumi (sul piano sociale). In questo senso fu favorito, quanto alla retorica, un revival del classicismo che appunto trovò in Quintiliano uno dei massimi fautori. L’impegno da parte dei Flavi alla formazione di una classe dirigente e la loro attenzione alla cultura che serviva all’insegnamento svilupparono gli studi di retorica. Questi furono tenuti in così grande considerazione al punto che, per la prima volta, furono istituite delle cattedre di eloquenza retribuite dallo Stato.

Giovane intento a far di conto con l’abaco. Rilievo, marmo, I sec. d.C. particolare da un sarcofago di età flavia. Roma, Musei Capitolini.

L’opera

Gli interessi di Quintiliano, come rivelano i titoli delle sue opere, furono incentrati esclusivamente sulla retorica e i problemi a essa connessi. La sua attività di scrittore si svolse completamente dopo il ritiro dall’attività di insegnamento. Tuttavia, come egli stesso riferisce nella Institutio oratoria, già in precedenza era stata diffusa sotto il suo nome un’opera, in due libri, di arte retorica, compilata da suoi allievi, che avevano raccolto il materiale stenografando una lunga conversazione e numerose sue lezioni, senza alcuna revisione da parte del maestro e senza la sua volontà. Di Quintiliano è andato perduto un trattato, De causis corruptae eloquentiae, in cui esaminava le cause della decadenza dell’oratoria dei suoi tempi. La sua opera maggiore, fortunatamente conservata, è la Institutio oratoria, in dodici libri, scritta probabilmente fra il 93 e il 95. Inoltre, sono state tramandate con il suo nome due raccolte di Declamationes (diciannove maiores, ampie e compiute, e centoquarantacinque minores in forma di schema o di abbozzo di orazione), ma la loro paternità è, in parte o completamente, respinta da molti studiosi.

 

Uomo togato. Statua, marmo, 100-250 d.C. ca. da Roma.

 

I rimedi alla corruzione dell’eloquenza

Il problema della corruzione dell’eloquenza investiva contemporaneamente questioni morali e di gusto letterario: il primo aspetto era particolarmente evidente nel diffuso malcostume della delazione, che spesso asserviva la parola a fini di ricatto materiale e morale; inoltre, a quanto pare, nelle scuole erano abbastanza diffuse figure di insegnanti corrotti, i quali, a loro volta, corrompevano la moralità degli allievi (tristemente celebre l’esempio di quel Remmio Palemone che fu tra i maestri dello stesso Quintiliano!). Un secondo risvolto del problema era quello relativo alle scelte letterarie, perché nelle virtù e nei vizi di stile taluni vedevano l’espressione della virtù e vizi del carattere. In epoca flavia fu particolarmente acceso il dibattito fra i diversi orientamenti dell’oratoria: in particolare si trattava di stabilire quale fosse lo stile migliore da perseguire nell’arte della parola (arcaizzante, modernizzante, ciceroniano) e di individuare le cause prime della crisi della retorica.

Dal punto di vista dei gusti letterari, Quintiliano si pose fra i classicisti, anzi fu il “vessillifero” di una reazione conservatrice nei confronti dello stile «corrotto» e «degenerato» di cui egli vedeva in Seneca il principale esponente e insieme il maggiore responsabile. Quintiliano, non meno da altri autori antichi, vedeva in termini moralistici il problema della degenerazione dell’eloquenza e ne additava le cause nella generale degradazione dei costumi. Ma egli era, in primo luogo, un uomo di larga esperienza didattica, profondamente convinto dell’efficacia dell’educazione e dell’istruzione. La corruzione della retorica aveva, ai suoi occhi, anche motivazioni «tecniche», che egli ravvisava nel decadimento delle scuole e nella vacuità stravagante delle declamazioni retoriche. A una rinnovata serietà dell’insegnamento egli affidava pertanto il compito di ovviare al problema nella misura in cui fosse possibile. Così nella sua Institutio oratoria Quintiliano delineò un programma complessivo di formazione culturale e morale, che il futuro oratore avrebbe dovuto seguire scrupolosamente dall’infanzia fino al suo ingresso nella vita pubblica.

Questa formazione, che andava al di là del possesso di buone competenze tecniche, era stata proposta come ideale anche da Cicerone; tuttavia, in essa, diversamente che per l’Arpinate, per Quintiliano non era più la filosofia a ricoprire un ruolo primario, bensì la stessa retorica, che in tal modo perdeva una connotazione puramente tecnica di strumento di persuasione per assumere un’ampia valenza educativa. Scopo dichiarato dell’autore dell’Institutio era comunque il recupero, adattandola ai propri tempi, dell’eredità di Cicerone: un compito che Quintiliano seppe assolvere con finezza e senso della misura. Nel ritorno a Cicerone si esprimeva, da parte sua, l’esigenza di ritrovare una sanità di espressione che fosse insieme sintomo della saldezza dei costumi. Probabilmente una simile esigenza potrebbe spiegarsi anche sullo sfondo dei più vasti mutamenti sociali e politici a cui avrebbe accennato anche Tacito (Annales III 55), osservando come, con l’avvento al potere di Vespasiano, le «stravaganze» dell’età neroniana cedettero il posto a consuetudini più sobrie: in parte perché i novi homines di provenienza italica e provinciale, raggiungendo posizioni di prestigio, ebbero la tendenza a reintrodurre codici di comportamento più aderenti alla tradizione quiritaria.

Quando, presumibilmente intorno al 90, Quintiliano pubblicò il suo De causis corruptae eloquentiae, il Nuovo Stile di cui Seneca pochi decenni prima era stato l’esponente più illustre, contava ancora numerosi seguaci e ammiratori. Ma già solo pochi anni dopo, ai tempi dell’Institutio, la situazione parve alquanto mutata: il nuovo classicismo era un movimento che andava affermandosi e la battaglia culturale di Quintiliano era ormai vinta.

 

Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana. Plut. 46.12 (1477 c.), contenente l’Institutio oratoria di Quintiliano. Frontespizio.

 

L’Institutio oratoria

L’Institutio oratoria è dedicata a Vittorio Marcello, un oratore ammirato anche da Stazio e amico di Valerio Probo, ed è preceduta da una lettera a Trifone, l’editore che dovette curarne la pubblicazione. Indicativo è il fatto che il titolo riporti il concetto di institutio, ossia di formazione, istruzione, educazione: il testo si presentava al lettore antico quale manuale di tecnica retorica accompagnato da un forte interesse didattico. Mentre le precedenti opere in materia avevano sempre rivolto i loro precetti a uomini già culturalmente formati, Quintiliano ritenne di dover tracciare una metodologia di formazione dell’oratore che comprendesse addirittura la fase più elementare:

 

Nam ceteri fere qui artem orandi litteris tradiderunt ita sunt exorsi quasi perfectis omni alio genere doctrinae summam †in eloquentiae† manum imponerent, siue contemnentes tamquam parua quae prius discimus studia, siue non ad suum pertinere officium opinati, quando diuisae professionum uices essent, seu, quod proximum uero, nullam ingenii sperantes gratiam circa res etiamsi necessarias, procul tamen ab ostentatione positas, ut operum fastigia spectantur, latent fundamenta. Ego cum existimem nihil arti oratoriae alienum sine quo fieri non posse oratorem fatendum est, nec ad ullius rei summam nisi praecedentibus initiis perueniri, ad minora illa, sed quae si neglegas non sit maioribus locus, demittere me non recusabo, nec aliter quam si mihi tradatur educandus orator studia eius formare ab infantia incipiam.

 

… Generalmente gli autori di precettistica retorica iniziarono le loro opere come rivolgendosi a persone già perfettamente versate in ogni ramo del sapere, per dar loro quindi l’ultima mano, consistente nei precetti dell’eloquenza; sia in dispregio dei primi studi, come fossero bagatelle, sia perché credettero che non a essi spettasse soffermarvisi, in quanto, a loro avviso, esisteva la specializzazione professionale, sia forse – ed è questa l’ipotesi più probabile – perché non speravano in alcun riconoscimento del loro ingegno, se si fossero attardati intorno a cose necessarie, sì, ma lontane dalla possibilità di un certo esibizionismo: proprio come di un edificio si suole osservare la parte alta, mentre le fondamenta restano nascoste. Personalmente, ritengo non esservi nozione alcuna, indispensabile alla formazione di un oratore, che sia estranea all’arte oratoria, e che non si può giungere alla formazione di qualche cosa, se non partendo dai suoi primi elementi; ed è per questo che non mi rifiuterò di scendere fino ai semplici fondamenti della formazione retorica, i quali sono, tuttavia, premessa indispensabile per le fasi più impegnative del seguito; e comincerò a organizzare gli studi e le attività dell’oratore fin dalla sua infanzia, esattamente come se mi venisse affidato perché lo allevi.

 

(Inst., Proemio 4-5, trad. it. R. Faranda)

 

È un’impostazione che rivela l’atteggiamento di chi certo riconosceva lo stato decadente della disciplina contemporanea, ma, al tempo stesso, riteneva che potesse esservi rimedio e che la soluzione consistesse proprio in una riforma radicale dell’educazione. Tacito, in seguito, con maggiore penetrazione, avrebbe individuato le ragioni profonde di questa decadenza nella mancanza di libera espressione imposta dal regime imperiale. Certo è che a Quintiliano interessava delineare maggiormente il ruolo culturale dell’oratore piuttosto che la sua possibilità di affermarsi in ambito politico.

Dell’opera quintilianea i primi tre libri sono dedicati alle definizioni generali di carattere retorico e soprattutto alla prima formazione, grammaticale per il bambino e oratoria per il ragazzo: si tratta di pagine famose per acutezza pedagogica, soprattutto nei passi in cui l’autore raccomanda ai maestri di prestare grande attenzione alle caratteristiche dell’indole di ciascuno studente. Dal libro IV inizia la trattazione più tecnica delle parti tradizionali in cui si articola l’arte retorica: fino al libro VI si parla dell’inventio, nel VII della dispositio, nell’VIII e nel IX dell’elocutio e nell’XI della memoria e dell’actio. Nel libro X in particolare l’autore insegna i modi di acquisire la facilitas, cioè la disinvoltura nell’espressione. Nel piano dell’educazione retorica del futuro oratore proprio in questo libro Quintiliano non manca di indicare quali letture fossero le più idonee: in questa prospettiva egli traccia un’ampia panoramica, quasi una breve storia letteraria, degli scrittori greci e latini utili a formare lo stile più efficace. Vengono espresse, in quest’ottica, delle valutazioni sui diversi autori, a volte desunte da fonti, a volte personali, che testimoniano quali fossero «i canoni critici dell’antichità»: ma i giudizi critici hanno di fatto un carattere spiccatamente retorico e ciò dà ragione di strane valutazioni e di inattese omissioni; pertanto, Quintiliano è tutto teso a mostrare come la cultura latina regga perfettamente il confronto con quella ellenica (molti dei suoi giudizi, tra l’altro, sono divenuti formule classiche della critica: per esempio, su Menandro, Tucidide, Sallustio, Livio e Lucano). Significativi delle sue scelte sono in particolare i giudizi che l’autore esprime sullo stile di Cicerone e quello di Seneca: decisamente favorevole, frutto di un attento vaglio delle sue caratteristiche, quello sull’Arpinate; negativo quello sul Cordovano, di cui afferma in X 1, 125: «Di molti suoi brani è consigliabile la lettura a scopo morale, ma per il riguardo stilistico sono generalmente corrotti e tanto più pericolosi, in quanto abbondano di allettanti vizi» (Quod accidit mihi dum corruptum et omnibus uitiis fractum dicendi genus reuocare ad seueriora iudicia contendo).

 

Giovane nobile con l’himation. Statua, bronzo, età augustea, da Rodi. New York, Metropolitan Museum of Art.

 

Infine, il libro XII affronta in maniera abbastanza desultoria varie tematiche attinenti ai requisiti culturali e morali che si richiedono all’oratore, e accenna anche al problema dei rapporti fra oratore e principe. Quanto al primo aspetto, il ritratto dell’oratore ideale mostra che il professionista della parola doveva trarre la propria conoscenza dal modello ciceroniano e la necessaria formazione morale da quello catoniano:

 

Sit ergo nobis orator quem constituimus is qui a M. Catone finitur uir bonus dicendi peritus, uerum, id quod et ille posuit prius et ipsa natura potius ac maius est, utique uir bonus: id non eo tantum quod, si uis illa dicendi malitiam instruxerit, nihil sit publicis priuatisque rebus perniciosius eloquentia, nosque ipsi, qui pro uirili parte conferre aliquid ad facultatem dicendi conati sumus, pessime mereamur de rebus humanis si latroni comparamus haec arma, non militi.

 

Sia, dunque, l’oratore che andiamo formando e di cui dà la definizione Marco Catone, uomo onesto, esperto nell’eloquenza, ma soprattutto – come egli pure ha posto in primo luogo ed è anche secondo la natura preferibile e più importante – assolutamente onesto: e ciò non soltanto perché, se la capacità nell’eloquenza fosse servita a dare armi alla malvagità, non ci sarebbe nulla di più dannoso, per la vita pubblica e privata, dell’eloquenza, e noi stessi, che abbiamo tentato di portare secondo le nostre possibilità personali un contributo allo sviluppo dell’eloquenza, avremmo fatto il peggiore servizio all’umanità, se forgiassimo queste armi per un predone e non per un soldato.

 

(Inst. XII 1, trad. it. R. Faranda)

 

Occorre subito sottolineare come l’auctor per eccellenza di Quintiliano fosse, comunque, proprio Cicerone, per il quale egli nutriva un’ammirazione non del tutto passiva:

 

Ego tamen secundum communem loquendi consuetudinem saepe dixi dicamque perfectum oratorem esse Ciceronem, ut amicos et bonos uiros et prudentissimos dicimus uulgo, quorum nihil nisi perfecte sapienti datur: sed cum proprie et ad legem ipsam ueritatis loquendum erit, eum quaeram oratorem quem et ille quaerebat. quamquam enim stetisse ipsum in fastigio eloquentiae fateor, ac uix quid adici potuerit inuenio, fortasse inuenturus quid adhuc abscisurum putem fuisse (nam et fere sic docti iudicauerunt plurimum in eo uirtutum, nonnihil fuisse uitiorum, et se ipse multa ex illa iuuenili abundantia coercuisse testatur): tamen, quando nec sapientis sibi nomen minime sui contemptor adseruit et melius dicere certe data longiore uita et tempore ad componendum securiore potuisset, non maligne crediderim defuisse ei summam illam ad quam nemo propius accessit.

 

Spesso ho detto e dirò che Cicerone è oratore perfetto, così come chiamiamo generalmente gli amici e galantuomini e prudentissimi, mentre nessuna di queste qualità viene concessa, se non ai sapienti in assoluto. Ma, quando bisognerà esprimersi con termini propri e secondo la legge stessa della verità, cercherò quell’oratore che anche lui cercava. In sostanza, sebbene io confessi che egli è pervenuto al più alto fastigio dell’eloquenza e non mi riesca quasi di trovare che cosa ancora gli si sarebbe potuto aggiungere, anche se potrei trovare, forse, che cosa a mio avviso gli si sarebbe ancora potuto togliere (effettivamente il giudizio degli studiosi, in generale, è che siano in lui moltissime virtù e qualche difetto: del resto, egli ammette da sé di aver molto sfrondato dalla sua giovanile esuberanza): tuttavia, dal momento che non si ascrisse il titolo di sapiente – ancorché fosse tutt’altro che denigratore di se stesso – e che avrebbe potuto essere miglior oratore, se almeno avesse avuto vita più lunga e maggiore tranquillità per comporre, potrei onestamente credere che gli sia mancata quella suprema perfezione, alla quale nessuno più di lui si avvicinò mai.

 

(Inst. XII 19-20, trad. it. R. Faranda)

 

La grande dote di Quintiliano appare proprio la moderazione, che gli consentiva di evitare gli eccessi e di cogliere in ogni direzione le prospettive positive. Così egli si distaccò dalle esagerazioni dell’atticismo e dell’asianesimo, dalla moda dello stile arcaico e dalla degenerazione delle declamazioni retoriche spettacolari. Non gli piaceva nemmeno il filosofo Seneca (4 a.C-65 d.C.) con quel suo procedere a frasi spezzate e oscuri giochi di parole, ma ancora con equilibrio ne riconosceva i pregi nel giudizio formulato nel libro X. È nel libro VIII, però, che si svolge un’aspra polemica contro le sententiae della maniera senecana. Originariamente – spiega Quintiliano – sententia voleva dire genericamente e semplicemente «giudizio», «opinione»; invece, alla sua epoca si indicavano così «i tratti brillanti del discorso, soprattutto quelli che sono collocati alla fine del periodo» (lumina praecipueque in clausulis posita, VIII 5, 2). Le sententiae, dunque, erano diventate un artificio per rendere più vivace il discorso (o per appesantirlo?). È facile riconoscere l’oggetto della polemica: lo scintillare continuo di piccole sentenze che spezzano il discorso e lo rendono discontinuo e imprevedibile, come scatti e salti del pensiero che vogliono colpire il lettore/ascoltatore. Di questi espedienti si era alimentato, appunto, lo stile sconnesso e spezzettato di Seneca, il suo scrivere “a effetto”.

Il fatto è che Quintiliano, in ultima analisi, riteneva che l’elocuzione dovesse svolgersi anzitutto in funzione della «sostanza delle cose» (rerum pondera, X 1, 130), laddove Seneca mirava all’ascoltatore, all’esigenza di catturarne l’interesse e di guidarne le reazioni. Così la polemica di Quintiliano contro questo Nuovo Stile (si potrebbe dire semplificando) rappresentava, in realtà, lo scontro tra due diverse istanze del discorso: una era l’esigenza del docere, quella che fondava il discorso sull’oggettività delle cose dette e considerava l’autore (chi parla o chi scrive) come l’unico “attore” del testo; l’altra, caratteristica del Nuovo Stile, era l’esigenza del movere, quella che caricava il senso del discorso sul destinatario, il fruitore, e faceva di lui (o meglio della sua percezione e delle sue emozioni) il vero “primo attore” del testo.

 

Ragazzi e ragazze che giocano. Rilievo, marmo, III sec. d.C. pannello di un sarcofago romano, dalla Vigna Emendola sulla Via Appia. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

 

La pedagogia di Quintiliano

 

Peculiarità dell’opera quintilianea è l’attenzione ai problemi didattici e pedagogici. Non erano mancati spunti e riflessioni sporadiche che rivelavano sensibilità verso l’insegnamento anche in opere di scrittori precedenti, come gli stessi Cicerone e Seneca (in hoc aliquid gaudeo discere, ut doceam, diceva, per esempio, il filosofo cordovano in ad Luc. VI 4), ma da parte di Quintiliano la preoccupazione di indicare a chi insegna comportamenti e suggerimenti tecnici è costante. Egli traccia perciò l’intero percorso necessario alla formazione dell’oratore, accompagnato da una serie di indicazioni didattiche legate in modo organico e coerente. D’altronde, egli credeva fermamente alla determinante importanza dell’insegnamento nella formazione, tanto da ritenere che vi fosse possibilità di miglioramento per l’oratoria futura grazie al contributo di docenti validi, moralmente ineccepibili.

Per Quintiliano, come si è ripetutamente ricordato, l’oratore doveva raggiungere una formazione morale e culturale completa: per conseguire tale scopo era necessario che il maestro lo seguisse fin dall’infanzia, fornendogli non solo competenze tecniche, ma anche un esempio morale tale da permettergli un armonico sviluppo interiore. In tal modo l’autore riporta nell’opera la sua stessa esperienza ventennale di insegnante attento e sensibile, dimostrando di conoscere le caratteristiche e le esigenze dell’età degli scolari e di come i ragazzi vadano trattati per ottenere da loro i migliori risultati nell’apprendimento.

Alcune intuizioni pedagogiche sono ritenute ancora oggi assolutamente valide, quali, per esempio, la necessità di alternare allo studio lo svago e la convinzione che non si debba ricorrere a punizioni fisiche – che pure fino all’età moderna e contemporanea sono state ricorrenti! Per questi aspetti l’opera quintilianea conobbe una certa fortuna fin dal Medioevo e l’autore è stato ritenuto un precursore della pedagogia moderna.

 

Strumenti da scrittura (tabulae ceratae, stilus, volumen). Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

 

Bibliografia:

J. ADAMIETZ, Quintilian’s Institutio Oratoria, ANRW II 32, 4 (1986), 2226-2271.

P. BIZZELL, B. HERZBERG, The Rhetorical Tradition, Boston 1990.

S. BONNER, Education in Ancient Rome: From the Elder Cato to the Younger Pliny, London 2012.

G.B. CONTE, Letteratura latina. Manuale storico dalle origini alla fine dell’Impero romano, Milano 2011, 426-430.

W. DOMINIK, J. HALL (eds.), A Companion to Roman Rhetoric, Malden 2010.

F. PIAZZI, A. GIORDANO RAMPIONI, Multa per aequora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina, 3. L’Alto e il Basso Impero, Bologna 2004, 148-150.

A.J. WOODMAN, J.G.F. POWELL (eds.), Author and Audience in Latin Literature, Cambridge-New York 1992.