di CONTE G.B., PIANEZZOLA E., Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 3. L’età imperiale, Milano 2010, 128-131.
Il mito rappresentato nella tragedia Thyestes era già stato trattato da Ennio e da Accio. Atreo, per vendicarsi del fratello Tieste, che gli ha sedotto la moglie, gli offre un banchetto, in cui però gli imbandisce le carni dei figli. La monodia di Tieste qui riportata, quando già l’orrendo pasto è stato consumato, precede la mostruosa rivelazione del misfatto da parte di Atreo: la gioia di Tieste per la fine dell’esilio è offuscata dal vago sentore dell’atto terribile appena compiuto.
ᴍᴇᴛʀᴏ: dimetri anapestici
THYESTES
Pectora longis hebetata malis,
iam sollicitas ponite curas.
Fugiat maeror fugiatque pauor,
fugiat trepidi comes exilii
tristis egestas
rebusque grauis pudor afflictis:
magis unde cadas quam quo refert.
Magnum, ex alto culmine lapsum
stabilem in plano figere gressum;
magnum, ingenti strage malorum
pressum fracti pondera regni
non inflexa ceruice pati,
nec degenerem uictumque malis
rectum impositas ferre ruinas.
Sed iam saeui nubila fati
pelle ac miseri temporis omnes
dimitte notas;
redeant uultus ad laeta boni,
ueterem ex animo mitte Thyesten.
Proprium hoc miseros sequitur uitium,
numquam rebus credere laetis:
redeat felix fortuna licet,
tamen afflictos gaudere piget.
Quid me reuocas festumque uetas
celebrare diem, quid flere iubes,
nulla surgens dolor ex causa?
Quis me prohibet flore decenti
uincire comam, prohibet, prohibet?
Uernae capiti fluxere rosae,
pingui madidus crinis amomo
inter subitos stetit horrores,
imber uultu nolente cadit,
uenit in medias uoces gemitus.
Maeror lacrimas amat assuetas,
flendi miseris dira cupido est:
libet infaustos mittere questus,
libet et Tyrio saturas ostro
rumpere uestes, ululare libet.
Mittit luctus signa futuri
mens ante sui praesaga mali:
instat nautis fera tempestas,
cum sine uento tranquilla tument.
Quos tibi luctus quosue tumultus
fingis, demens?
Credula praesta pectora fratri:
iam, quicquid id est, uel sine causa
uel sero times.
Nolo, infelix, sed uagus intra
terror oberrat, subitos fundunt
oculi fletus, nec causa subest.
Dolor an metus est? an habet lacrimas magna uoluptas?
TIESTE
O mio cuore da mali senza fine reso insensibile,
ormai deponi i pensieri che ti angosciano.
Fugga la tristezza e fugga la paura,
fugga, compagna del mio agitato esilio,
la miseria tetra
e la vergogna pesante nella disperazione:
conta più da dove cadi che dove.
Grande cosa, per chi è scivolato giù
da un’alta cima, imprimere
fermo il suo passo sulla pianura;
grande cosa, schiacciato da un cumulo
enorme di mali, sopportare il peso del regno
infranto, senza piegare il collo,
e non indegno né vinto dai mali,
eretto, sopportare le rovine
che crollano su di lui.
Ma ora dissipa le nubi di un destino crudele
e allontana tutti i segni
del tempo infelice;
ritornino le espressioni del volto
ben disposte alla gioia,
dall’animo caccia l’antico Tieste.
Questo è l’errore che sempre segue gli infelici,
non credere mai a eventi di gioia:
se anche ritorna felice la sorte,
tuttavia a chi ha provato sventura
rincresce la gioia.
Perché mi richiami indietro
e mi impedisci di celebrare
un giorno di festa,
perché mi inviti a piangere,
o dolore che sorgi dal nulla?
Chi mi proibisce di cingere la chioma
con ornamenti di fiori,
mi proibisce, sì, mi proibisce?
Le rose di primavera sono scivolate
dalla mia testa,
i capelli madidi di denso unguento
si sono drizzati d’orrore improvviso,
cade una pioggia di lacrime
e il volto la rifiuta,
in mezzo alle parole spunta un gemito.
La tristezza ama le lacrime
a lei consuete,
tremenda brama di pianto
possiede gli infelici.
Vorrei lanciare luttuosi lamenti,
vorrei lacerare le vesti
imbevute di porpora tiria,
levare ululati vorrei.
Invia i segni di un lutto futuro
la mente che anticipa, presaga,
la sua sventura:
incalza i marinai la terribile tempesta,
quando la distesa del mare
tranquilla senza vento si gonfia.
Quali lutti o quali inquietudini
ti vai fingendo, pazzo?
Offri il cuore fiducioso al fratello:
ormai, qualunque cosa sia, o è senza ragione
o è tardivo il tuo timore.
Infelice, e non vorrei esserlo,
ma dentro di me si aggira un terrore che non so dire,
gli occhi riversano un pianto improvviso, e non c’è ragione.
È dolore o è timore? O forse comporta lacrime
un grande piacere?
(trad. di F. Nenci)

Tieste era figlio di Pelope, re di Micene, e di Ippodamia, e fratello di Atreo. Invidioso del fatto che Atreo, come primogenito, aveva diritto a ereditare il trono paterno, cominciò a tramare contro di lui: ne sedusse la moglie, Erope, e la persuase a consegnargli il vello d’oro che Ermes aveva dato a Pelope come dono e che Atreo custodiva gelosamente. Poiché secondo il responso di un oracolo sarebbe spettato al popolo di Micene decidere chi avesse diritto al regno, Tieste convinse la gente a proclamare re chi era in possesso del vello d’oro. Atreo, ignaro delle trame del fratello, si dichiarò d’accordo e allora Tieste mostrò il vello d’oro, ottenendo così il trono con l’inganno. Ermes, su ordine di Zeus, consigliò ad Atreo di chiedere a Tieste se fosse d’accordo a cedergli il regno, nel caso in cui il Sole avesse mutato il suo corso. Tieste acconsentì, e Zeus fece in modo che il Sole tramontasse a est, invertendo la normalità. Il trono fu restituito a Atreo e Tieste fu mandato in esilio.
Venuto a conoscenza del tradimento di Erope, Atreo decise di vendicarsi del fratello: con la scusa di una riconciliazione lo invitò alla reggia e gli imbandì un terribile banchetto, offrendogli la carne dei suoi stessi figli – Aglao, Callileonte e Orcomeno – uccisi dallo zio mentre stavano all’altare di Zeus come supplici. Al termine del pasto, Atreo gli mostrò le teste dei figli assassinati e Tieste comprese di quale orrendo delitto si era macchiato. Le colpe di Atreo e Tieste ricaddero sui loro figli: Agamennone e Menelao, figli di Atreo, ed Egisto, figlio nato dall’incesto di Tieste con la figlia, saranno tutti vittime della maledizione della stirpe dei Pelopidi.
Quella di Seneca è l’unica versione drammatica del mito di Tieste a noi pervenuta per intero, anche se sappiamo che molti autori greci e latini trattarono la storia dei Pelopidi: fra gli autori greci, per esempio, Sofocle, scrisse un Atreo e un Tieste, Euripide un Tieste. In ambito latino, un Tieste fu composto da Ennio, mentre Accio scrisse un Atreo. Tutte queste tragedie ci sono conservate purtroppo in forma estremamente frammentaria.
Nella monodia riportata Tieste, che ha appena consumato il suo orribile pasto, ma è ancora all’oscuro dell’empietà di cui involontariamente si è macchiato, esprime i sentimenti contraddittori di cui è preda il suo animo. Da un lato, egli è felice per la fine del suo esilio, dall’altro, si dice attanagliato da un terribile senso di angoscia e di terrore: un vago presentimento dell’atto orrendo che ha appena compiuto involontariamente. Tieste si rivolge al suo animo (v. 920 pectora) e lo invita a mettere da parte l’angoscia e il dolore che lo hanno afflitto al tempo dell’esilio con una serie di congiuntivi esortativi e di imperativi (vv. 922-923 Fugiat… fugiatque… fugiat; vv. 935-938 pelle… dimitte… redeant… mitte).
Queste esortazioni sono intervallate da alcune affermazioni di carattere generale e dal tono sentenzioso, come è tipico dello stile di Seneca: ai vv. 927-933 Tieste elogia la capacità di rimanere saldi nelle avversità della sorte e di sopportare le condizioni più dure (Magnum, ex alto culmine lapsum / stabilem in plano figere gressum; / magnum, ingenti strage malorum / pressum fracti pondera regni / non inflexa ceruice pati, / nec degenerem uictumque malis /rectum impositas ferre ruinas.), mentre ai vv. 938-941 sottolinea la diffidenza di fronte a una gioia improvvisa propria di chi ha dovuto patire molte sofferenze (Proprium hoc miseros sequitur uitium, / numquam rebus credere laetis: / redeat felix fortuna licet, / tamen afflictos gaudere piget).
Nella seconda parte del monologo, l’angoscia prende il sopravvento nell’animo del protagonista, nonostante egli cerchi di scacciarla invitando se stesso a godere della gioia del rientro in patria e della riconciliazione con il fratello. Tieste paragona se stesso ai marinai che comprendono i segni inequivocabili della tempesta in arrivo, quando il mare, ancora una distesa piatta e tranquilla, inizia lentamente a ingrossarsi (vv. 957-960 Mittit luctus signa futuri / mens ante sui praesaga mali: / instat nautis fera tempestas, / cum sine vento tranquilla tument): le angosce di Tieste sono come nubi scure che si addensano all’orizzonte e lasciano presagire mali futuri. In preda a sentimenti contrastanti, Tieste si definisce demens, «folle». La lacerazione del suo animo e lo sgomento di cui è preda sono sottolineati dalle continue domande che egli pone a se stesso (v. 961s. Quos tibi luctus quosue tumultus / fingis, demens?; v. 968s. Dolor an metus est? an habet lacrimas / magna uoluptas?): presto la rivelazione dell’atrocità compiuta da Atreo darà una terribile risposta ai suoi interrogativi.

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