Gli dèi omerici

di G. SISSA, M. DETIENNE, La vita quotidiana degli dèi greci, Roma-Bari 1987, 7 ss.

Una serie di giornate assolate e di notti scure: accadimenti singolari e improvvisi si susseguono sullo sfondo di una temporalità sicura, continua, piena di abitudini, nutrita di inezie. In primo piano, nel movimento del racconto, si urtano gli incidenti e i sussulti di una guerra che, d’un tratto, è divenuta epica e febbrile allorché, per una questione d’onore, è esplosa la collera di un eroe. Il campo di battaglia si trova nel paese degli uomini, sulle rive dello Scamandro, ma gli dèi vi sono ben più che coinvolti: la dirigono, la fomentano, si ostinano in essa. Prendono le decisioni e le armi. La guerra di Troia appartiene a loro. Chi strappa gli eserciti al torpore, alla tensione immobile, all’attesa vana in cui sono inutilmente trascorsi anni interi? Chi stabilisce la strategia di quelle memorabili giornate di sortite, imboscate, assalti e duelli? È Zeus, il padre degli dèi e degli uomini, a spezzare la monotonia dell’assedio, nel momento in cui risponde alle lagnanze di una dea offesa nella persona di suo figlio. È lui a decidere quando ordinare la risoluzione e la fine del conflitto.

Divinità barbata (Zeus o Hermes). Testa, marmo pentelico, 450-440 a.C. ca. dal Pireo. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Al re degli Argivi egli invia un messaggio, un sogno mendace, e scatena così il terribile scontro che si concluderà con la presa della città. E il sogno, pur ingannando Agamennone riguardo ai suoi successi immediati, non nasconde la natura divina della sua origine. L’immagine parlante che appare al re addormentato, col viso di Nestore, venerabile consigliere, evoca infatti l’assemblea degli abitanti dell’Olimpo: «Gli Immortali, abitanti dell’Olimpo, non hanno più opinioni divergenti. Tutti si sono piegati alla preghiera di Hera. I Troiani sono ormai votati alla sventura». Una discordia fra gli dèi paralizzava ogni attività; il segno di un dio riscuote dall’inerzia.

Per il poeta dell’Iliade, la dinamica della guerra di Troia e la storia frenetica delle sue battaglie sono nelle mani degli abitanti dell’Olimpo. La lite tra Achille e il suo re costituisce un’occasione, un accidente originario. «Canta, o dea, l’ira di Achille, figlio di Peleo»; così ha inizio il poema. Ma l’autore, il motore affatto mobile di tale diverbio fra un eroe, figlio di una dea, e un re di ceppo mortale, è un dio. Certo, il poeta chiede alla dea che il racconto si svolga a partire dal momento «in cui una lite improvvisa oppose il figlio di Atreo, protettore del suo popolo, e il divino Achille». Ma questo inizio ne cela un altro. All’origine della disputa che oppone l’uno all’altro un re e il suo miglior paladino si delinea un’altra causa, decisiva e divina. «Quale degli dèi, dunque, ha seminato discordia fra loro in una tale lite e battaglia?», domanda il poeta. E Apollo fa la sua comparsa, da protagonista. All’origine della lite sta dunque il figlio di Latona e di Zeus: è lui che ha visto il capo degli Achei trattare sprezzantemente uno dei suoi sacerdoti, è lui che «scende dalle vette dell’Olimpo, con cuore corrucciato», per vendicarsi. Agamennone ha rifiutato di restituire a Crise, sacerdote di Apollo, la figlia, una giovane che egli aveva scelto come sua parte di bottino in occasione della conquista di Crisea. Ma è lo stesso Apollo a ritenersi oltraggiato nella persona del suo ministro: la tracotanza del re lo riguarda e lo colpisce. Reagisce. Fa irruzione in quel tempo uggioso nel quale ormai nulla più accadeva. È lui, dunque, a inaugurare il tempo della guerra movimentata e narrata. Quanto all’origine prima dell’offesa recata da Agamennone al sacerdote e al suo dio, questa sembra essere l’effetto dell’arroganza tutta umana del re. Ma l’intero svolgimento della guerra si inscrive, non bisogna dimenticarlo, nei disegni di Zeus.

Pittore di Villa Giulia. Scena con coro femminile. Pittura vascolare a figure rosse da un calyx-krater, 460 a.C. c. da Falerii. Roma, Museo Nazionale di Villa Giulia.

Per la sua incursione nel mondo umano, per venire ad appostarsi, simile alla notte, presso le navi greche, Apollo lascia la sua casa, una dimora ben costruita nel feudo montano degli Immortali, il massiccio dell’Olimpo, nella parte nord-orientale della Grecia continentale. Come tutti i suoi simili, quando si mescolano agli uomini, Apollo all’inizio dell’Iliade deve fare un viaggio, vale a dire percorrere molto velocemente la distanza che separa due spazi: quello delle sue azioni puntuali, nel caso specifico la pianura di Troia, e quello della sua esistenza quotidiana. Due spazi, due tempi: l’intrigo cavalleresco, il dramma che occupa il proscenio, si staglia – come abbiamo detto – su un fondale di costumi, abitudini, gesti ripetuti. Questo secondo piano è talora percepibile grazie a notazioni rapide, che si insinuano nel racconto, en passant, con l’aiuto di una pausa, come l’allusione alla grossa nuvola che le Ore spostano, a mo’ di porta, all’ingresso dell’Olimpo, o l’evocazione delle maniere a tavola. Ma gli indizi di una vita divina, quasi un paesaggio appena delineato in prospettiva, compongono di fatto un altro quadro, obbligano a presupporre l’esistenza di un altro teatro per le imprese degli dèi. Quello di una vita loro propria, autonoma e parallela. Lunghe scene vi si svolgono: assemblee e conversazioni, banchetti e alterchi, nel palazzo di Zeus o sulle vette che lo circondano. Viaggi, incontri, liti: gli dèi si muovono in questo altrove in cui i giorni succedono ai giorni, secondo un ritmo assolutamente simile a quello noto ai mortali. Si muovono, agiscono, si spostano, ma anche si riposano: sanno abbandonarsi allo scorrere del tempo, all’ozio, al ritorno delle ore. Il lettore di Omero ha l’illusione perfetta che gli abitanti dell’Olimpo formino una società a parte, completa e indipendente: relativamente animata, essa ha una storia evenemenziale che non sempre si intreccia a quella dei mangiatori di pane. Ha conosciuto passaggi di potere e sedizioni. La sua struttura gerarchica e genealogica è continuamente esposta al rischio del conflitto. Ma questa società possiede anche una profonda stabilità, fondata su un sistema di comportamenti e di rappresentazioni: gli abitanti dell’Olimpo obbediscono a regole, seguono costumi, hanno una coscienza assai precisa della loro identità etnica.

La società degli Immortali invita alla storia e all’etnografia. La grande partizione culturale che divide in due il mondo iliadico non è quella che distingue i Greci dai Troiani: la somiglianza degli uomini tra loro è pressoché totale. Tutti i mortali, quale che sia la loro origine, ellenica o asiatica, parlano la stessa lingua, indossano armature che possono scambiarsi senza alcun problema, mangiano allo stesso modo lo stesso cibo, sacrificano agli stessi dèi. Rispetto a essi nel loro insieme, sono gli Immortali a figurare come nazione eterogenea. Hanno una propria lingua, un cibo specifico, fanno un uso dei metalli che è loro peculiare: il bronzo per le case, l’oro per le suppellettili e i mobili; essi stessi sono colmi di una sostanza vitale che non è sangue. Accanto alle caratteristiche propriamente divine, agli innumerevoli poteri di cui danno prova – spostarsi con una velocità che annulla il tempo, mutare di forma, rendersi invisibili, dare o sottrarre forza – gli abitanti dell’Olimpo mostrano un insieme di tratti culturali in senso proprio. Essi non sono semplicemente dèi, esseri sovrannaturali caratterizzati da un’onnipotenza virtuale e immobile. Sono gli abitanti dell’Olimpo, mangiatori d’ambrosia, amatori di musica apollinea […].

Assemblea degli dèi. Bassorilievo, marmo, 530-525 a.C. ca., dal Tesoro dei Sifni, Santuario di Apollo Delfico. Delfi, Museo Archeologico Nazionale.

L’amore […] introduce un intero campo dove la dissomiglianza fra dèi e mortali sembra sfumare definitivamente, dove nulla viene a rammentare che gli uni sarebbero meglio equipaggiati degli altri per condurre la propria esistenza. È, questa, la dimensione degli umori e dei luoghi del corpo – cuore (θυμός e κῆρ), diaframma (φρήν), petto (στῆθος) – corrispondenti alla causa e alla sede dei movimenti affettivi. È il registro delle passioni: collera, pietà, odio, amicizia. La loro dieta alimentare priva forse gli dèi di sangue, ma tutto il loro comportamento sociale riposa su una “biologia delle passioni”, un’iscrizione nel corpo, nella quale i Greci dovevano riconoscere facilmente la propria.

La bile, vale a dire la collera, costituisce uno degli ingredienti più attivi della trama dell’Iliade. Se si percorre il suo campo semantico, si incontrano dèi in preda al rancore (μῆνις), al furore (μένος); abitanti dell’Olimpo corrucciati (χωόμενοι), beati che s’indignano (ὀχθέω) e si irritano (νεμεσσάω). E ciò non può essere ridotto a episodiche manifestazioni del carattere. Si tratta, al contrario, di fattori dinamici del racconto. Ricostruire, giorno dopo giorno, la vita degli dèi Olimpici significa confrontarsi con il fatto evidente che la volontà strategica di Zeus, il quale, si ritiene, determina e dispone gli eventi, è in realtà soltanto l’effetto secondario, la decantazione di un impulso più immediato e meno mediato: la grande irritazione del dio contro Agamennone. Rabbia divina che è il risultato di una catena di reazioni passionali, perché Agamennone ha suscitato la furia e il rancore di Achille, che ha fatto appello alla pietà di Teti, la quale, a sua volta, ha saputo suscitare il corruccio di Zeus. E la collera di Zeus non viene forse a dare il cambio a quella di Apollo, il cui sacerdote ha subito uno scatto d’ira da parte di Agamennone e ha invocato il dio di vendicarlo? L’agire degli dèi si narra di furia in furia. Zeus e Apollo, Hera e Atena, Ares e Poseidone funzionano soprattutto in questo modo; allo stimolo dell’offesa rispondono con un eccesso di bile e, rapidi, si lanciano all’azione efficace. La collera si rivela come motore della loro vita frenetica e, conseguentemente, della storia degli uomini. Essa fa cominciare il racconto e ne decide la fine. Infatti, nell’Iliade tutto si ferma proprio con una tregua di tutte le ire e gli odi, quando gli dèi, cominciando da Apollo e Zeus, rinunciano alla loro violenza reciproca, alle opinioni divergenti e alla discordia che li spinge a battersi e ad affrontarsi. Irritati, per una volta all’unisono, dall’accanimento di Achille contro il cadavere di Ettore, solidali in una nuova e ultima collera rivolta all’eroe […] folli di rabbia, decretano la fine delle ostilità e, con ciò stesso, del racconto che da queste traeva la sua energia e ispirazione.

“Atena Mattei”. Statua, copia romana di I secolo a.C. da un originale bronzeo di IV secolo a.C., opera di Cefisodoto. Paris, Musée du Louvre.

Ma gli dèi manifestano anche l’intera gamma delle facoltà deliberative e intellettuali: volontà (βουλή), cuore (θυμός), intelletto (νοῦς). A loro appartengono gli aspetti più avviti della soggettività; il θυμός, in particolare, sede dei sentimenti come anche degli slanci volontari e delle decisioni che s’impongono all’io umano, funziona anche negli dèi in maniera assolutamente normale. Volere è, per Atena, essere spinta dal suo grande cuore (θυμός); esprimere il suo pensiero è, per Zeus, quel che il cuore gli detta nel petto; fare scelte divergenti equivale, per gli dèi nel loro insieme, ad avere cuori divisi, così come, per uno di loro, vuol dire meditare nel proprio diaframma per giungere alla scelta che gli sembra migliore nel cuore… Insomma, gli dèi dell’Olimpo dipendono dal loro θυμός né più né meno dei mortali.

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