di G. Gᴀʀʙᴀʀɪɴᴏ, M. Mᴀɴᴄᴀ, L. Pᴀsǫᴜᴀʀɪᴇʟʟᴏ, De te fabula narratur. 1. Dalle origini all’età di Cesare, Milano-Torino 2020, 572-575.
Come alla prassi oratoria, anche a quella politica Cicerone accompagna una riflessione teorica, sviluppando in modo personale spunti offerti dalla filosofia greca (la politica, nel mondo antico, non era distinta dalla filosofia ma ne rappresentava uno dei principali campi d’indagine). Le opere filosofico-politiche di Cicerone, pur diverse nella struttura e negli argomenti, sono simili tra loro nell’impostazione di fondo, orientata non alla riflessione astratta, ma alla soluzione di problemi concreti posti con drammatica urgenza dall’attualità. Esse sono infatti accomunate dall’intento dell’autore di usare gli strumenti concettuali offerti dalla filosofia per sostenere e difendere strenuamente le istituzioni della res publica oligarchica dalle spinte, ormai inarrestabili, di quella “rivoluzione romana” che avrebbe portato, di lì a poco, all’instaurazione del regime imperiale.
Nel 54 a.C. Cicerone compose il De re publica, un’opera vasta e ambiziosa di filosofia politica in cui discusse i problemi che più gli stavano a cuore: l’organizzazione della res publica, la migliore forma di governo e le istituzioni politiche romane.
Il dialogo, in sei libri, si presenta ispirato fin dal titolo al precedente di Platone, l’opera in dieci libri chiamata correntemente “La repubblica” (in greco Πολιτεία). Cicerone, tuttavia, con il pragmatismo che lo contraddistingue, non si propone di delineare la forma perfetta di uno Stato ideale, bensì di affrontare i problemi politico-istituzionali concretamente e storicamente, ponendosi da un punto di vista specificamente romano. Il testo si è conservato soltanto in parte: restano i primi due libri, con lacune, e frammenti degli altri tre; è inoltre pervenuta per intero la parte finale del libro VI, ossia la chiusa dell’opera, detta Somnium Scipionis, tramandata separatamente per l’interesse che suscitò nella tarda antichità e nel Medioevo.
Protagonista del dialogo è Publio Cornelio Scipione Emiliano, l’uomo politico più ammirato da Cicerone, che proiettò su di lui, in questa e in altre opere, i propri ideali e le proprie aspirazioni. L’introduzione narrata presenta Scipione impegnato nel 129 a.C. (poco prima della morte) in una conversazione con un gruppo di amici, tra cui l’inseparabile Gaio Lelio. Nel libro I Scipione dà la sua definizione di res publica, cioè «cosa del popolo» (res populi), e il popolo viene definito come «l’aggregazione di un gruppo di persone unite da un accordo sui reciproci diritti (iuris consensus) e da interessi comuni (utilitatis communio)». Presenta poi e discute le tre forme di governo – monarchia, aristocrazia, democrazia – e le loro rispettive degenerazioni – tirannide, oligarchia, demagogia – rifacendosi a Polibio (206-124 a.C.), lo storico greco vissuto a lungo a Roma, che aveva inserito all’interno delle sue Storie un’ampia digressione su questo argomento. Dopo aver affermato il primato della monarchia sulle altre forme costituzionali “semplici”, Scipione sostiene che la costituzione migliore di tutte è quella “mista” (come per Polibio): questa assomma i vantaggi ed evita i difetti delle tre forme semplici, assicurando quel perfetto equilibrio di poteri che garantisce la stabilità dello Stato. Esempio eccellente di tale forma mista è la costituzione romana, in cui il potere monarchico è rappresentato dai consoli, quello aristocratico dal Senato, quello democratico dalle assemblee popolari.
Nel libro II sono delineati l’origine e gli sviluppi di Roma, da Romolo ai tempi recenti, con particolare attenzione alle riforme che ridussero progressivamente il potere del Senato, cioè dell’aristocrazia, a favore del popolo. Il libro III (molto lacunoso) trattava della virtù politica per eccellenza, la iustitia. Venivano riportate le argomentazioni del filosofo Carneade contro l’esistenza di un fondamento naturale di essa: non sulla giustizia, che prescrive di dare a ciascuno il suo, ma sulla sopraffazione dei più deboli, i popoli dominatori, e Roma stessa, fondano i loro imperi. Questo aveva affermato il filosofo greco, aggiungendo provocatoriamente che se i Romani avessero voluto essere giusti, avrebbero dovuto restituire a tutti gli altri popoli ciò di cui li avevano privati con la forza, ritornando alle capanne e alla miseria delle loro origini. Lelio assumeva, invece, la difesa della giustizia naturale, sostenendo la legittimità morale del dominio di Roma, in quanto esercitato a vantaggio dei popoli sottoposti.
Quasi interamente perduti sono il libro IV, dedicato alla formazione del buon cittadino, e il V, in cui era delineata la figura del governante perfetto. Del libro VI si conserva soltanto il finale, ossia il Somnium Scipionis. Scipione Emiliano vi racconta un sogno in cui gli era apparso l’avo adottivo, Scipione Africano; questi, dopo avergli predetto le future imprese gloriose e la morte prematura, gli aveva mostrato lo spettacolo grandioso delle sfere celesti e la dimora celeste che i grandi uomini politici, benefattori della patria, raggiungono subito dopo che l’anima si è liberata dalla prigione del corpo. Il testo, conservato indipendentemente dal resto dell’opera, fu molto apprezzato nel Medioevo per lo spirito religioso che lo pervade; ma il sentimento prevalente che lo anima è quello politico: in esso è celebrato infatti il senso di dedizione allo Stato come valore supremo, che ha comunque una sua ricompensa in cielo, se non in Terra.