di G. Gᴀʀʙᴀʀɪɴᴏ, M. Mᴀɴᴄᴀ, L. Pᴀsǫᴜᴀʀɪᴇʟʟᴏ, De te fabula narratur. 3. Dalla prima età imperiale ai regni romano-barbarici, Milano-Torino 2020, 78-79; 147-149; cfr. A. Bᴀʟᴇsᴛʀᴀ et al., In partes tres. 3. L’età imperiale, Bologna 2016, 4-5.
Nella produzione senecana occupa un posto a sé un prosimetro, cioè un’opera mista di prosa e versi appartenente al genere della satira menippea, importante anche perché è l’unico esemplare di questa forma letteraria che si possa leggere per intero (l’altro grande prosimetro di età neroniana, il Satyricon di Petronio, si è conservato in modo estremamente lacunoso).
La satira menippea, chiamata così dall’iniziatore del genere, Menippo di Gadara (III sec. a.C.), era caratterizzata a livello formale dalla mescolanza di versi e di prosa, e a livello contenutistico dalla commistione di serio e di scherzoso (in greco σπουδαιογέλοιον). Era stata introdotta a Roma da Varrone Reatino, che l’aveva usata (a quanto risulta dai frammenti) per svolgere temi diatribici, di argomento morale.
L’operetta senecana è invece un ironico pamphlet senza alcuna implicazione filosofica, scritto in occasione della morte di Claudio: in esso Seneca (che aveva dovuto scrivere) l’elogio funebre ufficiale dell’imperatore defunto, pronunciato da Nerone durante i funerali) dà libero sfogo al suo odio e al suo disprezzo per colui che lo aveva perseguitato e condannato all’esilio.

Il titolo latino che compare in alcuni codici è Ludus de morte Claudii, dove ludus ha il significato di “gioco” o “scherzo” letterario. Il titolo greco Ἀποκολοκύντωσις (riportato da un’altra fonte antica, lo storico Cassio Dione) è di interpretazione incerta e discussa. Poiché κολοκύνθη in greco significa “zucca”, il termine è stato inteso da alcuni studiosi come “zucchificazione”, nel senso di “trasformazione in zucca”, con implicito riferimento e contrapposizione al concetto di ἀποθέωσις, “divinizzazione”. Tuttavia, nell’opera Claudio non subisce alcuna trasformazione; perciò, altri hanno supposto che il senso sia piuttosto “deificazione di una zucca”, “divinizzazione di quello zuccone di Claudio”. Altri ancora hanno pensato a un’espressione idiomatica (altrimenti non attestata) corrispondente alla nostra “infinocchiatura”, nel senso di “fregatura”, e non sono mancate altre ipotesi, tutte indimostrabili.
L’autore promette all’inizio che riferirà fedelmente gli avvenimenti che seguirono alla morte dell’imperatore e comincia il racconto dal momento in cui le Parche recidono finalmente il filo della sua vita, e Apollo intona un canto di gioia per l’inizio del felice principato di Nerone.
È il III Idus Octobris (13 ottobre) del 54 : mentre sulla Terra tutti esultano, in cielo è in corso un animato quanto confuso dibattimento tra gli dèi, riuniti in concilio per ratificare gli onori divini che il Senato ha conferito a Claudio dopo la sua morte; il riconoscimento della divinizzazione di questo princeps giulio-claudio sta sollevando tra i celesti perplessità e riserve, ma Claudio, un monstrum claudicante che si è presentato al cospetto di Giove a perorare la propria divinizzazione, non viene riconosciuto perché parla in modo incomprensibile (il defunto, in effetti, era affetto da balbuzie!); la somma divinità affida dunque a Ercole l’incarico di interpretarne le parole e capire chi sia e il dio, inorridito dall’aspetto mostruoso di quel grottesco personaggio, si prepara alla sua tredicesima fatica: guidare con febbrili maneggi l’assemblea verso l’approvazione della richiesta.
[4, 2] Expirauit autem dum comoedos audit, ut scias me non sine causa illos timere. [3] ultima uox eius haec inter homines audita est, cum maiorem sonitum emisisset illa parte, qua facilius loquebatur: ‘uae me, puto, concacaui me.’ quod an fecerit, nescio; omnia certe concacauit.
[5, 1] quae in terris postea sint acta superuacuum est referre. scitis enim optime, nec periculum est ne excidant quae memoriae gaudium publicum impresserunt: nemo felicitatis suae obliuiscitur. in caelo quae acta sint audite: fides penes auctorem erit. [2] nuntiatur Ioui uenisse quendam bonae staturae, bene canum; nescio quid illum minari, assidue enim caput mouere; pedem dextrum trahere. quaesisse se cuius nationis esset: respondisse nescio quid perturbato sono et uoce confusa; non intellegere se linguam eius: nec Graecum esse nec Romanum nec ullius gentis notae. [3] tum Iuppiter Herculem, qui totum orbem terrarum pererrauerat et nosse uidebatur omnes nationes, iubet ire et explorare quorum hominum esset. tum Hercules primo aspectu sane perturbatus est, ut qui etiam non omnia monstra timuerit. ut uidit noui generis faciem, insolitum incessum, uocem nullius terrestris animalis sed qualis esse marinis beluis solet, raucam et implicatam, putauit sibi tertium decimum laborem uenisse. [4] diligentius intuenti uisus est quasi homo. accessit itaque et quod facillimum fuit Graeculo, ait:
τίς πόθεν εἰς ἀνδρῶν, ποίη πόλις ἠδὲ τοκῆες;
Claudius gaudet esse illic philologos homines: sperat futurum aliquem historiis suis locum. itaque et ipse Homerico uersu Caesarem se esse significans ait:
Ἰλιόθεν με φέρων ἄνεμος Κικόνεσσι πέλασσεν
(erat autem sequens uersus uerior, aeque Homericus:
ἔνθα δ’ ἐγὼ πόλιν ἔπραθον, ὤλεσα δ’ αὐτούς).
[6, 1] et imposuerat Herculi minime uafro, nisi fuisset illic Febris, quae fano suo relicto sola cum illo uenerat: ceteros omnes deos Romae reliquerat. ‘iste’ inquit ‘mera mendacia narrat. ego tibi dico, quae cum illo tot annis uixi: Luguduni natus est, Munati municipem uides. quod tibi narro, ad sextum decimum lapidem natus est a Vienna, Gallus germanus. itaque quod Gallum facere oportebat, Romam cepit’. […] [2] excandescit hoc loco Claudius et quanto potest murmure irascitur. quid diceret nemo intellegebat. ille autem Febrim duci iubebat. illo gestu solutae manus, et ad hoc unum satis firmae, quo decollare homines solebat, iusserat illi collum praecidi. putares omnes illius esse libertos: adeo illum nemo curabat.
[7, 1] tum Hercules ‘audi me’ inquit ‘tu desine fatuari. uenisti huc, ubi mures ferrum rodunt. citius mihi uerum, ne tibi alogias excutiam.’ et quo terribilior esset, tragicus fit et ait:
[2] ‘exprome propere sede qua genitus cluas,
hoc ne peremptus stipite ad terram accidas:
haec claua reges saepe mactauit feros.
quid nunc profatu uocis incerto sonas?
quae patria, quae gens mobile eduxit caput? […]
[4, 2] Ed egli cacciò l’anima, e da quel momento cessò di parer vivo. Spirò mentre ascoltava dei commedianti[1]; per cui capirai che io li evito non senza un buon motivo! [3] L’ultima sua voce a essere udita fra i mortali, dopo aver lasciato andare un gran rumore da quella parte del corpo con cui parlava più facilmente, fu questa: «Oh me! Mi sono smerdato, mi sono!». Che l’abbia fatto davvero non so: certo, ha smerdato ogni cosa[2].
[5, 1] Quel che successe poi in terra è superfluo da riferire. Lo sapete benissimo, né c’è pericolo che si dimentichi quello che l’esultanza generale impresse nella memoria: nessuno si scorda della propria felicità. Udite invece quello che successe in cielo: la responsabilità è di chi me lo ha raccontato[3]. [2] Annunciarono a Giove l’arrivo di un tale, di buona statura e tutto canuto: minacciava chi sa che cosa, perché muoveva di continuo la testa; e strascicava il piede destro. Gli aveva domandato di che paese fosse: aveva risposto non so che cosa con suoni indistinti e voce confusa; non capiva la sua parlata, non doveva essere greco né romano, né di alcun altro popolo conosciuto. [3] Allora Giove chiamò Ercole, il quale aveva girato tutta la Terra e aveva l’aria di conoscere tutte le genti, e gli comandò di andare e di vedere che razza d’uomo fosse. A prima vista, Ercole si prese un bello spavento, come se non avesse mai affrontato ogni specie di mostri. Come vide quella faccia di nuovo genere, quella strana andatura, quella voce non propria a nessun animale terrestre, ma roca e ingarbugliata quale sogliono avere i mostri marini, s’immaginò che fosse giunta la sua tredicesima fatica. [4] Ma, guardando meglio, si rese conto che si trattasse di qualcosa come di un uomo. Allora gli si avvicinò e – cosa che per un greco come lui è facilissima – gli domandò: «Chi sei tu e da dove vieni? Quale la tua città e i tuoi genitori?»[4]. Claudio gioì a sentire che lassù vi fossero degli eruditi: sperava in un posticino per le sue opere storiche[5]. Così pure egli con un verso omerico, per significare la sua qualità di Cesare, disse: «Da Ilio il vento portandomi mi avvicinò ai Ciconi»[6]. Ma più rispondente al vero sarebbe stato il verso seguente, altrettanto omerico: «Là io distrussi la città e sterminai gli abitanti»[7].
[6, 1] E l’avrebbe data a bere a Ercole, che è pochissimo furbo, se non ci fosse stata lì Febbre[8], la quale, abbandonato il suo tempio, se n’era venuta sola con lui, lasciando tutti gli altri dèi a Roma. «Costui – disse – racconta tutte frottole. Te lo dico io, che sono vissuta con lui tanti anni: è di Lugdunum, hai davanti un compaesano di Munazio[9]! È come ti dico, nato a sedici miglia da Vienna, un Gallo purosangue[10]; e perciò ha fatto tutto quello che un Gallo avrebbe dovuto fare: ha preso Roma[11]». […] [2] A questo punto Claudio divenne di fuoco e grugnì di rabbia a più non posso. Che cosa dicesse, nessuno lo capì: certo, comandava che Febbre fosse giustiziata, con quel suo gesto della mano malferma – ma a questo unico scopo abbastanza decisa! – col quale soleva far decapitare la gente. Aveva comandato che le tagliassero il collo: avresti pensato che lì fossero tutti suoi liberti, tanto nessuno gli dava retta!
[7, 1] Allora Ercole: «Stammi a sentire tu, e smettila di vaneggiare! Sei venuto in un posto in cui i topi rodono perfino il ferro[12]. Presto, fuori la verità, se vuoi che non ti scrolli di dosso il ruzzo!». E per apparire più terribile, si atteggiò ad attore tragico e declamò:
[2] «Dichiara subito dove ti vanti nato,
che tu non cada a terra sotto il colpo di questo tronco:
fieri re spesso immolò questa clava.
Cosa vai balbettando con incerta pronuncia?
Qual patria, qual gente mise al mondo codesta mobile testa? […]».

Alla morte dell’imperatore, sei anni dopo la revoca dall’esilio nel 49, in Seneca non è affatto diminuito il rancore nei confronti del princeps, di cui, in qualità di consigliere imperiale, ha dovuto perfino comporne l’elogio funebre. Nel passo letto sono narrati due momenti essenziali della vicenda immaginata dall’autore: il decesso e l’ascesa in cielo di Claudio. Il racconto della morte del princeps è basato sulla dissacrazione del luogo comune epico e storico dei novissima verba (“le ultime parole” di un personaggio importante). Anziché nobili accenti che suggellano una vita eroica, Claudio chiude i suoi giorni con un’osservazione volgare. Il secondo momento ha i connotati di una commedia: il defunto è trasformato in una figura grottesca con l’accentuazione dei suoi difetti fisici (confermati dalle fonti storiche): il tremore del capo, l’andatura incerta e zoppicante, la voce sgradevole, la balbuzie e la dizione confusa. Tali difetti sono ingigantiti per fare del personaggio un ridicolo e insieme mostruoso fantoccio. Di fronte a lui si pongono delle figure divine: Giove, Ercole e Febbre. In particolare, Ercole presenta i tratti caricaturali (tutto muscoli e poco cervello) che gli attribuiva la tradizione comica: la sua ingenua spacconeria assume alla fine del brano i toni della parodia tragica, con l’inserzione di versi (senari giambici) scritti in uno stile volutamente enfatico.
Dopo una lacuna nel testo, si mostra la scena in cui gli dèi sono seduti a concilio e discutono la proposta di divinizzare Claudio. Si susseguono alcuni discorsi pro e contro, finché, giunto il momento del suo intervento, prende la parola il divo Augusto, fondatore del Principato e capostipite della dinastia su cui Claudio ha legittimato il proprio potere; Augusto stesso è stato accolto dopo la sua dipartita tra gli dèi ed è quindi oggetto di culto presso i Romani per le straordinarie doti e i suoi altissimi meriti. Ma il discorso che pronuncia si rivela ben presto una violenta requisitoria contro il nipote: egli dichiara l’impossibilità di tacere tutto il dolore e la vergogna per le sorti di Roma e del Principato, che egli aveva istituito allo scopo di garantire la pace universale e di comporre i conflitti intestini. La riprovazione radicale per ciò che questa forma di governo si è diventata, in conseguenza dell’indegnità morale con cui Claudio l’ha esercitata, fa giustizia dell’impostura con cui si sta cercando di perorare la propria istanza. Il capostipite della gens giulio-claudia taglia il cordone dinastico con cui Claudio si è legato a lui, sbugiardandolo per l’uso strumentale che ha fatto del proprio potere, e lo denuda nella sua meschinità davanti all’assemblea divina.
[10, 1] tunc diuus Augustus surrexit sententiae suae loco dicendae et summa facundia disseruit: ‘ego’ inquit ‘p.c., uos testes habeo, ex quo deus factus sum, nullum me uerbum fecisse: semper meum negotium ago. et non possum amplius dissimulare et dolorem, quem grauiorem pudor facit, continere. [2] in hoc terra marique pacem peperi? ideo ciuilia bella compescui? ideo legibus urbem fundaui, operibus ornaui, ut—? quid dicam, p.c., non inuenio: omnia infra indignationem uerba sunt. […] [3] hic, p.c., qui uobis non posse uidetur muscam excitare, tam facile homines occidebat quam canis adsidit. […] [4] dic mihi, diue Claudi: quare quemquam ex his, quos quasque occidisti, antequam de causa cognosceres, antequam audires, damnasti? hoc ubi fieri solet? in caelo non fit’ […].
[10, 1] Allora, giunto il suo turno, si alzò a dire la sua il divo Augusto e parlò con suprema eloquenza: “Padri coscritti” – disse – “voi siete testimoni del fatto che, da quando sono diventato un dio, non ho mai preso la parola: mi faccio sempre i fatti miei. Ma non posso dissimulare oltre e contenere un dolore che la vergogna rende insopportabile. [2] Per questo ho portato la pace per terra e per mare? Per questo ho messo un freno alle guerre civili? Per questo ho rifondato Roma sulle leggi, l’ho resa bella con le opere, affinché…? Padri coscritti, non so cosa dire: qualsiasi parola non è all’altezza della mia indignazione. […] [3] Costui, padri coscritti, che vi sembra incapace di scacciare una mosca, ammazzava le persone con la stessa facilità con cui un cane si mette a sedere per pisciare. […] [4] Dimmi, divo Claudio, perché ognuno di quelli e di quelle che tu hai messo a morte l’hai condannato prima di fargli un processo, prima di sentire le sue ragioni? Dove accade di solito questo? In cielo, no di certo” […].
Claudio era stato in precedenza canzonato per aver distribuito a destra e a manca la cittadinanza romana, ma il tradimento decisivo di cui lo accusa Augusto è la mancanza di clementia con cui ha governato: la pratica gratuita e disinvolta dell’assassinio di tanti e così validi uomini lo denuncia irrimediabilmente come un tiranno. Ma la tragedia pubblica è anche il riflesso di un dramma familiare: il Divo elenca, uno a uno, i nomi dei membri della familia del princeps che hanno subito una persecuzione impietosa da parte di Claudio a tutela del suo potere. L’ultimo atto di accusa di Augusto segna la distanza tra la iustitia divina che l’imperatore avrebbe dovuto incarnare, e che ne avrebbe potuto giustificare l’apoteosi, e la perversa condotta del nipote.
La conseguenza immediata dell’orazione di Augusto è la condanna senza appello di Claudio agli Inferi: così, passando per la via Sacra, egli assiste al proprio funerale e soltanto allora si rende conto di essere defunto davvero; inoltre, mentre i mortali sono ignari delle divine decisioni, Roma gli appare in festa per la sua consacrazione; infine, Claudio ascolta un ironico canto funebre in suo onore. Una volta nell’oltretomba, gli si fa incontro la folta schiera delle sue vittime; sottoposto a un processo sommario come quelli che egli era solito fare in vita, è condannato a giocare eternamente ai dadi con un bussolotto forato. Compare poi Caligola, che lo reclama come suo schiavo; infine, però, viene assegnato al liberto Menandro perché gli faccia da assistente. Insomma, agli Inferi Claudio realizza l’unica consacrazione che merita: l’eternizzazione della sua stupidità, confermata non solo dalla pena infamante a cui viene condannato, ma anche dalla degradazione delle mansioni servili cui è adibito.
L’operetta è geniale sia per la verve vivacemente satirica e mordace, sia per la perfetta padronanza con cui l’autore si muove tra livelli linguistici e stilistici diversi, dal colloquiale “basso” alla parodia dello stile “alto” e solenne dell’epica, dal tono leggero, ironicamente scanzonato e umoristico, al sarcasmo più feroce.
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[1] Suet. Claud. 45 e Tac. Ann. XII 68 raccontano che la notizia della morte di Claudio fu tenuta segreta finché non furono prese le misure necessarie per garantire la successione di Nerone; Svetonio aggiunge che, per far credere che egli fosse ancora in vita, fu introdotta a palazzo una compagnia di attori comici e si finse che egli stesso ne avesse richiesto la presenza.
[2] Intende, naturalmente, durante il suo principato.
[3] Riecheggia parodisticamente una formula usata dagli storici.
[4] Od. I 170, ma il verso ricorre più volte nel poema. Svetonio attesta l’abitudine di Claudio di citare molto spesso versi omerici.
[5] Claudio aveva scritto varie opere storiografiche, sia in greco sia in latino.
[6] Od. IX 39: è la presentazione che Odisseo fa di sé al re Alcinoo. In quanto discendente della gens Iulia, Claudio può dire di provenire da Troia.
[7] Od. IX 40. Odisseo si riferisce ai Ciconi, popolo barbaro che qui simboleggia i Romani.
[8] Febbre era oggetto di culto a Roma. Un suo tempio si trovava sul Palatino, non lontano dalla residenza imperiale.
[9] Allusione di cui non è possibile ricostruire con sicurezza il significato.
[10] Claudio era appunto nato a Lugdunum (od. Lione) nel 10 a.C., mentre suo padre Druso conduceva una spedizione militare contro i Germani. Vienna (od. Vienne) era una colonia romana non lontana dalla capitale gallica.
[11] Allude all’orda di Senoni che incendiò l’Urbe nel 390 a.C.
[12] Proverbio che indicava probabilmente un luogo in cui l’esistenza fosse dura: Ercole vuole così spaventare il nuovo arrivato.
L’ha ripubblicato su ilcantooscuro.
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