I 𝑃𝑒𝑟𝑠𝑖𝑎𝑛𝑖 di Eschilo

di F. Fᴇʀʀᴀʀɪ, R. Rᴏssɪ, L. Lᴀɴᴢɪ, Bibliotheke, II, Roma 2001, 85-87; 105-141. Testo da F. Fᴇʀʀᴀʀɪ (ed.), Eschilo, Persiani – Sette contro Tebe – Supplici, Milano 1987.

Nel 472, con la coregia di un giovanissimo Pericle, Eschilo vinse il concorso tragico con una trilogia costituita da 𝑃𝑒𝑟𝑠𝑖𝑎𝑛𝑖 (Πέρσαι), 𝐹𝑖𝑛𝑒𝑜 𝐺𝑙𝑎𝑢𝑐𝑜 𝑃𝑜𝑡𝑛𝑖𝑒𝑜, più il dramma satiresco 𝑃𝑟𝑜𝑚𝑒𝑡𝑒𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑎𝑐𝑐𝑒𝑛𝑑𝑒 𝑖𝑙 𝑓𝑢𝑜𝑐𝑜 (Προμηθεὺς πυρκαεύς). Poiché l’argomento del 𝐹𝑖𝑛𝑒𝑜 doveva consistere in un episodio della leggenda degli Argonauti in cui questo vecchio cieco viene liberato dalle Arpie, e nel 𝐺𝑙𝑎𝑢𝑐𝑜 𝑃𝑜𝑡𝑛𝑖𝑒𝑜 si doveva trattare della morte di questo personaggio divorato dai suoi stessi cavalli, parrebbe da escludere l’esistenza di un vincolo narrativo fra le singole tragedie della trilogia, o come deroga a una prassi già esistente o perché la trilogia «legata» non era stata ancora ideata dal poeta. Di questa tetralogia i 𝑃𝑒𝑟𝑠𝑖𝑎𝑛𝑖 sono l’unico dramma sopravvissuto.

Le notizie antiche ricordano che già quattro anni prima (nel 476) Frinico aveva riportato la vittoria alle Grandi Dionisie con un dramma storico imperniato sulla battaglia di Salamina, intitolato 𝐹𝑒𝑛𝑖𝑐𝑖𝑒, dal coro delle donne giunte a Susa per avere notizie dei loro uomini, i marinai fenici degli equipaggi della flotta di Serse; mentre però in questa tragedia la sconfitta persiana era annunciata fin dal principio da un eunuco di corte, in Eschilo la notizia del disastro navale è rimandata alla parte centrale del dramma. Per il resto, dalle 𝐹𝑒𝑛𝑖𝑐𝑖𝑒 Eschilo riprende la collocazione della scena a Susa e lo svolgimento dell’azione imperniato intorno alla notizia della disfatta.

In ogni caso, come testimoniato anche dagli antichi commentatori, proprio nell’esordio (πάροδος) dei 𝑃𝑒𝑟𝑠𝑖𝑎𝑛𝑖 si può riconoscere un’eco intenzionale al verso iniziale delle 𝐹𝑒𝑛𝑖𝑐𝑖𝑒 (un trimetro giambico pronunciato dall’eunuco che dispone i seggi per una riunione imminente):

Τάδ᾽ ἐστὶ Περσῶν τῶν πάλαι βεβηκότων…

Questi sono dei Persiani da lungo tempo partiti…

risponde puntualmente in Eschilo (𝑃𝑒𝑟𝑠. 1-2) la dichiarazione in dimetri anapestici dei coreuti che fanno il loro ingresso nell’orchestra:

Τάδε μὲν Περσῶν τῶν οἰχομένων

Ἑλλάδ᾽ ἐς αἶαν πιστὰ καλεῖται…

Questi dei Persiani partiti

per l’ellenica terra sono detti i Fedeli…

Si tratta evidentemente di un voluto, chiaro tributo, da parte di Eschilo al proprio predecessore.

Pittore di Trittolemo. Combattimento fra un oplita e un persiano. Pittura vascolare da una 𝑘𝑦𝑙𝑖𝑥 attica a figure rosse, V sec. a.C. Museo Archeologico Nazionale di Atene.

Il luogo dell’azione scenica e la trama

In virtù delle parole stesse dei coreuti, che si identificano coi dignitari che Serse ha lasciato in patria per svolgere un ruolo di reggenti dell’impero durante la sua assenza, lo spazio dell’orchestra viene a configurarsi come l’interno di un «antico edificio» (cfr. v. 141 στέγος ἀρχαῖον) che funge da Camera di consiglio. L’azione si svolge a Susa, capitale dell’impero persiano, presso il palazzo reale e la tomba di Dario che, nella seconda parte della tragedia, verrà focalizzata come centro dell’azione scenica. Il coro esprime le sue ansie per le sorti di Serse e dell’infinito esercito di Persiani e di forze alleate non ancora tornati dalla spedizione intrapresa contro la Grecia.

Alla sezione anapestica segue la parte lirica della parodo, dove l’avventura voluta da Serse viene inserita nel quadro della storia persiana in quanto dominata da un irresistibile impulso bellicoso che ha sì origine divina, ma insieme suscita una reazione demonica attraverso l’intervento di Ate: di qui gli angosciosi presentimenti del coro (vv. 65-125), che nello scoppio delle interiezioni (ὀᾶ… ὀᾶ) prefigura il lamento che concluderà la tragedia.

Al termine del canto d’esordio sopraggiunge la regina madre di Serse (che sappiamo essere, nella storia, Atossa, ma che nella tragedia resta anonima), la quale racconta di un sogno avuto nella notte appena trascorsa: il cocchio del Gran Re si è ribaltato e infranto mentre Serse si sforzava di aggiogarvi due donne – una in abito persiano, l’altra in veste dorica – venute a lite fra loro; e mentre la donna persiana obbediva docilmente, quella greca recalcitrava fino a spezzare l’asse del carro. I coreuti tentano di confortare la regina, ma interviene sulla scena un messaggero che annuncia quella disfatta persiana di Salamina, determinata da cause che sembrano intrecciare la motivazione umana e l’intervento divino che sarà ribadito più oltre. Le operazioni strategiche che danno avvio alla battaglia hanno infatti avuto inizio allorché un «uomo ellenico» – secondo Erodoto (VIII 75), Sicinno di Tespie, che avrebbe agito per incarico di Temistocle –, fingendosi una spia, ha informato Serse che al calare dell’oscurità i Greci si sarebbero dati alla fuga. Il monarca gli ha creduto e ha disposto le sue forze di conseguenza, «non comprendendo – commenta il messaggero (vv. 361 s.) – né l’inganno dell’uomo ellenico né lo sfavore degli dèi» (οὐ ξυνεὶς δόλον / Ἕλληνος ἀνδρὸς οὐδὲ τὸν θεῶν φθόνον): uno φθόνος θεῶν che non è propriamente – come osserva F. Cassola – «l’invidia degli dèi», quasi che gli dèi fossero gelosi della felicità umana di per sé, ma, come sostanzialmente sarà anche per Erodoto, «un divieto, dettato da una legge non scritta che impone di non eccedere […] o anche l’ira suscitata dalla trasgressione al divieto» (e in effetti la trasgressione di Serse si è già consumata con l’«aggiogamento» del mare e anche con la profanazione dei templi e delle statue degli dèi).

Nel racconto del messo si succedono le immagini dello scontro, dei guerrieri caduti in acqua, della fuga per mare e per terra: ma Serse è vivo, sulla via del ritorno. Il coro, sbigottito, viene incitato da Atossa a evocare Dario, il suo sposo, e l’emozione arcana che accompagna l’evocazione dell’Ombra prepara una lezione di saggezza da parte dell’antico monarca. Dopo che la regina ha versato libagioni alla terra, i coreuti invocano il defunto sovrano perché emerga dagli abissi della terra: questa scena fitta di tratti ieratici non solo include un giudizio etico-politico nel sottolineare che Dario mai portò alla rovina il suo popolo, ma prepara una denuncia, da parte dello stesso monarca, dell’irresponsabilità di suo figlio Serse (vv. 739-752).

Il coro ribadisce, mentre l’Ombra del re scompare, che la catastrofe è stata causata dalla ὕβρις, la tracotante dismisura con cui Serse ha voluto regnare sull’Asia e sull’Europa incendiando i santuari e i simulacri degli dèi. Con il catalogo dei popoli sudditi del re, dall’Asia alla Tracia alle isole dell’Egeo, si enumera poi ciò che per i Persiani è ormai perduto. Tra la costernazione generale giunge, con le vesti lacere, lo stesso Serse, con il quale il coro intreccia una disperata lamentazione, nelle forme di un cordoglio rituale, sulla fine della potenza persiana.

Il cosiddetto «Persiano morente». Testa, marmo bianco docimio, inizi del II sec. d.C. da originale pergameno della seconda metà del III sec. a.C., dal fronte nord della Domus Tiberiana. Roma, Antiquarium del Palatino.

La πάροδος

La lunga πάροδος è divisa nettamente in due parti, metricamente distinte: ai cosiddetti «anapesti di marcia» (vv. 1-64) che accompagnano il coro mentre entra nell’orchestra, seguono i versi dell’ode lirica (vv. 65-139) in cinque copie strofiche (strofe-antistrofe) in cui si inserisce un μεσῳδός.

Aᴇsᴄʜʟ. 𝑃𝑒𝑟𝑠. 1-64: L’angoscia dei dignitari persiani

Nella prima parte (gli anapesti) il coro, rappresentato dagli anziani a cui Serse ha affidato la cura del vasto impero, esprime la sua preoccupazione per la sorte del gran re e dell’esercito, di cui ancora non è giunta notizia.

Segue la compiaciuta enumerazione di alcuni dei comandanti dell’armata, i riferimenti alla provenienza dei vari contingenti persiani, inserto che consente la citazione di nomi e località «esotiche», tali da attrarre l’affascinata attenzione degli spettatori ateniesi. Nella parte finale degli anapesti ritorna il tono preoccupato con l’accenno all’incessante pianto di genitori e donne che attendono il ritorno dei loro uomini.

Cᴏʀᴏ Noi dei Persiani partiti

per l’ellenica terra siamo detti i Fedeli,

e dei sontuosi degli aurati

palazzi[1] i custodi, noi che in omaggio alla nostra dignità

di propria scelta il sovrano, il re Serse

figlio di Dario

elesse a vegliare[2] su questo paese.

Ma pensando al ritorno del re

e della splendida armata già

fin troppo indovino di mali sussulta

dal profondo l’animo mio

(ché tutta è andata la forza nata dall’Asia)

e sui giovani assenti guaisce.

Non fante non cavaliere

arriva alla città dei Persiani,

che partirono lasciando e Susa e Agbatana[3]

e l’antico baluardo di Cissia,

gli uni a cavallo altri su nave

altri ancora a piedi, marciando,

per esibire compatta torma di guerra.

E cosi Amistre e Artafrene

e Megabate e Astaspe,

condottieri di Persiani,

re soggetti al Gran Re,

si slanciano, guide d’immenso stuolo,

maestri dell’arco e cavalieri,

minacciosi alla vista, minacciosi nella lotta

per audace confidenza dell’indole.

E dico di Artembare che ama i destrieri

e di Masistre e del valoroso Imeo

maestro dell’arco e di Farandace

e di Sostane sferzatore di cavalli.

Altri ne mandava il grande il fecondo

Nilo: Susiscane,

Pegastagone figlio dell’Egitto

e colui che della sacra Menti è signore,

il grande Arsame, e Ariomardo

che regge l’antica Tebe,

e i rematori intrepidi delle paludi[4],

moltitudine immensa.

Segue la turba dei Lidi

che sa le dolcezze del vivere

e signoreggia tutte le genti

nate sul continente. Metrogate

e Arcteo valoroso, che sono i loro sovrani,

e Sardi[5] opulenta li sospingono innanzi

in colonne di carri

a doppio a triplo timone,

terrificante visione.

E gli abitanti del sacro Tmolo

promettono di gettare sull’Ellade

giogo di schiavitù:

sono Mardone e Taribi, incudini contro la lancia,

e gli arcieri di Misia. E Babilonia

opulenta spedisce in lunga fila

una massa confusa: marinai

e arcieri fidenti

nell’impulso che tende la corda dell’arco.

E segue dall’Asia intera

la gente armata di spada

sotto la guida imperiosa del re.

Tal fiore della terra persiana

è andato lontano

e tutta l’asiatica terra nutrice

lo piange con nostalgia veemente.

Genitori e spose contano i giorni dell’assenza

e si spaurano al tempo che si allunga.

Aᴇsᴄʜʟ. 𝑃𝑒𝑟𝑠. 65-137: Le seduzioni di Ate

Le tre prime copie strofiche dell’ode – che sviluppa i due motivi della celebrazione della grandezza persiana e della preoccupazione per la sorte di tanti guerrieri – rappresentano dinamicamente l’idea della progressiva spinta di conquista dei Persiani, che sotto la guida di Serse attraversano l’Ellesponto sul ponte di zattere.

L’esercito persiano è un’onda inarrestabile, a fermare la quale non valgono dighe, così come il suo re ha lo sguardo che annienta di un drago assetato di sangue. La storia persiana testimonia la primitiva vocazione, voluta dal dio, a essere potenza «di terra»; ma in un secondo tempo essa acquisì esperienza anche del mare. In questo quadro trionfante di una potenza a cui niente e nessuno si può opporre, si annidano tuttavia le insidie che sempre minacciano la grande fortuna e la grande potenza: l’uomo può incorrere nella ὕβρις – e il giogo gettato sul collo del mare ne è già una avvisaglia – che produce accecamento o infatuazione (ἄτη) e così il dio attira nell’inganno e avvolge in reti inestricabili chi ha troppo presunto della sua forza. Quanto viene detto nel μεσῳδός ben illumina il meccanismo per cui all’ὕβρις si associa un’infrazione etico-religiosa, cui il dio ha per così dire spinto l’uomo, destinandolo alla rovina. Le due ultime coppie strofiche si caratterizzano per il brusco rovesciamento rispetto al trionfalismo iniziale: vi predominano i sentimenti di angoscia dei Persiani che attendono e il lamento presago delle donne.

Cᴏʀᴏ L’armata del re,

l’armata che devasta ogni città

già è passata sulle opposte rive.

Sopra zattere connesse con funi di lino

ha varcato lo stretto di Elle Atamantide[6]

stringendo sul collo del mare

il giogo di un sentiero chiodato[7].

L’irruente signore delle asiatiche turbe

contro ogni suolo sospinge un gregge infinito

per duplice via, fidando nei saldi,

nei rudi reggitori e di fanti e di navi,

lui, l’eroe pari agli dei,

progenie discesa dall’oro[8].

Ha negli occhi lo sguardo fosco di sanguinoso drago.

Molte mani molti nauti incalzando

sospinge un carro d’Assiria

e contro guerrieri illustri per l’asta

conduce un Ares maestro dell’arco.

Non c’è prode

che possa arginare la grande fiumana d’eroi

e bloccare con solide dighe l’invincibile onda del mare.

Irresistibile è l’armata dei Persiani,

pugnace la sua gente.

Ma l’inganno astuto di un dio

quale mortale fuggire potrà?

Chi un balzo veloce balzare saprà

con l’agile piede?

Da principio Ate[9] seduce l’uomo

con amiche sembianze

ma poi lo trascina in reti

donde speranza non c’è

che mortale fugga e si salvi.

Per decreto degli dèi Moira[10] imperò

nel tempo antico e ingiunse ai Persiani

di menar guerre devastatrici di rocche

e zuffe equestri e distruzioni di città.

Poi appresero[11] a contemplare

l’umido recinto del vasto mare

che incanutisce al soffio aspro dei venti

e confidarono in funi sottili e in macchine

che traghettano genti.

E per questo il manto scuro del mio cuore

soffre i graffi dell’angoscia,

oà, per l’esercito persiano,

e teme che gli abitanti questa voce intendano:

«Deserta d’uomini è la grande città di Susa».

E la rocca di Cissia rinnoverà questo grido,

oà, nell’eco delle turbe femminee.

E allora ho paura che sui pepli di bisso

calerà lo strazio delle unghie.

Tutta l’equestre gente e la massa dei fanti

come uno sciame d’api è volato via

dietro il condottiero di eserciti,

ha varcato lo sprone marino

all’una e all’altra terra aggiogato.

L’ansia per i mariti impregna i talami di pianto

e le persiane spose,

già per natura inclini a morbido cordoglio,

ognuna è rimasta sola sotto il giogo

nel desiderio del compagno assente,

dell’impetuoso del bellicoso sposo

a cui ha detto addio.

Eschilo propone un’intelaiatura ideologica che permette di recuperare motivi, immagini, espressioni della tradizione poetica per costruire un blocco poetico in cui coesistono volontà didattica e tensione patetica: in particolare, in 𝐼𝑙. XII 326-327 si legge delle infinite forme di morte (κῆρες) che incombono sull’uomo e a cui egli non può sfuggire: νῦν δ᾽ ἔμπης γὰρ κῆρες ἐφεστᾶσιν θανάτοιο/ ἃς οὐκ ἔστι φυγεῖν βροτὸν οὐδ᾽ ὑπαλύξαι («ma di continuo ci stanno intorno destini di morte/ innumerevoli, che il mortale non può sfuggire o scansare»), ed è evidente che Aᴇsᴄʜʟ. 𝑃𝑒𝑟𝑠. 100, τόθεν οὐκ ἔστιν ὑπὲρ θνατὸν ἀλύξαντα φυγεῖν («[reti] donde speranza non c’è che un mortale scappando sfugga») si modella quasi alla lettera su questo luogo omerico; senonché alle generiche e indiscriminate κῆρες omeriche si sostituisce un demone ingannevole, Ἄτη, e l’intercettamento della fuga prende la figura di una rete non dissimile da quella di cui, in Aᴇsᴄʜʟ. 𝐴𝑔. 355 ss., si dirà che è stata gettata dalla Notte sulle torri di Troia in modo che né adulto né giovane potesse sfuggire al

laccio di schiavitù. Ma qui non tanto la schiavitù incombe quanto lo scenario di una città dove non tornano reduci dalla guerra: un pensiero che con ricercata risonanza tra metafora e realtà si puntualizza da un lato nell’immagine del cuore «dal cupo mantello» graffiato dalla paura (con una «sostituzione» espressionistica del cuore alle guance che ritualmente venivano graffiate nelle scene di cordoglio), dall’altro nell’evocazione dello strappo che le donne di Cissia infliggeranno ai pepli di bisso all’udire l’eco del grido di desolazione (ὀᾶ) che proviene da Susa.

Qui il coro suggerisce che l’imperialismo (guerre devastatrici di città, zuffe equestri, ecc.) non è un male, bensì fa parte di un «destino» persiano, più precisamente della μοῖρα («porzione») assegnata dagli dèi a questo popolo: si tratta anzi di una sorta di «ordine» imperioso dettato dai numi in un remoto passato (τὸ παλαιόν, 102). Ma a questo momento originario, che rappresenta come la nota saliente della φύσις persiana, succede la fase dell’apprendimento (ἔμαθον, 106) di tecniche relative alla navigazione e al traghettamento per nave di intere armate: è di questo precisamente (ταῦτα, 115) che gli anziani consiglieri hanno paura. L’inizio della rovina coincide con l’acme della potenza, ora che il dominio sull’altopiano anatolico ha sospinto i Persiani verso quel mare su cui Serse, col suo ponte di barche gettato fra le rive dell’Ellesponto, ha posto come un giogo di schiavitù: un tale asservimento degli spazi marini e oltremarini non rientra più nel «destino» dei Persiani, ed è così che si profila all’orizzonte un accecamento/inganno/rovina (ἄτη) ugualmente di origine divina (θεοῦ del v. 94 è sulla linea di θεόθεν del v. 101).

Dignitari persiani. Bassorilievo, pietra grigia, V sec. a.C. dalla scalinata del Tripylon, Persepolis. Tehran, Museo Nazionale dell’Iran.

Gli episodi primo e secondo (?)

Convenzionalmente si definisce “primo episodio” la parte che sta tra la πάροδος e il primo στάσιμος (lett. «canto a piè fermo»), ma la denominazione non è molto appropriata per i 𝑃𝑒𝑟𝑠𝑖𝑎𝑛𝑖, che costituiscono in questo senso un dramma atipico del quale non si hanno veri e propri episodi. Tenendo infatti conto della divisione tradizionale, si dovrebbe chiamare “secondo episodio”, a rigor di termini, la scena compresa tra il primo e il secondo stasimo, che è quanto dire tra i vv. 598-632, che contengono la descrizione da parte di Atossa delle offerte per i morti: ne risulterebbe una struttura decisamente sproporzionata, rispetto alla durata del “primo episodio”. Per questo motivo è opportuno dividere la tragedia in sequenze che tengono conto degli sviluppi della vicenda.

Aᴇsᴄʜʟ. 𝑃𝑒𝑟𝑠. 140-154: La regina madre

Dopo che il corifeo ha invitato il coro degli anziani a consigliarsi sulla sorte di Serse (ma tale consiglio in un non meglio precisato στέγος ἀρχαῖον non avrà luogo), si annuncia l’arrivo della regina madre, che nel corso del dramma rimane anonima, ma che nella realtà è Atossa, figlia di Ciro (cfr. Hᴅᴛ. VII 2) e seconda moglie di Dario. L’entrata in scena della regina è solenne ed ella compare con tipico sfarzo orientale.

Cᴏʀɪꜰᴇᴏ Orsù, Persiani, sediamoci qui

all’interno di questo antico edificio

e meditiamo un saggio un profondo pensiero.

Necessità ci preme.

Qual è dunque la sorte di Serse sovrano,

di Serse nato da Dario?

È vincente chi tira con l’arco

o ha prevalso la forza della punta

che sta in cima all’asta?

𝐸𝑛𝑡𝑟𝑎 𝑙𝑎 𝑅𝑒𝑔𝑖𝑛𝑎, 𝑣𝑒𝑠𝑡𝑖𝑡𝑎 𝑐𝑜𝑛 𝑙𝑢𝑠𝑠𝑜 𝑟𝑎𝑓𝑓𝑖𝑛𝑎𝑡𝑜, 𝑒 𝑠𝑢𝑙 𝑐𝑎𝑟𝑟𝑜. 𝐸̀ 𝑠𝑒𝑔𝑢𝑖𝑡𝑎 𝑑𝑎 𝑎𝑙𝑐𝑢𝑛𝑖 𝑠𝑒𝑟𝑣𝑖.

Ecco: luce pari a quella che s’irradia

dagli occhi degli dei,

rapida si avanza la madre del re,

la mia regina. E io mi prostro.

È nostro dovere salutarla

con parole devote.

Salve a te, eccelsa sovrana delle snelle donne di Persia, anziana madre di Serse e sposa di Dario. Del dio dei Persiani tu fosti compagna e madre di un dio ora tu sei, purché adesso l’antica fortuna non abbandoni l’armata.

Si ha a questo punto una lunga sezione (vv. 155-531) che si presta a essere divisa in due parti: nella prima Atossa riferisce i suoi sogni inquietanti; nella seconda il messo annuncia e descrive l’avvenuta disfatta. La scena che ha come protagonista Atossa si apre con il saluto del corifeo, che si rivolge a lei come alla sposa di un dio e madre di un dio, esprimendo subito dopo il timore che il dio che ha prima favorito la potenza dei Persiani, possa ora averli abbandonati. Se nella πάροδος si alternavano confidente consapevolezza della potenza persiana e timori, in questa scena si vedono intensificarsi le ombre di infausti presagi.

Il sogno narrato dalla regina è certo espressione delle preoccupazioni che la tormentano (è consueto presso gli antichi il rapporto tra il sogno e le ansie e timori che lo determinano) e, come spesso avviene nella tragedia, è anticipazione del disastro che incombe.

Dignitario persiano (dettaglio). Bassorilievo, pietra, V sec. a.C. da Persepolis. Tehran, Museo Nazionale dell’Iran.

Aᴇsᴄʜʟ. 𝑃𝑒𝑟𝑠. 155-225: Gli incubi della regina

Aᴛᴏssᴀ Proprio per questo ho lasciato le stanze dorate della mia reggia e il talamo che fu comune a Dario e a me. E sono venuta qui. Un’ansia mi graffia il cuore. E a voi parlerò, o miei cari, non senza esser presaga del timore che la grande ricchezza accumulata atterri con un calcio e sparga come polvere al suolo la prosperità che Dario innalzò con l’aiuto degli dèi. E pertanto si agita nel mio petto un doppio inesprimibile affanno: timore di dover contemplare una ricchezza deserta d’uomini; coscienza che a uomini deserti di ricchezza non rifulge luce di gloria pari alla forza. Sì, di tesori non sento proprio la mancanza, ma ho paura per il mio occhio: occhio della casa io considero la presenza del suo padrone. E dunque, se così stanno le cose, offritemi il vostro consiglio, o antichi Fedeli. Per me, ogni speranza di un saggio parere è riposta in voi.

Cᴏʀɪꜰᴇᴏ Stanne certa, o sovrana di questa terra: mai tu dovrai dire due volte parola o atto ove stia in noi di farti da guida.

Aᴛᴏssᴀ Sempre mi fanno compagnia tante notturne visioni da quando mio figlio allestì l’armata e partì per devastare la terra degli Ioni[12], ma nessuna mai fu così nitida come nella trascorsa notte. Mi apparvero due donne in vesti adorne, una fasciata di pepli persiani, l’altra in doriche fogge[13]; ed erano, per statura, assai più insigni di ogni donna vivente, e di bellezza impareggiabile, e sorelle nate dagli stessi genitori. All’una era toccato in sorte di abitare il suolo ellenico, all’altra la terra persiana. Ed ecco che fra loro, a quanto mi parve di vedere, sorse una lite, ma il figlio mio, non appena se ne accorse, cercò di trattenerle, di calmarle, e le aggiogò al proprio carro applicando le cinghie sotto il collo. E una si gonfiò d’orgoglio per questa bardatura, e offriva docile la bocca al morso; l’altra invece recalcitrava, finché lacerò con le mani i finimenti del carro, strappò via con forza il morso e spezzò a mezzo il giogo. Mio figlio cade giù dal carro e Dario, suo padre, gli si avvicina e lo compiange. Allora Serse, come lo vede, si lacera le vesti. Questa, precisamente, è la visione che ho avuto questa notte.

Come è costume antico, dopo un sogno che suscita infausti presagi, Atossa si lava le mani in pura acqua corrente e, mentre offre le libagioni agli dèi per allontanare la sua apprensione, un segno la riempie di nuova paura: un falco dilania un’aquila che si era rifugiata sull’altare di Apollo. Atossa ne rimane sconvolta, perché il segno sembra essere rivolto contro Serse, in quanto l’aquila, fra gli uccelli favorito da Zeus, è simbolo del potere regale e altresì emblema dei despoti persiani (cfr. Xᴇɴ. 𝐶𝑦𝑟. VII 1, 4). L’idea però che il figlio possa essere travolto con disastrose conseguenze viene dalla regina immediatamente stornata dalla consapevolezza di non dover renderne conto ai propri sudditi.

Aᴛᴏssᴀ Appena mi sono levata ho immerso le mani in limpida fonte e mi sono accostata all’altare con braccio offerente per porgere una libagione ai numi che stornano i mali e a cui spettano consimili riti. Allora vedo un’aquila rifugiarsi sull’ara di Febo e sùbito ammutolisco per lo spavento, miei cari. Poi scorgo un falco avventarsi in volo sull’aquila e spiumarle il capo con gli artigli. E quella si acquattava spaurita offrendo il corpo all’aggressore. Certo questo sogno non può che far paura: a me, per averlo sognato; a voi, per udirne il racconto. Voi sapete bene che mio figlio, se avrà successo, sarà ammirato da tutti, ma se cadrà … eppure, lui non ha da render conto ai cittadini. Basta che si salvi, e resterà come prima a capo di questa terra.

Cᴏʀɪꜰᴇᴏ Con le nostre parole, madre, noi non vorremmo spaventarti troppo né troppo rassicurarti: ma tu volgiti a supplicare gli dèi, se hai avuto una triste visione, e chiedi che stornino il maleficio e avverino i voti tuoi e del figlio tuo e della città e degli amici tutti. Poi devi offrire libagioni alla terra e ai defunti. Chiedi che il tuo sposo Dario, che dici di aver veduto nel corso della notte, mandi propizio ogni bene a te e al figlio vostro su dal fondo verso la luce, e offuschi giù nel buio sotterraneo ciò che al bene è opposto. Questo consiglio io rendo a te benevolmente, con animo presago: perché, a nostro giudizio, questi segni volgeranno al meglio per te, in tutto.

Principessa achemenide. Testa, lapislazzulo, V sec. a.C. da Persepolis. Tehran, Museo Nazionale dell’Iran.

Aᴇsᴄʜʟ. 𝑃𝑒𝑟𝑠. 226-248: Dove sorge Atene?

Prima di rientrare nella reggia per supplicare gli dèi come suggeritole dal coro, la regina indugia per informarsi sulla collocazione geografica di Atene, sulle sue risorse e i suoi armamenti e più in generale sulla sua organizzazione. In un rapido scambio di battute che avviene nella forma della στιχομυθία (un verso per ciascuna battuta), è sottolineata dal coro l’importanza che la città ha per la difesa dei Greci: di Atene vengono evidenziate le capacità militari, le risorse economiche provenienti dalle miniere d’argento del Laurion («hanno una fonte d’argento, un tesoro sotterraneo») e la fierezza nel combattimento. Non manca un accenno al senso della libertà degli Ateniesi, che contrasta con l’organizzazione persiana imperniata sul rapporto padrone-servo: con tale struttura, conclude il coro, Atene inflisse una memorabile disfatta al temibile esercito di Dario.

Aᴛᴏssᴀ Con vero affetto per me e per la mia casa tu, primo interprete di questa visione, hai pronunciato la tua valida parola. Che il bene si avveri, dunque! Questi riti che tu mi raccomandi io li eseguirò con ogni scrupolo, per gli dèi e per i congiunti che riposano sotterra, non appena sarò rientrata nella reggia. Prima però vorrei sapere, o miei cari, in che parte del mondo dicono che sorga Atene?

Cᴏʀɪꜰᴇᴏ Lontano, verso occidente, là dove tramonta il sole divino.

Aᴛᴏssᴀ E, nonostante questo, mio figlio voleva andare in caccia di quella città?

Cᴏʀɪꜰᴇᴏ Perché così l’Ellade intera sarebbe diventata suddita del Re.

Aᴛᴏssᴀ Hanno tal copia d’uomini in armi?

Cᴏʀɪꜰᴇᴏ ‹…›

Aᴛᴏssᴀ ‹…›

Cᴏʀɪꜰᴇᴏ E tale è il loro esercito, che tanti mali ha inflitto ai Medi.

Aᴛᴏssᴀ Brilla fra le loro mani la punta che tende il nervo dell’arco?

Cᴏʀɪꜰᴇᴏ No, bensì aste per il corpo a corpo e corredo di validi scudi.

Aᴛᴏssᴀ E che altro? La ricchezza abbonda nelle loro case?

Cᴏʀɪꜰᴇᴏ Hanno una fonte d’argento, un tesoro sotterraneo!

Aᴛᴏssᴀ E qual pastore sorveglia e signoreggia l’armata?

Cᴏʀɪꜰᴇᴏ Di nessun uomo si dichiarano servi, di nessun uomo sudditi.

Aᴛᴏssᴀ E allora come fanno a sostenere l’assalto dei nemici?

Cᴏʀɪꜰᴇᴏ Tanto da fare a pezzi quella grande, quella splendida armata di Dario.

Aᴛᴏssᴀ Motivo d’ansia e di paura, non c’è dubbio, per i genitori di chi è partito.

Cᴏʀɪꜰᴇᴏ Ecco: fra poco, credo, saprai tutto in modo chiaro e certo. Ben riconosco il passo di questo persiano messaggero. Egli reca senz’altro un fatto sicuro, buono o cattivo che sia.

𝐸𝑛𝑡𝑟𝑎 𝑖𝑙 𝑚𝑒𝑠𝑠𝑎𝑔𝑔𝑒𝑟𝑜.

Si è ritenuto che questa sticomitia, non necessaria allo sviluppo drammatico, sia stata inserita solo per glorificare Atene e deprezzare i Persiani: in effetti, l’ignoranza su Atene da parte di Atossa, che più avanti mostrerà di conoscerne la fauna, pare un po’ forzata, così come è indubbio che l’affermazione della libertà greca avrà solleticato l’orgogliosa fierezza degli spettatori ateniesi. Va però riconosciuto che questa scena costituisce una sospensione dell’azione che produce un effetto ritardante fra l’appena recuperata serenità della regina e il brutale rovesciamento che si ha con il racconto della catastrofe da parte del messaggero. Il ricordo di Maratona, alla fine della sticomitia, costituisce la cesura drammatica che incrina la fiducia faticosamente recuperata da Atossa.

La battaglia di Salamina. Illustrazione di R. Hook.

Aᴇsᴄʜʟ. 𝑃𝑒𝑟𝑠. 249-349: L’annuncio del disastro

Ha inizio la sezione del messaggero (vv. 249-531), che si articola in tre discorsi (così come avverrà per la parte riservata a Dario). L’attacco è stato giustamente definito in «fortissimo»: la felicità dell’Asia è distrutta, annientata è la sua gioventù, l’esercito persiano è stato cancellato. Al denso, breve annuncio il coro risponde con lamenti, dando vita ad una struttura epirrematica in cui si alternano i trimetri giambici del messaggero e il breve lamento lirico del coro (con la tragica sintesi della sciagura, che costituisce l’inizio delle parole del messaggero, si è giustamente raffrontato, a suggerirne il contrasto, l’annuncio entusiastico della vittoria che Eschilo quattordici anni dopo metterà in bocca al messaggero dell’𝐴𝑔𝑎𝑚𝑒𝑛𝑛𝑜𝑛𝑒). Le parole del messaggero accumulano disgrazia su disgrazia: lui stesso si è salvato a fatica; i cadaveri dei Persiani sono sparsi sulla spiaggia di Salamina; impotenti furono gli archi contro gli assalti navali; maledetto sia il nome di Salamina e quello di Atene. Il coro non può che lamentare di avere troppo vissuto, sino a udire questa disgrazia e immagina con dolore e raccapriccio l’infelice sorte di cadaveri sbattuti dalle onde contro le opposte scogliere; e si unisce al sentimento di odio contro Atene, che tolse a tante donne persiane i loro cari.

Mᴇssᴀɢɢᴇʀᴏ Voi, o città di tutta l’asiatica terra, e tu, suolo persiano, immenso porto di ricchezza, come in un colpo solo è crollata tanta fortuna, come se n’è andato, come è caduto il fiore dei Persiani! Ahimè, è ben triste essere il primo ad annunciare sciagure, eppure è necessario disvelare intera la disgrazia, o Persiani. Ebbene, è distrutta l’armata dei barbari, completamente.

Cᴏʀᴏ Tremendi, mali nuovi e tremendi, mali

che annientano. Ah, bagnatevi di pianto,

o Persiani, a udire questa angoscia.

Mᴇssᴀɢɢᴇʀᴏ Sì, perché tutto è compiuto. Io stesso contro ogni speranza vedo la luce del ritorno!

Cᴏʀᴏ Troppo, troppo longeva età

arrise a questi vecchi,

se ora dobbiamo udire questo imprevisto danno.

Mᴇssᴀɢɢᴇʀᴏ Per essere stato presente, e non per aver udito da altri, o Persiani, posso narrarvi quanto soffrimmo.

Cᴏʀᴏ Otototoì! Invano

quegl’infiniti frammisti strali

dall’ Asia giunsero, ahi ahi,

alla nemica terra degli Elleni!

Mᴇssᴀɢɢᴇʀᴏ Le rive di Salamina e ogni luogo intorno rigurgitano di poveri corpi tristemente disfatti.

Cᴏʀᴏ Otototoì! Sì, tu vuoi dire

che dei nostri cari molti corpi

intrisi di salsedine son trasportati defunti

dentro i mantelli erranti.

Mᴇssᴀɢɢᴇʀᴏ A nulla valsero gli archi. Tutta l’armata è stata distrutta, fiaccata dagli urti navali.

Cᴏʀᴏ Leva un lugubre urlo straziato

ché tutto in tutto volsero al peggio

gli dei per i Persiani, ahi ahi

per l’armata disfatta!

Mᴇssᴀɢɢᴇʀᴏ O nome di Salamina supremamente odioso! Ah, come piango al ricordo di Atene!

Cᴏʀᴏ Sì, Atene è odiosa ai suoi nemici:

sì, ben puoi ricordare

quante persiane donne immeritamente

Atene orbò di figli e di mariti.

È a questo punto che la regina rompe il silenzio. Tanto si è scritto su questo silenzio, da alcuni attribuito al fatto che Eschilo, in omaggio alla tradizione arcaica della tragedia, fa dialogare il messaggero con il coro, anziché con Atossa, riducendo a lungo la regina ad una sorta di personaggio muto; ma forse il muto dolore della regina, come quello famoso di un’altra donna del teatro di Eschilo, Niobe, è più confacente alla dignità della sua figura di quanto non sarebbe il lamento ripetuto. Il dolore, ella dice, l’ha paralizzata, ma ora ella chiede al messo, dopo averlo incoraggiato a parlare, dato che bisogna sopportare quello che è mandato dagli dèi, chi ancora è vivo e chi è morto tra i capi persiani. Il messaggero capisce la sua preoccupazione inespressa e la rassicura che Serse è vivo: un lampo di luce nelle tenebre del dolore per Atossa. Segue una sorta di catalogo di grandi persiani periti nella battaglia, leale tributo di un greco al valore del nemico: si susseguono i nomi che danno l’immagine dell’enorme sciagura. E spicca il finale, più lungo tributo, al valore di Siennesi. Alla domanda di Atossa sulla consistenza delle rispettive flotte, il messaggero indica le cifre di una netta superiorità persiana: solo l’ostilità di un demone ha impedito ai Persiani la vittoria.

Aᴛᴏssᴀ A lungo ho taciuto nel dolore, stravolta dal male. Questa sciagura è così smisurata che non riesco neppure a parlare, a far domande. Eppure, è necessario che i mortali sopportino i colpi inflitti dagli dèi. Parla con animo fermo, per quanto tu sia affranto per il dolore, e dispiega tutto il disastro. Chi è sopravvissuto? Chi piangeremo fra i condottieri? Chi fregiato del bastone del comando, lasciò deserto con la sua morte il posto assegnato?

Mᴇssᴀɢɢᴇʀᴏ Lui, Serse, è vivo: vede la luce del sole.

Aᴛᴏssᴀ Annunci alla mia casa bagliore grande, limpido giorno emerso da notte fosca.

Mᴇssᴀɢɢᴇʀᴏ Artembare, che era al comando di diecimila cavalieri, fu colpito presso le dure coste di Silenie, e il chiliarco Dadace trafitto da una lancia spiccò giù dalla nave un agile balzo, e Tenagone, il migliore fra i nativi di Battriana, si aggira intorno all’isola di Aiace battuta dai flutti[14], Lileo, Arsame e per terzo Argeste, costoro sopraffatti intorno all’isola nutrice di colombe[15] davan di cozzo contro la dura terra, e così Farnuco, che proveniva dalla terra attigua alle sorgenti del Nilo egizio, e parimenti coloro che dalla stessa nave precipitarono: Arcteo, Adeue e per terzo Feresseue. E il criseo Matallo, capo di diecimila uomini, in punto di morte irrorò la fulva e densa barba ombrosa intingendo in un bagno di porpora il colorito della sua carnagione. E uno dei Magi[16], Arabo, e Artabe di Battriana, condottiero di tre miriadi di cavalieri mori, è laggiù annientato, ospite di ben duro suolo. E son caduti Amistri e Anfistreo, che brandiva un’asta memore di lotte, e il prode Ariomardo, che offre lutto a Sardi, e Seisame di Misia, e Taribi, che guidava cinque volte cinquanta navi, lirneo di nascita, immagine di bellezza: ora è là disteso. La fortuna non gli ha voluto bene. E Siennesi, il primo per coraggio, il capo dei Cilici, morì di gloriosa morte offrendo da solo pena immensa ai nemici. Tanto dei capi ho rammentato, ma ben pochi mali annuncio dei molti che ci sono.

Aᴛᴏssᴀ Ahi ahi, son questi che ascolto i supremi fra i lutti, onta e lacerante singhiozzo per i Persiani! Ma torna un poco indietro e dimmi: la massa delle navi elleniche era tanto grande da osar cozzi di prue contro la persiana flotta?

Mᴇssᴀɢɢᴇʀᴏ Se al numero si guarda, sta’ pur certa che avrebbero prevalso le nostre navi. La massa dei vascelli ellenici non arrivava che a dieci trentine, oltre a una decina di scelte imbarcazioni. Serse invece, lo so con certezza, ne guidava un migliaio, oltre a due volte cento e sette insigni per velocità. Così è. Puoi mai credere che quanto al numero noi fossimo da meno? No, fu un demone che distrusse la nostra armata caricando i piatti della bilancia con pesi di fortuna non certo equipollente. Sono gli dei che hanno salvato la città di Pallade.

Aᴛᴏssᴀ Dunque Atene non fu devastata?[17]

Mᴇssᴀɢɢᴇʀᴏ Finché ci sono uomini, là c’è un baluardo che non crolla.

Donna achemenide. Monile, oro, V sec. a.C. London, British Museum.

Aᴇsᴄʜʟ. 𝑃𝑒𝑟𝑠. 350-446: La battaglia di Salamina

La narrazione procede attraverso le domande di Atossa, il cui ruolo formale pare quello di consentire al racconto del messaggero di articolarsi in episodi distinti, evitando la pesantezza di un discorso ininterrotto. Arriviamo quindi al 𝑐𝑙𝑜𝑢 della tragedia, con il racconto della battaglia di Salamina, che un grande filosofo ha definito «il più bel monumento mai innalzato alle ore cruciali dell’esistenza di un popolo». Eschilo ha saputo porsi dal punto di vista persiano, senza cedere a una troppo facile esaltazione della forza e del coraggio dei Greci, come pure il patriottismo avrebbe potuto indurlo a fare: il messaggero insiste fin da subito sull’idea che fu «uno spirito della vendetta, un demone maligno» (ἀλάστωρ ἢ κακὸς δαίμων) a procurare la sconfitta e che l’occhio invidioso dei numi (lo φθόνος θεῶν) fece cadere Serse nell’inganno. In contrasto con il precedente lungo elenco di nomi persiani, non un greco è chiamato per nome (eppure tutti gli spettatori sapevano, per esempio, che Temistocle era stato l’autore dello stratagemma che ingannò i Persiani!); la battaglia in sé non occupa che una ventina di versi, senza episodi di esaltazione del valore greco: solo nel grido di battaglia «o figli degli Elleni, ecc.» si esprime l’orgoglio di un popolo che ha saputo rispondere con valore e fermezza, nel momento in cui la libertà e tutto ciò che vi era di più caro è stato messo a repentaglio. Iniziato l’assalto da parte di una nave greca – si sapeva che era la nave di Aminia di Pallene come attesta Erodoto, ma ancora una volta Eschilo tace il nome – i Persiani si trovarono costretti a urtarsi scafo contro scafo e nella carneficina «spiagge e scogliere rigurgitavano di morti»: le parole del messaggero restituiscono l’immagine di un immane disastro, dolentemente osservato e narrato, senza compiacimenti sciovinistici da parti di Eschilo: anche nell’immagine dei persiani battuti e infilzati come tonni c’è più il dolore di chi vede una scena orribile di morte, che la celebrazione dei vincitori.

Aᴛᴏssᴀ Dimmi: come ebbe inizio il navale attacco? Chi prese l’iniziativa dello scontro: gli Elleni o mio figlio? Confidò nel numero delle navi?

Mᴇssᴀɢɢᴇʀᴏ Fu all’origine di tutto il disastro, o mia signora, uno spirito della vendetta, un demone maligno apparso chissà da dove: ché un uomo ellenico[18], venuto dal contingente degli Ateniesi, disse a tuo figlio Serse che non appena fosse calata l’oscurità della notte gli Elleni non sarebbero rimasti dov’erano, ma che, balzati sui banchi delle navi, avrebbero vogato chi per una rotta e chi per un’altra cercando scampo con una fuga occulta. Non appena udì, sùbito Serse, poiché non intese l’inganno dell’uomo ellenico né lo sfavore degli dèi, ingiunge a tutti i navarchi questo comando: quando il sole desistesse dall’avvampare coi suoi raggi la terra, e il buio conquistasse il recinto dell’etere, disporre in tre file la massa dei vascelli; ad altre navi il compito di presidiare gli stretti e le vie risonanti del mare tutto intorno all’isola di Aiace. E se gli Elleni fossero scampati a mala morte riuscendo a sfuggire con movimento occulto, per tutti i suoi era prevista la decapitazione. Tanto egli disse con animo fidente: non conosceva l’avvenire voluto dagli dèi. Allora, i suoi apprestarono la cena in bell’ordine e con disciplinata mente, e il marinaio legava il remo al ben commesso stroppo. Allorché dileguò la luce del sole e la notte calava, ogni uomo maestro del remo prendeva posto sulla sua nave, e del pari ogni uomo sapiente nell’armi. E da un banco all’altro della lunga nave correva la parola d’incitamento. Navigarono così nell’ordine fissato, e per tutta la notte i signori delle navi fecero manovrare l’intera flotta. La notte avanzava, ma l’armata degli Elleni era ben lungi dall’approntare una segreta fuga. Ebbene, quando i candidi destrieri del giorno invasero di splendore tutta la terra, dapprima si levò sul fronte ellenico un pio clamore, un’eco di canzone, e alto lo ripercosse il rimbombo della rupe isolana, e il panico si assise accanto a tutti i barbari, ormai disillusi nella propria attesa: perché non con intento di fuga gli Elleni inneggiavano allora il peana sacro[19], ma slanciandosi allo scontro con intrepida fiducia. La tromba infiammava del suo squillo tutti quei luoghi; e sùbito, a un comando, colpirono la salsedine profonda al simultaneo battito del remo risonante. In un momento furono tutti in vista. In testa avanzava con ordinata disposizione il corno destro, e dietro veniva tutto lo stuolo, e si udiva alto il concorde grido: «O figli degli Elleni, avanti! Liberate la patria, liberate i figli e le spose e i templi degli dèi aviti e le tombe degli antenati! Ora per tutto si combatte!». Ed ecco che sul nostro fronte si opponeva un frastuono di lingua persiana, e non era più tempo di indugiare. Sùbito una nave urtò nave nemica col rostro di bronzo. Dette inizio all’attacco un vascello ellenico, fracassando gli aplustri di una nave fenicia; poi diressero i legni in mischia confusa. Eppure, per un certo tempo, la marea della flotta persiana riuscì a resistere: quando però la massa dei vascelli finì stipata nello stretto[20], e non potevano prestarsi vicendevole soccorso, e anzi venivano a colpirsi con le bocche bronzee dei loro stessi rostri, ecco che le navi elleniche frantumarono tutta la fila all’intorno con previdenti attacchi, e allora cominciarono a rovesciarsi gli scafi e il mare sparì alla vista tanto si coprì di rottami e di cadaveri; e scogliere e spiagge rigurgitarono di corpi. Ogni nave persiana remigò in fuga scomposta. E gli Elleni colpivano duro, spezzavano ai Persiani la spina dorsale, come fossero tonni o una retata di pesci, brandendo frammenti di remi o tavole infrante. Urla, gemiti, singhiozzi invasero la marina salsedine, finché a tutto pose fine l’occhio fosco della notte. Non potrei esaurire il cumulo delle sciagure neanche se per dieci giorni le raccontassi in lunga fila. Questo è certo: mai in un sol giorno morì una così sterminata caterva d’uomini.

Aᴛᴏssᴀ Ahi, ahi, è sgorgato un pelago immenso di mali per i Persiani e per tutte le barbare genti.

Mᴇssᴀɢɢᴇʀᴏ Devi sapere che questa non è ancora la meta dei mali: perché in aggiunta a essi si è accumulata una tal massa di guai da controbilanciare i primi con un fin doppio carico.

Aᴛᴏssᴀ E qual mai sorte può essere ancora più odiosa di questa? Avanti, parla: di qual massa di mali tu dici che schiacciò l’armata per accrescere il peso delle nostre sciagure?

Mᴇssᴀɢɢᴇʀᴏ Tutti coloro fra i Persiani che erano nel pieno vigore del corpo, che erano i migliori per coraggio e i più insigni per nobiltà, e che in ogni cimento spiccavano per fedeltà verso il loro sovrano, tutti costoro sono morti senza onore e senza gloria.

Aᴛᴏssᴀ Ahi, me misera per questa disgrazia nera, o miei cari. Ma tu precisa: come sono morti?

La battaglia di Salamina. Illustrazione di R. Rizzato.

Aᴇsᴄʜʟ. 𝑃𝑒𝑟𝑠. 447-531: L’episodio di Psittalea

Un’ulteriore sventura si aggiunge al massacro di Salamina e il messaggero, nel suo secondo discorso, espone il disastro patito dal fior fiore dell’esercito nell’isoletta di Psittalea (anche in questo caso si tace di Aristide, l’artefice del successo). Il massacro avviene sotto gli occhi di Serse che osserva lo sviluppo della battaglia dall’alto di un colle, che da Erodoto sappiamo essere l’Egialeo. L’immagine disperata di Serse che fugge dopo essersi lacerato il manto regale induce Atossa a inveire contro l’odioso demone che ha spinto i Persiani – e Serse in particolare – a cercare una vendetta su Atene, non paghi della lezione di Maratona. L’accorata domanda sulla sorte delle navi scampate al disastro innesca il terzo e ultimo racconto del messaggero sulle indicibili traversie patite dai sopravvissuti, che attraversano la Beozia sfiniti dalla fatica, dalla fame e dalla sete: ancora una volta un dio ostile si accanisce contro i superstiti, facendo gelare fuori stagione le acque dello Strimone e travolgendo poi gran parte dell’esercito nella corrente del fiume, scioltasi improvvisamente al calore del sole. Così solo a pochi fu concesso di raggiungere il suolo patrio attraverso la Tracia. Di fronte ai mali che i sogni notturni pure le avevano preannunciato Atossa aggiunge il suo lamento, con un lieve rimprovero nei confronti del coro, per la benevola interpretazione che degli eventi i vecchi avevano dato, rassicurandola sul buon esito finale. Nel rientrare a palazzo, l’ultimo suo pensiero è per il figlio Serse, che il coro dovrà confortare per impedirgli di compiere un gesto disperato (la regina allude, con formulazione eufemistica, al possibile suicidio).

Mᴇssᴀɢɢᴇʀᴏ C’è un’isola davanti a Salamina: minuscola, ostica agli approdi, frequentata sulla spiaggia da Pan che ama le danze. Proprio qui li spedisce il re, di modo che, quando i nemici naufragati avessero cercato scampo su quest’isola, li potessero massacrare agevolmente e a un tempo riuscissero a trarre in salvo i compagni. Ma stoltamente investigò il futuro: perché non appena un dio concesse agli Elleni il vanto del successo, immediatamente questi cinsero il corpo con armature di solido bronzo e balzarono giù dalle navi e accerchiarono l’intera isola onde i nemici non sapessero più da quale parte volgersi. E alcuni perirono colpiti da fitte sassaiole, altri li uccise una pioggia di dardi scagliati dal nervo dell’arco. Alla fine, gli Elleni, avventatisi con impeto concorde, battono, tagliano a pezzi le carni di quei miseri, finché li sterminano tutti. Serse, scorgendo l’abisso della sciagura, scoppiò in singhiozzi (egli occupava una posizione che gli consentiva una nitida osservazione di tutto l’esercito, un poggio aereo non lungi dal mare). Poi si stracciò la veste, ruppe in un urlo di dolore e all’istante comunicò alla fanteria l’ordine di fuggire. Infine, si lanciò a scomposta rotta. Questa è la sciagura che ti è dato piangere in aggiunta all’altra.

Aᴛᴏssᴀ O demone odioso, come hai deluso la mente dei Persiani! Che amara vendetta ha tratto mio figlio su Atene gloriosa! Dunque, non gli eran bastati quei barbari che già Maratona aveva annientato! Fantasticando una rivalsa, mio figlio si è invece tirato addosso questa marea sterminata di guai. Ma dimmi ancora: le navi scampate al disastro, dove le hai lasciate? Puoi darmi ragguagli precisi?

Mᴇssᴀɢɢᴇʀᴏ Quanto ai capi delle navi superstiti, questi si danno col vento in poppa a una fuga tumultuosa e confusa. Invece, la fanteria sopravvissuta ha trovato la fine sul suolo dei Beoti, chi spasimando per la sete in cerca di linfa sorgiva e chi sfiancato dall’affanno della marcia. Quanto a noi, avanzammo fino alla terra dei Focesi e alla doride contrada e al Golfo Maliaco, là dove lo Spercheo irriga la pianura di propizia bevanda. E di qui ci accolsero, ormai privi di viveri, la piana dell’Acaia e le città dei Tessali, dove moltissimi morirono sfiniti dalla sete e dalla fame. Poi giungemmo alla terra di Magnesia e al suolo dei Macedoni, al guado dell’Assio e ai palustri canneti di Bolbe e al monte Pangeo nella contrada degli Edoni; e nel corso di quella notte un dio provocò una gelata fuori stagione, consolidando la corrente tutta dello Strimone[21]; e chi in passato aveva spregiato gli dèi allora si profuse in suppliche e preghiere, genuflettendosi davanti alla terra e al cielo[22]; e quando i soldati ebbero cessato di invocare più e più volte gli dèi, varcarono il congelato guado. Chi di noi passò prima che si spandessero i raggi del dio solare si ritrovò sano e salvo sull’altra sponda. Ma il disco splendente del sole ardendo coi suoi raggi disciolse col calore della vampa il centro del passaggio. Caddero gli uni sugli altri e fortuna arrise a chi in un baleno spirò l’estremo fiato. E quanti, sopravvissuti, attinsero salvezza ecco che, attraversata a fatica la Tracia, fin qui sono scampati dopo tante sofferenze e ritornano ai focolari aviti in cosi pochi che la città dei Persiani ben può piangere la perdita della sua amata gioventù. Tutto questo è verità, eppure tralascio ancora molti dei mali che un dio inflisse alle persiane genti.

𝐸𝑠𝑐𝑒 𝑖𝑙 𝑚𝑒𝑠𝑠𝑎𝑔𝑔𝑒𝑟𝑜.

Cᴏʀɪꜰᴇᴏ O demone che imponi ardue sofferenze, troppo grave coi piedi balzasti[23] su tutto il popolo persiano!

Aᴛᴏssᴀ Ah, me infelice! Ah, disfatta armata! O nitida visione dei sogni notturni, con che violenta certezza mi presagisti il male! Ma voi quei sogni con troppa leggerezza interpretaste. E tuttavia, dal momento che in tal guisa dispose la vostra voce amica, voglio in primo luogo pregare gli dèi e poi andrò a prelevare dalla mia casa il dono libagione per la terra e per i defunti. Ormai tutto è compiuto, lo so fin troppo bene, ma forse il futuro sarà meno infausto. Quanto a voi, dopo quel che è successo dovete dare il contributo di nuovi fidati consigli; e se mio figlio arrivasse qua prima di me, voi confortatelo e accompagnatelo verso la reggia, che non abbia ad aggiungersi una sciagura alle tante che già ci opprimono.

𝐸𝑠𝑐𝑒 𝑙𝑎 𝑟𝑒𝑔𝑖𝑛𝑎.

Nobildonna persiana. Altorilievo, calcare, inizi V sec. a.C. dall’Egitto.

Aᴇsᴄʜʟ. 𝑃𝑒𝑟𝑠. 532-597: Il primo stasimo

Il canto del coro occupa lo spazio di tempo che intercorre tra l’uscita della regina e il suo ritorno per eseguire le offerte preannunciate. Secondo uno schema tipico della tragedia arcaica, il canto, costituito qui di tre coppie di strofi e antistrofi, è preceduto da anapesti di lamento, in cui si ritrae soprattutto il dolore delle donne e in particolare delle giovani spose che rimpiangono la loro fresca unione spezzata.

Nella prima coppia strofica si ha una sorta di compianto litanico, per il dolore in cui sono state gettate le città dell’Asia dalla follia di Serse, così diversa dalla saggezza dell’amato padre suo Dario. E il pensiero corre alle navi, tombe di prodi guerrieri. La seconda coppia strofica ricorda il triste destino di cadaveri straziati dalle onde e dai pesci, mentre i vecchi genitori conoscono l’abisso più buio del dolore. Nell’ultima coppia i vecchi esprimono il loro timore che l’assenza del re, o anche solo una sua umiliazione, possa far nascere una ribellione di popolo e che si scateni una irrefrenabile libertà di parola in chi prima era tenuto dal giogo dell’oppressione.

Cᴏʀᴏ O Zeus sovrano, ora sì che veramente

hai distrutto l’armata

immensa dei Persiani alteri

e hai coperto di cupo cordoglio

e Susa e Agbatana.

E quante donne hanno squarciato il velo

con le dita delicate

e di pianto intridono le sinuose vesti

partecipando al lutto!

E in morbida tristezza le persiane spose,

che sognavano di rivedere

il giogo recente del loro connubio,

hanno lasciato le tenere coltri del talamo,

la calda voluttà di giovanili abbracci

e ora gridano insaziabili lamenti.

E per chi non è più

io levo un canto di sincero lutto.

Ora sì che veramente

tutta singhiozza la terra d’Asia desolata.

Serse li guidò, popoì,

Serse li finì, totoì,

Serse dissennatamente diresse

le navi[24] dei Persiani.

Come mai in quel tempo passato

così innocuo Dario regnava,

capo dei cittadini arcieri,

sovrano amato delle terre di Susa?

Le navi ali di lino,

le navi occhiazzurre guidarono

fanti e marinai, popoì,

le navi li finirono, totoì,

in urti di cieca rovina.

E perfino lui, il nostro sovrano,

udiamo che appena d’un soffio ha schivato

le mani degli Ioni

via per le piane della Tracia

via per impervi sentieri.

E quanti morirono prima

oh

quanti Necessità carpì

eh

attorno alle spiagge cicree[25]

vagano spenti. Piangi

dilàniati e grave grido grida

di pene che toccano il cielo

tendi un guaito

schiudi urlo dolente.

Scardassàti dalla salsedine crudele

oh

altri li scorticano i muti

eh

figli dell’Incorruttibile[26]

e la casa defraudata piange il suo padrone,

e vegliardi orbati dei figli

gemono pene mandate dagli dei

e veramente intendono dolore assoluto.

E i sudditi delle asiatiche contrade

non più a lungo obbediranno

alle leggi dei Persiani

né più verseranno l’imposto tributo

né prostrandosi al suolo

si piegheranno docili ai comandi.

È finita la potenza del re.

Né più ai mortali

il morso bloccherà la lingua.

Il popolo si libera e parla senza freni

quando si spezza il giogo del potere.

I campi insanguinati,

i campi cinti dalle onde

dell’isola di Aiace sono la tomba del persiano impero.

Di fatto inizia qui la seconda parte del dramma, che si protrarrà sino al v. 851.

Aᴇsᴄʜʟ. 𝑃𝑒𝑟𝑠. 598-622: Il secondo episodio (?)

Atossa ritorna dalla reggia in abiti dimessi, per recare le libagioni promesse alla terra e ai morti: la regina invita i vecchi dignitari a evocare lo spirito di Dario, mentre la terra beve le libagioni. Il coro ubbidisce all’invito, sicuro che solo l’antico sovrano potrà indicare un rimedio dei mali e quando essi avranno termine.

𝑅𝑖𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎 𝑙𝑎 𝑟𝑒𝑔𝑖𝑛𝑎, 𝑎 𝑝𝑖𝑒𝑑𝑖 𝑒 𝑣𝑒𝑠𝑡𝑖𝑡𝑎 𝑎 𝑙𝑢𝑡𝑡𝑜, 𝑠𝑐𝑜𝑟𝑡𝑎𝑡𝑎 𝑑𝑎 𝑎𝑙𝑐𝑢𝑛𝑒 𝑎𝑛𝑐𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑐ℎ𝑒 𝑟𝑒𝑐𝑎𝑛𝑜 𝑙𝑒 𝑜𝑓𝑓𝑒𝑟𝑡𝑒 𝑝𝑒𝑟 𝑙𝑒 𝑙𝑖𝑏𝑎𝑔𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑡𝑒𝑟𝑟𝑎 𝑒 𝑎𝑖 𝑑𝑒𝑓𝑢𝑛𝑡𝑖.

Aᴛᴏssᴀ Chiunque non sia inesperto di sciagure sa bene, o miei cari, che nel momento in cui ci assale il flutto dei mali gli uomini finiscono con l’aver paura di tutto, mentre invece, quando il demone della fortuna soffia propizio, abbiamo fiducia che lo stesso vento continuerà a spirare per sempre. Anche ai miei occhi ormai, per volere degli dèi, ogni cosa appare ostile e piena di paura, e nelle mie orecchie odo come un urlo di malefici suoni, tale è la costernazione che spaura il mio cuore. Ecco perché ho fatto a ritroso il cammino che conduce dalla reggia a questo luogo, ma senza il carro e il lusso di prima, per offrire al padre di mio figlio libagioni propizie, di quelle che placano i morti: dolce candido latte di sacra giovenca, e la stilla dell’operaia dei fiori, il miele scintillante, unitamente alle gocce di verginale sorgente, e poi la pretta bevanda che è figlia di madre selvaggia, questo liquore di antica vite, e ancora il frutto odoroso del biondo olivo, che nelle sue foglie rigermina vita perenne, e ghirlande di fiori, figli della terra feconda. Avanti, miei cari, levate inni devoti su queste libagioni ai morti ed evocate Dario divino. Attraverso la terra io voglio mandare questi sacri doni agli dèi sotterranei.

Scena di udienza di una regina persiana. Sigillo cilindrico (PFS 77), VI sec. a.C. New York, Metropolitan Museum of Art.

Aᴇsᴄʜʟ. 𝑃𝑒𝑟𝑠. 623-680: Il secondo stasimo

I versi anapestici della risposta del corifeo introducono al canto lirico: sono tre brevi coppie strofiche chiuse dall’epodo per evocare l’ombra di Dario. Dapprima il coro si chiede se Dario possa sentire i suoi lamenti. Si prega quindi il re dei morti perché gli consenta di salire: egli è il sovrano amato dal suo popolo, che mai ha spinto a sanguinosi disastri, perché era un re pari un dio. Nell’ultima coppia strofica il coro si rivolge direttamente a Dario, invitandolo ad ascoltare la sua invocazione e a rispondere: tutta la gioventù persiana è stata annientata, come ha potuto prodursi un tale disastro?

Cᴏʀᴏ Sposa regina, onore dei Persiani,

tu manda questi libami sotto i talami della terra

e noi con inni devoti chiederemo

agli dei che guidano i morti

di essere a noi propizi laggiù sotto la terra.

Suvvia, augusti numi di sotterra,

Terra, Ermes e tu, re dei defunti,

su dal fondo alla luce mandate quell’anima:

ché se conosce valido rimedio,

lui solo fra tutti i mortali

può additarci la fine dei mali.

𝐿𝑎 𝑟𝑒𝑔𝑖𝑛𝑎 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑖𝑒 𝑙𝑒 𝑜𝑓𝑓𝑒𝑟𝑡𝑒 𝑠𝑢𝑙𝑙𝑎 𝑡𝑜𝑚𝑏𝑎 𝑑𝑖 𝐷𝑎𝑟𝑖𝑜.

Il fortunato sovrano pari agli dèi

ode la mia limpida voce persiana

che modula variegati dissonanti accenti di dolore?

Voglio gridare totalità di duolo.

Mi ascolta lui,

mi ascolta dal profondo abisso?

E tu a me, Terra, e voi,

che siete reggitori dei sotterranei,

concedete che esca dalle vostre case

il demone glorioso,

il dio dei Persiani, il nativo di Susa.

In alto mandate

un essere quale non ancora

terra persiana avvolse.

A noi diletto è l’uomo,

a noi diletto è questo rialzo,

ché diletta virtù racchiude.

Tu, Aidoneo[27], tu che accompagni in alto, Aidoneo,

tu manda su

Dario divino sovrano.

Eh!

Né mai distrusse i suoi uomini

in cieche imprese annientatrici[28]

e tra i Persiani aveva nome «divino consigliere»

e divino consigliere veramente fu

quando reggeva il timone dell’armata.

Eh!

Sovrano, antico sovrano, su, vieni,

ascendi il sommo vertice di questo rialzo,

solleva il calzare tinto di croco,

mostra l’apice della tiara regale.

Vieni, padre Dario,

vieni, tu che il male non sai. Oh!

Devi ascoltare dolori impreveduti,

pene comuni a tutta questa terra.

Mòstrati, o sovrano dei sovrani.

Caligine di Stige è librata in alto.

Già si è spenta tutta la nostra gioventù.

Vieni, padre Dario,

vieni, tu che il male non sai. Oh!

Ahi ahi!

Tu che morendo molto pianto lasciasti,

perché, o mio sovrano, mio sovrano,

in causa di questi errori

a danno di questa terra tutta

furono distrutte le nostre infauste navi,

le nostre triremi?

La sconfitta di Maratona e la fallimentare spedizione contro gli Sciti, entrambe volute da Dario, sono messe fra parentesi: Dario è il sovrano illuminato dagli dèi che non conosce l’ἄτη, ma che ha saputo guadagnarsi la gratitudine del suo popolo e che ora è venerato come un demone benigno o addirittura come un dio. La costruzione, probabilmente improvvisata, che rappresenta la tomba del sovrano viene messa a fuoco solo gradualmente: la regina aveva fatto il suo ingresso in scena accennando genericamente alla propria intenzione di offrire libagioni per i defunti (vv. 607 ss. e 621 s.); poi, ai vv. 629 s., il corifeo aveva pregato i demoni sotterranei, la Terra ed Ermes di mandare dagli inferi alla luce l’anima di Dario, ma è solo al v. 647 («a noi diletto è questo rialzo»), che l’invocazione al re defunto prende a definirsi e a localizzarsi come emersione di una figura al di sopra di un tumulo fino all’incalzante appello – con tre imperativi in asindeto: «su vieni, ascendi» (ἴθι ἱκοῦ / ἔλθ᾽) – dei vv. 658 s., accompagnato dalle indicazioni di regia dei calzari color di croco e del copricapo persiano a punta detto “tiara”. Infine, il termine specifico τάφος («tomba») sarà pronunciato per la prima volta dall’Ombra stessa di Dario al v. 684. La rifocalizzazione del campo visivo degli spettatori, che nella parte precedente del dramma prevedeva l’identificazione dell’area teatrale con una Camera di consiglio dove si riuniscono i vecchi coreuti/dignitari ed escludeva la messa a fuoco del rialzo/ tomba, si realizza pertanto quasi impercettibilmente durante il canto del coro, e viene a prospettarsi come un effetto della parola complementare al potere che essa manifesta nel sollevare l’ombra del defunto su dai «talami della terra».

Il terzo episodio

L’apparizione di Dario, che ha ascoltato le invocazioni del coro, ci pone di fronte a una figura imponente, di statura eroica, l’idealizzato simbolo del buon monarca. La sua parola assumerà la dimensione indiscutibile delle verità rivelate da un dio; così come perentoria risulta la sua interpretazione degli eventi. I suoi tre discorsi, che sottolineano la responsabilità e l’irriflessiva ambizione di Serse, la sua ὕβρις, la sua deviazione dalla linea di condotta che dovrebbe sempre tener conto della continuità padre-figlio, corrispondono inevitabilmente ai principi dell’etica greca. Aver collegato la sconfitta persiana alla punizione con cui gli dèi colpiscono la tracotanza umana, solleva la vicenda bellica al di sopra dei comuni eventi umani e ne fa un paradigma della giustizia divina: nessuna esaltazione nazionalistica può trovarvi posto, perché non tanto i Greci, quanto le sue colpe hanno travolto Serse.

George Romney, L’ombra di Dario appare ad Atossa. Carboncino su cartone, 1778. Liverpool, National Museum.

Aᴇsᴄʜʟ. 𝑃𝑒𝑟𝑠. 681-738: L’εἴδωλον dell’antico monarca

Nelle sue prime battute, Dario assicura di aver accettato le libagioni e, dopo aver ricordato quanto sia difficile per chi è morto ottenere di riemergere, invita il coro a parlare sulle cause di tanta disperazione. Ma la reverenza religiosa di fronte al suo antico monarca impedisce ai vecchi di levare la parola e lo sguardo a Dario. Sarà allora Atossa a parlare, invitata con parole che lasciano intravedere l’antico affetto coniugale. La risposta della regina è condensata in un solo verso, che comunica in modo chiaro e irrevocabile la completa estinzione dell’esercito. La sticomitia successiva arricchisce di particolari la notizia del disastro, che viene imputato a un δαίμων che ha ispirato Serse.

𝐴𝑙 𝑑𝑖 𝑠𝑜𝑝𝑟𝑎 𝑑𝑒𝑙 𝑡𝑢𝑚𝑢𝑙𝑜 𝑎𝑝𝑝𝑎𝑟𝑒 𝑙’𝑜𝑚𝑏𝑟𝑎 𝑑𝑖 𝐷𝑎𝑟𝑖𝑜.

Oᴍʙʀᴀ O Fedeli tra i fedeli, coetanei della mia giovinezza, vegliardi persiani, qual sofferenza soffre la città? Il suolo geme, sente colpi e lacerazioni. Ho veduto la mia consorte accanto al tumulo: ne ho provato un tremito e propizio ho accolto l’offerta di queste libagioni. Ma levate canti di lutto qui fermi vicino alla mia tomba intonate lamentazioni acute, evocatrici dei defunti; su, chiamatemi con la forza dei vostri gemiti. Arduo è risalire alla luce anche perché gli dei di sotterra sono più inclini a prendere che a lasciare. E tuttavia, poiché io sono sovrano anche fra loro, eccomi giunto. Ma tu affrèttati, che non mi sia rimproverato un troppo lungo indugio. Qual è questa nuova sciagura che opprime i Persiani?[29]

Cᴏʀᴏ Ho scrupolo a guardarti,

ho scrupolo a parlare davanti a te,

per l’antico rispetto.

Oᴍʙʀᴀ Ma poiché ormai sono salito su dagli abissi dando ascolto alle tue lamentazioni, tu parla facendo un discorso nient’affatto prolisso quanto invece conciso, e raccontami tutto, dimenticando la reverenza che provi al mio cospetto.

Cᴏʀᴏ Temo di accondiscendere,

temo di parlare davanti a te,

temo il dire cose che agli amici

è duro il dire.

Oᴍʙʀᴀ E allora, visto che un timore antico si insedia sui tuoi precordi, tocca a te, compagna di un giorno, nobilissima sposa, sedare questi pianti, questi lamenti, e dirmi chiare parole. Le disgrazie che colpiscono i mortali fanno parte della condizione umana. Molti sono i mali che vengono dal mare, molti quelli che arrivano dalla terra, se solo la nostra vita si prolunga oltre un certo limite.

Aᴛᴏssᴀ O tu che con fortunato destino superasti in felicità e potenza tutti gli uomini; ah, finché ti arrise la luce del sole, tu vivesti la vita beata di un dio, invidiato dai tuoi sudditi, e così ora ti invidio per essere morto prima di vedere l’abisso dei mali. Perché il succo del discorso, o Dario, lo puoi udire in un istante. A dirla in breve, la potenza persiana è stata annientata.

Oᴍʙʀᴀ In che modo? Il flagello di una pestilenza? Una guerra civile?

Aᴛᴏssᴀ No, assolutamente. Il fatto è che ad Atene l’esercito è stato completamente distrutto.

Oᴍʙʀᴀ Dimmi: quale dei miei figli guidò l’armata fin laggiù?

Aᴛᴏssᴀ Serse, l’impetuoso Serse, svuotando di gente ogni nostra contrada.

Oᴍʙʀᴀ Su terra o per mare tentò lo sciagurato questa folle prova?

Aᴛᴏssᴀ Per terra e per mare: doppio fronte, doppio esercito.

Oᴍʙʀᴀ E come riuscì a varcare le acque una fanteria così numerosa?

Aᴛᴏssᴀ Con macchine creò un passaggio, aggiogando lo stretto di Elle.

Oᴍʙʀᴀ Dunque, osò bloccare il grande Bosforo?

Aᴛᴏssᴀ Sì, è così, ma certo un dio entrò nella sua mente.

Oᴍʙʀᴀ Ahimè, proprio un dio grande, che l’intelletto gli traviò.

Aᴛᴏssᴀ Al punto che non ci è dato vedere il termine del male che compì.

Oᴍʙʀᴀ E che fine hanno fatto? Perché a tal segno li compiangete?

Aᴛᴏssᴀ La distruzione della flotta rovinò la stessa fanteria.

Oᴍʙʀᴀ Così totalmente la nostra gente è stata annientata dall’asta nemica?

Aᴛᴏssᴀ Tanto che tutta la città di Susa piange il vuoto dei suoi guerrieri.

Oᴍʙʀᴀ Oh, la valida difesa! Oh, il forte presidio dell’armata!

Aᴛᴏssᴀ È perduto, perduto completamente, il popolo dei Battri. Nessuno è sopravvissuto.

Oᴍʙʀᴀ Disgraziato! Che gioventù alleata ha perduto!

Aᴛᴏssᴀ Pare che lui, Serse, solo e abbandonato ora insieme a pochi…

Oᴍʙʀᴀ Com’è finito? Dov’è? C’è ancora una speranza?

Aᴛᴏssᴀ Dicono sia giunto in salvo a un ponte, unico giogo dei due continenti.

Oᴍʙʀᴀ E, dunque, è vero che ha trovato scampo in Asia?

Aᴛᴏssᴀ Sì, lo danno come un fatto certo.

Iscrizione DNa, pietra calcarea, c. 490 a.C. dalla Tomba di Dario I di Persia. Naqsh-e Rostam, Fars, Iran.

Aᴇsᴄʜʟ. 𝑃𝑒𝑟𝑠. 739-752: Il primo discorso di Dario

Alla sticomitia segue il primo dei tre discorsi di Dario, di lunghezza crescente, in cui il re dapprima osserva come tutto si realizzi come l’oracolo aveva predetto: egli si aspettava che questo si sarebbe avverato di là a lungo tempo; ma la ὕβρις di Serse che ha unito la terra al mare e ha incatenato il Bosforo ha affrettato il compimento. La considerazione che anche il dio collabora con chi si affretta follemente a fare il male (che equivale all’idea che, pur essendo la rovina persiana predestinata, fu la follia di Serse, con la sua piena responsabilità, a causarla) richiama “l’inganno” della divinità evocato nella πάροδος, e appartiene 𝑖𝑛 𝑡𝑜𝑡𝑜 alla teologia di Eschilo. Atossa cerca di giustificare l’impresa di Serse come opera dei suoi cattivi consiglieri, che ne solleticavano l’orgoglio, proponendogli un confronto con il padre per lui umiliante (seguendo Erodoto, si possono individuare questi cattivi consiglieri in Mardonio, nei Pisistratidi, negli Aleuadi e in Onomacrito).

Oᴍʙʀᴀ Ah, com’è giunto veloce l’inveramento degli oracoli! Sì, Zeus ha scagliato su mio figlio il termine dei responsi anche se io pensavo che solo dopo un lungo tempo gli dèi li avrebbero portati al prefissato fine. E certamente, quando un uomo smania di agire, anche il dio coopera; così ora si è scoperta, a quel che pare, la sorgente dei mali per tutti i miei cari. Dunque, mio figlio, ignaro dei presagi, li avverò con giovanile audacia, lui che sperò di incatenare, quasi fosse uno schiavo, il sacro Ellesponto, la bosforica corrente del dio, e trasformò il guado in terra e avvintolo in martellanti ceppi larga via a largo esercito approntò, e lui mortale si illuse nella sua stolidità di dominare Poseidone e i numi tutti. Come non credere che un morbo della mente soggiogasse il figlio mio? Ho paura che la grande ricchezza che faticosamente avevo accumulato finisca nelle mani del primo venuto.

Aᴛᴏssᴀ Proprio questo è l’insegnamento che ha tratto l’impetuoso Serse dalla frequentazione di sciagurati amici. Gli andavano dicendo che tu acquistasti con opere di guerra ricchezza ingente per i tuoi figli, mentre lui per mancanza di coraggio le sue guerre se le faceva in camera senza accrescere di un’inezia la potenza del padre. E alla fine, a furia d’essere rimproverato da questa gente infame, decise la grande spedizione contro la terra ellenica.

Già nella parodo la costruzione del ponte di barche sull’Ellesponto si era precisata nell’immagine, ripetuta, dell’aggiogamento del mare, del ζυγὸν ἀμφιβαλεῖν (vv. 50 e 72), ma ora, con un’autorità che i suoi dignitari non potevano possedere, Dario reduce dall’oltretomba associa questo motivo dell’aggiogamento degli elementi naturali (esso appare come la messa in catene di uno schiavo) a una visione sacrale della natura (l’Ellesponto è «sacro», quella del Bosforo è la corrente «del dio») che permette a Eschilo di prospettare l’atto di Serse come una violazione della frontiera che separa uomini e dèi: perfino l’ordine delle parole viene lievemente turbato, collocando δέ in quarta anziché in seconda posizione, a principio del v. 749, per accostare più strettamente θνητὸς ὤν («pur essendo mortale») a θεῶν quali poli di un’antitesi nel cui raggio Serse non ha saputo orientarsi.

Sulla scia di Solone e della sapienza arcaica, si realizza anche per Serse quel fenomeno per cui il movimento dell’uomo oltre il confine che circoscrive l’ambito della sua condizione provoca un movimento inverso di invasione del divino entro il campo dell’umano nella forma di forze normalmente qualificate come “demoniche” oppure con un generico θεός (senza specificazione di quale divinità si tratti): «quando un uomo smania di agire, anche un dio coopera» (v. 742) dice Dario confermando quanto poco prima aveva intuito la regina madre (v. 724: «Certo un dio si attaccò alla sua mente»). Come anche altrove in Eschilo, l’uomo – in particolare il potente che agisce violando limiti e leggi – non è trascinato fatalmente da una follia irresistibile, ma neppure è pienamente libero delle proprie azioni. Ciò che a Eschilo preme di sottolineare è l’intreccio fra la pulsione umana verso e al di là del limite e la “collaborazione” di un dio o di un demone da cui l’azione umana appare condizionata attraverso l’interno (le φρένες) dell’individuo fino allo smarrimento, al traviamento, alla follia. Serse «si affrettava» (questo il senso specifico di σπεύδειν al v. 742) verso l’azione, e un dio «si è attaccato» (συνάπτεται) a questo impulso: alla fine, la spedizione in Grecia e l’asservimento della natura appaiono nello stesso tempo come una scelta di Serse e come l’avveramento di oracoli, come una decisione e come un esito prefissato.

Dario il Grande (dettaglio). Bassorilievo, pietra, V sec. a.C. da Persepolis. Tehran, Museo Nazionale dell’Iran.

Aᴇsᴄʜʟ. 𝑃𝑒𝑟𝑠. 753-786: Il secondo discorso di Dario

La gravità della sciagura, che non ha pari nella storia persiana, induce Dario a una rapida caratterizzazione dei precedenti re persiani, da Medo in poi sino a lui stesso, il cui potere e la cui saggezza sempre godettero del favore divino e realizzarono un continuo ampliamento dell’impero. In questo 𝑒𝑥𝑐𝑢𝑟𝑠𝑢𝑠 di storia persiana, molti hanno accusato Eschilo di scarsa accuratezza (non si sa, per esempio, se vedere in Medo un nome etnico, che alluderebbe comunque al fatto che l’impero fu detenuto prima dai Medi, o un’allusione a Ciassare, il cui figlio verrebbe a essere Astiage). Quello che in ogni caso interessa a Eschilo è mostrare quanto Serse abbia deviato dalla tradizione degli antenati e dal padre in particolare. Dario idealizza la storia passata, così come fa con se stesso quando non ricorda i rovesci da lui subiti in Scizia e a Maratona.

Oᴍʙʀᴀ Ecco perché hanno perpetrato un misfatto enorme, indimenticabile, quale mai prima aveva desolato questa città e la piana di Susa, da quando Zeus sovrano sancì il principio che un solo uomo impugni lo scettro del monarca e imperi su tutta l’Asia nutrice di bestiame. Ebbene, un medo fu il primo reggitore del popolo, e il figlio di lui portò a termine l’opera cominciata dal padre; e per terzo Ciro, ben fortunato eroe, ebbe l’impero e a tutti i suoi garantì pace: ché la mente dirigeva la barra del suo cuore. Aggiunse ai suoi domini il popolo dei Lidi e quello dei Frigi e soggiogò con la forza la Ionia tutta: la sua saggezza gli valse il favore degli dèi. E come quarto governò il figlio di Ciro[30], e come quinto regnò Mardo[31], che svergognò la patria e il trono antico; ma in un agguato di palazzo lo uccise il prode Artaferne[32] con un pugno di congiurati fra cui ero anch’io. Così ottenni la sorte a cui aspiravo. E intrapresi molte spedizioni con immense armate, ma non feci mai tanto male a questa città. Mio figlio Serse, invece, è giovane e ha pensieri giovanili e non serba ricordo dei miei precetti. Perché dovete sapere con assoluta certezza, o miei coetanei antichi, che tutti insieme noi altri, quanti abbiamo detenuto un tempo il potere assoluto, mai fummo autori di altrettanti danni.

Aᴇsᴄʜʟ. 𝑃𝑒𝑟𝑠. 787-851: Il terzo discorso di Dario

Alla domanda del corifeo su come potranno i Persiani recuperare l’antico splendore, Dario non ha dubbi: condizione irrinunciabile è evitare di muovere contro i Greci, la cui terra annienta gli invasori con la fame. Si ha a questo punto il terzo più lungo discorso di Dario, con la profezia che riguarda l’esercito ancora accampato in Grecia agli ordini di Mardonio: nella piana dell’Asopo, le truppe scelte persiane patiranno i peggiori mali, come punizione dell’ὕβρις che le ha indotte a distruggere i santuari ellenici. Il principio è quello, altre volte affermato da Eschilo, per cui chi ha operato il male, poi lo subisce: la lancia dei Dori annienterà nel sangue l’armata persiana. I mucchi di cadaveri sono il muto ammonimento che l’uomo non deve mirare a cose per lui troppo alte: frutto della ὕβρις è la sventura, ribadisce il poeta in versi giustamente memorabili, con immagini che sembrano risalire a Solone. Zeus è implacabile nell’esigere il rendiconto. Di qui l’invito al coro a dare saggi ammonimenti a Serse perché cessi un comportamento che offende i numi. Atossa poi è invitata ad andare incontro al figlio con una veste regale, togliendo a Serse gli abiti laceri che umiliano la sua autorità regia: solo lei saprà consolarlo e rasserenarlo.

Cᴏʀɪꜰᴇᴏ E ora, o Dario sovrano? Qual è la mèta delle tue parole? Qual è la via più giusta da seguire, nel presente, per il popolo di Persia?

Oᴍʙʀᴀ Non dovete più intraprendere spedizioni verso il suolo dell’Ellade, neppure se disponete di forze superiori. La stessa terra è loro alleata.

Cᴏʀɪꜰᴇᴏ Che dici mai? In che senso è alleata?

Oᴍʙʀᴀ Perché stermina con la fame i nemici troppo numerosi.

Cᴏʀɪꜰᴇᴏ Ma possiamo arruolare truppe scelte, e ben equipaggiate.

Oᴍʙʀᴀ Eppure, nemmeno i soldati che ora sono rimasti sul suolo dell’Ellade[33] raggiungeranno la luce del ritorno.

Cᴏʀɪꜰᴇᴏ Veramente? Dunque, non tutto l’esercito superstite lascerà l’Europa riattraversando lo stretto di Elle?

Oᴍʙʀᴀ No: solo pochi fra i molti se, tanto più guardando a quanto è accaduto, si deve prestar fede agli oracoli degli dèi. Perché non una sì, e l’altra no, ma ogni profezia si avvera infine. E se così è, Serse lascia dietro di sé una massa scelta di uomini cullato da vuote speranze. Essi restano là dove l’Asopo irriga la piana con le sue correnti, agognato nutrimento per il suolo dei Beoti; e proprio là è destino che soffrano le pene più alte a contraccambio di dismisura e di empie aspirazioni: essi che giunti all’Ellade non ebbero scrupolo di rapire i simulacri, di incendiare i templi degli dèi[34]. Abbattuti gli altari, scalzate dai piedistalli e rovesciate furiosamente a terra le statue dei numi! Ecco perché la pena non è inferiore alla colpa, e altri mali li attendono, e non è maturo il basamento delle sciagure, anzi è tuttora nella sua infanzia. Tanto copioso libame di sangue sarà versato nella terra di Platea dalla dorica lancia: e mucchi di cadaveri diranno con muta testimonianza agli occhi dei mortali fino alla terza generazione che creatura votata alla morte non deve pensare pensieri al di là della propria natura, ché Dismisura se appieno fiorisce fruttifica in spiga di rovina, donde miete messe di pianto. Con gli occhi fissi a questa dura lezione ricordatevi di Atene e dell’Ellade e nessuno per dispregio del destino presente si innamori di beni lontani versando a terra la grande potenza che ha. Zeus punitore, Zeus esattore severo invigila sui troppo superbi ardimenti. E dunque praticate saggezza e con avveduti consigli ammonitelo a desistere dal delirare con tracotante audacia. E tu, antica compagna, madre amata di Serse, nella reggia e preso un manto adorno fatti incontro al figlio: ché da tutto il suo corpo pendono squarciati, per il dolore, gli stracci dei variegati vestimenti. Ma tu confortalo con amiche parole: vorrà ascoltare solo te, ne sono certo. Io tornerò giù, nel buio sotterraneo. E a voi, o vegliardi, addio: pure in mezzo alle sventure date gioia al vostro cuore, giorno dopo giorno. Ricchezza non giova ai morti.

𝐿’𝑜𝑚𝑏𝑟𝑎 𝑠𝑐𝑜𝑚𝑝𝑎𝑟𝑒 𝑑𝑖𝑒𝑡𝑟𝑜 𝑖𝑙 𝑡𝑢𝑚𝑢𝑙𝑜.

Cᴏʀɪꜰᴇᴏ Ah, quanti mali per i Persiani devo soffrire di udire, e presenti e futuri!

Aᴛᴏssᴀ O demone, quanti acerbi dolori mi assillano! E ancor più mi dilania questa iattura, ora che ho udito quale strazio di vestimenti[35] avvolge il corpo di mio figlio. E dunque andrò, e preso dalla casa un manto adorno cercherò di farmi incontro a mio figlio: non abbandonerò in mezzo ai mali chi mi è più caro al mondo.

𝐿𝑎 𝑟𝑒𝑔𝑖𝑛𝑎 𝑒𝑠𝑐𝑒.

Pittore di Dario. Dario I di Persia riceve i suoi dignitari. Pittura vascolare da un 𝑘𝑟𝑎𝑡𝑒𝑟 apulo a figure rosse, IV sec. a.C. da Canosa di Puglia. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Aᴇsᴄʜʟ. 𝑃𝑒𝑟𝑠. 852-907: Il terzo stasimo

In tre coppie strofiche chiuse da un epodo il coro evoca la potenza e la saggezza di Dario, la cui fortuna e prosperità offrono un netto contrasto con l’apparizione di Serse, che seguirà immediatamente, rendendone più impressionante l’umiliazione. Il canto ricorda sinteticamente le condizioni splendide della Persia del tempo passato, con le sue città opulente e serene, gli eserciti potenti, i saggi ordinamenti. Segue un’enumerazione delle città e delle isole elleniche, lontane dalla Persia, che Dario era riuscito ad annettere al suo impero. L’epodo chiude il canto con la dolente constatazione che ora la volontà divina ha operato un rovesciamento della passata felicità, facendo incappare l’esercito in un disastro sul mare.

Cᴏʀᴏ Oh, popoì, di veramente grande

di veramente giusta vita civile

fruimmo un giorno, quando l’antico

il provvido il perfetto

l’invincibile Dario sovrano pari agli dei

su questa terra regnava.

E dapprima ricordiamo gloriose spedizioni,

che aggredivano ogni turrita rocca

(e il ritorno dalle guerre

riconduceva a case fortunate

soldati salvi e illesi)

e poi le città che conquistò

senza mai varcare il guado del fiume Alis[36]

né mai spingendosi lontano dal focolare avito,

quali dei Traci sono le umide sedi

limitrofe al pelago strimonio[37].

E al di fuori del golfo

rendevano obbedienza al nostro sovrano

le turrite città di terraferma

e le città distese attorno al vasto guado d’Elle

e l’ansa della Propontide

e la bocca del Ponto

e le isole che lungo gli sproni costieri

dell’Asia il mare bagna e circonda,

come Lesbo e Samo feconda di ulivi e Chio e Paro

e Nasso e Micono e Andro che a Teno si attacca.

E dominava le marine città

fra l’una e l’altra sponda, Lemno e Icaro

e Rodi e Cnido e le ciprie Pafo e Soli

e quella Salamina[38] di cui la città madre

è fonte amara di questi gemiti profondi[39].

E dominava con la propria mente

le ricche elleniche città del lotto ionio,

ed era con lui possanza infaticabile di armati

e di ausiliari misti.

Ma ora portiamo il peso

di non ambigua divina mutazione,

noi fiaccati a viva forza dai marini assalti.

Suddito persiano. Bassorilievo, calcare, 490-470 a.C. da Persepolis.

L’esodo

La scena finale ha come protagonista Serse. Il re sconfitto entra con vesti lacere, lamentando di essere vittima di un demone crudele e rimpiangendo di non essere morto insieme ai suoi guerrieri. Il coro risponde senza porgere il reverente saluto di rito al sovrano, limitandosi a manifestare il lamento per i tanti valorosi guerrieri che il re ha mandato a rovina.

Aᴇsᴄʜʟ. 𝑃𝑒𝑟𝑠. 908-930: L’entrata di Serse

Colpisce certamente l’assenza, nelle parole del coro, di ogni conforto a Serse, anzi una certa risolutezza nel sottolineare la sua responsabilità ed una insistente richiesta sul destino dei singoli guerrieri, a cui Serse non può che rispondere sconsolatamente, sentendosi peraltro rigirare il coltello nella piaga. C’è forse più della παρρησία ateniese che quella ossequiosa deferenza persiana; ma il tono del coro dovrà ottenere, secondo quanto Dario aveva raccomandato, che Serse abbandoni ogni propensione alla ὕβρις.

𝐸𝑛𝑡𝑟𝑎 𝑆𝑒𝑟𝑠𝑒 𝑐𝑜𝑛 𝑙𝑒 𝑣𝑒𝑠𝑡𝑖 𝑙𝑎𝑐𝑒𝑟𝑒, 𝑠𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑠𝑐𝑜𝑟𝑡𝑎 𝑒 𝑎 𝑝𝑖𝑒𝑑𝑖.

Sᴇʀsᴇ Oh

me sciagurato!

Oh, me incappato in questa sorte

abominevole imprevedibile!

Con che selvaggia mente un demone

balzò sulla schiatta dei Persiani!

Che sarà di me infelice?

Si discioglie a me la vigoria delle ginocchia

al mirar questi vecchi concittadini.

Ah, Zeus, se fato di morte

anche me avesse coperto

insieme ai guerrieri estinti!

Cᴏʀᴏ Ototoì, mio sovrano,

per la valente armata

per l’onore del grande impero

per lo splendore di questi uomini

che ora un demone ha falciato!

Il suolo grida “ahi, ahi” sull’indigena

gioventù uccisa da Serse, che infarcisce

l’Ade di Persiani.

Molti uomini, fiore di questa contrada,

maestri dell’arco, folta miriade

di guerrieri, sono scomparsi.

Ahi, ahi, per la temprata vigoria!

E l’asiatica terra, o sovrano,

amaramente, amaramente,

è piegata sulle ginocchia.

Serse I di Persia. Bassorilievo, pietra grigia, V sec. a.C. dal Palazzo di Hadish. Persepolis, Sito archeologico.

Aᴇsᴄʜʟ. 𝑃𝑒𝑟𝑠. 931-1077: Il θρῆνος finale

Dopo i precedenti anapesti, comincia il grande θρῆνος finale con le sue sette coppie strofiche concluse dall’epodo. Notevole è il fatto che dal punto di vista formale la conclusione consista in una serie di brevi lamenti alternati a costituire una sticomitia lirica fra Serse e coro. È stato giustamente sottolineato come il dolore e la disperazione trovino in questo finale la loro più completa descrizione, sia nelle espressioni vocali che nei gesti e negli atteggiamenti.

Sᴇʀsᴇ Oh, me sventurato, me di compianto degno,

dunque fui sciagura

alla mia stirpe ed alla terra patria!

Cᴏʀᴏ Intonato al tuo ritorno

manderò al cielo questa voce

che grida sciagure

questa nenia infausta

questo flebile corrotto

di Mariandino[40] lamentatore.

Sᴇʀsᴇ Sì, mischiate al pianto accenti duri

dissonanti. Adesso questo demone

su me si è rovesciato.

Cᴏʀᴏ Sì, leverò accenti mischiati a pianto

per onorare i lutti di questa gente

e i colpi inferti dal mare

alla città alla tua stirpe,

e stridulo lacrimante griderò

compianto di lamentatore.

Sᴇʀsᴇ Degli Ioni l’Ares munito di navi,

degli Ioni l’Ares che inverte le sorti

ci strappò i nostri uomini

falciando la plaga notturna

e il lido sventurato.

Cᴏʀᴏ Ohi, ohi, grida, domanda!

Dov’è la schiera degli altri amici?

Dove sono i tuoi luogotenenti,

Farandace e Susa e Pelagone e Agabate

e Dotame e Psammi e Susiscane

che da Agbatana partì?

Sᴇʀsᴇ Ormai perduti li lasciai

erranti lungi dalla tiria nave

sulle spiagge di Salamina

cozzanti contro duro suolo.

Cᴏʀᴏ Ohi, ohi! E dov’è Farnuco

e Ariomardo valente?

E dov’ è il sire Seualce

e il nobile Lileo?

E Menfi, Taribi, Masistre,

Artembare, Istecme?

Te lo chiedo di nuovo.

Sᴇʀsᴇ Ahimè, ahimè!

Hanno veduto l’antica l’odiosa Atene

e in un sol colpo,

eh, eh, ansimano perduti al suolo.

Cᴏʀᴏ Dunque, anche il fiore dei Persiani,

il tuo fidato occhio,

il numeratore d’infinite schiere,

il figlio di Batanoco, Alpisto,

…………………………………

figlio di Sesame figlio di Megabate,

e Parto e il gigantesco Ebare

li hai lasciati? Oh miseri!

Tu dici ai Persiani illustri

sventure più che sventurate.

Sᴇʀsᴇ E tu a me rinnovi

memore incantamento d’intrepidi compagni

dicendo sventure più che sventurate

e odiose e senza oblio senza oblio per sempre.

Dentro il petto urla, urla il mio cuore.

Cᴏʀᴏ E un altro piangiamo,

Xante, capo d’infiniti guerrieri

mardi[41], e poi Ancare ario[42]

e Diexi e Arsace

cavalieri egregi

ed Egdadate e Litimna

e Tolmo insaziabile di pugna.

Stupisco, stupisco che non seguano

dietro la tenda che avanzava su ruote.

Sᴇʀsᴇ Andati, andati, quei capi dell’armata!

Cᴏʀᴏ Sì, andati, e senza nome.

Sᴇʀsᴇ Iè iè, iò iò!

Cᴏʀᴏ Iò iò! Gli dèi

vollero impreveduto male

che rifulge come l’occhio di Rovina.

Sᴇʀsᴇ Eccoci colpiti (……..)

Cᴏʀᴏ Sì, colpiti, è manifesto.

Sᴇʀsᴇ… da nuova nuova calamità calamità.

Cᴏʀᴏ …perché con sorte ostile

cozzammo in naviganti ellenici.

Ora, sì, che sventurata in guerra

dirai la gente dei Persiani.

Sᴇʀsᴇ E come no? Eccomi colpito, misero me,

in tanta armata.

Cᴏʀᴏ E che cosa non è perduto,

o rovina somma dei Persiani?

Sᴇʀsᴇ Vedi questo brandello della mia veste?

Cᴏʀᴏ Vedo, vedo.

Sᴇʀsᴇ E questo ricettacolo di frecce?

Cᴏʀᴏ Che cosa dici che si è salvato?

Sᴇʀsᴇ Sì, questo forziere di strali.

Cᴏʀᴏ Pochi, di tanti che erano!

Sᴇʀsᴇ Siamo rimasti senza difesa.

Cᴏʀᴏ Il popolo degli Ioni non fugge.

Sᴇʀsᴇ Sì, è troppo combattivo.

Danno io vidi inaspettato.

Cᴏʀᴏ Vuoi dire del nostro stuolo,

delle nostre navi volte in rotta?

Sᴇʀsᴇ Mi squarciai la veste per il dolore.

Cᴏʀᴏ Papaì papaì!

Sᴇʀsᴇ E ancor più di papaì.

Cᴏʀᴏ I mali sono doppi e tripli.

Sᴇʀsᴇ A noi disperazione ed ai nemici gioia.

Cᴏʀᴏ Fu mozzata la nostra forza!

Sᴇʀsᴇ Sono ignudo di scorta.

Cᴏʀᴏ Per la rovina dei tuoi, in mare.

Sᴇʀsᴇ Piangi piangi il disastro

e incammìnati verso la casa.

Cᴏʀᴏ Ahi ahi, sciagura!

Sᴇʀsᴇ Grida, sì, fammi eco.

Cᴏʀᴏ Dono amaro di pene.

Sᴇʀsᴇ Gemi un canto all’unisono con me.

Cᴏʀᴏ Ototototoì!

Duro è questo danno!

E grande il dolore!

Sᴇʀsᴇ Batti, battiti il capo e piangi per me!

Cᴏʀᴏ Piango, mi bagno di lacrime.

Sᴇʀsᴇ Grida, sì, fammi eco.

Cᴏʀᴏ Ne ho ben ragione, mio signore.

Sᴇʀsᴇ E, dunque, leva in alto il lamento.

Cᴏʀᴏ Ototototoì!

E ai lamenti si mischierà,

oh, querulo colpo.

Sᴇʀsᴇ Battiti il petto e grida al modo dei Misi.

Cᴏʀᴏ Dolore, dolore!

Sᴇʀsᴇ E per me saccheggia

il candido pelo del mento.

Cᴏʀᴏ A pugni stretti, a pugni stretti,

fra singhiozzi cupi.

Sᴇʀsᴇ Grida acuto strazio.

Cᴏʀᴏ Così farò.

Sᴇʀsᴇ Sul petto squarcia la veste con l’unghia.

Cᴏʀᴏ Dolore, dolore!

Sᴇʀsᴇ Stràppati il crine, piangi l’armata!

Cᴏʀᴏ A pugni stretti, a pugni stretti,

fra singhiozzi cupi.

Sᴇʀsᴇ E bagna gli occhi!

Cᴏʀᴏ Ecco, li bagno.

Sᴇʀsᴇ Grida, sì, fammi eco.

Cᴏʀᴏ Ohi, ohi!

Sᴇʀsᴇ Urla “ahi, ahi” e incammìnati verso la casa.

Cᴏʀᴏ Iò, iò, terra persiana!

Terra degna di cupo latrato!

Sᴇʀsᴇ Gemito invade la città.

Cᴏʀᴏ Gemito, certo, sì, sì.

Sᴇʀsᴇ Piangete in molle cadenza di passi!

Cᴏʀᴏ Iò, iò, terra persiana!

Terra degna di cupo latrato!

Sᴇʀsᴇ Eh, eh! morti su navi,

eh, eh, morti su navi a tre file di remi!

Cᴏʀᴏ Ti scorterò con lugubri lamenti.

𝐸𝑠𝑐𝑜𝑛𝑜 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑖.


[1] La reggia della città di Susa, capitale della Susiana e sede centrale dell’impero achemenide.

[2] In realtà, come testimonia Hᴅᴛ. VII 52, Serse affidò ad Artabano la reggenza durante la propria assenza.

[3] Capitale della Media.

[4] Gli abitanti della regione del Delta nilotico.

[5] Capitale della Lidia.

[6] L’Ellesponto (il «mare di Elle»), cioè lo stretto dei Dardanelli. Elle era figlia del re beota Atamante e di Nefele, la quale, per salvarla dall’odio della matrigna Ino, seconda moglie di Atamante, la fece fuggire in volo col fratello Frisso verso la Colchide su un montone dal vello d’oro. Durante il viaggio Elle precipitò nello stretto di mare che da lei prese il nome.

[7] Allusione al ponte di barche fatto costruire da Serse e descritto da Hᴅᴛ. VII 36.

[8] Allusione alla saga di Perseo, nato da Danae, che era stata fecondata da Zeus disceso dal cielo in forma di pioggia d’oro. La famiglia reale persiana degli Achemenidi faceva risalire le proprie origini a Perseo in quanto questi aveva avuto da Andromeda un figlio di nome Perse.

[9] Personificazione dello stesso «inganno del dio» poc’anzi menzionato.

[10] La divinità che presiede alla distribuzione a ciascuno della sua «parte».

[11] «Con queste parole viene sottolineato il momento decisivo nella storia dei Persiani: distruggere città, condurre guerre sulla terraferma, questo era loro lecito; ma varcare il mare e pertanto trasgredire sconsideratamente i limiti posti loro dagli dèi, a ciò li ha indotti Ate» (P. Groeneboom).

[12] Così erano denominati dai Persiani tutti gli Elleni in generale.

[13] «In quanto opposte a “persiane” = greche. Secondo Erodoto (V 88) il chitone dorico (corto e senza maniche) era l’abito universalmente indossato dalle donne elleniche del tempo antico. In Atene, d’altra parte, il chitone ionico (lungo fino ai piedi e con maniche) fu introdotto nel sesto secolo e diventò sempre più popolare. Al tempo della rappresentazione dei 𝑃𝑒𝑟𝑠𝑖𝑎𝑛𝑖 le donne ateniesi indossavano sia l’uno che l’altro […]. Perché dunque Eschilo preferì menzionare l’abito dorico? Perché le donne greche d’Asia ma anche persiane […] indossavano il chitone ionico, che era pertanto inadatto a differenziare l’abito delle donne greche rispetto a quello delle donne persiane» (H.D. Broadhead).

[14] Salamina.

[15] Un isolotto roccioso vicino a Salamina.

[16] Erano una tribù della Media (cfr. Hᴅᴛ. I 101).

[17] Che Atossa ignori il sacco di Atene attuato da Serse è un falso storico, ma Eschilo può così fare in modo che la risposta del messo suoni come un elogio alla reale forza di Atene, cioè ai suoi uomini.

[18] Probabilmente si tratta di Sicinno di Tespie, che agì su incarico di Temistocle (cfr. Hᴅᴛ. VIII 75).

[19] Inno in onore di Apollo. La stessa sequenza peana/squillo di tromba/grido di battaglia si trova

in Xᴇɴ. 𝐴𝑛𝑎𝑏. V 2, 14; VI 5, 27.

[20] La flotta persiana si trova schiacciata fra l’isola di Salamina e la terraferma attica, senza libertà di manovra.

[21] Fiume che separa la Macedonia orientale dalla Tracia.

[22] Hᴅᴛ. I 131 ricorda che i Persiani facevano sacrifici al sole, alla luna, alla terra, al fuoco, all’acqua, ai venti. D’altra parte, un simile tipo di preghiera non manca di riscontri in Grecia.

[23] L’immagine del demone (o della sorte) che «salta» addosso alla vittima è ricorrente in tragedia: cfr. Aᴇsᴄʜʟ. 𝐴𝑔. 1175; 𝐸𝑢𝑚. 372 ss.; Sᴏᴘʜ. 𝑂𝑇 263; 𝐴𝑛𝑡. 1345-1346.

[24] Nel testo è βαρίδεσσι, un termine d’origine egiziana («bari» in copto), che non a caso Eschilo fa pronunciare anche all’araldo egiziano in 𝑆𝑢𝑝𝑝𝑙. 836-837; 873. Denota chiatte nilotiche in Hᴅᴛ. II 41.

[25] Cioè di Salamina. Da Cicreo, eroe indigeno, che sarebbe apparso agli Ateniesi in figura di serpente nel corso della battaglia (cfr. Pᴀᴜs. I 36).

[26] Perifrasi per indicare i pesci. L’espressione ricalca il modulo arcaico della 𝑘𝑒𝑛𝑛𝑖𝑛𝑔 (indovinello): un altro esempio si ha al v. 612 (l’«operaia dei fiori» per designare l’ape).

[27] Altro nome di Ade (cfr. 𝐼𝑙. V 190).

[28] «Qui si tace della spedizione contro gli Sciti e di Maratona: la luce deve cadere su Dario, l’ombra su Serse» (P. Groeneboom).

[29] Come i dannati danteschi (cfr. 𝐼𝑓. X 100-104: «Noi veggiam come quei c’ha mala luce/ le cose – disse – che ne son lontano;/ cotanto ancor ne splende il sommo duce./ Quando s’appressano o son, tutto è vano/ nostro intelletto… »), Dario conosce il futuro, ma non il presente.

[30] Cambise, su cui Hᴅᴛ. III 80 dà un giudizio decisamente negativo.

[31] Corrisponde al falso Smerdis di Hᴅᴛ. III 61 ss. Il suo vero nome, come si apprende dall’iscrizione di Behistùn, era Gautama.

[32] Corrisponde all’Intaferne di Hᴅᴛ. III 70.

[33] L’ombra di Dario allude alle truppe di terra persiane che, sotto il comando di Mardonio, sverneranno nella Grecia centrale e saranno sconfitte l’estate successiva (479) a Platea dalle falangi oplitiche comandate da Pausania. Il nucleo della profezia di Dario costituisce un tributo leale dell’ateniese Eschilo alla vittoria spartana: se Salamina è ateniese, Platea è spartana. Certo la profezia, è stato notato, appare di una precisione, anche nei particolari, contrastante con l’iniziale ignoranza dei fatti recenti da parte di Dario, ma non bisogna dimenticare che qui opera la conoscenza divina.

[34] Un punto di vista persiano (vendetta contro l’incendio dei templi di Sardi, perpetrato dagli Ioni d’Asia) viene espresso in Hᴅᴛ. VI 101: «Nel settimo giorno Euforbo, figlio di Alcimaco, e Filagro, figlio di Cinea, cittadini eminenti, consegnarono la città [di Eretria] ai Persiani. E quelli, entrati in città, dopo aver saccheggiato i santuari, li dettero alle fiamme vendicando i santuari incendiati a Sardi, mentre fecero schiavi gli uomini secondo gli ordini di Dario» (cfr. anche Hᴅᴛ. V 102).

[35] Può apparire sorprendente questa attenzione per il decoro delle vesti, di fronte a un disastro di tale portata: non c’è in Eschilo intenzione satirica, ma lo scrupolo di riprodurre la mentalità persiana, per quanto estranea al costume e alla sensibilità ellenica.

[36] Costituiva il confine naturale fra Medi e Lidi (cfr. Hᴅᴛ. I 72). Eschilo, peraltro, omette intenzionalmente di ricordare la fallimentare spedizione di Dario contro gli Sciti.

[37] Golfo in cui sfocia il fiume Strimone che scende lungo il territorio dei Traci, oggi Golfo di Orfani.

[38] Si tratta di Salamina di Cipro, che Teucro fondò dopo essere stato cacciato via da Salamina attica dal padre Telamone (che lo accusava di non aver saputo evitare il suicidio del fratellastro Aiace).

[39] L’enumerazione geografica è stata da alcuni criticata come pedante e prolissa, indegna della genuina maniera eschilea; ma, a parte il fatto che sia il 𝑃𝑟𝑜𝑚𝑒𝑡𝑒𝑜 𝑖𝑛𝑐𝑎𝑡𝑒𝑛𝑎𝑡𝑜 sia l’𝐴𝑔𝑎𝑚𝑒𝑛𝑛𝑜𝑛𝑒 contengono passi che mostrano l’interesse del poeta per tali precisazioni geografiche, non va trascurato l’effetto che doveva avere, sul pubblico ateniese e su quello delle città alleate, il ricordo delle tante isole e città che Dario aveva incorporato nel suo impero, e che Atene aveva liberato dall’umiliante condizione di tributarie del re.

[40] I Mariandini erano una tribù della Bitinia, forse già nota per i riti di lamentazione in onore di un giovane eroe di nome Bormo o Mariandino.

[41] Tribù persiana nomade.

[42] Gli Arii erano una popolazione stanziata nella zona di Samarcanda (nell’od. Uzbekistan).

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