da A. BALESTRA et al., In partes tres. 3. L’età imperiale, Bologna 2016, 437-438.
Cicerone nell’Orator, una delle sue opere teoriche sulla retorica, usa la locuzione novi Attici («nuovi atticisti») con tono dispregiativo per riferirsi alla generazione di giovani oratori che muoveva critiche al suo stile retorico. La definizione richiama da vicino quella di poetae novi, che lo stesso Arpinate utilizzava per indicare i poeti della medesima generazione, come Catullo, e ugualmente in tono dispregiativo. Lo stile di quegli oratori, per quanto è possibile intendere in un contesto abbastanza povero di dati, cercava semplicità di espressione, rigore, ordine espositivo ed estrema chiarezza, avvalendosi di un lessico particolarmente sorvegliato e depurato da forme troppo vicine al sermo cotidianus. La definizione data da Cicerone si dovette al fatto che questi giovani retori si ispirarono agli oratori attici di V-IV secolo a.C., come Lisia e Iperide. Nel gruppo dei novi Attici si annoveravano personaggi assai vicini allo stesso Arpinate, come Celio Rufo (82-48 a.C., il giovane amante di Lesbia, rivale di Catullo, che la donna coinvolse in un processo politico), o Marco Giunio Bruto (85 c.-42 a.C.), il futuro cesaricida, al quale Cicerone avrebbe dedicato il trattato di oratoria che prende il titolo dal suo nome, Brutus.
Alla base delle scelte linguistiche compiute dai cosiddetti «atticisti» c’erano le dottrine analogiste, che raccomandavano l’uso di una lingua che non prevedesse neologismi o termini rari o di intonazione popolaresca. La critica che Cicerone mosse a costoro fu di essere poco incisivi e di risultare freddi all’uditorio. Forse, come oratore, anche Gaio Giulio Cesare appartenne alla linea atticista; tuttavia, bisogna considerare che la prosa dei Commentarii, pensati come rapporti al Senato, non è detto che fosse la medesima delle sue orazioni. D’altronde, tutte le testimonianze di Cesare retore, comprese quelle fornite dallo stesso Cicerone, affermano che il condottiero possedesse un’eloquenza tutt’altro che fredda, anzi addirittura travolgente!

Anche il nomignolo di Asiatici («asiani») riferito ad alcuni retori comparve per la prima volta nelle opere teoriche di Cicerone (per esempio, in Brutus 51, 8), sempre con intonazione negativa: con tale epiteto, infatti, l’Arpinate designava gli oratori attivi nelle città d’Asia successivamente alla grande stagione dell’oratoria politica ateniese. A suo giudizio, una certa incompetenza nell’uso della lingua greca aveva determinato forme espressive poco controllate, che avevano prodotto il moltiplicarsi di perifrasi ridondanti. Sempre secondo Cicerone, l’Asianesimo si manifestava secondo due tendenze, una che prediligeva periodi brevi e un andamento sentenzioso, un’altra, viceversa, caratterizzata da espressione piena e vigorosa, un vero e proprio flumen orationis (Brutus 325). Inoltre, Cicerone, individuando un indirizzo che la moderna critica ha denominato “rodiese”, ricordava che i retori delle scuole di Rodi – pure «asiani» – mantenevano un’eloquenza più controllata, più vicina a quella degli oratori attici di età classica.
Dopo la morte di Cicerone, con l’instaurazione del Principato di Augusto, a Roma prevalse nettamente l’Atticismo: si ha testimonianza di ciò dagli scritti di retori successivi o dai passi inseriti nella raccolta antologica di Seneca il Vecchio. A questo fenomeno contribuirono due circostanze: in primo luogo, la presenza nell’Urbe di Cecilio di Calatte (vissuto nella seconda metà del I secolo a.C.) e di Dionigi di Alicarnasso (60-7 a.C.), due retori greci decisamente schierati a favore dell’Atticismo (in particolare, al primo risale la codificazione del canone degli oratori attici del V-IV secolo a.C.); in secondo luogo, la preferenza manifestata verso questa tendenza dallo stesso princeps, il cui gusto naturalmente influenzò l’epoca. Come sottolineato dai maggiori studiosi del fenomeno, l’importanza di questo fatto va individuata nel formarsi di quello che si può considerare il primo “classicismo” della letteratura latina, dove si intende per “classicismo” la tendenza a imitare i lineamenti estetici di un nucleo di autori considerati canonici, nei quali si riconoscevano movenze espressive equilibrate, ordinate e regolari.