Ulfila, vescovo dei Goti

Le prime missioni cristiane fuori dell’Impero romano furono finalizzate non tanto a convertire i barbari, quanto piuttosto ad amministrare le comunità cristiane già esistenti. Il più grande «apostolo dei barbari» venne proprio da una di queste comunità: nato intorno al 311, forse discendente di cittadini romani fatti prigionieri fra il 260 e il 270 dai Goti che avevano attaccato Sadagolthina, in Cappadocia, Ulfila («lupacchiotto») crebbe tra i Goti Tervingi. Le fonti antiche gli attribuiscono un ruolo fondamentale nell’evangelizzazione di massa delle genti transdanubiane negli anni ’40 del IV secolo, ma circa le sue inclinazioni spirituali la tradizione letteraria riferisce informazioni discordanti: Filostorgio e Aussenzio vogliono che l’«apostolo dei Goti» si fosse accostato alla dottrina ariana fin da ragazzo, mentre Socrate Scolastico, Sozomeno e Teodoreto asseriscono che egli abbandonò il Credo niceno per “convertirsi” all’Arianesimo nella maturità (c. 360-376).

Missorio. Oro cesellato, c. V secolo, dal Tesoro di Pietroasele. București, Muzeul Național de Istorie a României.

Lo scrittore Filostorgio (HE II 5), della cui opera (Ἐκκλησιαστικὴ ἱστορία) si è conservato uno stralcio nella Biblioteca di Fozio, di molto posteriore, riferisce che Ulfila si sarebbe recato nell’Impero come membro di un’ambasciata per conto dei Goti, con lo scopo di ridefinire le relazioni tra Roma e i Tervingi dopo la morte di Costantino. Poco dopo, nel 341, in occasione del Sinodo di Antiochia, Ulfila sarebbe stato ordinato vescovo «dei cristiani nella terra dei Geti» (τῶν ἐν τῇ Γετικῇ χριστιανιζόντων). Sozomeno (HE VI 37, 8) precisa che fu Eusebio di Nicomedia, vescovo ariano, a somministrare il battesimo a Ulfila e a proporne la candidatura episcopale. Secondo quanto tramandato da Aussenzio di Durostorum (od. Silistra), citato nella Dissertatio Maximini contra Ambrosium,  Ulfila ricopriva all’interno della comunità gotica il ruolo di lector: pertanto, doveva già aver ricevuto il battesimo e il livello della sua educazione (considerando che Ulfila parlava e scriveva in gotico, latino e greco) suggerisce che provenisse da una condizione sociale particolarmente elevata (Diss. Max. 53-56). È del tutto probabile che proprio questi elementi avrebbero indotto le autorità tervinge a sceglierlo come partecipante ai negoziati con Roma.

Ulfila, comunque, non sarebbe stato il primo predicatore cristiano in terra barbara, ma indubbiamente fu il più importante. Sozomeno (HE II 6, 2), infatti, ricorda che «molti sacerdoti di Cristo fatti prigionieri si trovavano con i barbari» (πολλοὶ τῶν ἱερέων τοῦ Χριστοῦ αἰχμάλωτοι γενόμενοι). A tal proposito, già Edward Gibbon aveva definito questi prigionieri degli «involuntary missionaries», a sottolineare come, una volta giunti in Gothia, i sacerdoti non avessero intrapreso un’azione dichiaratamente evangelizzatrice, ma si fossero limitati a mantenere le proprie abitudini religiose, che si sarebbero diffuse a poco a poco tra i barbari in maniera spontanea, a seguito di una prolungata convivenza. Il ruolo e la portata dell’azione di questi “missionari involontari”, tuttavia, sono spesso sovradimensionati dalla storiografia moderna.

Mappa della Gothia (IV secolo).

Diversamente da Sozomeno, Socrate Scolastico, pur riconoscendo il ruolo centrale di Ulfila nello sviluppo del Cristianesimo gotico, riferisce di un suo discepolato presso Teofilo, vescovo Gothiae metropolis (Socr. HE II 41, 23). Comunque, Sozomeno (HE VI 37, 10-11) è l’unica fonte a designare esplicitamente Ulfila come διδάσκαλος dei Goti e ad affermare che, grazie a lui, essi furono educati alla «pietà» (εὐσέβεια) e alla «civiltà» (πολιτεία). A detta dello storiografo, il prestigio e il rispetto di cui Ulfila godeva presso i barbari erano stati alimentati dal fatto che egli aveva dato «grandi prove del proprio valore, sopportando mille pericoli per la fede, quando i suddetti barbari praticavano ancora la religione pagana» (πλείστην … πεῖραν τῆς αὐτοῦ ἀρετῆς· μυρίους μὲν ὑπομείνας κινδύνους ὑπὲρ τοῦ δόγματος, ἔτι τῶν εἰρημένων βαρβάρων Ἑλληνικῶς θρησκευόντων).

Stando a Filostorgio (HE II 5), costretto da una violenta persecuzione anticristiana ad abbandonare la Gothia, ad attraversare il Danubio e a rifugiarsi nell’Impero romano, nel 347-348 Ulfila ottenne dall’imperatore Costanzo II, che lo considerava il «Mosè della nostra epoca» (ὁ ἐφ’ ἡμῶν Μωσῆς), di stabilirsi insieme ai suoi Tervingi nei pressi di Nicopolis ad Istrum (a nord dell’od. Tărnovo, Bulgaria), in Moesia inferior (περὶ τὰ τῆς Μυσίας χωρία,). Giordane (Get. 51, 267) asserisce che i seguaci di Ulfila, ai quali il vescovo aveva insegnato a scrivere, erano detti Gothi minores e abitavano ancora lì, ai piedi del monte Emo, ai tempi suoi (c. 551): «Sono un popolo numeroso, ma povero e pacifico, che non ha nulla in abbondanza se non armenti di vario genere di bestiame, pascoli e boschi da legname; terreni, pur poveri di frumento, ricche di altri prodotti. Alcuni di loro, infatti, se ce ne sono altrove, conoscono i vigneti, comprando il vino da luoghi vicini; del resto, la maggior parte di loro si nutre di latte» (gens multa, sed paupera et inbellis nihilque habundans nisi armenta diversi generis pecorum et pascua silvaque lignarum; parum tritici citerarumque specierum terras fecundas. Vineas vero nec, si sunt alibi, certi eorum cognoscent ex vicina loca sibi vinum negotiantes; nam lacte aluntur plerique). La persecuzione e l’esodo della comunità di Ulfila dimostrano che questo gruppo doveva costituire una minoranza all’interno di una società ancora prevalentemente pagana.

Le fonti antiche illustrano la penetrazione della fede cristiana soprattutto nei ceti alti della società gotica in virtù degli stretti rapporti intercorrenti fra élites germaniche e autorità imperiali, i dissidi e le lacerazioni che tale predicazione provocò all’interno dei clan, ma anche l’importanza che la traslazione delle reliquie dei martiri goti ebbe per la costruzione identitaria delle comunità religiose nella Romània orientale (Theodoret. HE 4, 33). I capi tervingi si opposero alla cristianizzazione per lo meno in due occasioni, entrambe probabilmente ispirate da sentimenti antiromani. La prima volta successe all’epoca in cui Ulfila fu scacciato, intorno al 347-348 (cfr. Epiph. Panar. Haer. 70, 15-4-5), e la seconda volta accadde dopo l’accordo di pace tra il reiks Atanarico e l’imperatore Valente (Amm. Marc. XXVII 5, 6-9; Them. Or. 10, 134-135).

Eduard Bendemann, Atanarico e Valente sul Danubio. Illustrazione, 1880. Da Weltgeschichte fur das Volk (ed. O. von Corvin, W. Held).

Dopo il 369, infatti, sarebbe scoppiata in terra gotica una vera e propria guerra civile tra due fazioni, guidate rispettivamente da Atanarico e Fritigerno. Quest’ultimo si sarebbe rivolto a Valente per ottenere supporto e, una volta risultato vincitore, avrebbe acconsentito ad accogliere e promuovere la fede cristiana in segno di riconoscenza. Stando a Socrate Scolastico (HE IV 33, 7), Ulfila avrebbe iniziato a predicare la nuova religione tra i fautori di Fritigerno, per estenderla poi ai partigiani di Atanarico. Probabilmente, quando quest’ultimo si rese conto che la diffusione della fede cristiana andava di pari passo con l’estendersi dell’influenza imperiale sulla propria gente, «siccome ciò alterava la religione degli antenati» (ὡς παραχαραττομένης τῆς πατρῴου θρησκείας), Atanarico diede avvio a una sanguinosa persecuzione e «sottopose a punizioni molti tra coloro che professavano il Cristianesimo; in quella circostanza ci furono molti martiri barbari e ariani» (πολλοὺς τῶν Χριστιανιζόντων τιμωρίαις ὑπέβαλλεν· ὥστε γενέσθαι μάρτυρας τηνικαῦτα βαρβάρους Ἀρεανίζοντας).

Tra le altre fonti sui medesimi fatti (Vita S. Nicetae; Basil. Ep. 164-165; Sozom. HE VI 37; August. Civ. XVIII 52; Prosp. a. 370 = Chron. min. I, 458) esiste un interessante documento, assai noto agli studiosi, redatto dalla comunità cristiana della Gothia e rivolto alle chiese di Cappadocia e di altre regioni: la Passio Sancti Sabae Gothi. L’opera agiografica racconta la storia del rifiuto opposto da un goto, di nome Saba, a partecipare al pasto della carne consacrata agli dèi tradizionali: una prova cui erano sottoposti i Goti allo scopo di identificare quelli che fra loro erano cristiani. Tutti gli altri suoi correligionari furono disposti a mangiare la carne pur di salvarsi, mentre Saba li denunciò. Da ultimo egli fu di nuovi catturato e, sottoposto a tortura, morì il 12 aprile 372. La Passio riferisce che non solo egli fu devoto, celibe e astinente, ma che fu anche ortodosso. Questo documento enfatizza l’ortodossia di Saba perché lo stesso Ulfila era un eretico (cfr. Theodoret. ad l.c.): egli infatti era seguace di una confessione che era stata condannata dal Concilio di Nicea del 325 e che, già dal tardo IV secolo, venne concordemente considerata un’eresia.

L’eresia di Ulfila era l’Arianesimo, ovvero egli professava la dottrina predicata da Ario di Alessandria, secondo la quale Cristo, il Dio-figlio, e lo Spirito Santo erano stati creati da Dio-Padre e non erano a lui uguali. La disputa che divampò nel corso del IV secolo spesso si allontanò da quella che era stata la posizione di Ario e, oggi, si è generalmente concordi nel ritenere che il termine «ariano» indichi individui che di fatto ebbero opinioni del tutto diverse fra loro. La cosa importante, però, è che ai tempi di Ulfila le dispute sulla natura della Trinità rivestirono grande interesse per tante persone, mentre nel V secolo le dispute sulla natura di Cristo raggiunsero lo stesso parossistico grado d’interesse, e non soltanto tra i dottori della Chiesa.

Ulfila predica il Vangelo ai Goti. Incisione, 1880.

Ulfila, vicino alla corrente omea, ebbe parte attiva nei dibattiti trinitari dopo il suo esilio dalla Gothia, prendendo parte anche al Concilio di Costantinopoli del 360: Socrate Scolastico (HE II 41, 23) afferma che proprio in questa occasione il vescovo si sarebbe convertito alle dottrine subordinazioniste, mentre Sozomeno (HE IV 37, 8) riferisce che egli non avrebbe sottoscritto il simbolo prodotto dal sinodo, rimanendo fedele alla tesi della consustanzialità.

È possibile farsi qualche idea sul punto di vista di Ulfila grazie a una lettera in cui si parla di lui, la Dissertatio contra Ambrosium di Aussenzio di Durostorum (od. Silistra), riportata da Massimino, un vescovo ariano del V secolo, nel margine della sua copia del De fide di Ambrogio. Si tratta di una vera e propria «professione di fede», che Ulfila avrebbe pronunciato in punto di morte, nel 383 (Diss. Max. 59):  «Io Ulfila, vescovo e confessore, ho sempre creduto così e in questa sola e vera fede faccio il mio passaggio verso il Signore mio. Credo in un unico Dio Padre; solo ingenito e invisibile e nell’unigenito Figlio suo Signore e Dio nostro, creatore e artefice di tutte le creature, non avente simili a sé, per cui esiste un unico Dio Padre di tutti, che è anche il Dio del nostro Dio e [credo] in uno Spirito Santo, forza illuminante e santificante, come disse Cristo dopo la resurrezione ai suoi apostoli: ecco io mando la promessa di mio Padre su di voi, ma voi sedete nella città di Gerusalemme fino a quando non sarete rivestiti di forza dall’alto; e poi anche: riceverete la forza che discenderà su di voi dallo Spirito Santo – né Dio né Signore, ma ministro fedele di Cristo, non eguale ma suddito e obbediente in tutto a Dio Padre» (Ego Ulfila episkopus et confessor semper sic credidi et in hac fide sola et vera transitum facio ad Dominum meum. Credo unum esse Deum Patrem solum ingenitum et invisivilem et in unigenitum Filium eius Dominum et Deum nostrum, opificem et factorem universae creaturae non habentem similem suum, ideo unus est omnium Deus Pater, qui et Dei nostri est Deus et unum Spiritum Sanctum, virtutem inluminantem et sanctificantem, ut ait Christus post resurrectionem ad apostolos suos: ecce ego mitto promissum Patris mei in vobis, vos autem sedete in civitate[m] Hierusalem, quoadusque induamini virtute[m] ab alto; item et: accipietis virtutem superveniente[m] in vos Sancto Spiritu – nec Deum nec Dominum sed ministrum Christi fidelem, nec equalem sed subditum et oboedientem in omnibus Deo Patri). Del resto, l’intera faccenda sarebbe del tutto irrilevante non fosse per un fatto piuttosto sconcertante: che nel corso del V e del VI secolo la maggior parte delle popolazioni barbariche abbracciò l’Arianesimo, un credo che nello stesso Impero romano si era riusciti con successo a marginalizzare, ma che sarebbe tornato in auge quando con la formazione dei cosiddetti «regni romano-barbarici», gestiti da élites ariane.

Fibula a foggia di aquila. Oro cesellato, c. V secolo, dal Tesoro di Pietroasele. București, Muzeul Național de Istorie a României.

L’opera più duratura di Ulfila fu la traduzione in lingua gota dal greco di alcune parti della Bibbia: si disse allora che avrebbe deliberatamente deciso di non tradurre i Libri dei Re dell’Antico Testamento, in quanto i Goti erano già troppo inclini alla guerra senza che ci fosse bisogno di offrire loro ulteriore incoraggiamento (Philostor. HE II 5). È probabile che Ulfila, che prima della sua creazione a vescovo era stato lector, abbia avuto già occasione in Gothia di tradurre oralmente passaggi delle Scritture, per agevolare la predicazione, ma l’ambizioso progetto per iscritto sarebbe cominciato dopo l’arrivo in Moesia.

Allo stato attuale delle conoscenze, la Bibbia gotica fu il primo documento di una certa lunghezza a essere redatto in una lingua germanica e con un sistema di scrittura concepito appositamente: Ulfila infatti creò un alfabeto di 27 grafemi, ispirandosi allo stile onciale greco e latino e alla scrittura runica; la Bibbia gotica rimane un’opera di fondamentale importanza per gli studi filologici sull’evoluzione delle lingue germaniche. L’esemplare più celebre, il Codex Argenteus, occupa oggi il posto d’onore alla Biblioteca dell’Università di Uppsala, in Svezia: si tratta di un manoscritto di lusso, da 188 fogli superstiti (su 336), che contiene i quattro Vangeli in gotico nell’ordine “occidentale”: Matteo, Giovanni, Luca e Marco. Confezionato verisimilmente a Ravenna nei primi anni del VI secolo, ha le pagine di pergamena tinta di porpora, ed è magnificamente scritto in inchiostro d’argento e d’oro. Doveva essere l’evangeliario di corte di Teoderico. Il testo gotico che contiene simboleggiava il Cristianesimo dei Goti, e il codice stesso, scritto nella lingua nazionale e nel particolare alfabeto gotico, aveva acquisito un forte valore simbolico, che legittimava la Chiesa ariana degli Ostrogoti nell’ambiente italo-romano.

Uppsala, Universitetsbibliotek “Carolina Rediviva”. Codex Argenteus (VI secolo), f. 292. Vangelo di Marco 3, 26-32.

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Nerone fa uccidere Agrippina Minore (Tac. Ann. XIV 3-8)

Marzo 59: Nerone decide di uccidere la madre: prima tenta di far naufragare la nave su cui Agrippina faceva ritorno ad Anzio dalla Campania, dove aveva incontrato il figlio; poi, fallito il falso incidente, l’imperatore ordina a dei sicari di recarsi nella sua villa e di eliminarla.

Nerone Claudio Cesare Augusto Germanico. Aureus, Roma c. 55. Ar. 7,60 g. Recto: Nero Claud(ius) Divi f(ilius) Caes(ar) Aug(ustus) Germ(anicus) imp(erator) tr(ibunicia) p(otestate) co(n)s(ul). Busti drappeggiati dell’imperatore e di sua madre, voltati a destra.

[3, 1] Igitur Nero vitare secretos eius congressus, abscedentem in hortos aut Tusculanum vel Antiatem in agrum laudare, quod otium capesseret. postremo, ubicumque haberetur, praegravem ratus interficere constituit, hactenus consultans, veneno an ferro vel qua alia vi. placuitque primo venenum. [2] sed inter epulas principis si daretur, referri ad casum non poterat tali iam Britannici exitio; et ministros temptare arduum videbatur mulieris usu scelerum adversus insidias intentae; atque ipsa praesumendo remedia munierat corpus. ferrum et caedes quonam modo occultaretur, nemo reperiebat; et ne quis illi tanto facinori delectus iussa sperneret metuebat. [3] obtulit ingenium Anicetus libertus, classi apud Misenum praefectus et pueritiae Neronis educator ac mutuis odiis Agrippinae invisus. ergo navem posse componi docet, cuius pars ipso in mari per artem soluta effunderet ignaram: nihil tam capax fortuitorum quam mare; et si naufragio intercepta sit, quem adeo iniquum, ut sceleri adsignet, quod venti et fluctus deliquerint? additurum principem defunctae templum et aras et cetera ostentandae pietati.

[4, 1] Placuit sollertia, tempore etiam iuta, quando Quinquatruum festos dies apud Baias frequentabat. illuc matrem elicit, ferendas parentium iracundias et placandum animum dictitans, quo rumorem reconciliationis efficeret acciperetque Agrippina, facili feminarum credulitate ad gaudia. [2] venientem dehinc obvius in litora (nam Antio adventabat) excepit manu et complexu ducitque Baulos. id villae nomen est, quae promunturium Misenum inter et Baianum lacum flexo mari adluitur. [3] stabat inter alias navis ornatior, tamquam id quoque honori matris daretur: quippe sueverat triremi et classiariorum remigio vehi. ac tum invitata ad epulas erat, ut occultando facinori nox adhiberetur. [4] satis constitit extitisse proditorem, et Agrippinam auditis insidiis, an crederet ambiguam, gestamine sellae Baias pervectam. ibi blandimentum sublevavit metum: comiter excepta superque ipsum collocata. iam pluribus sermonibus, modo familiaritate iuvenili Nero et rursus adductus, quasi seria consociaret, tracto in longum convictu, prosequitur abeuntem, artius oculis et pectori haerens, sive explenda simulatione, seu pe[ri]turae matris supremus adspectus quamvis ferum animum retinebat.

[5, 1] Noctem sideribus inlustrem et placido mari quietam quasi convincendum ad scelus dii praebuere. nec multum erat progressa navis, duobus e numero familiarium Agrippinam comitantibus, ex quis Crepereius Gallus haud procul gubernaculis adstabat, Acerronia super pedes cubitantis reclinis paenitentiam filii et recuperatam matris gratiam per gaudium memorabat, cum dato signo ruere tectum loci multo plumbo grave, pressusque Crepereius et statim exanimatus est: Agrippina et Acerronia eminentibus lecti parietibus ac forte validioribus, quam ut oneri cederent, protectae sunt. [2] nec dissolutio navigii sequebatur, turbatis omnibus et quod plerique ignari etiam conscios impediebant. visum dehinc remigibus unum in latus inclinare atque ita navem submergere; sed neque ipsis promptus in rem subitam consensus, et alii contra nitentes dedere facultatem lenioris in mare iactus. [3] verum Acerronia, imprudentia dum se Agrippinam esse utque subveniretur matri principis clamitat, contis et remis et quae fors obtulerat navalibus telis conficitur. Agrippina silens eoque minus agnita (unum tamen vulnus umero excepit) nando, deinde occursu lenunculorum Lucrinum in lacum vecta villae suae infertur.

[6, 1] Illic reputans ideo se fallacibus litteris accitam et honore praecipuo habitam, quodque litus iuxta, non ventis acta, non saxis impulsa navis summa sui parte veluti terrestre machinamentum concidisset, observans etiam Acerroniae necem, simul suum vulnus adspiciens, solum insidiarum remedium esse [sensit], si non intellegerentur; [2] misitque libertum Agermum, qui nuntiaret filio benignitate deum et fortuna eius evasisse gravem casum; orare ut quamvis periculo matris exterritus visendi curam differret; sibi ad praesens quiete opus. [3] atque interim securitate simulata medicamina vulneri et fomenta corpori adhibet; testamentum Acerroniae requiri bonaque obsignari iubet, id tantum non per simulationem.

[7, 1] At Neroni nuntios patrati facinoris opperienti adfertur evasisse ictu levi sauciam et hactenus adito discrimine, ‹ne› auctor dubitaret‹ur›. [2] tum pavore exanimis et iam iamque adfore obtestans vindictae properam, sive servitia armaret vel militem accenderet, sive ad senatum et populum pervaderet, naufragium et vulnus et interfectos amicos obiciendo: quod contra subsidium sibi, nisi quid Burrus et Seneca? ‹expurgens› quos statim acciverat, incertum an et ante ignaros. [3] igitur longum utriusque silentium, ne inriti dissuaderent, an eo descensum credebant, ‹ut›, nisi praeveniretur Agrippina, pereundum Neroni esset. post Seneca hactenus promptius, ‹ut› respiceret Burrum ac s‹c›iscitaretur, an militi imperanda caedes esset. [4] ille praetorianos toti Caesarum domui obstrictos memoresque Germanici nihil adversus progeniem eius atrox ausuros respondit: perpetraret Anicetus promissa. [5] qui nihil cunctatus poscit summam sceleris. ad eam vocem Nero illo sibi die dari imperium auctoremque tanti muneris libertum profitetur: iret propere duceretque promptissimos ad iussa. [6] ipse audito venisse missu Agrippinae nuntium Agermum, scaenam ultro criminis parat, gladiumque, dum mandata perfert, abicit inter pedes eius, tum quasi deprehenso vincla inici iubet, ut exit‹i›um principis molitam matrem et pudore deprehensi sceleris sponte mortem sumpsisse confingeret.

[8, 1] Interim vulgato Agrippinae periculo, quasi casu evenisset, ut quisque acceperat, decurrere ad litus. hi molium obiectus, hi proximas scaphas scandere; alii, quantum corpus sinebat, vadere in mare; quidam manus protendere. questibus votis clamore diversa rogitantium aut incerta respondentium omnis ora compleri; adfluere ingens multitudo cum luminibus, atque ubi incolumem esse pernotuit, ut ad gratandum sese expedire, donec adspectu armati et minitantis agminis deiecti sunt. [2] Anicetus villam statione circumdat refractaque ianua obvios servorum abripit, donec ad fores cubiculi veniret; cui pauci adstabant, ceteris terrore inrumpentium exterritis. [3] cubiculo modicum lumen inerat et ancillarum una, magis ac magis anxia Agrippina, quod nemo a filio ac ne Agermus quidem: aliam fore laetae rei faciem; nunc solitudinem ac repentinos strepitus et extremi mali indicia. [4] abeunte dehinc ancilla: «Tu quoque me deseris?» prolocuta respicit Anicetum, trierarcho Herculeio et Obarito centurione classiario comitatum: ac si ad visendum venisset, refotam nuntiaret, sin facinus patraturus, nihil se de filio credere; non imperatum parricidium. [5] circumsistunt lectum percussores et prior trierarchus fusti caput eius adflixit. iam ‹in› morte‹m› centurioni ferrum destringenti protendens uterum «Ventrem feri!» exclamavit multisque vulneribus confecta est.

Veduta di una villa maritima. Affresco, ante 79, dalla sala n. 60 di Villa San Marco, Stabiae.

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[3, 1] Nerone, dunque, incominciò a evitare di incontrarsi da solo con la madre e, quando lei se ne andava in campagna a Tuscolo o ad Anzio, si compiaceva con lei perché si prendeva un po’ di svago. Alla fine, considerando che la presenza di lei, in qualunque luogo ella si trovasse, era per lui pericolosa, decise di ucciderla, mostrandosi dubbioso solo sul fatto se dovesse adoperare il veleno o il ferro o qualche altro mezzo violento. In un primo momento, pensò al veleno. [2] Se, tuttavia, questo fosse stato propinato alla mensa del principe, ciò non si sarebbe potuto attribuire a una pura fatalità, dato il precedente della morte di Britannico, e, d’altra parte, sembrava difficile corrompere i servi di una donna che era vigile contro le insidie, proprio per la consuetudine di perpetrare delitti; c’era poi il fatto che Agrippina aveva assuefatto il proprio corpo con l’uso di antidoti contro i veleni. Nessuno, poi, avrebbe potuto trovare il modo di nascondere un eccidio fatto a colpi di pugnale, poiché Nerone temeva che colui che fosse stato prescelto a compiere così grave misfatto potesse anche ricusarne l’incarico. [3] Gli offrì un’idea ingegnosa il liberto Aniceto, capo della flotta di stanza a Capo Miseno e precettore di Nerone fanciullo, odioso ad Agrippina, che era da lui ricambiata di pari odio. Costui informò il principe che si poteva costruire una nave, una parte della quale, in alto mare, si sarebbe aperta tramite un apposito congegno e avrebbe fatto affogare Agrippina, colta di sorpresa. Nulla più del mare offriva possibilità di disgrazie accidentali e, se Agrippina fosse stata portata via da un naufragio, chi sarebbe mai stato tanto iniquo da attribuire a un delitto ciò che i venti e le onde avevano compiuto? Il principe avrebbe poi elevato alla madre morta un tempio, degli altari e altri segni d’onore, a testimonianza del proprio affetto filiale.

[4, 1] La trovata geniale fu accolta, favorita anche dalle circostanze, dato che Nerone celebrava presso Baia le Quinquatria. Là attrasse Agrippina, mentre andava ripetendo a tutti che si dovevano tollerare i malumori delle madri e che gli animi si dovevano riappacificare; da ciò sarebbe stata diffusa la voce di una riconciliazione e Agrippina l’avrebbe accolta con la facile credulità delle donne per quelle cose che suscitano piacere. [2] Nerone, poi, sulla spiaggia mosse incontro a lei che veniva dalla sua villa di Anzio e, avendola presa per mano, l’abbracciò e l’accompagnò a Bauli. Questo è il nome di una villa che è lambita dal mare, nell’arco del lido tra il promontorio Miseno e l’insenatura di Baia. [3] Era là ancorata fra le altre navi una più fastosa, come se anche ciò volesse rappresentare un segno d’onore per la madre: Agrippina, infatti, era solita viaggiare su una trireme con rematori della flotta militare. Fu allora invitata a cena, poiché era necessario attendere nottetempo per celare il piano. [4] È opinione diffusa che vi sia stato un traditore e che Agrippina, informata della trama, nell’incertezza se prestare fede all’avvertimento, sia ritornata a Baia in lettiga. Qui le manifestazioni di affetto del figlio cancellarono in lei ogni timore; accolta affabilmente, fu fatta collocare al posto d’onore. Con i più svariati discorsi, ora con tono di vivace familiarità, ora con atteggiamento più serio, come se volesse metterla a parte di più importanti questioni, Nerone trasse più a lungo possibile il banchetto; nell’atto poi di riaccompagnarla all’imbarco, la strinse al petto, guardandola fisso negli occhi, o perché volesse rendere più verisimile la finzione, o perché, guardando per l’ultima volta il volto della madre che andava a morire, sentisse vacillare l’animo suo, per quanto pieno di ferocia.

[5, 1] Quasi volessero rendere più evidente il delitto, gli dèi prepararono una notte tranquilla, piena di stelle e un placido mare. La nave non aveva ancora percorso lungo tratto; accompagnavano Agrippina appena due dei suoi familiari, Crepereio Gallo, che stava presso il timone, e Acerronia, che ai piedi del letto ove Agrippina era distesa andava rievocando lietamente con lei il pentimento di Nerone, e il riacquistato favore della madre; quando all’improvviso, a un dato segnale, rovinò il soffitto gravato da una massa di piombo e schiacciò Crepereio, morto sul colpo. Agrippina e Acerronia furono invece salvate dalle alte spalliere del letto, per caso tanto resistenti da non cedere al peso. [2] Nel parapiglia generale, non si effettuò neppure l’apertura dell’imbarcazione, anche perché i più, all’oscuro di tutto, erano di ostacolo alle manovre di coloro che invece erano al corrente della cosa. Ai rematori parve allora necessario inclinare la nave su di un fianco, in modo da affondarla; ma non essendo loro possibile, in un così improvviso mutamento di cose, un movimento simultaneo, anche perché gli altri che non sapevano facevano sforzi in senso contrario, ne venne che le due donne caddero in mare più lentamente. [3] Acerronia, pertanto, con atto imprudente, essendosi messa a urlare che era lei Agrippina e che venissero perciò a salvare la madre dell’imperatore, fu invece presa di mira con colpi di pali e di remi e con ogni genere di proiettile navale. Agrippina, in silenzio, e perciò non riconosciuta (aveva riportato una sola ferita alla spalla), dapprima a nuoto, poi con una barchetta da pesca in cui si era imbattuta, trasportata al lago Lucrino, rientrò nella sua villa.

[6, 1] Qui, ripensando alla lettera piena d’inganno con la quale era stata invitata, agli onori con i quali era stata accolta, alla nave che, vicino alla spiaggia e non trascinata da venti contro gli scogli, si era abbattuta dall’alto come fosse stata una costruzione terrestre, considerando anche il massacro di Acerronia e guardando la sua propria ferita, comprese che il solo rimedio alle insidie fosse quello di fingere di non aver capito. [2] Mandò, perciò, il liberto Agermo ad annunciare a suo figlio, che, per la benevolenza degli dèi e per un caso fortuito, si era salvata dal grave incidente; lo pregava, tuttavia, che, per quanto emozionato per il grave pericolo corso alla madre, non pensasse per ora di venirla a trovare, poiché, per il momento, lei aveva bisogno di tranquillità. [3] Frattanto, affettando in piena sicurezza, si prese cura di medicare la ferita e di riconfortare il suo corpo; un solo atto non fu in lei ispirato a simulazione, l’ordine di ricercare il testamento di Acerronia e di porre i beni di lei sotto sequestro.

[7, 1] Nerone, intanto, in attesa della notizia che il delitto era stato consumato, apprese, invece, che Agrippina si era salvata con una lieve ferita, avendo, tuttavia, corso un pericolo così grande da non farla dubitare intorno al mandante dell’insidia. [2] Allora Nerone, morto di paura, cominciò ad agitarsi gridando che da un minuto all’altro Agrippina sarebbe corsa alla vendetta, sia armando i servi sia eccitando alla sollevazione i soldati sia appellandosi al Senato e al popolo, denunciando il naufragio, la ferita e gli amici suoi uccisi. Quale aiuto egli avrebbe avuto contro di lei, se non ricorrendo a Burro e a Seneca? Perciò, fece subito chiamare l’uno e l’altro che, forse, erano già prima al corrente della vicenda. [3] Stettero a lungo in silenzio, per non pronunciare vane parole di dissuasione o, forse, perché pensavano che la cosa fosse giunta a un punto tale che, se non si fosse prima colpita Agrippina, Nerone avrebbe dovuto fatalmente morire. Dopo qualche momento, Seneca in questo soltanto si mostrò più deciso, in quanto, scambiandosi un’occhiata con Burro, gli domandò se fosse mai possibile ordinare ai soldati l’assassinio. [4] Burro rispose che i pretoriani, troppo devoti alla casa dei Cesari e memori di Germanico, non avrebbero certo osato compiere nessun atto nefando contro la prole di lui; toccava ad Aniceto di assolvere le promesse. [5] Costui, senza alcun indugio, chiese per sé l’incarico di consumare il delitto. A questa dichiarazione Nerone s’affrettò a proclamare che in quel giorno gli era conferito veramente l’Impero e che il suo liberto era colui che gli offriva dono sì grande: corse subito via e condusse con sé i soldati deliberati a eseguire gli ordini. [6] Egli, poi, saputo dell’arrivo di Agermo, messaggero inviato da Agrippina, si preparò ad architettare la scena di un delitto e nell’atto in cui Agermo gli comunicava il suo messaggio, gettò tra i piedi di lui una spada e, come se l’avesse colto in flagrante, comandò subito di gettarlo in carcere, per poter far credere che la madre avesse tramato l’assassinio del figlio e che, poi, si fosse data la morte per sottrarsi alla vergogna dell’attentato scoperto.

[8, 1] Frattanto, essendosi sparsa la voce del pericolo corso da Agrippina, come se ciò fosse accaduto per caso, a mano a mano che si diffondeva la notizia, tutti accorrevano sulla spiaggia. Alcuni salivano sulle imbarcazioni vicine, altri ancora scendevano in mare, per quanto consentiva la profondità delle acque. Alcuni protendevano le braccia con lamenti e con voti; tutta la spiaggia era piena di grida e delle voci di coloro che facevano domande e di quelli che rispondevano; una gran moltitudine s’affollò sul lido con lumi e, come si seppe che Agrippina era incolume, tutti le mossero incontro per rallegrarsi con lei, quando all’improvviso ne furono ricacciati dalla vista di un drappello di soldati armati e minacciosi. [2] Aniceto accerchiò la villa con le sentinelle e, abbattuta la porta e fatti trascinare via i servi che gli venivano incontro, procedette fino alla soglia della camera da letto di Agrippina, a cui solo pochi servi facevano la guardia, poiché tutti gli altri erano stati terrorizzati dall’irrompente violenza dei soldati. [3] Nella stanza c’erano un piccolo lume e una sola ancella, mentre Agrippina se ne stava in stato di crescente allarme perché nessuno arrivava da parte del figlio e neppure Agermo: ben altro sarebbe stato l’aspetto delle cose intorno, se veramente la sua sorte fosse stata felice; non c’era che quel deserto rotto da urla improvvise, indizi di suprema sciagura. [4] Quando anche l’ancella si mosse per andarsene, Agrippina nell’atto di volgersi a lei per dirle: «Anche tu mi abbandoni?», scorse Aniceto, in compagnia del trierarca Erculeio e del centurione di marina Obarito. Rivoltasi, allora, a lui gli dichiarò che, se era venuto per vederla, annunziasse pure a Nerone che si era riavuta; se, poi, fosse lì per compiere un delitto, ella non poteva avere alcun sospetto sul figlio: non era possibile che egli avesse comandato il matricidio. [5] I sicari circondarono il letto e primo il trierarca la colpì in testa con un bastone. Al centurione che brandiva il pugnale per finirla, protendendo il grembo, gridò: «Colpisci al ventre!»; e cadde trafitta da molte ferite.

(trad. it. di B. Ceva, Milano, BUR, 2011)

Trireme romana. Affresco, ante 79, da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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Una delle pagine più famose degli Annales di Tacito e insieme uno degli esempi meglio riusciti di storiografia tragica è il racconto del matricidio di Agrippina, preceduto dal fallimento di un rocambolesco naufragio appositamente organizzato. Nerone, oppresso dalla presenza della madre, decide di eliminarla e, scartate le opzioni dell’avvelenamento e dell’accoltellamento, decide, su proposta del liberto Aniceto, di far costruire una nave dotata di un congegno che provochi lo sganciamento di parte dello scafo e, di conseguenza, il naufragio di Agrippina. Il finto incidente viene organizzato nei minimi particolari, ma, al momento di affondare il natante, quelli fra l’equipaggio all’oscuro di tutto ostacolano il successo dell’impresa. Acerronia, liberta e compagna di viaggio dell’imperatrice madre, per sollecitare i soccorsi proclama a gran voce di essere lei Agrippina, ma, contro ogni sua aspettativa, viene massacrata a colpi di remi. Agrippina, intanto, contusa e ferita, riesce ad allontanarsi mettendosi in salvo a nuoto e, raccolta da una barca da pesca, viene riportata a riva.

Mentre Agrippina fa ritorno a casa, nella sua villa nei pressi del Lago Lucrino, pur resasi conto dei terribili propositi di suo figlio, decide di fingere di non avere sospetto alcuno, Nerone, impaurito dalle reazioni della potente madre, convoca d’urgenza Burro e Seneca, i suoi più fidati consiglieri e tutori. È chiaro a tutti che Agrippina vada eliminata prima che sia lei a muovere all’attacco! Il liberto Aniceto si assume l’onere di eseguire materialmente il matricidio. Intanto, l’arrivo del liberto di Agrippina, Agermo, giunto a portare al princeps un messaggio della madre, viene colto a pretesto dall’imperatore per mettere in scena un falso attentato contro la propria persona: mentre il latore è intento a recapitargli il messaggio, Nerone getta ai piedi di quello una spada, affinché tutti credano che Agrippina abbia mandato quell’uomo per assassinare il figlio. Quindi, ordina l’immediata esecuzione della madre, affinché assomigli a un suicidio.

La scena dell’azione si sposta nuovamente nella villa dell’imperatrice-madre, dove ella era stata portata dopo essere stata tratta in salvo. L’Augusta matrona si trova da sola nel suo cubiculum: accanto a lei soltanto un’ancella, che presto l’abbandonerà terrorizzata, non appena il ritardo di Agermo renderà evidente la sorte della padrona. Il lettore è accompagnato da Tacito all’interno della stanza di Agrippina, in una suspence crescente, ne condivide l’angoscia e il turbamento. Alla fine, Aniceto e i suoi sicari arrivano e, fatta irruzione nella casa, allontanati i servi, la uccidono con randelli e spade senza pietà.

Il racconto del matricidio è seguito da una serie di pettegolezzi che rendono ancor più torbido l’atto criminale. Tacito riferisce le voci secondo le quali Nerone avrebbe fatto apprezzamenti sulla bellezza della madre, alla vista del suo cadavere, e racconta l’episodio di Mnestere, un liberto della donna, che si trafisse con un pugnale alla vista della pira funebre; probabilmente, insinua l’autore, per amore dell’antica padrona. In linea con le tendenze della storiografia tragica, non manca neanche il riferimento a una profezia dei Caldei sulla fine di Agrippina per mano del figlio, cui la donna avrebbe risposto: “Mi uccida, purché imperi!”.

Gustav Wertheimer, Il naufragio di Agrippina.

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Decio, l’imperatore che morì in battaglia

Nel 249, dopo soli cinque anni e mezzo di principato, a un esponente del Pretorio e dell’esercito, Marco Giulio Filippo Arabo (c. 204-249), succedette un membro dell’ordine senatorio, Gaio Messio Quinto Decio (c. 201-251). Costui, come i suoi predecessori, perseguì una politica profondamente legata all’ideale della Romanitas (cfr. AE 1973, 235, restitutor sacrorum). Uno dei suoi primi atti fu infatti quell’editto passato alla storia come una delle più feroci persecuzioni contro i cristiani.

Decio. Busto, marmo lunense, 249-251 d.C. Roma, Musei Capitolini.

Eppure, a ben vedere e seguendo in parte le testimonianze coeve, l’obiettivo era quello di instaurare un buon governo, ripristinare la pax deorum e riportare l’ordine nell’Impero, soprattutto nelle province danubiane. Per far ciò, Decio volle verificare la fedeltà e la lealtà dei cittadini verso quei valori che avevano reso grande Roma. In base al provvedimento, il principe pretese che chiunque sacrificasse agli dèi e al Genius Augusti (compisse cioè una supplicatio) davanti a una commissione istruita ad hoc: performato il rito, secondo le prescrizioni religiose, i controllori avrebbero rilasciato una certificazione comprovante il profondo legame tra il cittadino e le istituzioni.

L’editto, insomma, non fu propriamente un atto contro la Chiesa di Roma, bensì contro tutti coloro che non intendevano più seguire gli ordinamenti tradizionali. Diversi dati archeologici confermano questa tesi, come il fatto che in nessuno dei certificati (libelli) pervenuti si menzioni espressamente la religione cristiana, anche perché l’atto di idolatria era richiesto a tutti. Persino le fonti patristiche, specialmente Eusebio e Lattanzio (Euseb. HE VI 41, 9-10; Lactant. De mort. pers. 4, 2), testimoniano che, nella maggior parte dei casi, la pena prevedeva il carcere temporaneo, mentre in altri si veniva addirittura assolti. È probabile che il positivo riscontro di massa verso i culti tradizionali – ancora molto forte all’epoca – fosse sufficiente a Decio per ottenere la risposta che desiderava.

P. Oxy. 4 658. Certificazione di avvenuto sacrificio in onore degli dèi (libellus Decianus), in data 14 giugno 250, da Ossirinco (od. Bahnasa, Egitto). New Haven, Beinecke Library.

Ciononostante, è pur vero che, sotto il suo brevissimo principato, andarono incontro al martirio figure come Apollonia, Agata e Fabiano, vescovo di Roma. Si è ipotizzato che eliminazione di quest’ultimo, in particolare, si inserisse in problematiche di natura patrimoniale, dal momento che si volle anche intervenire sulle sempre più crescenti e cospicue proprietà ecclesiastiche. D’altronde, Cipriano di Cartagine (Ep. LV 9, 1) riferisce che Decio (tyrannus infestus) sperava che il vescovo romano non avesse successori, ammettendo di preferire lottare contro un qualunque rivale nell’Impero piuttosto che con quel prelato.

Quanto alla Chiesa romana, l’editto deciano provocò un vero e proprio scisma interno: molti furono bollati come lapsi, cioè coloro che, temendo ritorsioni e rappresaglie, avevano fatto atto di adorazione verso gli antichi dèi, e altrettanti furono citati come libellatici, ovvero coloro che, tramite carte false, erano riusciti a certificare l’avvenuto sacrificio alle divinità. Una volta conclusa la “persecuzione”, la notizia di questi comportamenti determinò il problema se fosse o meno lecito riammettere nella comunità cristiana gli autori di quei gesti. Nel 251 il presbitero Novaziano si autoproclamò vescovo di Roma e si oppose fortemente alle posizioni moderate di Cipriano e Cornelio; quando anche quest’ultimo fu eletto vescovo nello stesso anno, fu necessario convocare un Concilio per dirimere la questione, che volse a favore dei moderati.

C. Messio Quinto Traiano Decio. Antoninianus, Roma c. 249-251. AR 3,87 g. Dritto: Imp(erator) C(aesar) M(essius) Q(uintus) Traianus Decius Aug(ustus). Busto radiato, corazzato e voltato a destra.

Appena asceso alla porpora, Decio assunse il cognomen di Traianus, elevò alla dignità di Caesares i figli Erennio Etrusco e Ostiliano, associandoseli al trono, e assegnò alla moglie Erennia Cupressenia Etruscilla il titolo di Augusta. Stando alle fonti, la permanenza dell’imperatore a Roma fu brevissima: è noto che ebbe modo di intervenire sulla manutenzione della viabilità e dotò l’Urbe di nuove opere architettoniche, in particolare un impianto termale (thermae Decianae) che sorse sull’Aventino (Eutrop. IX 4; Zon. XII 20).

Ai confini dell’Impero, nell’area balcanica, si stagliava di nuovo la minaccia di un attacco degli Sciti. Purtroppo, il termine Scita, impiegato genericamente dalle fonti latine, non consente di conoscere il vero nome della stirpe in questione, benché ci sia il sospetto che si trattasse dei Goti, o meglio di una federazione di popoli in armi tra i quali gli stessi Goti, i Borani, i temuti Carpi e gli Urugundi. Chiunque essi fossero, gli Sciti si erano da poco riorganizzati sotto la guida di un comandante abile e deciso, Cniva, e agli inizi del 250 avevano irrotto nel territorio romano attraverso la frontiera.

Incursione dei Goti guidati da Kniva in Thracia (c. 249-251) [creazione di Cristiano64].

Sotto il suo secondo consolato, nella seconda parte dello stesso anno, Decio alla testa dell’esercito giunse in Illyricum: in quei mesi si susseguirono diversi fatti militari, atti di sabotaggio, tradimenti e altri tentativi ostili nei confronti dell’imperatore proprio da parte dei suoi stessi collaboratori, tra i quali anche Treboniano Gallo. Dopo aver sbaragliato le armate di Kniva a Nicopolis, in Moesia inferior (CIL II 4949, Dacicus maximus; AE 1942/3, 55, Germanicus maximus), Decio subì un rovescio nei pressi di Beroea, in Thracia, ma riuscì a salvarsi e a riorganizzare le proprie forze. In quel frangente, il governatore della provincia, Tito Giulio Prisco, tradì il principe e, accordatosi segretamente con il nemico, tentò di farsi imperatore (Dexipp. FGrHist. 100 F 26; Iord. Get. 18, 103; AE 1932, 28), mentre Giulio Valente Liciniano assunse il potere a Roma ([Aur. Vict.] Caes. 29, 3; Epit. Caes. 29, 5): entrambi gli usurpatori furono affrontati ed eliminati. Nella primavera del 251, Decio e suo figlio Erennio (anch’egli Augustus), che in quell’anno condividevano il consolato, accorsero in difesa di Philippopolis, che era stata attaccata dai barbari; l’imperatore, tuttavia, non riuscendo a impedire la distruzione della città, tentò di bloccare la ritirata dei Goti oltre il Danubio. L’astuto Kniva seppe però tendere una trappola all’esercito romano così da affrontarlo su un terreno a lui più favorevole: Giordane narra che «appena iniziato lo scontro, uccisero di una morte crudele il figlio di Decio, trafitto da una freccia. Il padre, visto l’accaduto, per rianimare i suoi soldati, avrebbe detto: “Nessuno si affligga. La perdita di un solo soldato non indebolisce lo Stato!”. Tuttavia, non sostenendo il suo dolore paterno, si gettò tra i nemici, cercando la morte o la vendetta del figlio» (Iord. Get. 18, 103, Venientesque ad conflictum ilico Decii filium sagitta saucium crudeli funere confodiunt. Quod pater animadvertens licet ad confortandos animos militum fertur dixisse: “Nemo tristetur: perditio unius militis non est rei publicae deminutio”, tamen, paterno affectu non ferens, hostes invadit, aut mortem aut ultionem fili exposcens…). Dopo aver eliminato l’erede all’Impero, in estate i Goti riuscirono ad aver ragione anche del principe, attirandolo negli acquitrini nei pressi di Abrittus. Zosimo (I 23, 2-3) riporta le ultime, concitate, fasi della battaglia in cui – a quanto pare – giocò un ruolo decisivo il tradimento di Treboniano Gallo, dux Moesiae: «Insediato Gallo sulle rive del Tanai, egli stesso marciò contro i superstiti; e, siccome le cose procedevano secondo i suoi piani, Gallo, deciso a ribellarsi, inviò messaggeri presso i barbari, invitandoli a partecipare al complotto contro Decio. Accolta con molto piacere la proposta, mentre Gallo era di guardia, i barbari si divisero in tre schiere e disposero il primo contingente di forze in un luogo dinanzi al quale si estendeva una palude. Dopo che Decio ebbe ucciso molti di loro, subentrò la seconda schiera e, quando anche questa fu volta in rotta, comparvero presso gli acquitrini alcuni armati del terzo contingente. Gallo allora fece segno a Decio di attraversare la palude e di lanciarsi contro di loro, e l’imperatore, che non conosceva quei luoghi, si spinse all’attacco sconsideratamente: bloccato dal fango con tutto l’esercito e bersagliato da ogni parte dalle frecce dei barbari, fu ucciso insieme ai suoi, non avendo via di scampo. Questa fu la fine di Decio, dopo aver governato in modo eccellente» (Γάλλον δὴ ἐπιστήσας τῇ τοῦ Τανάϊδος ὄχθῃ μετὰ δυνάμεως ἀρκούσης αὐτὸς τοῖς λειπομένοις ἐπῄει. χωρούντων δὲ τῶν πραγμάτων αὐτῷ κατὰ νοῦν, εἰς τὸ νεωτερίζειν ὁ Γάλλος τραπεὶς ἐπικηρυκεύεται πρὸς τοὺς βαρβάρους, κοινωνῆσαι τῆς ἐπιβουλῆς τῆς κατὰ Δεκίου παρακαλῶν. ἀσμενέστατα δὲ τὸ προταθὲν δεξαμένων, ὁ Γάλλος μὲν τῆς ἐπὶ τῇ τοῦ Τανάϊδος ὄχθῃ φυλακῆς εἴχετο, οἱ δὲ βάρβαροι διελόντες αὑτοὺς τριχῇ διέταξαν ἔν τινι τόπῳ τὴν πρώτην μοῖραν, οὗ προβέβλητο τέλμα. τοῦ Δεκίου δὲ τοὺς πολλοὺς αὐτῶν διαφθείραντος, τὸ δεύτερον ἐπεγένετο τάγμα· τραπέντος δὲ καὶ τούτου, ἐκ τοῦ τρίτου τάγματος ὀλίγοι πλησίον τοῦ τέλματος ἐπεφάνησαν. τοῦ δὲ Γάλλου διὰ τοῦ τέλματος ἐπ̓ αὐτοὺς ὁρμῆσαι τῷ Δεκίῳ σημήναντος, ἀγνοίᾳ τῶν τόπων ἀπερισκέπτως ἐπελθών, ἐμπαγείς τε ἅμα τῇ σὺν αὐτῷ δυνάμει τῷ πηλῷ καὶ πανταχόθεν ὑπὸ τῶν βαρβάρων ἀκοντιζόμενος μετὰ τῶν συνόντων αὐτῷ διεφθάρη, διαφυγεῖν οὐδενὸς δυνηθέντος· Δεκίῳ μὲν οὖν ἄριστα βεβασιλευκότι τέλος τοιόνδε συνέβη). Decio fu il primo imperatore a cadere in battaglia contro le popolazioni esterne. Fu allora che Cipriano scrisse che era ormai imminente la fine del mondo (Ad Demetr. 3).

Battaglia tra Romani e Germani. Bassorilievo, marmo proconnesio, c. 251-252, dal sarcofago detto «Grande Ludovisi». Roma, Museo di P.zzo Altemps.

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Vespasiano

Tito Flavio Vespasiano fu acclamato imperatore nel luglio del 69. Uno dei suoi primi atti ufficiali, una volta insediatosi in Roma e dopo aver lasciato al figlio maggiore Tito il compito di gestire la rivolta giudaica, fu di ridurre il numero delle coorti pretorie da sedici a nove. La prima preoccupazione del nuovo princeps fu quella di ridimensionale l’ingerenza dei militari nella vita politica dello Stato, impendendo, in sostanza, che si ripresentasse quella stessa situazione che lo aveva portato al potere. Vespasiano non dimenticò mai, tuttavia, il debito che aveva nei confronti delle legioni di Syria, Aegyptus e Moesia, tra le prime a prestargli giuramento, tant’è che per festeggiare la propria ascesa all’impero, egli scelse il giorno in cui era stato acclamato dai soldati, piuttosto che quello della ratifica del Senato. Da parte loro, i militari vedevano nel nuovo principe uno di loro, un homo novus, di origini non nobili, che aveva saputo elevarsi proprio grazie alla sua abilità guerresca.

Un altro problema che Vespasiano volle dirimere il prima possibile fu quello dei disordini scoppiati ai confini dell’Impero, soprattutto sul Reno. Qui doveva essere ancora sedata la ribellione provocata tra i Batavi da Giulio Civile, insurrezione che si era estesa a macchia d’olio, creando un effimero governo “separatista” nelle Galliae. Vespasiano inviò otto legioni, al comando di Petilio Ceriale e Giulio Sabino, che in poco tempo, verso la fine del 70, ebbero ragione dei rivoltosi e riportarono la situazione alla normalità. Nel frattempo, nel settembre dello stesso anno, il giovane Tito poneva fine alla rivolta giudaica con la presa di Gerusalemme. Ristabilita la pace e sedate le sollevazioni nelle province, era ora necessario dare stabilità a un Impero scosso dalla guerra civile del longus et unus annus (Tac. Dial. 17, 3).

T. Flavio Vespasiano. Busto, marmo bianco, c. 70, da Napoli. Copenhagen, Ny Carlsberg Glyptotek.

Per quanto concerne la politica interna, era evidente che proprio le origini dell’imperatore, che lo rendevano caro agli eserciti, potesse costituire un problema per l’ordine senatorio. Anche i più conservatori e intransigenti tra gli esponenti dell’alto consesso si erano ormai adeguati alla “necessità” del principato; ma, in fin dei conti, il princeps era pur sempre stato un rampollo di una delle più antiche e gloriose genti patrizie: un Giulio o un Claudio.

Era necessario, dunque, per Vespasiano giustificare il proprio potere, consolidarlo e garantirne la continuità. Richiamandosi ai suoi più autorevoli predecessori, già alla fine del 69 l’imperatore aveva promulgato un documento importantissimo, noto come lex de imperio Vespasiani (ILS 244): il rescritto, sancito da un Senatus consultum e ratificato pro forma dalle assemblee comitali, stabiliva una serie di prerogative, diritti e doveri del principe nei confronti della res publica, come la facoltà di convocare il Senato, di non essere vincolato a leggi e plebisciti, di intervenire nell’elezione dei magistrati. Più che di una nuova definizione “costituzionale” dei poteri dell’imperatore, si trattava probabilmente di una pubblicazione sistematica di quelli già esercitati dai predecessori.

Inoltre, nel 71, Vespasiano si associò nell’impero il figlio maggiore Tito, conferendogli la tribunicia potestas e l’imperium proconsulare. Facendo questo, l’imperatore sabino intendeva richiamarsi direttamente ad Augusto, assumendolo a modello della propria propaganda. Nei coni monetali, che facevano il giro dell’Impero, per esempio, venivano ripetuti, in forme lievemente diverse, i rassicuranti simboli del potere augusteo: Aeternitas, Salus, Victoria. Accanto a queste astrazioni personificate, che restituivano alla gente fiducia nella stabilità del governo e nel benessere dello Stato, primeggiava soprattutto un’altra, che costituì la chiave di volta di tutta l’ideologia flavia: la Pace. Rappresentata come una figura muliebre con cornucopia e ramo d’ulivo, la Pax Augusti fu diffusa su ogni mezzo comunicativo. Non solo sulle monete, quindi, ma in suo onore fu progettato ed edificato il nuovo Foro, limitrofo a quello di Augusto. Inoltre, l’accorta politica di Vespasiano portò a una “rinascita” augustea anche nella letteratura, nelle arti e negli studi liberali. I poeti che gravitavano intorno alla corte flavia, in particolare Publio Papinio Stazio, trovarono in Virgilio il modello ideale dell’indimenticata età dell’oro della cultura romana.

T. Flavio Vespasiano. Dupondius, Roma c. 71. Æ 12, 81 g. Verso: Felicitas – publica – S(enatus) c(onsulto). La dea Felicitas stante, voltata a sinistra, con caduceo e cornucopia.

Per garantire alla gens Flavia il prestigio di cui era priva, Vespasiano rivestì il consolato quasi ininterrottamente, spesso insieme ai figli Tito e Domiziano. Sempre a Tito, con un’abile mossa politica, l’imperatore affidò anche l’incarico di prefetto del pretorio, da una parte per assicurarsi l’incolumità e dall’altra per inorgoglire e avvicinare i membri della classe equestre. Attraverso l’istituto della censura, che tenne insieme al figlio maggiore nel 73, Vespasiano poté anche intervenire nella composizione del venerando consesso, espellendone i senatori più scomodi e introducendo nuovi patres conscripti, esponenti delle aristocrazie provinciali d’Occidente.

Proprio nel campo dell’amministrazione delle province, Vespasiano dimostrò grande interesse e particolare attenzione. Molte delle opere pubbliche e delle infrastrutture commissionate e le nuove riorganizzazioni amministrative da lui intraprese avevano certamente scopi economici e fiscali, ma, di fatto, le iniziative del principe impressero un nuovo, fondamentale impulso allo sviluppo di quei territori. La massiccia concessione dello ius Latii o della Romana civitas e l’istituzione di numerosi municipia Flavia, soprattutto nelle Hispaniae, accelerarono il processo di romanizzazione del Paese e la formazione di un’alta aristocrazia locale, che col tempo avrebbe affiancato e poi soppiantato quella italica. Diversamente, le province orientali non godettero della medesima benevolenza: in particolare, l’Achaia, che Nerone aveva gratificato concedendo l’immunitas, fu reintegrata pienamente nel regime fiscale dell’Impero. In Cappadocia e Syria Vespasiano ordinò la costruzione di nuove fortezze legionarie e altre infrastrutture militari, concepite a scopi offensivi più che difensivi.

Nonostante l’epurazione, la destituzione e la sostituzione di alcuni eminenti personaggi dal Senato, è emblematico del mutare dei tempi che Vespasiano non sia stato rappresentato come un acerrimo nemico o un persecutore dell’oligarchia. L’opposizione a lui si limitò, a quanto sembra, ad alcuni circoli filosofici. L’unico complotto di un certo rilievo che sia stata tramandata fu quella che portò alla rovina Elvidio Prisco, genero di Trasea Peto, uno dei “martiri” dell’opposizione a Nerone.

Per cancellare le testimonianze della megalomane attività edilizia di quest’ultimo, Vespasiano si preoccupò di restituire al godimento pubblico molte aree di Roma, ampliando il pomerium e dando inizio alla costruzione dell’Amphitheatrum Flavium. Anche in altre città d’Italia e delle province l’imperatore incoraggiò in tutti i modi l’edilizia pubblica.

La morte lo colse nella nativa Sabina il 24 giugno del 79, quando era ancora impegnato negli affari di Stato.

Lawrence Alma-Tadema, Il trionfo di Tito. Olio su tela, 1885.

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Bibliografia minima:

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La vita di Flavio Giuseppe e il racconto della guerra giudaica

di G. VITUCCI (ed.), Flavio Giuseppe. La guerra giudaica, I, libri I-III, Milano 1974, ix-xxiv.

Giuseppe (più tardi, quando ebbe la cittadinanza romana, Flavio Giuseppe) appartenne a quella generazione di Giudei cui, mentre si appressavano al «mezzo del cammino», toccò di vedere la distruzione di Gerusalemme e la rovina del tempio. A Gerusalemme egli era nato fra il 13 settembre del 37 e il 17 marzo del 38[1]: troppo tardi per rendersi conto dell’ansia disperata di cui la città fu preda intorno al 40, quando da Roma arrivò l’ordine di collocare nel tempio, e farne oggetto di culto, un’immagine di Caligola. Superata, dall’avvento di Claudio, la grave tensione, la vita era ripresa nella più o meno generale rassegnazione agli incomodi del dominio romano, e Giuseppe poté intraprendere gli studi in un’atmosfera meno agitata. Più tardi, rievocando nell’ultima pagina dell’Archeologia quei suoi studi e tutta la sua formazione spirituale, egli distinse tra lo studio della grammatica e della lingua greca (della quale tuttavia confessava di non aver raggiunto una pronuncia perfetta: la sua lingua materna era l’aramaico) e quella che chiamava la παιδεία ἐπιχώριος, παιδεία propriamente giudaica: una παιδεία, aggiungeva, nella quale, per ammissione dei suoi connazionali, andava innanzi a ogni altro. In ogni modo, la preparazione di Giuseppe fu adeguata al suo elevato rango sociale; la sua era infatti una delle famiglie più cospicue, appartenente per parte di padre all’alta nobiltà sacerdotale[2], mentre per parte di madre egli si gloriava di discendere dalla famiglia reale degli Asmonei[3]. In questa preparazione, lo studio della Legge aveva una parte di primo piano, e non v’è ragione di non prestargli fede quando egli aggiunge di aver fatto, grazie alla sua non comune memoria e intelligenza, tali progressi, che al tempo in cui era solo un giovinetto di quattordici anni alcuni sommi sacerdoti e altre personalità di primo piano si recarono da lui a consultarlo[4].

Flavio Giuseppe. Busto (presunto ritratto), marmo, I sec. Copenhagen, Ny Carlsberg Glyptotek

Il quindicesimo anno di vita fu speso in una diretta sperimentazione delle regole teorico-pratiche seguite dalle tre sette che allora tenevano il campo, i Farisei, i Sadducei e gli Esseni, con l’intenzione di prepararsi a una scelta. Dai rapidi accenni della Vita (2, 10) si ricava l’impressione che si sia trattato di una frequentazione cursoria, con una permanenza meno breve presso gli Esseni, cui Giuseppe sembra alludere quando narra di essersi sottoposto a un duro tirocinio, passando attraverso una serie di prove molto severe. Assai più lunga fu invece l’esperienza ascetica vissuta nei tre anni successivi, quando si ritirò nel deserto a far vita di penitenza; il fatto che Giuseppe ricorda anche il nome del maestro che gli fu allora di guida lascia pensare che per lui si trattò di un impegno superiore al normale, e di un’adesione spirituale che i posteriori contatti con il mondo greco-romano non avrebbero potuto cancellare. Comunque, quand’egli fece ritorno in città, fu alla setta dei Farisei che andò la sua preferenza piuttosto che a quella dei Sadducei, verso cui era in genere orientata l’aristocrazia delle grandi famiglie sacerdotali[5], e il giovane Giuseppe continuò a esercitare il suo ingegno nel lavoro di interpretazione della Legge e il suo zelo nel praticarne i precetti.

Una prova di zelo esemplare il giovane la diede nel 64, quando intraprese un viaggio a Roma per perorare la causa di alcuni sacerdoti deferiti qualche anno prima al tribunale imperiale dal procuratore M. Antonio Felice, quello di cui Tacito ricorderà con frase efficacissima che tiranneggiò i sudditi come solo un individuo di estrazione servile poteva fare[6]. Nel ricordare l’episodio, Giuseppe (Vit. 13 ss.) si limita a osservare che le imputazioni erano di scarsa rilevanza, mentre sembra assai probabile che negli indiziati il funzionario romano avesse fiutato degli esponenti del movimento di resistenza, astenendosi peraltro, per una qualche ragione prudenziale, dall’applicare direttamente i suoi poteri coercitivi. Il viaggio di Giuseppe, anche se si svolse in condizioni più fortunose del solito per un drammatico naufragio in mare aperto, si concluse felicemente. Egli sbarcò a Pozzuoli, ove poté assicurarsi l’appoggio di un attore di origine giudaica, un tale Alituro, che era nelle grazie di Nerone sia, possiamo pensare, per il suo talento artistico, sia (e questo lo dice Giuseppe) perché godeva delle simpatie di Poppea, e l’imperatrice non solo assicurò il proscioglimento degli imputati, ma colmò anche di doni Giuseppe[7].

Un dottore della Legge e un fariseo.

Quando questi fece ritorno a Gerusalemme (nell’autunno del 65, a quel che sembra) trovò che la situazione creata dai gruppi di resistenza antiromana si avviava a grandi passi verso la rottura.

La tensione, cominciata oltre cent’anni prima ai tempi della presa di Gerusalemme e della profanazione del tempio da parte di Pompeo, era cresciuta di pari passo con l’ingerenza dei Romani nelle cose di Giudea, provocata sia dal protrarsi della lotta fra il sommo sacerdote Ircano II e suo fratello Aristobulo (cui più tardi subentrò il figlio Antigono), sia delle ripercussioni che in terra d’Oriente ebbero le vicende della guerra fra cesariani e pompeiani. Contro tale ingerenza, che nel 47, per volere di Cesare, aveva portato ad affiancare (di fatto, a sovrapporre) ai tradizionali poteri del sommo sacerdote quelli di un «viceré» con la nomina dell’idumeo Antipatro a ἐπίτροπος[8], era sorto in Galilea un movimento nazionalistico di resistenza con a capo Ezechia, capostipite di una famiglia di patrioti. Ma poco dopo, nello stesso anno 47, la sua banda venne battuta da un corpo di spedizione agli ordini di uno dei figli di Antipatro, Erode, il quale non si fece scrupolo di passarlo per le armi. Accennando a questo episodio (BJ I 204), Giuseppe chiama Ezechia ἀρχιλῃστής (“capo-brigante”) e λῃσταί i suoi uomini, con una nomenclatura che rifletteva il punto di vista dei Romani, per i quali erano latrones i provinciali che cercavano di opporsi con le armi in pugno al loro dominio. Ma da un punto di vista diverso, e non meno valido salvo che rispecchiava il pensiero dei vinti, ben altro che un delinquente comune era stato Ezechia, e per la sua morte i Sadducei avevano sollecitato il sommo sacerdote Ircano II a istruire un regolare processo. Insabbiato questo processo per l’intervento di Sesto Giulio Cesare, un procugino del dittatore che teneva allora il comando delle forze romane in Syria, l’impresa contro Ezechia era diventata il punto di partenza di una fortunata ascesa che avrebbe fatto di Erode, sotto la protezione di Marco Antonio e poi di Augusto, uno dei maggiori potenti del suo tempo. Era perciò naturale che i nazionalisti accomunassero Erode nel loro odio contro i Romani[9]; e fu da questi spiriti di intransigente difesa dei valori del Giudaismo che prese allora avvio il movimento di resistenza degli Zeloti, di cui divenne poi animatore Giuda, figlio di Ezechia, l’alfiere della rivolta scoppiata nel 6 d.C., quando la Giudea cessò di essere un protettorato e venne direttamente assoggettata al dominio romano. Ispirato inizialmente al dovere dell’ubbidienza verso il solo Jahvé (e, dunque, non verso l’«usurpatore» Erode né, tantomeno, verso i Romani), il movimento zelotico si era poi arricchito di motivi di carattere economico-sociale. Infatti, all’acquiescenza, in linea di massima predominante presso i ceti più elevati, che dalla pax Romana si vedevano propiziato il godimento di antichi privilegi, si era contrapposta l’azione degli attivisti a sostegno delle masse più umili, ansiose di novità e, magari, di un rivolgimento totale da realizzare con una lotta concepita in termini di guerra di religione[10].

Fenicia, Celesiria, Decapoli e Giudea sotto la dinastia degli Erodiadi. Karl von Spruner (1865.

Allorché nel 66 la situazione, dopo aver subito un continuo deterioramento, diventò insostenibile per l’azione provocatoria del governatore Gessio Floro, e a Gerusalemme presero a serpeggiare le fiamme della rivolta, fu Menahem, figlio di Giuda e nipote di Ezechia, quello che assunse e per qualche tempo tenne il comando delle operazioni. Il massacro della guarnigione romana aveva reso ormai inevitabile una spedizione punitiva delle truppe di stanza nella vicina provincia di Syria; ma queste forze, quando già sembrava che stessero per impadronirsi di Gerusalemme, vennero travolte assieme al legato Cestio Gallo in un’inaspettata quanto umiliante disfatta. La guerra voluta dagli estremisti, rappresentati oltre che dagli Zeloti anche dai cosiddetti “sicari”, era ormai alle porte, e coinvolse assieme agli altri il nostro storico.

Giuseppe dovette avervi fin da principio una parte di primo piano, anche se molti importanti particolari della sua azione restano in ombra. Ciò dipende anche dalle discrepanze fra il racconto che egli ne fece nel Bellum Iudaicum e quello dato nella Vita oltre vent’anni più tardi. A ogni modo, è soltanto nella Vita (17 ss.) che Giuseppe dà qualche cenno sulla posizione da lui assunta di fronte al problema della guerra, dal momento del suo ritorno da Roma fino allo scoppio delle ostilità: una posizione che lo vide allineato con i maggiorenti dei Farisei in una cauta (perché molto pericolosa) polemica contro le mene dei bellicisti, nel vano sforzo di richiamare costoro a una più realistica valutazione dei pericoli verso cui spingevano il Paese. Ma poi l’inopinato disastro della spedizione punitiva di Cestio Gallo sopraggiunse a rendere incontenibile l’esaltazione dei fautori della guerra; questi presero il sopravvento e nel Sinedrio, anche se con scarso entusiasmo, si deliberarono i provvedimenti richiesti dallo stato di guerra, in vista dell’immancabile ritorno offensivo dei Romani. A Giuseppe, ignoriamo per quali particolari considerazioni, ma certo in grazia della prudenza cui appariva ispirato il suo atteggiamento, venne subito affidato un incarico di rilievo; nel racconto di BJ II 568 quello di assumere il comando delle operazioni difensive nel settore della Galilea, mentre, secondo quanto narra in Vita 29, egli fu chiamato a far parte di una commissione di tre sacerdoti inviati in Galilea per dar ordine ai patrioti di deporre le armi e uniformarsi alla linea di cauto attendismo deciso a Gerusalemme. Nelle due notizie si è creduto di poter cogliere una grande divergenza, tanto da considerare come abusiva l’azione di comando esercitata in seguito da Giuseppe nella Galilea[11].

Truppe romane sopraffatte da un’imboscata dei ribelli giudei. Illustrazione di P. Dennis.

Ma questa teoria si rivela poco convincente; infatti, da quanto viene riferito nella Vita pare debba ricavarsi non la natura dell’incarico affidato a Giuseppe, ma il primo compito assegnatogli nell’esercizio delle sue attribuzioni, premessa indispensabile all’addestramento degli uomini e all’apprestamento delle opere difensive. Tale esercizio, che in partenza poteva fare affidamento sul sentimento patriottico della popolazione, rimasta per lo più sorda ai richiami dell’ellenizzazione[12], nei primi tempi venne reso assai arduo dallo scoppio di gravi episodi di insubordinazione: se si considera che a darcene notizia è lo stesso Giuseppe, e con lunga e dettagliata esposizione, è difficile dubitare della gravità della situazione che gli si trovò a fronteggiare. Nel suo racconto, se solo a prezzo di molti stenti e pericoli gli riuscì di affermare la sua autorità nei centri principali della regione, come Sepphoris, Tiberiade e Tarichee, ciò avvenne per le mene di Giovanni di Giscala, un esponente della resistenza locale che gli diede molto filo da torcere, fino a cercare di provocare la sua destituzione[13].

È un racconto, questo di Giuseppe, che appare attendibile anche in vari particolari, ma che sorvola, naturalmente, sul punto più importante: l’arrivo da Gerusalemme di un comandante superiore (a un certo momento rimasto solo per la partenza degli altri due colleghi con cui era arrivato, cfr. Vit. 77) non fu visto di buon occhio dai patrioti di Galilea, anche perché essi non tardarono a constatare che si trattava di un uomo non senza riserve verso gli ideali della resistenza, e che non credeva nella vittoria finale[14]. Era un difetto per niente trascurabile, capace anzi di neutralizzare i pregi di un comandante, anche il più accorto e valente di tutti quale Giuseppe si vantava di essere (cfr. BJ III 144); ed è notevole, per concludere su questo punto, rilevare che il comitato dei Settanta, da lui istituito come organo consultivo di governo, gli serviva in realtà per tenere in pugno come ostaggi i notabili del Paese[15].

In simili condizioni, non dovevano essere gran cosa gli apparecchi difensivi che Giuseppe era riuscito a realizzare in Galilea, il settore che per ragioni geografiche era esposto a ricevere per primo l’urto dei Romani. In BJ II 572 ss. egli dà l’elenco delle città che furono fortificate[16], e il numero degli uomini da lui arruolati e istruiti secondo gli ordinamenti e la tattica romana per renderli, appunto, capaci di misurarsi con i Romani; si sarebbe trattato di 100.000 uomini (BJ II 576), che poco dopo (II 583) diventano 60.000 fanti e 350 cavalieri, oltre 400.500 mercenari e una guardia del corpo di 600 uomini. A parte la discrepanza delle cifre (che potrebbe spiegarsi distinguendo fra un totale e una parte già pronta per l’impiego), e anche a non voler considerare ugualmente esagerata quella più bassa, si trattava di una forza raccogliticcia provvista in linea di massima soltanto di armamento leggero, e quindi non in grado di affrontare in una battaglia campale la fanteria pesante nemica[17]. Nelle più ottimistiche prospettive non poteva esserci altra speranza se non quella che la potenza d’urto del nemico si esaurisse nel passare dall’assedio dell’una a quello dell’altra fra le più importanti città fortificate, ma era una speranza che non teneva nel debito conto le comparativamente enormi capacità logistiche dell’esercito avversario. Affidato da Nerone a un capo sperimentato e prudente come Tito Flavio Vespasiano, quest’esercito aveva il suo nerbo in tre legioni e, con il consueto contorno di truppe ausiliarie, era più vicino ai 60.000 che ai 50.000 uomini[18].

Processione trionfale con l’esibizione delle spoglie del tempio di Gerusalemme. Pannello interno, rilievo, marmo, c. 81 dall’Arco di Tito a Roma.

Coadiuvato dal figlio Tito, che faceva parte del suo stato maggiore come comandante di una delle legioni, Vespasiano nell’inverno del 66/7 portò a termine la raccolta delle forze concentrandole a Tolemaide, e di lì si addentrò verso l’interno puntando sul grosso centro di Sepphoris, i cui abitanti, impressionati dalla bufera, si erano affrettati a far atto di sottomissione ai Romani, aprendo le porte a un grosso presidio. L’inizio delle operazioni non poteva essere più infausto per Giuseppe; abbandonato dalla maggior parte degli uomini che aveva raccolto a Garis, non lontano da Sepphoris, e che si erano dispersi in fuga, egli si ritirò verso l’interno portandosi a Tiberiade[19], donde inviò a Gerusalemme un rapporto che si chiudeva con la richiesta di inviargli immediatamente rinforzi o, altrimenti, di intavolare trattative di pace. Poi, saputo che il nemico si apprestava a investire l’importante centro di Iotapata, accorse ad assumervi il comando della difesa, e fece appena in tempo a entrare nella città prima che Vespasiano la stringesse d’assedio. Quest’assedio durò circa un mese e mezzo[20] e si concluse con l’espugnazione, nonostante le ingegnose trovate di Giuseppe, che si sofferma a riferirle con grande compiacimento (BJ III 141-339). Mentre la città veniva messa a ferro e fuoco, cominciarono le ricerche per catturare Giuseppe, che assieme a una quarantina di notabili si era rifugiato in una profonda cisterna. Scoperto il nascondiglio, egli si mostrò incline a consegnarsi al nemico, ma la sua arrendevolezza suscitò l’ira degli altri che, decisi a non farsi prendere vivi, gli imposero di scegliere se morire di propria mano o per mano dei compagni. Con un abile espediente, che ancora una volta Giuseppe si compiace di raccontare per filo e per segno con un’abbondanza di particolari a volte romanzeschi (BJ III 340-391), egli riuscì a liberarsi dell’incomoda compagnia e a consegnarsi nelle mani dei Romani.

L’assedio di Iotapata (67 d.C.). Illustrazione di A. Hook.

Sarebbe impossibile, ma soprattutto inutile, controllare la sua veridicità a proposito di arrendersi, perché quelle circostanze corrisposero a una verità psicologica assai più importante di quella che fu la verità storica, in questo caso per noi trascurabile. Vista la piega che fin dal principio avevano preso le operazioni, Giuseppe si era più che mai confermato nella convinzione che quella guerra conduceva alla rovina della patria, e che per salvare il salvabile si doveva cercare di trattare col nemico. A muovere il primo passo in questa direzione egli si era poi sentito prescelto dal dio d’Israele quando alla sua virtù profetica aveva concesso l’ispirazione di predire a Vespasiano il dominio dell’Impero: «Tu, o Vespasiano, sarai Cesare e imperatore, tu e tuo figlio. Fammi ora legare ancora più forte e custodiscimi per te stesso; perché tu, Cesare, non sei soltanto il mio padrone, ma il padrone anche della terra e del mare e di tutto il genere umano»[21].

T. Flavio Vespasiano. Busto, marmo greco, 70-80 d.C. Firenze, Galleria degli Uffizi.

Solo per portare tale messaggio, secondo l’incarico ricevuto dal dio, Giuseppe non aveva osservato l’eroica usanza, già in onore al tempo della riscossa maccabaica (2 Mac. 14, 41 ss.), di darsi la morte per non cadere nelle mani del nemico. Bisognava, inoltre, liberare il campo dalla dannosa «ambiguità» di una profezia che parlava del prossimo avvento di un re che dall’Oriente avrebbe esteso il suo dominio sul mondo intero: ciò era stato interpretato «da molti sapienti giudaici» (BJ VI 312) come allusivo all’avvento di un messia, mentre ora Giuseppe sapeva, e doveva far sapere, che la predizione riguardava invece l’ascesa al trono di Vespasiano. Che in realtà corresse una simile profezia è indubitato[22], così come altrettanto sicuro sembra che essa fosse nata in ambiente zelotico sotto l’influenza di antiche aspettazioni escatologiche. Pertanto, a ispirare la profezia era stata certamente la speranza nell’avvento di un uomo che da Israele avrebbe allargato il suo regno messianico su tutto il mondo, sì che l’interpretazione giusta era quella datane dai «sapienti giudaici», a torto contraddetti da Giuseppe con la sua speciosa interpretazione dell’attesto avvento messianico in chiave di un adventus Augusti. Ciò non vuol dire, assolutamente, che il giudeo-ellenizzato Giuseppe abbia distorto con spregiudicata disinvoltura il significato di un testo ritenuto ispirato: l’impressione è che egli sentisse di parlare in piena coscienza, sinceramente convinto che nei disegni divini a Vespasiano era serbato il dominio sull’Impero universale di Roma, sì che per i Giudei il meglio era cessare al più presto di trattarlo ostilmente. Questa convinzione (che, ripeto, sembra da ritenere autentica) dovette essergli di qualche conforto per la nuova vita che ora si apriva dinanzi a lui.

Avveratasi, di lì a un paio d’anni, la sua profezia con l’acclamazione a imperatore di Vespasiano (1 luglio 69), il nuovo «padrone della terra e del mare e di tutto il genere umano» si ricordò con simpatia del giovane sacerdote giudeo che si trascinava dietro in catene dal tempo della presa di Iotapata, e nell’euforia dell’ora ordinò che fosse liberato dalla schiavitù (in cui quello era caduto come prigioniero di guerra[23]). In tal modo, anche per le simpatie personali che seppe destare in Tito, Giuseppe diventò fautore, e poi anche cordiale collaboratore, di un nemico che, al termine di una durissima guerra, avrebbe distrutto Gerusalemme. Per molti aspetti il suo caso richiamava quello di Polibio, che oltre due secoli prima, persuasosi della superiorità politica della Repubblica romana, aveva scritto per chiarire a sé e ai suoi connazionali greci i motivi che ne giustificavano l’egemonia sui Paesi del mondo mediterraneo. Ma a Giuseppe era toccato non di teorizzare le ragioni del primato di un popolo straniero, ma di vivere nell’accampamento dello straniero che assediava Gerusalemme, di prestare la sua opera come interprete e strumento di propaganda, insomma di comportarsi in modo da essere bollato come traditore da chiunque non condividesse le sue riserve sull’opportunità della guerra scatenata dalla resistenza antiromana[24].

Per uno come lui, pur dopo l’acquisto della cittadinanza romana, restava aperto alle suggestioni dell’orgoglio nazionale[25], la taccia del rinnegato dové sempre essere un gran peso sul cuore; ciò appare, del resto, anche dal fatto che egli non si lasciò sfuggire nessuna occasione per difendersene, ritorcendo sui rivoluzionari l’accusa di aver essi, con la loro follia bellicista, tradito la causa della patria fino a provocarne la distruzione. Dopo aver seguito l’esercito romano nel 67 durante l’occupazione del resto della Galilea, nel 68 durante la sottomissione della Perea, dell’Idumea e della Giudea (finché Vespasiano fu raggiunto dalla notizia della morte di Nerone, che causò una lunga stasi della guerra fino alla sua elezione imperiale), dopo aver assistito alla ripresa delle operazioni sotto il comando di Tito fino all’espugnazione di Gerusalemme (settembre 70), Giuseppe vide nella serie ininterrotta dei rovesci patiti dai Giudei la conferma della sua convinzione che il dio era passato dalla parte dei Romani. Nella propaganda dei bellicisti l’incitamento alla resistenza si accompagnava alla promessa di un intervento del divino alleato che già tante volte aveva salvato Israele: Giuseppe replicava che tale intervento era certo, ma questa volta per colpire l’empietà degli uomini della resistenza, i quali per realizzare il loro intento non si erano astenuti dalle più orribili atrocità, calpestando ogni legge umana e divina (BJ V 400 ss.). Così, secondo lui, l’ingiustizia aveva preso a trionfare in Israele (in contrasto con la giustizia dei Romani, che si erano invece sempre limitati a non esigere che il tributo) costringendo il dio ad abbandonare l’alleanza col suo popolo per divenire σύμμαχος dei Romani, da lui scelti a strumento delle sue vendette e, perciò, protetti e premiati (BJ V 409-410). Questo era ritenuto da Giuseppe il vero tradimento che, privando Gerusalemme dell’aiuto divino, l’aveva condannata alla distruzione. Lui, se mai, aveva cercato di mitigare la furia vendicatrice dei vincitori, ricorrendo ogni volta che si poteva alla clemenza di Tito, specialmente nei giorni terribili che seguirono la caduta della città.

T. Flavio Vespasiano (jr.). Statua, marmo bianco, 79 d.C. dalla basilica di Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

L’odio e il disprezzo verso il «rinnegato» dovettero placarsi, ma non estinguersi, dopo che egli si fu ritirato a Roma; a rinverdire la memoria contribuivano l’invidia per le terre donategli in Iudaea da Tito e poi anche da Vespasiano, l’ospitalità da questi offertagli a Roma nella casa che abitavano prima di trasferirsi nei palazzi imperiali, l’assegnazione di una pensione annua (Vit. 442-443). Più volte venne addirittura fatto oggetto di calunniose denunce (BJ VII 437 ss.; Vit. 424-425), peraltro rimaste sempre senza alcun effetto. Libero dal peso di ogni preoccupazione materiale, circondato dall’affetto di tre figli e dalla moglie[26], Giuseppe poté attendere alla composizione di una storia della guerra giudaica, cui sembra già avesse in qualche modo pensato nel corso dell’assedio di Gerusalemme, quando aveva preso una serie di appunti, come egli stesso ricorderà più tardi[27]. Per prima cosa scrisse un’opera in aramaico, destinata ai Giudei della diaspora mesopotamica, cui in sostanza si allude con l’ampollosa espressione «ai Parti, ai Babilonesi, agli Arabi, ai Giudei d’oltre Eufrate e agli Adiabeni» di BJ I 6. Questi primi passi dell’attività storiografica di Giuseppe furono certamente seguiti con compiacimento dai suoi imperiali patroni, ai cui occhi l’opera si presentava, fra l’altro, come un ammonimento per quelle genti a non voler mai più covare o favorire propositi di ribellione antiromana[28]. Quando poi Giuseppe approntò una «traduzione» in greco (Ἑλλάδι γλώσσῃ μεταβαλών) della sua opera, sì che questa potesse andare nelle mani di una più larga cerchia di lettori in tutto l’Impero, l’interesse dei Flavi per il suo lavoro crebbe enormemente (anche se resta solo una congettura che fossero loro a ispirarlo). Quella di Giuseppe poteva diventare, come in effetti diventò, la storia ufficiale della gloriosa impresa che aveva portato in primo piano Vespasiano per la scalata al trono dei Cesari, e non per niente all’atto della pubblicazione essa portava l’imprimatur di Tito[29].

Naturalmente, si trattava di una «traduzione» solo per modo di dire: bastava il cambiamento (toto coelo) del pubblico cui l’opera era diretta per imporre una serie di ritocchi, a partire da quelli di carattere formale apportati dai collaboratori greci, alla cui opera Giuseppe dovette far ricorso non essendo in grado di scrivere in greco[30]. Certamente non poche dovettero essere le pagine ritoccate, soppresse o aggiunte: fra queste ultime, per esempio, tutte quelle relative alla minuta informazione geo-topografica sui Paesi che erano stati teatro della guerra e, in particolare, la descrizione della città e del tempio di Gerusalemme (V 136-247), nonché quella del trionfo di Vespasiano e di Tito (BJ VII 123 ss.)[31]. Anche a non voler mettere in discussione (per mancanza di elementi concreti) se nello scrivere l’opera in lingua aramaica Giuseppe avesse già avvertito l’opportunità di inquadrare la storia della guerra rifacendosi alla presa di Gerusalemme da parte di Antioco Epifane, è assai probabile che gli antefatti della guerra scoppiata nel 66 vi fossero trattati con maggiore concisione rispetto alla «traduzione» destinata poi al pubblico greco-romano[32].

Lawrence Alma-Tadema, Il trionfo di Tito. Olio su tela, 1885.

Dopo la pubblicazione del Bellum Iudaicum in greco, che ebbe luogo fra il 75 e il 79[33], Giuseppe poté continuare la sua attività storiografica sotto la protezione di Tito (che proprio negli anni fra il 75 e il 79 aveva convissuto a Roma more uxorio con la principessa giudaica Berenice, sorella di Agrippa II) e poi di Domiziano, che ai precedenti benefici aggiunse quello dell’esenzione fiscale per le proprietà fondiarie in Giudea (Vit. 428-429). Difficile invece, se non impossibile, farsi un’idea anche approssimativa del vantaggio che nell’ambiente di corte Giuseppe poté trarre da un suo eventuale accostarsi ai circoli giudeo-cristiani, di cui furono esponenti Flavio Clemente (cos. 95) e sua moglie Flavia Domitilla[34]. Sta di fatto che nel 93-94 egli riuscì a pubblicare una grossa opera di storia patria, la Ἰουδαϊκὴ ἀρχαιολογία («Storia antica dei Giudei», latinamente Antiquitates Iudaicae, dalle origini allo scoppio della guerra del 66), incoraggiato e sostenuto anche da un influente amico, che egli chiama Epafrodito e che sembra da identificare col noto liberto di Nerone[35]. Allo stesso Epafrodito furono poi dedicati anche la Vita, redatta dopo il 100 in polemica con Giusto di Tiberiade[36], che della guerra giudaica aveva pubblicato una storia in cui cercava di compromettere agli occhi dei Romani la figura di Giuseppe[37], e il contra Apionem, l’ultima delle sue opere, scritta in difesa del Giudaismo contro le denigratorie e calunniose invenzioni propalate soprattutto dai Greci col loro sprezzante spirito di superiorità. Nella chiusa delle Antiquitates Giuseppe dichiara di voler preparare un’edizione abbreviata della storia della guerra giudaica con un’appendice di aggiornamento nella parte finale[38]. Tale progetto non risulta sia mai stato realizzato, e perciò qualcuno ha avanzato la congettura, poco convincente, che qui lo storico si riferisse al suo proposito di scrivere la Vita, che fu pubblicata in appendice alla seconda edizione delle Antiquitates[39]. Certo è, invece, che non fu Giuseppe l’autore del cosiddetto “quarto libro dei Maccabei”, a torto attribuitogli, fra gli altri, da Eusebio (Hist. Eccl. III 10). La morte dovette coglierlo in uno dei primi anni del II secolo.

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[1] Il 18 marzo del 38 segnò l’inizio del secondo anno di principato di Gaio Caligola, mentre Giuseppe (Vit. 5) afferma di esser nato nel primo anno. Il termine iniziale, il 13 settembre del 37, si ricava da AJ XX 267, dove Giuseppe dichiara di aver compiuto i 56 anni nel corso del tredicesimo anno di principato di Domiziano, che andò dal 13 settembre 93 al 12 settembre 94.

[2] Cfr. BJ III 352; Ap. I 54; in Vit. 2 si specifica che il casato di Giuseppe rientrava nella prima delle ventiquattro «famiglie» sacerdotali.

[3] Di questa discendenza egli si vanta in Vit. 2, dove Giuseppe è in polemica con qualcuno che gli rinfacciava – quelli erano i tempi – l’oscurità dei natali. Pertanto, non è escluso che egli abbia esagerato in senso opposto, e sarei più incline a condividere le riserve di Hölscher 1916, 1935, che le giustificazioni di Radin 1929.

[4] Vit. 9, un racconto che richiama quello di Luc. 2, 41 ss. Tali progressi possono spiegare, per converso, alcune deficienze “culturali” che ai nostri occhi destano un certo stupore. Così, p. es., la pretesa (cfr. BJ IV 5) che gli abitanti di Gamala (da “cammello”, in ebraico gamal, in aramaico gamla) sbagliassero a chiamare con quel nome la loro città, che avrebbe dovuto chiamarsi piuttosto Kamala (alla greca! da κάμηλος), o l’affermazione che Melchisedek coniò il nome di Gerusalemme, aggiungendo a quello precedente di Salem l’epiteto (greco!) di ἱερόν (cfr. BJ VI 438). Solo più tardi, nel contra Apionem, polemizzando con uno scrittore antisemita, il quale faceva derivare il nome della città da un Ἱερόσυλα, un nome che avrebbe conservato il ricordo delle spoliazioni di templi perpetrate dai suoi fondatori, Giuseppe capirà l’assurdo di una simile etimologia, osservando che quello scrittore (I 319) οὐ συνῆκεν, ὅτι ἱεροσυλεῖν οὐ κατὰ τὴν αὐτὴν φωνὴν Ἰουδαῖοι τοῖς Ἕλλησιν ὀνομάζομεν («non considerò che noi Giudei non usiamo lo stesso vocabolo dei Greci per dire “spogliare i templi”»).

[5] Col che non deve considerarsi in contrasto l’atteggiamento critico che Giuseppe assume nei confronti dei Farisei in BJ I 67; 110-111; e AJ XIII 41.

[6] Tac. Hist. V 9, 3: ius regium servili ingenio exercuit («esercitò un’autorità di re con animo servile»).

[7] Sulla θεοσέβεια di Poppea, cfr. Smallwood 1959. È strano (o, almeno, a noi non può non sembrar strano) che in questo non troppo succinto racconto del viaggio a Roma siano rimasti senza eco il grande incendio che distrusse interi quartieri dell’Urbe e la successiva persecuzione anticristiana, due grossi fatti che accaddero appunto nell’anno 64. Che Giuseppe non ne abbia ricavato un’indimenticabile impressione pare da escludere; pertanto, egli avrà deliberatamente sorvolato su di essi per non deviare dal filo del racconto.

[8] Così in BJ I 199; cfr. 209; ἐπιμελητής, in AJ XIV 127.

[9] E con loro due anche il sommo sacerdote Ircano II, il «sacerdote empio» esecrato assieme ai Romani e all’«uomo di menzogna» (Erode) nel Commentario di Habacuc, uno dei testi più importanti fra quelli conservati dai manoscritti del Mar Morto. Cfr. BJ I 270.

[10] Cfr. BJ II 118; IV 161.

[11] Così Laqueur 1920.

[12] Cfr. Oepke 1941.

[13] BJ II 626-631; Vit. 189-332.

[14] Meno attendibile mi sembra su questo punto particolare la rappresentazione di Ricciotti (I, 39-40), che tratteggia la figura di Giuseppe come quella di un arrivista divorato dall’ambizione di diventare «una specie di monarca della regione, atteggiandosi a patriota insurrezionista». L’intento di Giuseppe fu in realtà quello di assicurarsi il controllo sulle varie componenti della resistenza locale, ed egli cercò di riuscirvi in ogni modo, anche vietando a Giovanni di Giscala di attingere dai magazzini dei viveri, come si legge in Vit. 72. Se qui Giuseppe scrisse che egli lo fece con l’intenzione di conservare il grano per i Romani (con ciò stesso inavvertitamente attribuendosi la figura del traditore), la cosa si spiega pensando che egli compose la propria autobiografia proprio per controbattere le accuse di attività antiromane rivoltegli da Giusto di Tiberiade, e di qui l’invenzione della poca gloriosa benemerenza. Sulla preferenza da accordare, in genere, al racconto della Vita rispetto a quello del Bellum Iudaicum, cfr. Gelzer 1952.

[15] Vit. 79 τοὺς δ’ ἐν τέλει τῶν Γαλιλαίων ὅσον ἑβδομήκοντα πάντας βουλόμενος ἐν προφάσει φιλίας καθάπερ ὅμηρα τῆς πίστεως ἔχειν φίλους τε καὶ συνεκδήμους ἐποιησάμην («I maggiorenti dei Galilei, complessivamente in numero di settanta, volendo con l’apparenza dell’amicizia tenermeli come ostaggi della fedeltà della religione, li feci miei amici e compagni nei miei spostamenti»).

[16] Un elenco non molto diverso da quello di Vit. 187 ss.

[17] Cfr. l’andamento dello scontro dinanzi a Iotapata di cui si parla in BJ III 113.

[18] Vd. BJ III 69.

[19] Cfr. BJ III 129 ss.; Vit. 395-412.

[20] Cfr. BJ III 142.

[21] BJ III 402. Che la profezia dell’impero fosse fatta a Vespasiano proprio da Giuseppe risulta confermato dal cenno di Svetonio (Vesp. 5, 9). La tradizione rabbinica, ostile al «rinnegato» Giuseppe, cercò poi di privarlo di un tal vanto e attribuì la profezia al rabbino Johann ben Zakkai.

[22] Ne parlano anche Tacito (Hist. I 10, 3; II 1, 2; V 13, 2), Svetonio (Vesp. 4, 9 ss.) e Cassio Dione (LXVI 1, 4).

[23] Come appare dal racconto di BJ IV 622 ss., dové allora trattarsi probabilmente di una manumissio inter amicos, la quale non era compresa tra le forme solenni di liberazione (manumissio) e pertanto non conferiva al servo, assieme allo status libertatis, anche il ius civitatis (sulla manumissio inter amicos, cfr. Albanese 1964, 7 ss.). A ogni modo, secondo il posteriore racconto di Vit. 423, fu solamente al suo arrivo a Roma al seguito di Tito, dopo la presa di Gerusalemme, che Vespasiano concesse a Giuseppe la cittadinanza romana, e Giuseppe da quel momento come civis Romanus si chiamò Flavio Giuseppe, assumendo il nomen dell’ex padrone.

[24] Cfr. BJ III 431 ss.

[25] Un orgoglio che nel Bellum Iudaicum si manifesta in varie occasioni, p. es., nel sottolineare la gravità della sconfitta inflitta dai Giudei all’esercito di Cestio Gallo (II 555); vd. anche I 1, e III 43. Più tardi fu lo stesso orgoglio patriottico a ispirargli la composizione delle Antiquitates Iudaicae e a spingerlo a controbattere nel contra Apionem le calunnie dell’antisemitismo dell’epoca.

[26] Fu questa la quarta e ultima moglie di Giuseppe, una nobile e virtuosa giudea cretese (Vit. 427), che egli sposò a Roma e da cui ebbe due figli, Giusto, nato nel settimo anno di Vespasiano (1 luglio 75-30 giugno 76), e Agrippa, di due anni più piccolo. Precedentemente, Giuseppe era stato unito con una donna alessandrina, ripudiata per dissapori coniugali dopo la nascita del figlio Ircano (Vit. 415), una giudea fatta prigioniera a Cesarea, che Vespasiano gli aveva data in moglie dopo la profezia dell’Impero (Vit. 414), e una giudea che egli aveva lasciato a casa quando si era recato ad assumere il comando delle operazioni in Galilea e che era rimasta assediata in Gerusalemme (BJ V 419).

[27] Ap. I 49 ἐν ᾧ χρόνῳ γενομένην τῶν πραττομένων οὐκ ἔστιν ὃ τὴν ἐμὴν γνῶσιν διέφυγεν· καὶ γὰρ τὰ κατὰ τὸ στρατόπεδον τὸ Ῥωμαίων ὁρῶν ἐπιμελῶς ἀνέγραφον καὶ τὰ παρὰ τῶν αὐτομόλων ἀπαγγελλόμενα μόνος αὐτὸς συνίειν («In quel tempo non vi fu un avvenimento di cui non venissi a conoscenza; infatti, prendevo diligentemente nota di ciò che vedevo nell’accampamento romano ed ero il solo in grado di comprendere quanto riferivano i disertori»).

[28] Di quest’ammonizione la più chiara formulazione sarà poi quella di BJ III 108, ove Giuseppe, al termine di un ampio excursus sull’eccellenza dell’organizzazione militare romana, conclude: «Su tutto ciò mi sono dilungato non tanto con l’intenzione di magnificare i Romani, quanto di consolare quelli che ne furono assoggettati e di dissuadere coloro che pensassero di ribellarsi». Questi non meglio precisati, ipotetici ribelli non possono essere se non i «connazionali dell’Adiabene», nominati nel discorso messo in bocca a re Agrippa II (BJ II 388) per distogliere i Giudei dai loro propositi di guerra.

[29] Cfr. Vit. 363 ὁ μὲν γὰρ αὐτοκράτωρ Τίτος ἐκ μόνων αὐτῶν ἐβουλήθη τὴν γνῶσιν τοῖς ἀνθρώποις παραδοῦναι τῶν πράξεων, ὥστε χαράξας τῇ ἑαυτοῦ χειρὶ τὰ βιβλία δημοσιῶσαι προσέταξεν («A tal punto, infatti, l’imperatore Tito era desideroso che soltanto attraverso quei libri il mondo fosse informato di quei fatti, che vi appose il suo visto e diede ordini per la loro pubblicazione»).

[30] Ap. I 50 χρησάμενός τισι πρὸς τὴν Ἑλληνίδα φωνὴν συνεργοῖς («avvalendomi di alcuni collaboratori per la lingua greca»). Che questi collaboratori si limitassero a un semplice lavoro di rifinitura è stato sostenuto da Shutt 1961, 33, in base ad argomenti ricavati da un esame stilistico, ma vd. le giuste riserve di Schreckenberg 1963. Ugualmente da sottoporre a cautela le troppo fidenti conclusioni cui Thackeray 1929, 100 ss., pervenne circa la personalità di alcuni di questi collaboratori; cfr. Petersen 1958, 260 n. 1.

[31] Poiché a I 29, nel sommario che Giuseppe dà della sua opera, il trionfo viene presentato come punto finale di essa, Eisler 1929, 252, ha congetturato che tutta la parte successiva del libro VII fosse stata composta in un secondo momento. In una prima stesura, approntata per essere offerta nel 71 in occasione del trionfo, l’opera sarebbe stata finita proprio con l’accenno alla pompa trionfale. Sembra però credibile che la Guerra potesse venir composta in così poco tempo, anche perché Giuseppe aveva bisogno dei collaboratori per la lingua greca, mentre nel sommario la menzione del trionfo per indicare la fine dell’opera può spiegarsi pensando che ivi uscisse dalla scena la figura del protagonista, Tito.

[32] Così Niese 1896, 201. Petersen 1958, 268 ss., spiega appunto come effetto di queste aggiunte la maggior mole dei libri I-II rispetto agli altri.

[33] Il terminus post quem non è la morte di Vespasiano, 23 maggio 79, cui l’opera fu offerta in omaggio (Vit. 361; Ap. I 51); il terminus ante quem non si ricava dalla menzione in BJ VII 158 ss., come di un’opera portata a compimento, del tempio della Pace, che fu dedicato nel 75 (DCass. LXVI 15, 1). Quest’ultimo dei due termini vale evidentemente per la pubblicazione dell’opera, non per la sua composizione, come invece pare intendere Hölscher 1916, 1940, e 1942.

[34] Vd. BJ IV 321; cfr. AJ XX 199; cfr. Mazzarino 1966, II 2, 101 ss.

[35] Cfr. PIR² III 80, n. 69.

[36] Cfr. FGrHist. 734. Poco convincente il tentativo di Frankfort 1961 per alzare la data di composizione dell’autobiografia al periodo tra il 93-94 e il settembre del 96.

[37] Sì che la Vita, più che una biografia, come vorrebbe il titolo, risulta essere per la massima parte una particolareggiata esposizione dell’attività di Giuseppe come comandante della difesa della Galilea nei sei mesi circa che precedettero l’assedio di Iotapata e la sua cattura.

[38] AJ XX 267 Ἐπὶ τούτοις δὲ καταπαύσω τὴν ἀρχαιολογίαν βιβλίοις μὲν εἴκοσι περιειλημμένην, ἓξ δὲ μυριάσι στίχων, κἂν τὸ θεῖον ἐπιτρέπῃ κατὰ περιδρομὴν ὑπομνήσω πάλιν τοῦ τε πολέμου καὶ τῶν συμβεβηκότων ἡμῖν μέχρι τῆς νῦν ἐνεστώσης ἡμέρας, ἥτις ἐστὶν τρισκαιδεκάτου μὲν ἔτους τῆς Δομετιανοῦ Καίσαρος ἀρχῆς, ἐμοὶ δ’ ἀπὸ γενέσεως πεντηκοστοῦ τε καὶ ἕκτου («Con questo terminerò la mia “archeologia”, che è compresa in venti libri con sessantamila righe. Se il dio me lo concederà, tornerò di nuovo a scrivere una storia abbreviata della guerra e di ciò che ci è accaduto fino a oggi, vale a dire fino al tredicesimo anno di Domiziano e al cinquantaseiesimo della mia vita»).

[39] Petersen 1958, ma vd. Feldmann 1965, 530-531. Di una seconda edizione della Vita, e non di una seconda edizione delle Antiquitates, preferiva parlare Motzo 1924, 214 ss.