Un’ἀρετή a misura d’uomo (Simon. F 542 PMG)

Se è difficile diventare compiutamente «valenti» dal momento che la realtà esterna può costringere un individuo ad agire contro il suo volere, un criterio di giudizio a “misura d’uomo” potrà pur sempre far riferimento ai realistici margini d’azione dell’individuo, e il poeta – come si dice nell’encomio a Scopas (F 542 PMG) – cesserà di farsi cantore della virtù assoluta (perfetta valentia dell’uomo «quadrato», cioè simmetricamente costruito come i κοῦροι delle statue coeve) e loderà invece chi non commetta volontariamente azioni riprovevoli. Questo componimento è riportato da Platone nel Protagora (339a-347a), in un passo in cui si consuma una disputa fra l’omonimo filosofo che dà il nome al dialogo e Socrate a proposito della virtù. I due interlocutori, nella finzione letteraria, sottopongono il carme simonideo a un lungo e lucido esame. La testimonianza platonica è importante e interessante per due ragioni: innanzitutto, perché illumina del livello raggiunto dall’esegesi letteraria nell’ambito dell’Accademia; in seconda analisi, per il fatto che rappresenti, proprio dal punto di vista critico, l’archetipo delle animose dispute fra gli studiosi cui è stato esposto il brano fino a oggi.

Policleto, Diadumenos. Statua, Copia in marmo di età romana dall’originale in bronzo del V secolo a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale

ἄνδρ’ ἀγαθὸν μὲν ἀλαθέως γενέσθαι

χαλεπὸν χερσίν τε καὶ ποσὶ καὶ νόωι

τετράγωνον ἄνευ ψόγου τετυγμένον·

[

[

[

[

[

[

[

οὐδέ μοι ἐμμελέως τὸ Πιττάκειον

νέμεται, καίτοι σοφοῦ παρὰ φωτὸς εἰ-

ρημένον· χαλεπὸν φάτ’ ἐσθλὸν ἔμμεναι.

θεὸς ἂν μόνος τοῦτ’ ἔχοι γέρας, ἄνδρα δ’ οὐκ

ἔστι μὴ οὐ κακὸν ἔμμεναι,

ὃν ἀμήχανος συμφορὰ καθέληι·

πράξας γὰρ εὖ πᾶς ἀνὴρ ἀγαθός,

κακὸς δ’ εἰ κακῶς [

[ἐπὶ πλεῖστον δὲ καὶ ἄριστοί εἰσιν

[οὓς ἂν οἱ θεοὶ φιλῶσιν.]

τοὔνεκεν οὔ ποτ’ ἐγὼ τὸ μὴ γενέσθαι

δυνατὸν διζήμενος κενεὰν ἐς ἄ-

πρακτον ἐλπίδα μοῖραν αἰῶνος βαλέω,

πανάμωμον ἄνθρωπον, εὐρυεδέος ὅσοι

καρπὸν αἰνύμεθα χθονός·

ἐπὶ δ᾽ὑμὶν εὑρὼν ἀπαγγελέω.

πάντας δ’ ἐπαίνημι καὶ φιλέω,

ἑκὼν ὅστις ἔρδηι

μηδὲν αἰσχρόν· ἀνάγκαι

δ’ οὐδὲ θεοὶ μάχονται.

[

[

[οὐκ εἰμὶ φιλόψογος, ἐπεὶ ἔμοιγε ἐξαρκεῖ

ὃς ἂν μὴ κακὸς ἦι] μηδ’ ἄγαν ἀπάλαμνος εἰ-

δώς γ’ ὀνησίπολιν δίκαν,

ὑγιὴς ἀνήρ· οὐ μὴν† ἐγὼ

μωμήσομαι· τῶν γὰρ ἠλιθίων

ἀπείρων γενέθλα.

πάντα τοι καλά, τοῖσίν τ’ αἰσχρὰ μὴ μέμεικται.

È veramente difficile diventare un uomo

valente nelle mani, nei piedi e nella mente,

quadrato, plasmato senza macchia.

[

[

[

[

[

[

[

E nemmeno, a mio avviso, risulta intonato quel

detto di Pittaco, benché si stato pronunciato da

uomo saggio: “È difficile – diceva – essere valente!”.

Soltanto un dio potrebbe avere questo privilegio,

non è possibile che non sia ignobile un uomo

che disgrazie irreparabili abbiano colto:

se ha successo, infatti, ogni uomo è buono,

ma se è inetto, le cose gli vanno male [

[del resto, i migliori per lungo tempo sono

[coloro che gli dèi prediligono].

E dunque, proprio io non butterò via una parte

della mia esistenza a cercare ciò che è impossibile

in una vuota e inconcludente speranza,

cioè, un uomo senza difetti, fra quanti

ci nutriamo del frutto dell’ampia terra;

ma se lo scoverò, ve lo farò sapere!

Io elogio e ammiro tutti coloro che,

di propria volontà, non commettono

alcunché di turpe: contro la necessità

nemmeno gli dèi combattono.

[

[

[Io non sono uno incline alla polemica, dacché mi

basta che uno non sia] malvagio né troppo inetto e

che conosca la giustizia che giova alla città,

un uomo moralmente sano; io non lo

biasimerò: infatti, è infinita

la generazione degli stolti.

Bello è tutto ciò a cui il male non si mescola.

Policleto, Doriforo. Statua, Copia in marmo di età romana dall’originale in bronzo del V secolo a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

L’argomento su cui è imperniato l’intero componimento consiste nella difficoltà (o forse meglio, nell’impossibilità!) per un essere umano di essere o diventare ἀγαθός («valente»). Vi sottende una problematica che è forse meglio evidente grazie a un confronto con il F 16 Voigt di Saffo, il cui tema centrale risponde alla domanda: «Che cos’è la cosa più bella?» (τί τὸ καλόν;); domanda per la quale, in età arcaica, esisteva un interesse particolare verso una sorta di gerarchia di valori. Quanto a Simonide, nello specifico, si è tentato di dire che su questo punto egli sia andato oltre Saffo: con il poeta di Ceo, infatti, si giunge alla critica di quei valori, uscendo da una considerazione personale (quale quella della poetessa di Lesbo) nella quale si indica un valore che supera tutti gli altri, per arrivare alla negazione di qualsiasi soluzione rigidamente gerarchica e definitiva. Simonide fu poeta portato a considerare la relatività dei valori. All’etica dell’assoluto (nobiltà, salute, ricchezza, ecc.), egli contrapponeva una “relatività” di principi, forse meno eroici ma più umani, che da un punto di vista estetico-agonale discendevano a quello più vasto dell’impegno civico e sociale dell’individuo nella πόλις.

Il carme è introdotto da tre versi retti dall’espressione γενέσθαι / χαλεπὸν (sott. ἔστι); γενέσθαι, aor. inf. di γίγνομαι, vuol dire letteralmente “entrare in un nuovo stato dell’essere”, quindi “divenire”. In τετράγωνος qualcuno ha ravvisato tracce della dottrina pitagorica, secondo la quale il numero 4 e il quadrato rappresenterebbero la perfezione, la massima compiutezza. Non si esclude, tuttavia, che Simonide alluda piuttosto al canone delle quattro virtù – che ha numerose attestazioni – la più celebre delle quali si ha in Platone: saggezza, temperanza, coraggio e giustizia (cfr. Pind. N II); τετυγμένον, part. perf. di τεύχω, “creare, plasmare”. Quanto a Pittaco di Mitilene, com’è noto, egli era annoverato fra i Sette Sapienti: la citazione di una sua massima da parte del poeta rivela, per la prima volta nella letteratura greca, la volontà di precisare la paternità del materiale utilizzato da un autore. Il tiranno di Lesbo è definito σοφοῦ… φωτὸς (v. 12): l’aggettivo, qui attestato per la prima volta nei riguardi del personaggio, lo include decisamente nel canone dei grandi saggi; il sostantivo, invece, è un omerismo per dire “uomo” (anche se nell’accezione epica andrebbe inteso come “uomo dalle qualità eccezionali”).

Il poeta muove una polemica personale al motto del tiranno, uomo arcaico: contrappone infatti al suo ἔμμεναι (inf. eol. di εἰμί, “essere”) il proprio γενέσθαι (“divenire”); “essere” al presente infinito indica una condizione costante, statica e continua, propria di una persona o di una cosa. Nella concezione arcaica, dunque, un individuo nasceva già “valente” e sarebbe rimasto tale in tutto l’arco della sua esistenza. Diversamente, “diventare” presuppone una realtà completamente opposta, nella quale la persona, come ogni altra cosa, è soggetta al divenire, al mutevole, all’influsso variabile delle circostanze contingenti.

Scultore anonimo. Auriga di Delfi. Statua, bronzo, c. 475 a.C. dal Santuario di Apollo Pizio. Delfi, Museo Archeologico.

Simonide, insomma, della società del suo tempo sottolinea la difficoltà a raggiungere lo stato di eccellenza e di perfezione proprio degli uomini di una volta, cui quelli di oggi devono comunque aspirare e protendersi, malgrado le difficoltà e i condizionamenti della vita. Solo alla divinità, infatti, è concesso il privilegio di “essere”: gli dèi, una volta venuti alla luce, sono immutabili, eternamente giovani ed eternamente belli. Quest’idea è rimarcata anche da Pindaro (Pyth. X 21-22), che afferma: «Non un uomo, ma un dio sarebbe chi avesse il cuore scevro d’affanni». Ma mentre per Pindaro è possibile che una persona, oltre a mille difficoltà e tribolazioni, raggiunga una stabile felicità (anche in virtù dello status sociale e del favore divino di cui possa godere), per Simonide, invece, la vicenda umana è sempre e costantemente soggetta al mutare delle cose: perciò, la valentia di ciascuno è determinata dalla condizione in cui egli si trova. Di conseguenza, le contingenze diventano per Simonide gli unici criteri che consentano di giudicare la condizione mortale.

A ben vedere, inoltre, questa idea del divenire e del continuo mutare troverà un ulteriore sviluppo nella seconda metà del V secolo, realizzandosi pienamente con il fiorire della tragedia. A tal proposito, basti ricordare che nell’Edipo re di Sofocle si dice: «Non dire felice un uomo mortale prima che abbia varcato il termine della vita senza aver patito dolore». Si tratta di un concetto altresì presente in Erodoto (III 40, 3): «Nessun uomo io conosco che, felice in ogni cosa, non sia poi finito male, sconvolto dalle radici».

La novità del componimento simonideo sta soprattutto nel fatto che il brano non si limita alla polemica fine a sé stessa, ma propone una nuova visione delle cose: siccome non è possibile trovare un uomo perfetto, il poeta dichiara di non aver alcuna intenzione di sprecare il proprio tempo a cercarlo. La nuova società del V secolo rifiuta ormai l’ideale tradizionale dell’ἀρετή, che basava la condizione sociale del singolo in base alla sua stirpe (γένος); il poeta constata che la natura (φύσις) dell’uomo è fragile, momentanea e istantanea. Simonide, dunque, offre un nuovo modello valoriale, relativo all’individuo che dev’essere eticamente “sano” e “integro”, esercitando ed esprimendo la propria volontà senza commettere turpitudini. Questi, del resto, saranno i temi chiave dell’ideologia democratica.

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