di G.B. CONTE – E. PIANEZZOLA, Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 3. L’età imperiale, Milano 2010, 402-403.
Le cause della “corruzione” della prosa. | Il dibattito sulla decadenza della retorica e dell’eloquenza coinvolse gli intellettuali nei primi due secoli dell’età imperiale, sia a Roma sia nel mondo ellenizzato. Il “nuovo” stile, lontano dalla concinnitas ciceroniana, e insieme le tendenze asiane, reinterpretate non più in maniera altisonante, ma caricate di un espressionismo che sfociava nella sententia acuminata e nella brevitas concettosa, provocarono una reazione dei letterati alla vecchia scuola, che vissero il cambiamento come una forma di decadenza. Nella loro etica il modello canonico era Cicerone: interrogandosi sulle cause di quella che a loro giudizio era una corruzione dello stile ideale, discutevano quelli che a parer loro erano i motivi della decadenza, sostenendo, attraverso analisi stilistiche ed etico-politiche, tesi talora contrastanti e presentando un quadro vario e problematico, non solo delle scuole di retorica, ma anche in generale della cultura del tempo.

Seneca: l’immoralità come causa della decadenza. | Nell’Epistola ad Lucilium 114 Seneca filosofo discute la questione con il suo destinatario, il quale gli ha chiesto come mai in determinati periodi si sviluppi un genere corrotto di eloquenza, a cui sono inclini gli uomini d’ingegno. Nel riferire la domanda dell’amico, il filosofo descrive lo stile di questa prosa “corrotta” con abbondanza di attributi (Ep. 114, 1): inflata explicatio, «modo di esprimersi gonfio»; infrancta et in morem cantici ducta, «spezzato e condotto alla maniera di una filastrocca»; sensus audaces et fidem egressi, «concetti arditi e incredibili»; abruptae sententiae et suspiciosae, «frasi spezzate ed enigmatiche». La sua risposta alla domanda di Lucilio potrebbe apparire ai moderni sorprendente o almeno incongrua: talis hominibus fuit oratio qualis vita, «tale è il modo di parlare di ognuno quale la sua vita». Quindi, la condotta morale esercita un’influenza sul linguaggio: se è ottima, lo stile sarà ottimo. E questo assioma non vale solo per gli individui, ma anche per interi popoli, se si sono abbandonati «ai piaceri» (in delicias). Un’eloquenza corrotta generalizzata è segno di una dissolutezza generale: lascivia orationis è prova di una luxuria publica.
Gli esempi negativi: Mecenate e Sallustio. | Seguono dimostrazioni ed esempi (fra cui quello di Mecenate) di pubblica immoralità e nel contempo di prosa «rilassata» e «snervata», «oscura, involuta come quella di un ubriaco, degenerata e corrotta». La prosperità eccessiva genera una diffusa dissolutezza e, quando l’anima comincia a provar noia del consueto, si rivolge all’insolito, al desueto o addirittura conia parole nuove e nuove metafore, come ultimo segno di eleganza, o lascia le frasi sospese o tronca i concetti. Così faceva Sallustio e con lui che apprezzava la sua eloquenza: Anputatae sententiae et verba ante expectatum cadentia et obscura brevitas, «frasi troncate e parole che arrivano inaspettate e un’oscura brevità».

Il giudizio di Quintiliano: Seneca “cattivo maestro”. | Seneca, il quale criticava aspramente Sallustio come l’esempio negativo che ha trascinato tanti seguaci, non si accorse che il proprio stile aveva tutti i difetti di quella prosa “corrotta” da lui tanto biasimata. Se ne sarebbe accorto, poi, Quintiliano (Inst. X 1, 125-131), che avrebbe attribuito al filosofo uno «stile corrotto e spezzato» (corruptum et […] fractum dicendi genus), rivolgendogli l’accusa di aver voluto intraprendere una via dell’eloquenza diversa dai classici, corrompendo i giovani che ne avrebbero saputo imitare solo i difetti.
Seneca il Vecchio e le nuove generazioni di rammolliti. | Anche il padre, Seneca il Vecchio, cui si deve una raccolta di controversiae e di suasoriae, esercitazioni fittizie, le une di carattere giudiziario, le altre di argomento mitologico, lontane comunque della vita come dai dibattiti forensi, aveva messo in evidenza (Contr. I, praef. 8-10) come ormai gli ingegni di una gioventù pigra fossero intorpiditi (torpent ecce ingenia desidiosae inventutis) e non fossero più dediti ad alcuna attività onesta. Ogni interesse per lo studio veniva meno in giovani rammolliti, effemminati, buoni a «ondularsi i capelli e a tener dietro a una sconcia eleganza» (capillum frangere et […] immundissimis se excolere munditiis). L’esempio della figura morale di Catone e i precetti al figlio Marco erano ancora posti come lezione di vita e di dottrina: Orator est, Marce fili, vir bonus dicendi peritus.
La responsabilità delle scuole di retorica. | Negli scritti dell’epoca ritorna con insistenza l’opposizione foro/scuola di declamazione, la contrapposizione fra vita sociale e politica e mondo artificiale dell’esercizio scolastico. Ancora Seneca il Vecchio (Contr. III praef. 12-14) affermava che, quando declamava, gli sembrava di lottare in un sogno e di menare colpi a vuoto; Quintiliano parlava di persone diventate vecchie sui banchi di scuola, che rimanevano stupefatte quando si trovavano per la prima volta nel foro. In Satyricon 1-2 Petronio, per bocca di Encolpio, afferma che «i giovani a scuola rincitrulliscono» (ego adulescentulos existimo in scholis stultissimos fieri), e descrive il tipo di insegnamento lontano dalla realtà a cui sono sottoposti gli scolari dei declamatori che, come in preda alle Furie, li esercitano su temi fittizi e vani: pirati in catene presso il lido, tiranni che scrivono editti feroci, responsi di oracoli in seguito a pestilenze. Il tutto con uno stile zuccheroso e quasi sparso di papavero e di sesamo (mellitos verborum globulos et omnia dicta factaque quasi papavere et sesamo sparsa). I grandi oratori e poeti greci (si citano Sofocle, Euripide, Pindaro, i lirici, Platone, Demostene, Tucidide, Iperide) hanno imparato a parlare e a scrivere bene perché non hanno frequentato le scuole di eloquenza: Nondum umbraticus doctor ingenia deleverat, «Non ancora un ammuffito maestro aveva distrutto gli ingegni»; mentre ora una «ventosa» e «sregolata» loquacitas è passata dall’Asia ad Atene, investendo come una cattiva stella i giovani al punto che l’eloquenza «si è arrestata e ammutolita» (stetit et obmutuit).

Le colpe dei genitori. | A un altro personaggio del Satyricon, Agamennone, spetta il compito di ribattere a Encolpio e di sostenere (capp. 3-4) una tesi diversa: non le scuole, ma i genitori sono responsabili della corruzione dell’eloquenza, per l’educazione sbagliata che danno ai figli: smaniosi di immaturi progressi, li spingono nel foro quando ancora non si sono formati, non li lasciano seguire studi regolari, assorbire gradatamente le letture, formarsi attraverso la filosofia, correggere il loro stile e misurarsi con i modelli dei grandi oratori che vogliono imitare. Solo così facendo, la grande oratoria racquisterebbe il suo peso e il suo splendore.
[…] Per alcune caratteristiche intrinseche dell’opera, è tradizione iniziare ogni trattazione di Tacito con il Dialogus de oratoribus, nonostante non si conosca con precisione la data di composizione. È noto, tuttavia, che il testo è ambientato negli anni 75-77 (dall’opera si ricavano in proposito indicazioni parzialmente contraddittorie). Riallacciandosi alla tradizione dei dialogi ciceroniani su argomenti filosofici e retorici, Tacito riferisce qui una discussione che si immagina avvenuta in casa di Curiazio Materno, retore e tragediografo, fra lo stesso Curiazio, Marco Apro, Vipstano Messalla e Giulio Secondo, e alla quale Tacito dice di aver assistito di persona in gioventù. Perché all’inizio della conversazione Apro ha rimproverato Materno di trascurare l’eloquenza in favore della poesia drammatica, in un primo momento si contrappongono i discorsi di Apro e Materno, in difesa rispettivamente dell’eloquenza e della poesia. L’andamento del dibattito subisce una svolta con l’arrivo di Messalla, spostandosi sul tema della decadenza dell’oratoria. […]
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