“Malato” e paziente: sintomi e diagnosi (Sᴇɴ. 𝐷𝑖𝑎𝑙. IX 1, 1-2; 16-18; 2, 1-4)

di G. Gᴀʀʙᴀʀɪɴᴏ, M. Mᴀɴᴄᴀ, L. Pᴀsǫᴜᴀʀɪᴇʟʟᴏ, De te fabula narratur. 3. Dalla prima età imperiale ai regni romano-barbarici, Milano-Torino 2020, 91-94 (trad. it. C. Lazzarini).

Il destinatario del De tranquillitate animi, Anneo Sereno, funzionario imperiale ed ex epicureo in fase di conversione allo Stoicismo, discepolo e forse (dato il nome) parente di Seneca, si rivolge al filosofo come a un medico dell’anima: si sente insoddisfatto, incapace di scegliere, simile a chi sta sempre per cadere; ha un rapporto contraddittorio con le cose, con la società e con la cultura stessa. Chiede dunque aiuto (rogo remedium) per poter godere di una tranquillitas stabile. Seneca, dopo aver diagnosticato la non gravità del male dell’amico, gli spiega che ciò che gli manca è un giusto equilibrio interiore; per raggiungerlo Sereno dovrà, in primo luogo, avere fiducia in se stesso ed essere convinto di trovarsi sulla giusta strada.

[𝟏, 𝟏] < Sᴇʀᴇɴᴜs > Inquirenti mihi in me quaedam uitia apparebant, Seneca, in aperto posita, quae manu prenderem, quaedam obscuriora et in recessu, quaedam non continua sed ex interuallis redeuntia, quae uel molestissima dixerim,   ut hostis uagos et ex occasionibus adsilientis, per quos neutrum licet, nec tamquam in bello paratum esse nec tamquam in pace securum. [𝟐] Illum tamen habitum in me maxime deprendo (quare enim non uerum ut medico fatear?), nec bona fide liberatum me eis quae timebam et oderam nec rursus obnoxium; in statu ut non pessimo, ita maxime querulo et moroso positus sum: nec aegroto nec ualeo. […] [𝟏𝟔] Ne singula diutius persequar, in omnibus rebus haec me sequitur bonae mentis infirmitas. †Cui† ne paulatim defluam uereor, aut, quod est sollicitius, ne semper casuro similis pendeam et plus fortasse sit quam quod ipse peruideo; familiariter enim domestica aspicimus et semper iudicio fauor officit. [𝟏𝟕] Puto multos potuisse ad sapientiam peruenire, nisi putassent se peruenisse, nisi quaedam in se dissimulassent, quaedam opertis oculis transiluissent. Non est enim quod magis aliena ‹nos› iudices adulatione perire quam nostra. Quis sibi uerum dicere ausus est? Quis non inter laudantium blandientiumque positus greges plurimum tamen sibi ipse adsentatus est? [𝟏𝟖] Rogo itaque, si quod habes remedium quo hanc fluctuationem meam sistas, dignum me putes qui tibi tranquillitatem debeam. Non esse periculosos ‹hos› motus animi nec quicquam tumultuosi adferentis scio; ut uera tibi similitudine id de quo queror exprimam, non tempestate uexor sed nausea: detrahe ergo quidquid hoc est mali et succurre in conspectu terrarum laboranti.

[𝟏, 𝟏] < Sᴇʀᴇɴᴏ> Ero immerso nell’introspezione, Seneca, ed ecco mi apparivano alcuni vizi, messi allo scoperto, tanto che potevo afferrarli con la mano: alcuni più nascosti e reconditi, altri non costanti, ma ricorrenti di quando in quando, che definirei addirittura i più insidiosi, come nemici sparpagliati e pronti ad attaccare al momento opportuno, con i quali non è ammessa nessuna delle due tattiche, star pronti come in guerra né tranquilli come in pace. [𝟐] Tuttavia, ho da criticare soprattutto quell’atteggiamento in me (perché infatti non confessarlo proprio come a un medico?), vale a dire di non essermi liberato in tutta sincerità di quei difetti che temevo e odiavo e di non esserne tuttavia ancora servo; mi ritrovo in una condizione se è vero non pessima, pur tuttavia più che mai lamentevole e uggiosa: non sto male né bene. […] [𝟏𝟔] Per non dilungarmi sui singoli aspetti, in tutte le occasioni mi accompagna questa incostanza di senno. Temo di scivolare giù a poco a poco o, cosa più preoccupante, di essere sempre in bilico come chi sta per cadere e che la situazione sia forse peggiore di quella che vedo io; infatti, guardiamo con bonarietà le cose che ci riguardano e la simpatia offusca sempre il giudizio. [𝟏𝟕] Penso che molti avrebbero potuto raggiungere la saggezza, se non avessero ritenuto di averla raggiunta, se non si fossero nascosti qualche loro manchevolezza, se non avessero sorvolato su qualcosa chiudendo gli occhi. Infatti, non c’è ragione di credere che noi andiamo in rovina più per adulazione altrui che per la nostra. Chi è che ha mai osato dirsi la verità? Chi è che posto tra branchi di elogiatori e lusingatori non si è fatto tuttavia egli stesso grandissimo adulatore di sé? [𝟏𝟖] Ti prego dunque, se hai un qualche rimedio con cui tu possa por fine a questo mio fluttuare, di ritenermi degno di dovere a te la mia tranquillità. Che non siano pericolosi questi moti dell’animo e che non portino con sé nessun vero sconvolgimento lo so; per esprimerti ciò di cui mi lamento con una similitudine appropriata, non sono tormentato da una tempesta, ma dal mal di mare: toglimi dunque questo malessere, quale che sia, e vieni in aiuto di un naufrago che ancora tribola già in vista della terraferma.

[𝟐, 𝟏] < Sᴇɴᴇᴄᴀ > Quaero mehercules iam dudum, Serene, ipse tacitus, cui talem adfectum animi similem putem, nec ulli propius admouerim exemplo quam eorum qui ex longa et graui ualetudine expliciti motiunculis leuibusque interim offensis perstringuntur et, cum reliquias effugerunt, suspicionibus tamen inquietantur medicisque iam sani manum porrigunt et omnem calorem corporis sui calumniantur. Horum, Serene, non parum sanum est corpus, sed sanitati parum adsueuit, sicut est quidam tremor etiam tranquilli maris, utique cum ex tempestate requieuit. [𝟐] Opus est itaque non illis durioribus quae iam transcucurrimus, ut alicubi obstes tibi, alicubi irascaris, alicubi instes grauis, sed illo quod ultimum uenit, ut fidem tibi habeas et recta ire te uia credas, nihil auocatus transuersis multorum uestigiis passim discurrentium, quorundam circa ipsam errantium uiam. [𝟑] Quod desideras autem magnum et summum est deoque uicinum, non concuti. Hanc stabilem animi sedem Graeci εὐθυμίαν uocant, de qua Democriti uolumen egregium est, ego tranquillitatem uoco; nec enim imitari et transferre uerba ad illorum formam necesse est: res ipsa de qua agitur aliquo signanda nomine est, quod appellationis Graecae uim debet habere, non faciem. [𝟒] Ergo quaerimus quomodo animus semper aequali secundoque cursu eat propitiusque sibi sit et sua laetus aspiciat et hoc gaudium non interrumpat, sed placido statu maneat nec attollens se umquam nec deprimens: id tranquillitas erit.

[𝟐, 𝟏] < Sᴇɴᴇᴄᴀ > Mi vado chiedendo, perbacco, già da un po’, Sereno – tra me e me –, a che cosa potrei assimilare tale affezione dell’animo e non saprei avvicinarla di più a nessun esempio che a quello di quanti, usciti da una malattia lunga e grave, di tanto in tanto sono colpiti da piccoli attacchi di febbre e da episodi di leggero malessere e, quando si sono ormai sottratti alle residue manifestazioni del male, tuttavia, si fanno turbare da quelli che giudicano sintomi e, ormai guariti, tendono la mano ai medici e sovrainterpretano ogni rialzo di temperatura. Di costoro, Sereno, non è poco sano il corpo, ma troppo poco si è abituato alla salute, così come è presente un qualche tremolio anche nella marina tranquilla, specie quando è uscita da una tempesta. [𝟐] C’è bisogno dunque non di quei provvedimenti più duri che ormai ci siamo lasciati alle spalle, cioè che a volte tu lotti con te stesso, altre monti in collera con te, altre ancora ti incalzi pesantemente, ma di quello che viene da ultimo, che tu abbia fiducia in te stesso e creda di procedere per la strada giusta, non facendotene assolutamente distogliere dalle orme incrociate dai molti che vagano in tutte le direzioni, di alcuni che sbandano proprio ai margini della strada. [𝟑] Quanto a ciò di cui senti la mancanza, è qualcosa di grande, di eccelso, di vicino al dio, il non essere turbato. Questa stabilità d’animo, sulla quale c’è quel volume egregio di Democrito, i Greci la chiamano εὐθυμία, io la chiamo tranquillità; infatti, non è necessario imitare e traslitterare un termine secondo la forma greca: lo stesso oggetto di cui si tratta va contrassegnato con un nome, che deve avere l’efficacia, non l’aspetto della dizione greca. [𝟒] Dunque, noi ci chiediamo in che modo gli stati d’animo possano seguire un andamento sempre regolare e favorevole e l’animo sia propizio a se stesso e guardi con contentezza a ciò che lo concerne e non interrompa questa felicità, ma rimanga in uno stato di benessere, senza mai esaltarsi o deprimersi: questo costituirà la tranquillità.

Nicolò Barabino, Archimede pensatore. Olio su tela, 1860. Trieste, Museo Civico Revoltella.

La forma dialogica chiarisce subito che l’opera non si configura come un’indagine filosofica astratta, ma come la risposta a un problema concreto, presentato come proprio di Sereno ma che, più in generale, riguarda tutti gli uomini in cerca di una condotta di vita che li liberi dal loro malessere interiore.

Il dialogo sia apre con il verbo inquirere (inquirenti, 1), proprio del linguaggio giudiziario, che significa “indagare” e che, grazie al poliptoto del pronome personale mihi in me, si riferisce all’interiorità di Sereno, il quale è al tempo stesso soggetto che indaga e oggetto indagato, compiendo un movimento dall’esterno verso l’interno. L’esame cui si sottopone il personaggio rivela la presenza di quaedam uitia; il pronome indefinito quidam indica qualcosa di reale, ma che non si vuole nominare; dunque, il “malato” è consapevole di essere affetto da uitia, ma dapprima preferisce non precisare e soltanto nel paragrafo 3 spiegherà che il suo malessere consiste in un rapporto contraddittorio con tutto ciò che lo circonda. L’anafora di quaedam distingue tre categorie di mali psicologici, qualificati con due immagini metaforiche: la prima rappresenta i vizi in parte come visibili e tangibili (in aperto posita, quae manu prenderem), in parte come nascosti (obscuriora et in recessu); la seconda rimanda all’ambito della guerra, poiché il terzo genere di 𝑢𝑖𝑡𝑖𝑎 è più insidioso e difficile da sconfiggere, perché essi assalgono imprevedibilmente come nemici (ut hostis uagos et ex occasionibus adsilientis). In questo contesto particolare importanza riveste l’aggettivo 𝑠𝑒𝑐𝑢𝑟𝑢𝑚 posto in posizione forte a fine periodo: esso deriva etimologicamente da 𝑠𝑖𝑛𝑒 𝑐𝑢𝑟𝑎, “senza preoccupazioni”, e indica ciò a cui aspira Sereno, cioè l’equilibrio dell’animo basato sull’assenza di conflitti interiori. Il verbo deprendo, “scoprire”, “sorprendere”, che si trova in apertura del paragrafo 2, riprende la metafora giudiziaria, nuovamente riferita all’interiorità (habitum) e con la coincidenza del soggetto e dell’oggetto del verbo (in medeprendo), suggerendo l’idea di una continua sorveglianza dell’uomo su se stesso.

Sereno, che si rivolge a Seneca come a un medico (quare enim non uerum ut medico fatear?, 2), definisce il proprio stato prima con una litote, in statu… non pessimo, poi con un’espressione antitetica che nega sia la sanità sia la malattia (nec aegroto nec ualeo); nel paragrafo 15, qui non riportato, descrive i suoi sintomi come una forma di mancamento, di vertigine. Con una nuova metafora medica, rogo remedium (17), Sereno formula la propria richiesta d’aiuto e descrive il suo stesso male come una fluctuatio, attingendo al campo della navigazione, a cui si riferiscono anche i termini tempestate e nausea, e rappresentando se stesso come un naufrago che ancora annaspa in vista della terraferma.

Seneca risponde all’appello dell’amico con un 𝑒𝑥𝑒𝑚𝑝𝑙𝑢𝑚 tratto dalla medicina, paragonando l’adfectus animi di Sereno allo stato dei convalescenti che, seppur guariti, sono turbati dal continuo sospetto dell’insorgenza di una nuova grave malattia. Subito dopo, il filosofo, ricorrendo anch’egli a metafore marine, assimila l’inquietudine interiore dell’amico alle increspature delle onde che permangono sul mare ormai calmo dopo la tempesta (quidam tremor etiam tranquilli maris, utique cum ex tempestate requieuit, 2, 1). Attraverso tali immagini Seneca comunica al suo “paziente” che la sua diagnosi è di un male non grave, anzi la guarigione c’è, ma restano ancora alcuni lievi sintomi della passata terapia. Non occorrono remedia duriora (2), ma la terapia si configura come automedicazione basata sulla fiducia in se stessi e sulla convinzione di percorrere una strada che conduce alla saggezza e che non è labirintica, ovvero senza via d’uscita come la vita dei multi passim discurrentes.

L’obiettivo di Sereno dev’essere una stabilis animi sedes (3), “la stabilità dell’animo”, indispensabile per raggiungere la tranquillitas, parola chiave del dialogo che compare anche nel titolo dell’opera. Tranquillitas è usato soprattutto in riferimento alla calma del mare. Non è casuale che Seneca colleghi questo sostantivo a 𝑐𝑢𝑟𝑠𝑢𝑠, “rotta” (aequali secundoque cursu, 4): infatti, la tranquillitas è una disposizione psicologica equidistante tanto dall’euforia (attollens se) quanto dall’abbattimento (deprimens), propria di chi nella vita segue una rotta stabile e sicura. Seneca guiderà il suo paziente lungo questo percorso, valendosi sia dell’insegnamento dei filosofi greci (soprattutto Atenodoro di Tarso, più volte citato nell’opera) sia dell’esperienza acquisita con l’osservazione dell’animo e dei comportamenti umani.

Un pensiero su ““Malato” e paziente: sintomi e diagnosi (Sᴇɴ. 𝐷𝑖𝑎𝑙. IX 1, 1-2; 16-18; 2, 1-4)

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