Vespasiano

Tito Flavio Vespasiano fu acclamato imperatore nel luglio del 69. Uno dei suoi primi atti ufficiali, una volta insediatosi in Roma e dopo aver lasciato al figlio maggiore Tito il compito di gestire la rivolta giudaica, fu di ridurre il numero delle coorti pretorie da sedici a nove. La prima preoccupazione del nuovo princeps fu quella di ridimensionale l’ingerenza dei militari nella vita politica dello Stato, impendendo, in sostanza, che si ripresentasse quella stessa situazione che lo aveva portato al potere. Vespasiano non dimenticò mai, tuttavia, il debito che aveva nei confronti delle legioni di Syria, Aegyptus e Moesia, tra le prime a prestargli giuramento, tant’è che per festeggiare la propria ascesa all’impero, egli scelse il giorno in cui era stato acclamato dai soldati, piuttosto che quello della ratifica del Senato. Da parte loro, i militari vedevano nel nuovo principe uno di loro, un homo novus, di origini non nobili, che aveva saputo elevarsi proprio grazie alla sua abilità guerresca.

Un altro problema che Vespasiano volle dirimere il prima possibile fu quello dei disordini scoppiati ai confini dell’Impero, soprattutto sul Reno. Qui doveva essere ancora sedata la ribellione provocata tra i Batavi da Giulio Civile, insurrezione che si era estesa a macchia d’olio, creando un effimero governo “separatista” nelle Galliae. Vespasiano inviò otto legioni, al comando di Petilio Ceriale e Giulio Sabino, che in poco tempo, verso la fine del 70, ebbero ragione dei rivoltosi e riportarono la situazione alla normalità. Nel frattempo, nel settembre dello stesso anno, il giovane Tito poneva fine alla rivolta giudaica con la presa di Gerusalemme. Ristabilita la pace e sedate le sollevazioni nelle province, era ora necessario dare stabilità a un Impero scosso dalla guerra civile del longus et unus annus (Tac. Dial. 17, 3).

T. Flavio Vespasiano. Busto, marmo bianco, c. 70, da Napoli. Copenhagen, Ny Carlsberg Glyptotek.

Per quanto concerne la politica interna, era evidente che proprio le origini dell’imperatore, che lo rendevano caro agli eserciti, potesse costituire un problema per l’ordine senatorio. Anche i più conservatori e intransigenti tra gli esponenti dell’alto consesso si erano ormai adeguati alla “necessità” del principato; ma, in fin dei conti, il princeps era pur sempre stato un rampollo di una delle più antiche e gloriose genti patrizie: un Giulio o un Claudio.

Era necessario, dunque, per Vespasiano giustificare il proprio potere, consolidarlo e garantirne la continuità. Richiamandosi ai suoi più autorevoli predecessori, già alla fine del 69 l’imperatore aveva promulgato un documento importantissimo, noto come lex de imperio Vespasiani (ILS 244): il rescritto, sancito da un Senatus consultum e ratificato pro forma dalle assemblee comitali, stabiliva una serie di prerogative, diritti e doveri del principe nei confronti della res publica, come la facoltà di convocare il Senato, di non essere vincolato a leggi e plebisciti, di intervenire nell’elezione dei magistrati. Più che di una nuova definizione “costituzionale” dei poteri dell’imperatore, si trattava probabilmente di una pubblicazione sistematica di quelli già esercitati dai predecessori.

Inoltre, nel 71, Vespasiano si associò nell’impero il figlio maggiore Tito, conferendogli la tribunicia potestas e l’imperium proconsulare. Facendo questo, l’imperatore sabino intendeva richiamarsi direttamente ad Augusto, assumendolo a modello della propria propaganda. Nei coni monetali, che facevano il giro dell’Impero, per esempio, venivano ripetuti, in forme lievemente diverse, i rassicuranti simboli del potere augusteo: Aeternitas, Salus, Victoria. Accanto a queste astrazioni personificate, che restituivano alla gente fiducia nella stabilità del governo e nel benessere dello Stato, primeggiava soprattutto un’altra, che costituì la chiave di volta di tutta l’ideologia flavia: la Pace. Rappresentata come una figura muliebre con cornucopia e ramo d’ulivo, la Pax Augusti fu diffusa su ogni mezzo comunicativo. Non solo sulle monete, quindi, ma in suo onore fu progettato ed edificato il nuovo Foro, limitrofo a quello di Augusto. Inoltre, l’accorta politica di Vespasiano portò a una “rinascita” augustea anche nella letteratura, nelle arti e negli studi liberali. I poeti che gravitavano intorno alla corte flavia, in particolare Publio Papinio Stazio, trovarono in Virgilio il modello ideale dell’indimenticata età dell’oro della cultura romana.

T. Flavio Vespasiano. Dupondius, Roma c. 71. Æ 12, 81 g. Verso: Felicitas – publica – S(enatus) c(onsulto). La dea Felicitas stante, voltata a sinistra, con caduceo e cornucopia.

Per garantire alla gens Flavia il prestigio di cui era priva, Vespasiano rivestì il consolato quasi ininterrottamente, spesso insieme ai figli Tito e Domiziano. Sempre a Tito, con un’abile mossa politica, l’imperatore affidò anche l’incarico di prefetto del pretorio, da una parte per assicurarsi l’incolumità e dall’altra per inorgoglire e avvicinare i membri della classe equestre. Attraverso l’istituto della censura, che tenne insieme al figlio maggiore nel 73, Vespasiano poté anche intervenire nella composizione del venerando consesso, espellendone i senatori più scomodi e introducendo nuovi patres conscripti, esponenti delle aristocrazie provinciali d’Occidente.

Proprio nel campo dell’amministrazione delle province, Vespasiano dimostrò grande interesse e particolare attenzione. Molte delle opere pubbliche e delle infrastrutture commissionate e le nuove riorganizzazioni amministrative da lui intraprese avevano certamente scopi economici e fiscali, ma, di fatto, le iniziative del principe impressero un nuovo, fondamentale impulso allo sviluppo di quei territori. La massiccia concessione dello ius Latii o della Romana civitas e l’istituzione di numerosi municipia Flavia, soprattutto nelle Hispaniae, accelerarono il processo di romanizzazione del Paese e la formazione di un’alta aristocrazia locale, che col tempo avrebbe affiancato e poi soppiantato quella italica. Diversamente, le province orientali non godettero della medesima benevolenza: in particolare, l’Achaia, che Nerone aveva gratificato concedendo l’immunitas, fu reintegrata pienamente nel regime fiscale dell’Impero. In Cappadocia e Syria Vespasiano ordinò la costruzione di nuove fortezze legionarie e altre infrastrutture militari, concepite a scopi offensivi più che difensivi.

Nonostante l’epurazione, la destituzione e la sostituzione di alcuni eminenti personaggi dal Senato, è emblematico del mutare dei tempi che Vespasiano non sia stato rappresentato come un acerrimo nemico o un persecutore dell’oligarchia. L’opposizione a lui si limitò, a quanto sembra, ad alcuni circoli filosofici. L’unico complotto di un certo rilievo che sia stata tramandata fu quella che portò alla rovina Elvidio Prisco, genero di Trasea Peto, uno dei “martiri” dell’opposizione a Nerone.

Per cancellare le testimonianze della megalomane attività edilizia di quest’ultimo, Vespasiano si preoccupò di restituire al godimento pubblico molte aree di Roma, ampliando il pomerium e dando inizio alla costruzione dell’Amphitheatrum Flavium. Anche in altre città d’Italia e delle province l’imperatore incoraggiò in tutti i modi l’edilizia pubblica.

La morte lo colse nella nativa Sabina il 24 giugno del 79, quando era ancora impegnato negli affari di Stato.

Lawrence Alma-Tadema, Il trionfo di Tito. Olio su tela, 1885.

***

Bibliografia minima:

F. Coarelli (ed.), Divus Vespasianus: il bimillenario dei Flavi. Catalogo della mostra (Roma, 27 marzo-10 gennaio 2010), Milano 2010.

B. Levick, Vespasian, London-New York 1999.

S. Pfeiffer, Die Zeit der Flavier: Vespasian – Titus – Domitian, Darmstadt 2009.

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