Tebe, che si era ribellata ad Alessandro, fu distrutta dall’esercito macedone nell’ottobre del 335 a.C. a monito di chiunque avesse osato ostacolare il nuovo re: la città fu saccheggiata con l’entusiastica partecipazione dei Beoti ostili ai Tebani (Plateesi, Tespiesi, Orcomeni), 6.000 cittadini rimasero uccisi e i 30.000 superstiti furono fatti prigionieri e venduti come schiavi. Durante il saccheggio, tra le diverse disgrazie che colpirono la città, la tradizione plutarchea risalente ad Aristobulo di Cassandrea (FGrHist. 139 F 2b, apud Plut. Mul. virt. 259d-260d) riporta l’episodio di Timoclea, sorella di Teagene, il generale che tre anni prima aveva guidato la falange tebana contro l’armata di Filippo ed era caduto sul campo a Cheronea.

[259e] ἀποθανόντι δ’ αὐτῷ περιῆν ἀδελφὴ μαρτυροῦσα κἀκεῖνον ἀρετῇ γένους καὶ φύσει μέγαν ἄνδρα καὶ λαμπρὸν γενέσθαι· πλὴν ταύτῃ γε καὶ χρηστὸν ἀπολαῦσαί τι τῆς ἀρετῆς ὑπῆρξεν, ὥστε κουφότερον, ὅσον τῶν κοινῶν ἀτυχημάτων εἰς αὐτὴν ἦλθεν, ἐνεγκεῖν. ἐπεὶ γὰρ ἐκράτησε Θηβαίων Ἀλέξανδρος, ἄλλοι δ’ ἄλλα τῆς πόλεως ἐπόρθουν ἐπιόντες, ἔτυχε τῆς Τιμοκλείας τὴν οἰκίαν καταλαβὼν ἄνθρωπος οὐκ ἐπιεικὴς οὐδ’ ἥμερος ἀλλ’ ὑβριστὴς καὶ ἀνόητος· ἦρχε δὲ Θρᾳκίου τινὸς ἴλης καὶ ὁμώνυμος ἦν τοῦ βασιλέως οὐδὲν δ’ ὅμοιος. οὔτε γὰρ τὸ γένος οὔτε τὸν βίον αἰδεσθεὶς τῆς γυναικός, ὡς ἐνέπλησεν [f] ἑαυτὸν οἴνου, μετὰ δεῖπνον ἐκάλει συναναπαυσομένην. καὶ τοῦτο πέρας οὐκ ἦν· ἀλλὰ καὶ χρυσὸν ἐζήτει καὶ ἄργυρον, εἴ τις εἴη κεκρυμμένος ὑπ’ αὐτῆς, τὰ μὲν [ὡς] ἀπειλῶν τὰ δ’ ὡς ἕξων διὰ παντὸς ἐν τάξει γυναικός. ἡ δὲ δεξαμένη λαβὴν αὐτοῦ διδόντος ‘ὤφελον μέν’ εἶπε ‘τεθνάναι πρὸ ταύτης ἐγὼ τῆς νυκτὸς ἢ ζῆν, ‹ὥστε› τὸ γοῦν σῶμα πάντων ἀπολλυμένων ἀπείρατον ὕβρεως διαφυλάξαι· [260a] πεπραγμένων δ’ οὕτως, εἴ σε κηδεμόνα καὶ δεσπότην καὶ ἄνδρα δεῖ νομίζειν, τοῦ δαίμονος διδόντος, οὐκ ἀποστερήσω σε τῶν σῶν· ἐμαυτὴν γάρ, ὅ τι βούλῃ σύ, ὁρῶ γεγενημένην. ἐμοὶ περὶ σῶμα κόσμος ἦν καὶ ἄργυρος ἐν ἐκπώμασιν, ἦν τι καὶ χρυσοῦ καὶ νομίσματος. ὡς δ’ ἡ πόλις ἡλίσκετο, πάντα συλλαβεῖν κελεύσασα τὰς θεραπαινίδας ἔρριψα, μᾶλλον δὲ κατεθέμην εἰς φρέαρ ὕδωρ οὐκ ἔχον· οὐδ’ ἴσασιν αὐτὸ πολλοί· πῶμα γὰρ ἔπεστι καὶ κύκλῳ περιπέφυκεν ὕλη σύσκιος. ταῦτα σὺ μὲν εὐτυχοίης λαβών, ἐμοὶ δ’ ἔσται πρός σε μαρτύρια [b] καὶ γνωρίσματα τῆς περὶ τὸν οἶκον εὐτυχίας καὶ λαμπρότητος.’ ἀκούσας οὖν ὁ Μακεδὼν οὐ περιέμεινε τὴν ἡμέραν, ἀλλ’ εὐθὺς ἐβάδιζεν ἐπὶ τὸν τόπον, ἡγουμένης τῆς Τιμοκλείας· καὶ τὸν κῆπον ἀποκλεῖσαι κελεύσας, ὅπως αἴσθοιτο μηδείς, κατέβαινεν ἐν τῷ χιτῶνι. στυγερὰ δ’ ἡγεῖτο Κλωθὼ τιμωρὸς ὑπὲρ τῆς Τιμοκλείας ἐφεστώσης ἄνωθεν. ὡς δ’ ᾔσθετο τῇ φωνῇ κάτω γεγονότος, πολλοὺς μὲν αὐτὴ τῶν λίθων ἐπέφερε πολλοὺς δὲ καὶ μεγάλους αἱ θεραπαινίδες ἐπεκυλίνδουν, ἄχρι οὗ κατέκοψαν αὐτὸν καὶ κατέχωσαν. ὡς δ’ ἔγνωσαν οἱ Μακεδόνες καὶ τὸν νεκρὸν ἀνείλοντο κηρύγματος ἤδη γεγονότος [c] μηδένα κτείνειν Θηβαίων, ἦγον αὐτὴν συλλαβόντες ἐπὶ τὸν βασιλέα καὶ προσήγγειλαν τὸ τετολμημένον. ὁ δὲ καὶ τῇ καταστάσει τοῦ προσώπου καὶ τῷ σχολαίῳ τοῦ βαδίσματος ἀξιωματικόν τι καὶ γενναῖον ἐνιδὼν πρῶτον ἀνέκρινεν αὐτὴν τίς εἴη γυναικῶν. ἡ δ’ ἀνεκπλήκτως πάνυ καὶ τεθαρρηκότως εἶπεν ‘ἐμοὶ Θεαγένης ἦν ἀδελφός, ὃς ἐν Χαιρωνείᾳ στρατηγῶν καὶ μαχόμενος πρὸς ὑμᾶς ὑπὲρ τῆς τῶν Ἑλλήνων ἐλευθερίας ἔπεσεν, ὅπως ἡμεῖς μηδὲν τοιοῦτον πάθωμεν· ἐπεὶ δὲ πεπόνθαμεν ἀνάξια τοῦ γένους, ἀποθανεῖν οὐ φεύγομεν· οὐδὲ γὰρ ἄμεινον ἴσως ζῶσαν ἑτέρας πειρᾶσθαι νυκτός, εἰ σὺ [d] τοῦτο μὴ κωλύσεις.’ οἱ μὲν οὖν ἐπιεικέστατοι τῶν παρόντων ἐδάκρυσαν, Ἀλεξάνδρῳ δ’ οἰκτείρειν μὲν οὐκ ἐπῄει τὴν ἄνθρωπον ὡς μείζονα συγγνώμης πράξασαν, θαυμάσας δὲ τὴν ἀρετὴν καὶ τὸν λόγον εὖ μάλα καθαψάμενον αὐτοῦ, τοῖς μὲν ἡγεμόσι παρήγγειλε προσέχειν καὶ φυλάττειν, μὴ πάλιν ὕβρισμα τοιοῦτον εἰς οἰκίαν ἔνδοξον γένηται, τὴν δὲ Τιμόκλειαν ἀφῆκεν αὐτήν τε καὶ πάντας, ὅσοι κατὰ γένος αὐτῇ προσήκοντες εὑρέθησαν.
«… Morendo, aveva lasciato una sorella a testimoniare di essere stato, per valore della stirpe e per carattere, un uomo grande e illustre. Inoltre, trasse lei stessa beneficio dalle proprie virtù, cosicché riuscì a sopportare più facilmente quanto, delle sventure comuni, capitò a lei. Quando infatti Alessandro sconfisse i Tebani, chi andava da una parte della città, chi dall’altra, saccheggiando, accadde che un uomo, non certo mite e ragionevole, ma anzi, arrogante e violento, s’impadronì della casa di Timoclea. Era il comandante di uno squadrone di Traci e, sebbene fosse omonimo del re, non era in nulla simile a lui. Non avendo rispetto per la nobiltà della donna né per la vita di lei, dopo essersi riempito di vino, dopo cena, la mandava a chiamare, per passare la notte con lei. E questo non era tutto: cercava anche oro e argento, se per caso lei ne tenesse nascosto in casa, da una parte minacciando di ucciderla, dall’altra promettendo di tenersela con sé come una moglie. Timoclea, colta al volo l’occasione che le si presentava, disse: “Meglio sarebbe stato essere morta prima di questa notte, piuttosto che continuare a vivere! Ora che tutto è perduto, avrei almeno preservato il mio corpo dalla violenza! Ma stando così le cose, se devo considerarti come protettore, signore e marito, poiché lo vogliono gli dèi, non ti priverò di ciò che è tuo. Io stessa, come vedo, sono diventata ciò che vuoi tu. Avevo dei gioielli personali e coppe d’argento, e anche un po’ di oro e denaro. Quando la città fu presa, ho ordinato alle mie ancelle di raccogliere tutto e poi ho gettato, o meglio, ho depositato il tutto in un pozzo prosciugato. Non lo conoscono in molti; infatti, c’è una copertura sopra ed è circondato da fitta vegetazione. Spero che tu abbia fortuna nel prenderli, saranno per te la prova e la testimonianza di quanto fosse felice e prospera questa casa!”. Non appena il Macedone ebbe udito ciò, non aspettò nemmeno che facesse giorno, ma subito si recò al luogo indicatogli, facendosi condurre da Timoclea: e, dopo aver ordinato che il giardino fosse chiuso, per non essere visto da nessuno, si calò nel pozzo con indosso solo la tunica. Ma l’orrenda Cloto lo guidava, vendicatrice per mano di Timoclea, che era rimasta in superficie. Quando, dalla voce, capì che quello era giunto sul fondo, lei stessa portò molte pietre, mentre le serve facevano rotolare quelle più grandi e continuarono a colpirlo finché non lo seppellirono. Quando i Macedoni vennero a sapere del misfatto e recuperarono il cadavere, siccome era già stato dato l’ordine di non uccidere altri Tebani, catturarono Timoclea e la condussero davanti al re, a cui raccontò ciò che aveva osato fare. Ma quello, riconoscendo nell’espressione del suo viso e nella gravità del suo incedere l’alto rango e la nobiltà di stirpe, per prima cosa le chiese chi fosse. E lei, per nulla intimorita e con grande coraggio, rispose: “Teagene era mio fratello, che fu generale a Cheronea ed è caduto combattendo contro di voi per la libertà dei Greci, affinché non dovessimo subire ciò che ora ci sta capitando. Ma, dopo aver tollerato cose tanto indegne della mia stirpe, io non temo la morte. Anzi, forse sarebbe meglio, piuttosto che vivere per sopportare un’altra notte come questa, a meno che tu non ponga fine a tutto questo!”. Allora, i più sensibili tra i presenti si commossero, ma ad Alessandro non capitò di compatire quella donna, avendo lei commesso cose tanto gravi per essere perdonata, ma piuttosto, avendone ammirato il valore e le parole, sebbene lo attaccassero apertamente, ordinò ai suoi generali di fare attenzione e di impedire che non accadessero simili violenze nei confronti delle famiglie illustri. Infine, rilasciò Timoclea e tutti quelli che furono riconosciuti come suoi parenti».
(Plut. Mul. virt. 259e-260d)
La medesima vicenda è narrata da Plutarco anche nella Vita Alexandri, pur con qualche lieve differenza:
[12. 1] Ἐν δὲ τοῖς πολλοῖς πάθεσι καὶ χαλεποῖς ἐκείνοις ἃ τὴν πόλιν κατεῖχε Θρᾷκές τινες ἐκκόψαντες οἰκίαν Τιμοκλείας, γυναικὸς ἐνδόξου καὶ σώφρονος, αὐτοὶ μὲν τὰ χρήματα διήρπαζον, ὁ δ’ ἡγεμὼν τῇ γυναικὶ πρὸς βίαν συγγενόμενος καὶ καταισχύνας, ἀνέκρινεν εἴ που χρυσίον [2] ἔχοι κεκρυμμένον ἢ ἀργύριον. ἡ δ’ ἔχειν ὡμολόγησε, καὶ μόνον εἰς τὸν κῆπον ἀγαγοῦσα καὶ δείξασα φρέαρ, ἐνταῦθ’ ἔφη τῆς πόλεως ἁλισκομένης καταβαλεῖν αὐτὴ τὰ τιμιώτατα [3] τῶν χρημάτων. ἐγκύπτοντος δὲ τοῦ Θρᾳκὸς καὶ κατασκεπτομένου τὸν τόπον, ἔωσεν αὐτὸν ἐξόπισθεν γενομένη, καὶ τῶν λίθων ἐπεμβαλοῦσα πολλοὺς ἀπέκτεινεν.
[4] ὡς δ’ ἀνήχθη πρὸς Ἀλέξανδρον ὑπὸ τῶν Θρᾳκῶν δεδεμένη, πρῶτον μὲν ἀπὸ τῆς ὄψεως καὶ τῆς βαδίσεως ἐφάνη τις ἀξιωματικὴ καὶ μεγαλόφρων, ἀνεκπλήκτως καὶ [5] ἀδεῶς ἑπομένη τοῖς ἄγουσιν· ἔπειτα τοῦ βασιλέως ἐρωτήσαντος ἥτις εἴη γυναικῶν, ἀπεκρίνατο Θεαγένους ἀδελφὴ γεγονέναι τοῦ παραταξαμένου πρὸς Φίλιππον ὑπὲρ τῆς τῶν Ἑλλήνων ἐλευθερίας καὶ πεσόντος ἐν Χαιρωνείᾳ [6] στρατηγοῦντος. θαυμάσας οὖν ὁ Ἀλέξανδρος αὐτῆς καὶ τὴν ἀπόκρισιν καὶ τὴν πρᾶξιν, ἐκέλευσεν ἐλευθέραν ἀπιέναι μετὰ τῶν τέκνων.
«Tra le molte sventure e le gravi crudeltà che la città patì, ci fu questa: alcuni Traci irruppero con la forza in casa di Timoclea, donna onorata e saggia, e ne rapinarono le ricchezze, mentre il loro comandante, dopo averle fatto vergognosa violenza, le chiese se avesse nascosto da qualche parte dell’oro e dell’argento. Ella ammise di averne, lo condusse, lui solo, in giardino e gli indicò il pozzo nel quale disse di aver personalmente gettato, mentre la città veniva presa, quanto di più prezioso possedeva. Il Trace si sporse a esaminare il luogo ed ella, alle sue spalle, lo spinse giù e, lanciategli addosso parecchie pietre, lo uccise.
Quando fu condotta in catene dai Traci da Alessandro, dal suo modo d’incedere e di guardare ella apparve anzitutto donna degna di ossequio e magnanima, tanto grandi erano la sicurezza e la calma con le quali seguiva le guardie; poi, come il re le chiese chi fosse, lei rispose di essere la sorella di Teagene, colui che era sceso in campo contro Filippo per la libertà dei Greci e che era caduto a Cheronea da generale. Alessandro, ammirandone la risposta e la vicenda, ordinò che andasse libera insieme con i suoi figli».
(Plut. Alex. 12)
In entrambe le versioni l’atteggiamento magnanimo di Alessandro nei confronti della donna tebana suggerisce che Plutarco abbia voluto narrare questo episodio per dimostrare che il saccheggio e la distruzione di Tebe da parte del giovane sovrano non fu soltanto un atto di aggressione e di brutalità (Pearson 1960, 155); inoltre, questa vicenda costituisce anche la prima di una serie di storie in cui Alessandro mostrò benevolenza e clemenza ai parenti dei propri nemici sconfitti (ibid. n. 32; Stadter 1965, 113). Benché il passo della Vita Alexandri sia una versione più breve dell’aneddoto delle Mulierum virtutes, è indubbio che l’opera di Aristobulo di Cassandrea sia la fonte comune; inoltre, pur integrando la storia di Timoclea nella narrazione biografica, Plutarco sembra aver conservato lo stile dell’originale nelle Mulierum virtutes con la sua descrizione drammatica e il vivido ricorso ai dettagli, soprattutto nella scena del giardino (Stadter 1965, 113-114). In seguito, anche Polieno riprese la vicenda di Timoclea nei suoi Stratagemata (Pol. VIII 40), inserendovi alcune piccole variazioni.
L’aneddoto divenne fonte di ispirazione anche per i pittori del Barocco italiano, come testimoniano la Timoclea prigioniera davanti ad Alessandro Magno (c. 1610) di Domenichino, la Timoclea innanzi ad Alessandro (c. 1650) di Pietro della Vecchia e la Timoclea che uccide il capitano di Alessandro Magno (1659) di Elisabetta Sirani (Spencer 2002, 40; Baynham 2009, 303).
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Bibliografia:
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L. Pᴇᴀʀsᴏɴ, The Lost Histories of Alexander the Great, Philadelphia 1960.
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P.A. Sᴛᴀᴅᴛᴇʀ, Plutarch’s Historical Methods: an Analysis of the Mulierum virtutes, Cambridge MA 1965.
I. Wᴏʀᴛʜɪɴɢᴛᴏɴ, Alexander’s Destruction of Thebes, in W. Eᴄᴋᴇʟ, L.A. Tʀɪᴛʟᴇ (eds.), Crossroads of History: the Age of Alexander, Claremont 2003, 65-86.
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