di A. BALESTRA et al., In partes tres. 3. L’età imperiale, Bologna 2016, 333-339.
I primi tre capitoli del De vita et moribus Iulii Agricolae rappresentano il proemio dell’opera, dal quale traspare immediatamente l’intenzione di Tacito di proiettare la vicenda biografica del suocero (al quale sente doveroso rivolgere un elogio in nome della pietas) nel più ampio contesto dei problemi del Principato durante il periodo della dinastia dei Flavi e in particolare nell’ultimo periodo di Domiziano, connotato da un’oscura tirannide. Tacito presenta al lettore la propria opera come frutto dei tempi nuovi, inaugurati da Nerva, nei quali ai senatori era di nuovo consentito professare le proprie idee senza temere persecuzioni, e lascia trapelare anche il progetto di dedicare un’opera di più vasta portata dedicata alla rievocazione del passato recente.

[1, 1] Clarorum uirorum facta moresque posteris tradere, antiquitus usitatum, ne nostris quidem temporibus quamquam incuriosa suorum aetas omisit, quotiens magna aliqua ac nobilis uirtus uicit ac supergressa est uitium paruis magnisque ciuitatibus commune, ignorantiam recti et inuidiam. [2] sed apud priores ut agere digna memoratu pronum magisque in aperto erat, ita celeberrimus quisque ingenio ad prodendam uirtutis memoriam, sine gratia aut ambitione, bonae tantum conscientiae pretio ducebatur. [3] ac plerique suam ipsi uitam narrare fiduciam potius morum quam adrogantiam arbitrati sunt, nec id Rutilio et Scauro citra fidem aut obtrectationi fuit: adeo uirtutes iisdem temporibus optime aestimantur, quibus facillime gignuntur. [4] at nunc narraturo mihi uitam defuncti hominis uenia opus fuit, quam non petissem incusaturus. Tam saeua et infesta uirtutibus tempora.
[2, 1] Legimus, cum Aruleno Rustico Paetus Thrasea, Herennio Senecioni Priscus Heluidius laudati essent, capitale fuisse, neque in ipsos modo auctores, sed in libros quoque eorum saeuitum, delegato triumuiris ministerio ut monumenta clarissimorum ingeniorum in comitio ac foro urerentur. [2] scilicet illo igne uocem populi Romani et libertatem senatus et conscientiam generis humani aboleri arbitrabantur, expulsis insuper sapientiae professoribus atque omni bona arte in exsilium acta, ne quid usquam honestum occurreret. [3] dedimus profecto grande patientiae documentum; et sicut uetus aetas uidit quid ultimum in libertate esset, ita nos quid in seruitute, adempto per inquisitores etiam loquendi audiendique commercio. memoriam quoque ipsam cum uoce perdidissemus, si tam in nostra potestate esset obliuisci quam tacere.
[3, 1] Nunc demum redit animus; et quamquam primo statim beatissimi saeculi ortu Nerua Caesar res olim dissociabiles miscuerit, principatum ac libertatem, augeatque cotidie felicitatem temporum Nerua Traianus, nec spem modo ac uotum securitas publica, sed ipsius uoti fiduciam ac robur adsumpserit, natura tamen infirmitatis humanae tardiora sunt remedia quam mala; et ut corpora nostra lente augescunt, cito extinguuntur, sic ingenia studiaque oppresseris facilius quam reuocaueris: subit quippe etiam ipsius inertiae dulcedo, et inuisa primo desidia postremo amatur. [2] quid, si per quindecim annos, grande mortalis aeui spatium, multi fortuitis casibus, promptissimus quisque saeuitia principis interciderunt? pauci, ut ita dixerim non modo aliorum sed etiam nostri superstites sumus, exemptis e media uita tot annis, quibus iuuenes ad senectutem, senes prope ad ipsos exactae aetatis terminos per silentium uenimus. [3] non tamen pigebit uel incondita ac rudi uoce memoriam prioris seruitutis ac testimonium praesentium bonorum composuisse. hic interim liber, honori Agricolae soceri mei destinatus, professione pietatis aut laudatus erit aut excusatus.

Il tramandare ai posteri le imprese e i costumi degli uomini illustri[1], una volta prassi abituale, non lo ha tralasciato neppure la generazione dei tempi nostri[2], sebbene disinteressata ai suoi uomini migliori, tutte le volte che una grande e nobile virtù ha vinto e superato il vizio comune alle piccole e grandi nazioni, l’ignoranza del giusto e l’odio. [2] Presso gli antichi[3] tuttavia come compiere imprese degne di ricordo era agevole e più immediato, così tutte le persone che brillavano per il loro ingegno venivano condotte a tramandare a memoria della virtù solamente dal premio dell’onestà di coscienza, senza interesse o secondo fine. [3] E molti ritennero che narrare di persona la propria vita fosse segno di sincerità di costumi piuttosto che di arroganza, e ciò né nel caso di Rutilio né nel caso di Scauro[4] risultò inadeguato alla loro lealtà o motivo di astio: a tal punto le virtù godono di ottima stima nei medesimi tempi nei quali facilmente fioriscono. [4] Ora[5], al contrario, a me, che mi accingo a narrare la vita di una persona defunta, è stata necessaria una benevola indulgenza, che non avrei chiesto se mi fossi accinto ad accusarlo: tanto violenti e nemici della virtù sono i nostri tempi.
[2, 1] Abbiano letto[6] che, dopo che Peto Trasea era stato lodato da Aruleno Rustico e Prisco Elvidio da Erennio Senecione[7], era stata emessa una condanna a morte, e non si è infierito solo contro gli stessi autori, ma anche contro i loro libri, dopo aver affidato ai triumviri[8] il compito di bruciare nel comizio e nel foro[9] le testimonianze di illustrissime personalità. [2] Chiaramente in quel rogo credevano anche andasse distrutta la voce del popolo romano e la libertà del Senato[10] e lo spirito critico del genere umano, dopo che, inoltre, i filosofi erano stati espulsi e ogni condotta virtuosa era stata mandata in esilio[11], perché mai capitasse qualcosa di onesto. [3] Abbiamo indubbiamente dato una grande dimostrazione di pazienza; e come l’età antica è giunta a vedere quale fosse nella libertà il limite estremo[12], così noi quale fosse quello nella servitù, una volta toltaci anche la facoltà di parlare e di ascoltare grazie a indagini poliziesche[13]. Insieme alla voce avremmo perso anche la memoria, se fosse nella nostra facoltà tanto il dimenticare quanto il tacere.
[3, 1] Ora finalmente si torna a respirare; e sebbene per prima cosa Nerva Cesare[14], subito sul nascere di una felicissima era, abbia unito cose un tempo tenute separate, il Principato e la libertà, e sebbene ogni giorno Nerva Traiano[15] accresca la gloria dei tempi, e la sicurezza pubblica abbia accolto non solo la speranza e il desiderio, ma anche il forte impegno di realizzazione di tale desiderio, per la natura dell’umana debolezza i rimedi sono tuttavia più lenti dei mali[16]; e come il nostro fisico si sviluppa con lentezza, mentre rapidamente muore, così le facoltà dello spirito si stroncano con più facilità di quanto si richiamino alla vita: infatti si insinua una dolcezza anche della stessa inerzia, e il disimpegno, prima fastidioso, infine viene apprezzato. [2] Come rimanere sorpresi, se per quindici anni, uno spazio considerevole della vita umana, molti sono scomparsi per motivi legati al destino, ma tutti i più risoluti per crudeltà del principe, e in pochi siamo sopravvissuti[17], per così dire, non solo agli altri ma anche a noi stessi, dopo che dalla parte centrale della vita sono stati tolti tanti anni, durante i quali, rimanendo zitti, siamo giunti, se adulti, all’età anziana, se anziani, quasi al termine estremo della vita? [3] Non è quindi motivo di rincrescimento aver scritto, pur con voce disadorna e aspra, memoria della passata servitù e testimonianza della felicità presente[18]. Nel frattempo, questo libro, destinato alla commemorazione di mio suocero Agricola, sarà lodato o scusato come un’attestazione di devozione filiale[19].
Nei primi tre capitoli dell’Agricola Tacito chiarisce il proprio punto di vista sulla situazione politica che Roma stava vivendo, dopo l’elezione di Nerva a princeps e la fine della tirannide domizianea. In questo senso l’espressione nunc demum redit animus (3, 1) riassume il concetto centrale, in quanto sottolinea l’entusiasmo per il nuovo corso, caratterizzato dalla capacità di Nerva di far convivere due cose, la libertà e il Principato (miscuerit… princpatum ac libertatem, ibid.), che per molto tempo erano parse inconciliabili. Anche nelle opere successive infatti, soprattutto nelle Historiae e negli Annales, Tacito avrebbe studiato a fondo come fosse potuto accadere che, durante il primo secolo del Principato, dopo le innovazioni apportate alla gestione della res publica da Ottaviano Augusto, i senatori, anziché scegliere tra di loro un princeps a cui delegare solo alcune funzioni (soprattutto militari), fossero stati invece schiacciati dalla tirannide di imperatori che avevano considerato Roma come il proprio patrimonio personale, ricevuto in eredità. Con il termine libertas infatti lo storico intende la libertà di parola e di pensiero dei senatori (libertatem senatus, 2, 2: un concetto quindi non sovrapponibile a quello odierno), riguadagnata dopo quindici anni (l’epoca di Domiziano) passati nel silenzio (per silentium venimus, 3, 2). Per Tacito il ritorno alla parola si concretizzò nel progetto di una prima opera di vasto respiro (probabile annuncio delle Historiae) volta a narrare la passata oppressione (prioris seruitutis, 3, 3) e di una successiva relativa al presente (testimonium praesentium bonorum, 3, 3, opera che non sarebbe mai stata scritta), oltre al libro – appunto l’Agricola – dedicato al suocero (honori Agricolae soceri mei destinatus, 3, 3).

Ciascuno dei tre capitoli ha un tema centrale. Il primo è dedicato al confronto tra il passato, l’epoca repubblicana, quando era attività comune per i più brillanti ingegni dedicarsi alla scrittura delle gestae e dei mores degli uomini illustri, e il presente che, pur non avendo abbandonato del tutto tale pratica, richiede allo storico quasi di doversi scusare per aver ricordato la benemerenza di un grande generale. In un’epoca di delazioni erano diventati infatti comuni solo i discorsi di accusa. Il secondo capitolo tratteggia l’oppressione esercitata dal tiranno nei confronti della cultura, con il riferimento a due esempi di persecuzione non solo contro senatori virtuosi, ma anche contro gli storici che ne avevano tramandato le imprese e addirittura contro le loro opere: entrambi i casi riproducono da vicino la situazione di Tacito, dato che anche lui, come Aruleno Rustico ed Erennio Senecione, ora si trovava a redigere la biografia di un autorevole senatore scomparso. Il terzo capitolo, infine, richiama le novità del presente e annuncia la volontà di dedicarsi alla storia da parte di Tacito.
L’esordio dell’Agricola manifesta sia a livello tematico sia stilistico caratteristiche che sarebbero rimaste presenti anche nelle opere successive. L’elemento più in evidenza è certamente il forte impegno morale: a partire dalle parole d’esordio (facta moresque) è chiaro che all’autore interessasse una narrazione che mantenesse il ricordo delle virtù morali sullo stesso piano della gloria militare. Nel primo capitolo uno dei termini più ricorrenti è infatti proprio virtus.

Il lettore è dunque indotto a percepire una marcata tendenza a estremizzare, cioè a procedere nel ragionamento per opposizioni nette: per quanto riguarda la dimensione del tempo, viene contrapposto il passato (antiquitus, priores) al presente (at nunc, nunc demum). La frattura è però complessa, perché c’è un passato lontano (quello dei priores), che coincide con la libera Repubblica, e un presente che è rappresentato dalla benefica azione di Nerva e di Traiano (3, 1), ma sul presente si riverbera anche il nefasto influsso del passato recente, caratterizzato dall’oppressione della libertà senatoria e della voce popolare (2, 2), nonché da provvedimenti, come l’espulsione dei filosofi da Roma, volti a impedire ogni attività onesta (ne quid usquam honestum occurreret, 2, 2). Quindi sull’oggi continua a proiettarsi un’ombra negativa che si materializza nell’antitesi tra il tempo in cui agere digna memoratu (1, 2) era agevole e tramandare memoria della gloria era considerata attività onesta (non motivata da interesse e cortigianeria: sine gratia aut ambitione), e il tempo presente, in cui bisogna scusarsi con il pubblico se non si rivolge un discorso di accusa, ma se ne tesse uno di lode (mihi uenia opus fuit). Anche la libertas unita al Principato (3, 1), che appare in netta opposizione rispetto alla seruitute (2, 3) del recente passato, durante il quale il regime poliziesco aveva impedito di parlare e di ascoltare (loquendi audiendique, 2, 3), sembra quindi parzialmente macchiata, a causa della lentezza con cui si effettua la guarigione da un male, in cui invece si cade rapidamente.
Si nota in questo passaggio un altro elemento dominante dell’opera tacitiana, ossia il pessimismo, che è dovuto anzitutto a una radicale sfiducia nei confronti della natura umana (natura infirmitatis humanae, 3, 1). Per questa ragione anche il gruppo formato da scrittore e lettori (i “noi” ai quali allude il diffuso uso della 1^ persona plurale nei capitoli 2-3), i sopravvissuti alla tirannide operata da “loro” (il soggetto sottinteso del verbo arbitrabantur di 2, 2, cioè quelli che credevano di opprimere le coscienze) resta parzialmente oscurato da una sorta di «disimpegno» (desidia, 3, 1) che lascia intuire quanto sarà difficile tornare alla passata virtù, ammesso che vi si riesca.

La profondità dei temi e il significato complessivo dell’Agricola sono sottolineati da una scelta assai accorta delle parole, che si ispira all’inconcinnitas e alla brevitas di Sallustio: si notino, per esempio, la tendenza alla variatio, già in 1, 2 (le proposizioni correlate da ut e ita hanno come soggetto la prima un infinito sostantivato, agere, e la seconda celeberrimus quisque) e la tendenza a sottintendere il predicato. Il tono sallustiano, che a livello connotativo conferisce al testo un austero vigore, carico di ammirazione per il passato, è poi ulteriormente amplificato da un’espressione alta, che pare innalzarsi verso il sublime, anche grazie alla tendenza a estremizzare gli opposti. L’elaborazione retorica è visibile nell’uso del procedimento bimembre (per esempio, in comitio ac foro, 2, 1; o fiduciam ac robur, 3, 1), nell’uso di chiasmi (expulsis… professoribus… bona arte… acta, 2, 2) e allitterazioni (uirtus uicit… uitium, 1, 1). Ma la tendenza verso uno stile assai alto è connessa soprattutto all’uso di sintetiche e icastiche sententiae a suggello degli snodi del discorso, per esempio tam saeua et infesta uirtutibus tempora, in 1, 4.
Particolari significati risultano connessi all’esordio dell’Agricola, se si considera che Tacito, pur pensando certamente anche alla posterità nel momento in cui scriveva l’opera, nel presente si rivolgeva a un pubblico di lettori e soprattutto di ascoltatori che in buona parte conosceva di persona, dato che una laudatio era di solito pronunciata in una recitatio (sorta di conferenza alla quale partecipavano, oltre a un pubblico eterogeneo, soprattutto congiunti e familiari del defunto). L’autore era allora all’apice del suo cursus honorum sia come politico sia come oratore, ma ovviamente non ancora come storico. Lo studioso Dylan Sailor, riflettendo sulla composizione dell’opera di esordio, che risale all’anno del consolato (il 97, durante il quale Tacito si era particolarmente distinto per aver pronunciato l’elogio funebre dell’anziano e stimatissimo consolare Virginio Rufo) in un recente lavoro ha ipotizzato che l’autore abbia predisposto il proemio dell’opera quasi per sondare il terreno del pubblico romano e vedere se come storico (di impronta decisamente conservatrice) avrebbe mantenuto il favore di cui godeva come politico e retore[20]. In un certo senso, Tacito ha utilizzato una strategia retorica che, in caso di insuccesso, non gli avrebbe arrecato particolare danno, mentre, in caso di successo, lo avrebbe consacrato come storico. Da un lato, infatti, egli si presenta come il portavoce di un’intera generazione, quella di coloro che avevano subito la tirannide domizianea e sono a essa sopravvissuti. A tal proposito, riveste particolare importanza l’uso costante della prima persona plurale, per esempio in nostris temporibus (1, 1), Legimus (2, 1), dedimus grande patientiae documentum e memoriam perdidissemus (2, 3), per silentium uenimus (3, 2). L’uso della prima persona ha un effetto coinvolgente sull’ascoltatore, che vede la propria esperienza riflessa nelle parole dell’oratore: è difficile ipotizzare l’interpretazione del nos come plurale maiestatis, perché ciò tenderebbe a presentare l’autore come un isolato, mentre è sottinteso che anche tutto il suo pubblico abbia subito le angherie di Domiziano e dunque voglia prenderne le distanze (non viene toccata la spinosa questione connessa con il fatto che autore e pubblico hanno cominciato o proseguito le loro carriere proprio durante l’impero di Domiziano).
A questo punto, l’altro elemento chiave considerato dal Sailor è l’evidente matrice sallustiana dell’esordio, che risultava subito percepibile al pubblico colto, e comunque dichiarata attraverso l’espressione incondita ac rudi uoce (3, 3), che allude allo stile del predecessore. La matrice sallustiana qualifica la voce di Tacito come quella di un austero ammiratore degli antiqui mores: l’esordio con richiamo a un’espressione di Catone Censore orienta ancora di più l’ascoltatore verso quella direzione. Tuttavia, per al cultura dell’epoca scrivere «alla maniera di Sallustio» (come pure alla maniera di altri classici) non era assolutamente un fenomeno raro, anzi era uno degli esercizi insegnati nelle scuole di retorica, dove si erano formate tutte le persone colte. In altre parole, una recitatio nello stile di Sallustio, pur di argomento serio e pronunciata da un autorevole senatore, avrebbe potuto rappresentare anche una sorta di ludus: quasi un diversivo per un uomo impegnato nell’amministrazione della res publica.

Tacito, sempre secondo Sailor, chiude il proemio ricordando che l’opera che si accinge a scrivere è una sorta di laudatio funebris verso un caro defunto (3, 3), proprio contando sul fatto che l’opera sarebbe potuta passare per un piccolo esercizio di stile, un omaggio pietoso, stilisticamente elaborato, se non avesse destato particolare attenzione nel pubblico l’approccio alla storia da lui operato: l’annuncio delle Historiae, in fondo non del tutto esplicito, sarebbe stato dimenticato. Se invece l’Agricola avesse avuto successo, l’autore avrebbe potuto cominciare a presentarsi al pubblico, oltre che come oratore e uomo politico, anche come voce rappresentativa dei sentimenti della propria generazione. E ciò infatti avvenne.
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[1] L’esordio riprendere la formula clarorum virorum utilizzata in apertura delle Origines da Catone Censore, secondo una testimonianza di Cicerone (Planc. 66).
[2] Si intende coloro che sono vissuti durante l’epoca degli imperatori Flavi.
[3] I priores dal punto di vista di Tacito sono i Romani vissuti al tempo della res publica.
[4] P. Rutilio Rufo partecipò attivamente alla vita politica e militare di Roma tra la fine del II e l’inizio del I secolo a.C., divenendo console nel 105: condannato per concussione nel 92, scrisse in esilio le sue memorie, di cui restano pochi frammenti. M. Emilio Scauro, contemporaneo di Rufo, fu console nel 115 ed è ricordato per aver dato il via alla costruzione della Via Aemilia e per aver partecipato alle vicende che sfociarono nella guerra contro Giugurta, rimanendo coinvolto negli scandali che la accompagnarono. Anch’egli scrisse le proprie memorie.
[5] Il presente è rappresentato dall’imperium di Nerva e, sebbene coincida con l’inizio di una nuova era, come verrà spiegato più sotto, molto dei vizi antichi è ancora presente, per la lentezza con cui gli uomini riprendono a vivere secondo usanze oneste dopo la tirannide.
[6] Si pensa che Tacito faccia riferimento agli acta diurna, ossia una sorta di gazzetta ufficiale, conservata negli archivi del Senato, su cui venivano pubblicati i provvedimenti legislativi e i processi; nell’ultima parte del suo imperium, tuttavia, Domiziano proibì che fossero pubblicate le condanne a morte.
[7] Sono tutti senatori che in vario modo erano stati vittime degli imperatori più sanguinari, Nerone e Domiziano. Trasea Peto, nostalgico dell’ordinamento repubblicano, ispirandosi ai dettami della dottrina stoica si era fieramente opposto agli eccessi di Nerone; venne coinvolto nella congiura di Pisone nel 65 e, a seguito di ciò, si tolse la vita l’anno successivo. Aruleno Rustico, tribuno della plebe proprio quell’anno, fece invano opposizione e cadde poi vittima di Domiziano proprio per aver composto una biografia di Trasea Peto. Elvidio Prisco, genero di Trasea, anch’egli del ceto senatorio, a seguito della congiura di Pisone fu esiliato da Nerone e poi condannato a morte da Vespasiano nel 73 o 74. Fannia, la sua vedova, chiese di scriverne un elogio a Erennio Senecione, senatore di origini ispaniche, noto per la sua rettitudine: per questo motivo Senecione fu messo a morte da Domiziano.
[8] Cioè i triumviri capitale: magistrati con compiti di polizia e con l’incarico di far eseguire le condanne a morte.
[9] Il comitium, luogo dove si teneva parte delle assemblee popolari e delle riunioni popolari, e il forum erano il simbolo della passata libertas repubblicana, calpestata dalla tirannide degli imperatori; roghi di opere storiche non allineate alla volontà del princeps erano avvenuti anche sotto Ottaviano Augusto (che fece bruciare le storie scritte dal pompeiano Tito Labieno) e sotto Tiberio (che fece bruciare gli scritti di Cremuzio Cordo). I roghi di libri comunque non furono caratteristici solo dell’età imperiale, in quanto nel 181 a.C. furono dati alle fiamme per ordine del Senato libri che illustravano la filosofia pitagorica (attribuiti a Numa Pompilio). I primi roghi di libri di cui si hanno notizia erano avvenuti però nell’Atene del V secolo a.C., quando furono bruciati sul rogo i testi dei filosofi Anassagora e Protagora.
[10] Tacito, conformemente alla visione aristocratica tradizionale, con il termine libertas esprime qui soprattutto la facoltà dei senatori di partecipare pienamente alla vita politica. Se la piena libertas appartiene solo ai senatori, il popolo non è suddito, ma può far sentire la propria vox attraverso alcuni canali istituzionali, come le assemblee popolari e i tribuni della plebe (ma il suo peso resta comunque assai meno determinante nella gestione della res publica, rispetto alla pienezza dei diritti dei senatori). Il punto di vista di Tacito, tutt’altro che eccentrico, giustifica la nota espressione Senatus popolusque Romanus abitualmente utilizzata per indicare la cittadinanza nelle sue fondamentali (e diverse) componenti.
[11] Domiziano fece espellere i filosofi da Roma attorno al 93: anche questo provvedimento non era nuovo per l’Urbe, a partire dalla cacciata dei tre filosofi greci giunti a Roma per un’ambasceria nel 155 a.C. Tacito lascia intendere che, con la partenza dalla città della filosofia, in essa non rimase altro che il vizio.
[12] Tacito intende dire che il periodo repubblicano aveva assistito al tracollo delle libere istituzioni (fondate su una partecipazione collegiale alla vita politica) a causa della faziosità dei tribuni e dei politici estremisti che, abusando della libertà concessa loro dalle leggi vigenti, avevano trasformato la libertà stessa in licenza, ponendo le premesse per le guerre civili e la successiva affermazione del Principato.
[13] Domiziano, come molti dei suoi predecessori, poteva contare su una fitta rete di spie e di delatori, che, in cambio di una ricompensa, riferivano anche in assenza di prove concrete comportamenti o discorsi che potevano costituire una minaccia per il monarca.
[14] M. Cocceio Nerva, nato nel 30, apparteneva a una famiglia di rango senatorio di antica nobiltà; seguì il proprio cursus honorum all’epoca dei Flavi e, dopo la congiura che eliminò Domiziano nel 96, fu scelto dal Senato come princeps, in quanto ritenuto in grado (come effettivamente avvenne) di impedire l’innescarsi di una guerra tra fazioni. Rimase imperatore (e per questo è qui detto Caesar) fino alla morte avvenuta due anni dopo.
[15] M. Ulpio Traiano, proveniente da una famiglia di rango senatorio di origine ispanica, dopo una brillante carriera militare, fu associato all’imperium da Nerva nel 97, secondo il principio della “scelta del migliore”; per via dell’adozione Tacito lo nomina come Nerva Traianus.
[16] Il pessimismo sulla natura umana è una costante del pensiero tacitiano.
[17] Tacito si riferisce alla cerchia di senatori che si riconoscono nel nuovo corso rappresentato da Nerva e che, pur avendo fatto carriera sotto i Flavi e in particolare Domiziano, non si sono particolarmente compromessi con il sistema delle delazioni che aveva portato all’eliminazione di molti degli appartenenti alla loro stessa classe.
[18] Questo passaggio è ritenuto un’allusione alle Historiae, che trattano del periodo compreso fra il 69 e il 96, e il preannuncio di una successiva opera relativa al periodo iniziato con Nerva. Lo storico tuttavia cambierà il progetto e, anziché dedicarsi al presente, preferirà rivolgere la propria attenzione al periodo della dinastia giulio-claudia con gli Annales.
[19] L’autore presenta l’opera come un elogio funebre, secondo la tradizione romana che prevedeva che al funerale di una persona di rilievo il parente più autorevole pronunciasse pubblicamente un discorso commemorativo.
[20] D. Sailor, Becoming Tacitus: Significance and Inconsequentiality in the Prologue of Agricola, ClassAnt 23 (2004), 139-177 [link].