Genserico, i Vandali e il nuovo sacco di Roma

Nella lingua italiana il termine “vandalo” è da sempre sinonimo di distruttore selvaggio, che, senza alcuna motivazione ma solo come manifestazione di violenza, per gusto perverso o per ignoranza, devasta e rovina beni e oggetti di valore, e soprattutto monumenti, opere d’arte. Con questa accezione, nel suo Rapport sur les destructions opérées par le vandalisme, et sur les moyens de le réprimer del 1794, l’abate Henri Grégoire, vescovo costituzionale di Blois, coniò il concetto di “vandalismo”. La pessima nomea, che dall’antichità al Rinascimento, fino all’età moderna, accompagnò il popolo dei Vandali deriva dalle sanguinarie imprese compiute durante la conquista della dioecesis Africae nel V secolo (Possid. Vita August. 31, 1, Romaniae eversores). I Vandali erano una stirpe germanica del gruppo etnico orientale, suddivisi nei due rami degli Asdingi e dei Silingi. A causa della pressioni unniche e della carestia, intorno al 400, sotto re Godigiselo (PLRE 2, 515-516), gli Asdingi lasciarono le proprie sedi in Pannonia e si portarono in Raetia. Nel 401/2 furono sconfitti in battaglia dal “generalissimo” Flavio Stilicone, che, indottoli a concludere un foedus, consentì loro di insediarsi tra il Noricum e la Vindelicia. Nel 405 Godigiselo ruppe l’accordo con l’Impero romano e, unitosi all’orda barbarica di Radagaiso, invase l’Italia, dove, nei pressi di Florentia, fu battuto ancora una volta dalle forze di Stilicone. Nel 406, alleato con Alani e Suebi, Godigiselo portò i suoi nella valle del Meno, riunì sotto di sé tutte le tribù vandaliche e mosse in armi contro i Franchi, foederati dei Romani, che difendevano la frontiera renana nei pressi di Augusta Treverorum: mentre infuriava la zuffa, però, il re dei Vandali cadde ucciso (Greg. Tur. Hist. Franc. II 9; Theoph. HE 5931; 6026; cfr. Procop. Bell. III 3, 1-2). Gli successe il figlio Gunderico (PLRE 2, 522), che, unite le sue forze a quelle degli Alani di re Respendiale, sconfisse i Franchi e alla fine del 406 attraversò il Reno. Senza incontrare alcuna resistenza, i barbari invasero e saccheggiarono le Galliae con grande ferocia (Oros. VII 3, 4; Chron. min. I 299; 465 Mommsen; Zos. VI 3), poi, nel 409, varcarono i Pirenei (Chron. min. II 17 Mommsen; Soz. IX 12; Greg. Tur. Hist. Franc. II 2). Le distruzioni causate da questi razziatori sia in Gallia sia in Hispania dovettero essere state notevoli. Pur dando per scontata una certa esagerazione delle fonti letterarie, come la nota immagine, prospettata dal vescovo Orienzio nel suo Commonitorium, dell’intera Gallia invasa dal fumo di un’unica pira funeraria (Orien. Comm. II 184, uno fumavit Gallia tota rogo), occorre considerare che per due anni l’intero settore subì l’assalto degli invasori e la stessa sorte toccò alla Penisola iberica nei due anni successivi.

Cavaliere vandalico. Illustrazione di J. Shumate.

Tra l’altro, siccome la dioecesis Hispaniarum non era una regione di frontiera, le truppe imperiali di stanza sul posto erano poco numerose e, quindi, incapaci di proteggere la popolazione da una simile minaccia: nel suo De gubernatione Dei il moralista Salviano di Marsiglia ricorda quanto facilmente i Vandali poterono spazzare via le forze romane in battaglia (Salv. Gub. VII 12, 52, Quid in Hispania, ubi etiam exercitus nostros bellando contriverant?). Inoltre, non erano soltanto i barbari a causare distruzioni, debacchantibus per Hispanias: il vescovo Idazio, un cronista del tempo (Chron. min. II 17 Mommsen), parla anche di gravi pestilentiae, della perdita di ricchezza da parte dei centri urbani a causa del tyrannicus exactor e di terribili carestie tali da indurre perfino le madri a cuocere e cibarsi dei loro stessi pargoli (matres quoque necatis vel coctis per se natorum sint pastae corporibus); simili notizie si ritrovano anche nell’Historia Wandalorum compilata da Isidoro, vescovo di Hispalis (Chron. min. II 295 Mommsen). Sembra che la situazione cominciò a migliorare nel 411 allorché i barbari delle Hispaniae decisero di concludere la pace con le autorità romane e di trovare un accomodamento, secondo i dettami della foederatio e dell’hospitalitas (cfr. C.Th. VII 8, 5): i Vandali Asdingi di Gunderico presero una parte della Gallaecia, mentre i Suebi occuparono la parte restante, che si affacciava sull’Oceano; gli Alani ebbero la Lusitania e la Carthaginensis, mentre i Vandali Silingi la Baetica (Oros. VII 40, 10). Secondo Idazio, gli Hispani delle città e dei castelli sopravvissuti alle catastrofi (residui a plagis) si arresero a diventare servi dei nuovi arrivati, che detenevano il potere in tutte le province. Sembra che la migrazione e l’insediamento dei Vandali nella Penisola iberica siano stati provocati dalle pressione dei Visigoti.

Nel 416 il re goto Wallia dei Balti (PLRE 2, 1147), infatti, concluse un foedus con l’Impero d’Occidente. Poco tempo dopo, onorando l’accordo, Romani nominis causa Wallia mosse guerra ai barbari delle Hispaniae e ne fece strage: stando a Idazio (Chron. min. II 19 Mommsen), tutti i Silingi della Baetica furono spazzati via, il loro re Fredebaldo fu catturato e tenuto come ostaggio a Ravenna, mentre gli Alani subirono perdite tali che i pochi sopravvissuti, ormai privi della loro guida, re Attace, si posero sotto il comando di Gunderico, che da allora si fregiò del titolo di rex Vandalorum et Alanorum (Oros. VII 43, 10-15; Olympiod. F Blockley).

Mappa della Penisola iberica nel V secolo relativa all’insediamento delle popolazioni barbariche.

Comunque, l’avvenimento più importante della storia dei Vandali fu la loro partenza dalle Hispaniae a seguito dell’intrepida decisione di Genserico. Le fonti antiche offrono di questo sovrano un ritratto a dir poco negativo: variamente noto come Gaisericus, Geisiricus, Ginziricus o Γιζέριχος, il re dei Vandali appare come il vero prototipo del barbaro efferato, crudele e astuto, abituato a vivere con poco, ma, al contempo, avido di ricchezze altrui, facile all’ira e incline all’intrigo, completamente privo di quell’umanità e di quel rispetto delle leggi che altri condottieri germanici avevano appreso e assorbito al contatto con i Romani (Iord. Get. 33, 168). Il suo fanatismo religioso lo spinse a instillare nei suoi la convinzione che la conquista della dioecesis Africae fosse una vera e propria “guerra santa” contro le gerarchie ecclesiastiche niceno-calcedoniane, colpevoli della persecuzione degli ariani. La descrizione di Genserico e dei suoi è talmente convenzionale da aver fatto sorgere il dubbio, fra gli interpreti moderni, che si tratti, se non di una mistificazione, almeno di un’esagerazione della propaganda cattolica: più terribili erano le efferatezze attribuite a Genserico, più luminosa ed eroica sarebbe apparsa l’opposizione del clero e dei fedeli ortodossi (Possid. Vita August. 28, 4; Socr. HE VII 9-10; Soz. HE IX 6; Procop. Bell. III 5, 25; Salv. Gub. VII 12, 54).

Chi era, allora, questo rex superbissimus, impius fautore dell’Arriana perfidia? Un uomo crudele e selvaggio, così come viene dipinto dagli scrittori contemporanei, oppure un sovrano capace e lungimirante, un capo carismatico e un guerriero eccellente, abile creatore e amministratore di regni? È noto che Genserico era figlio illegittimo di Godigiselo e, sebbene fosse nato da una concubina, ancora giovane, nel 428 successe come re al fratellastro Gunderico – questi, secondo Idazio, sarebbe morto dopo essere stato reso pazzo da un demone a seguito della conquista di Hispalis (Sidon. Carm. III 358-380; V 97; Procop. Vand. I 3, 23; Chron. min. II 22 Mommsen). Dal momento che l’accessione al trono di Genserico avvenne senza opposizioni, è probabile che, a quel tempo, presso i Vandali la semplice appartenenza di uno dei due genitori alla famiglia reale asdinga garantisse ai figli il diritto di essere considerati membri della dinastia e consentisse loro di aspirare al regno. Onde evitare il rischio che tali diritti fossero messi in discussione, Genserico tolse di mezzo la cognata e il nipote. Sin da subito egli si mostrò un uomo forte e autoritario, dotato di un’ottima esperienza in guerra e di un’intelligenza non comune, capace di trascinare il suo popolo in un’impresa piena di incognite (cfr. Procop. Bell. III 3, 24).

Un guerriero vandalo e la sua famiglia. Illustrazione di P. Glodek.

Nel maggio del 429 Genserico raccolse tutta la sua gente – i Vandali e gli Alani, con mogli, figli e tutte le persone a loro carico – nel porto di Iulia Traducta in Baetica, presso le Colonne d’Ercole, e ne organizzò l’emigrazione. Appena prima di compiere la traversata, Genserico respinse un’offensiva scatenata dagli Svevi alla provincia romana, ne inseguì le truppe in fuga fino in Lusitania e inflisse una dura disfatta al loro re, Eremigario, nei pressi di Augusta Emerita (Chron. min. II 21 Mommsen). Si disse che in Tingitana fossero sbarcati 80.000 Vandali. Come spesso accade, quello delle cifre è un problema cruciale ed è stato molto dibattuto in relazione ad altre migrazioni barbariche. Il vescovo Vittore di Vita, autore dell’Historia persecutionis Africanae provinciae, scrisse, come lui stesso riferisce, a circa sessant’anni dall’evento. Afferma che in tanti oltrepassarono il mare e Genserico, nella sua astuzia (calliditate), volendo fare della fama del suo popolo (crudelis ac saevus) una fonte di terrore, ordinò che l’intero assembramento venisse contato, compresi i neonati venuti alla luce quello stesso giorno. Insomma, inclusi vecchi, ragazzi e bambini, servi e padroni, si scoprì che formavano un totale di 80.000 persone. La notizia venne diffusa ad arte ovunque e ancora ai suoi tempi, continua Vittore, gli ignoranti in materia credevano che questo fosse il numero degli armati (Vict. Vit. HP I 1, 1-2). Inoltre, secondo Possidio (Vita August. 28), l’orda di Genserico era composta non solo da Vandali e Alani, ma anche un consistente gruppo di Goti (… immanium hostium Vandalorum et Alanorum commixtam secum habens Gothorum gentem…).

È bene notare che il sovrano vandalico, con tutta probabilità, volle diffondere cifre che avrebbero fatto colpo e creato preoccupazione dovunque. La notizia trova conferma nel racconto di Procopio di Cesarea, per il quale si tratto di uno stratagemma cui Genserico ricorse per far credere ai Romani di disporre di un numero maggiore di soldati di quanto non fossero in realtà – ovvero, verosimilmente, meno di 10.000 (Procop. Bell. III 5, 18).

Lo sbarco di Genserico in Nordafrica. Illustrazione di A. McBride.

A ogni modo, attrattovi dalla situazione di caos venutasi a creare per la rivolta dei Mauri, che le autorità imperiali non riuscivano a controllare, e forse chiamato dal comes Africae Bonifacio, in rotta di collisione con l’imperatore, Genserico portò a termine la traversata e raggiunse la Mauritania (Chron. min. I 472; II 21 Mommsen; Procop. Bell. III 3, 23-26; Iord. Get. 23, 167-169). Da lì, distrutta Altava, i Vandali investirono le città di Tassacora, Portus Magnus, Cartenna, Caesarea, Icosium, Autia e Sitifis, e, muovendo per 2.000 km verso est, lungo gli assi viari della costa, raggiunsero le tre popolose province di Numidia, Proconsularis e Byzacena. Anche lì i barbari saccheggiarono diversi centri abitati, quali Cirta, Calama, Thagaste, Sicca e Thuburbo Maior: migliaia di persone vennero trucidate e un numero ancor maggiore fu ridotto in schiavitù. Dopo aver sbaragliato a più riprese le forze romane, nell’estate del 430 i Vandali raggiunsero la città di Hippo Regius: durante l’assedio, il 28 agosto, si spense l’uomo che ne era stato vescovo per trentacinque anni, Aurelio Agostino forse il più grande teologo nella storia della Chiesa (Possid. Vita August. 28-30; Chron. min. I 473; II 22 Mommsen). Dopo quattordici mesi di blocco, nel 431 la città cadde in mano agli assalitori (Procop. Bell. III 3, 31-34).

Genserico sapeva bene che ogni conquista andava consolidata e, siccome la guerra cominciava a pesare anche per la sua gente, avendo preso il controllo di una sola città, ebbe l’accortezza di intavolare trattative con l’imperatore Valentiniano III (PLRE 2, 1138-1139): così l’11 febbraio 435 si addivenne a un trattato di pace, in forza del quale i Vandali furono individuati come foederati al servizio dell’Impero per la Numidia Cirtana (Chron. min. I 474 Mommsen). Ciononostante, ben presto, Genserico iniziò a comportarsi come un sovrano autonomo, esercitando sulla regione un potere assoluto: tutte le terre, sia pubbliche sia di proprietà privata, furono confiscate e annesse al demanio regio, quindi suddivise in lotti e distribuite ai più fedeli soldati del re (sortes Vandalorum). Quanto alle popolazioni locali, scampate alla morte o alla servitù, le comunità africane furono costrette al pagamento di tributi assai onerosi, nonostante la formale conservazione della legislazione imperiale (cfr. Procop. Bell. III 5, 16). Le fonti documentali, confluite nel corpus di Vittore di Vita, come la già nominata Historia persecutionis Africanae provinciae, la Notitia provinciarum et civitatum Africae e la Passio beatissimorum martyrum, tramandano una delle pagine più terribili della storia della repressione ariana contro l’ortodossia nicena: sono innumerevoli gli episodi di torture inflitte agli ecclesiastici e ai fedeli, che, durantes in catholica fide, preferirono subire il martirio piuttosto che abiurare. Si narra come gli sfortunati fossero costretti a bere aceto o liquidi corporali, o a trascinare enormi pesi; coloro che rifiutavano di abbracciare l’Arriana impietas erano messi all’ergastolo, condannati all’esilio o, preferibilmente, uccisi. Si racconta di prelati arsi sul rogo, dilaniati dalle belve nel circo o legati a cavalli e trascinati su terreni accidentati. Tutti gli eventi narrati, comunque, vengono tendenzialmente ridotti a uno scontro fra omousiani e ariani, nel quale i primi vengono rappresentati come pii sottoposti alle più atroci torture, descritte finanche con eccessiva dovizia di particolari, mentre i secondi risultano sempre essere spietati carnefici, protagonisti negativi di una concatenazione di piccole rappresentazioni agiografiche (cfr. Vict. Vit. HP I 3-4; I 6; I 8; I 10; I 12; Nov. Val. II 12, 13, 6; Ferrand. Vita Fulg. I 4). Chiaramente negli episodi dello scontro vengono meno le considerazioni politiche, economiche e militari dei soggetti agenti.

Città del Vaticano. Ms. Vat. gr. 1613 (c. 1000). Menologio di Basilio II, f. 172r. Il martirio di Oreste di Cappadocia.

Instaurato il proprio regno nel Nordafrica, Genserico divenne ben presto una figura importantissima negli equilibri mediterranei e influì di molto sulle vicissitudini dell’Impero d’Occidente: difatti, fra i sovrani barbarici insediati entro i confini di Roma, Genserico fu sotto molti riguardi quello che ottenne i maggiori successi. Quanto alla gestione del regno, a quanto pare, egli operò una serie di riforme: il sovrano doveva essere coadiuvato da ministri e burocrati, in massima parte di stirpe vandalica, ma anche di origini romane. Nella persona del re erano concentrati tutti i poteri, come il comando degli eserciti e l’esercizio della giustizia. Inoltre, solo a lui era consentito elargire donativa, in moneta sonante o in beni immobili, ai propri sudditi.

Regno dei Vandali. Genserico. Siliqua, Cartagine c. 455-476. AV 4,25 g. Recto: busto diademato, imperlato, drappeggiato e corazzato dell’imperatore (Onorio), voltato a destra.

L’ambizione di Genserico non sembrava conoscere limiti. Stando alle cronache, nel 439 l’Asdingo mosse fuori dai suoi confini e, rotti i patti con Roma, attaccò Cartagine, per importanza la seconda città della pars Occidentis e porto di fondamentale rilevanza per gli approvvigionamenti annonari necessari al mantenimento dell’Urbe: il 19 ottobre Cartagine fu espugnata magna fraude (Vict. Vit. HP I 12-14; Chron. min. I 477; II 23; 80; 296 Mommsen). Nel suo sermone De tempore barbarico (2, 5), il vescovo Quodvultdeus, scampato al pericolo delle persecuzioni trascorrendo l’esilio a Napoli, compianse gli orrori che i Cartaginesi dovettero patire e lamentava come l’empio dominio dei Vandali avesse provocato un sovvertimento sociale, rendendo persino i padroni di molti servi asserviti ai nuovi arrivati. La presa della metropoli, che di lì a poco divenne la capitale del regno, completò la conquista vandalica della dioecesis Africae, costituendo una robusta base di potere nel Mediterraneo occidentale. Il successo e la longevità del dominato degli Asdingi in Nordafrica dipesero in gran parte dal nuovo foedus siglato nel 442 tra Genserico e Valentiniano III: con questo accordo l’imperatore riconobbe formalmente il regno vandalico e il sovrano barbaro «alleato e amico» dell’Impero, ma i Vandali avrebbero dovuto corrispondere al governo di Roma un tributo in moneta e in natura (Vict. Vit. HP II 39; III 4; Procop. Bell. III 5, 12-13); per garantire la tenuta del patto, il principe Unnerico (PLRE 2, 572-573) fu inviato a Roma come ostaggio e promesso alla figlia dell’imperatore, Eudocia, che all’epoca aveva solo sette anni (PLRE 2, 407-408; Procop. III 4, 13-14; Merob. Pan. I 7-8; 17-18; II 29; Chron. min. I 479 Mommsen). Mai, prima di allora, la linea politica ufficiale aveva contemplato una simile alleanza tra i barbari e la famiglia imperiale; senza contare che avrebbe avuto ripercussioni di lunghissima durata. Genserico, infatti, diede prova di essere un sovrano energico e lungimirante, stratega eccellente e capace di condurre i suoi di vittoria in vittoria e fu uno dei grandi sopravvissuti del V secolo: sfuggì a una grave congiura, probabilmente finanziata o voluta dal governo imperiale (Iord. Get. 34, 169), scampò al massiccio attacco navale condotto contro di lui nel 460 dall’imperatore d’Occidente riuscendo a catturare gran parte della flotta romana; sopravvisse alla disastrosa spedizione inviata da Costantinopoli nel 468; e fu persino in grado di sopravvivere all’istituzione imperiale in Occidente, morendo nel 477.

L’estensione del regno vandalico tra il 435 e il 442 [Modéran 1998].

Indubbiamente, la figura di Genserico è legata al secondo grande saccheggio di Roma. Il 17 marzo 455, subito dopo l’assassinio di Valentiniano III, il senatore Petronio Massimo (PLRE 2, 749-751), ispiratore della congiura, venne proclamato imperatore, ma il suo regno ebbe vita assai breve, durato soltanto undici settimane. La morte di Valentiniano III, infatti, ebbe come immediata conseguenza la rottura del delicato complesso di equilibri sul quale si fondavano i rapporti tra l’Impero e i Vandali, cosicché il conflitto divenne inevitabile (Chron. min. I 483-484; II 86 Mommsen; Iord. Rom. 334).

Re Genserico si mosse con una straordinaria rapidità e un eccezionale tempismo: alla fine di maggio, la flotta vandalica, con un minaccioso carico di armati, aveva già raggiunto la foce del Tevere. Le cause delle ostilità aperte da Genserico, nel giugno 455, con l’assedio di Roma sono esposte nei dettagli dallo storico Giovanni di Antiochia (FHG IV 201, 6 Müller). Lo scrittore riferisce che il re dei Vandali, quando Massimo fu eletto imperatore, ritenne che fosse venuto finalmente il momento giusto per assalire l’Italia, in quanto la morte degli animatori e dei firmatari del trattato di pace del 442 rendeva legittimo il suo atto. Altre fonti (οἱ δέ φασι), invece, riferiscono che il motivo per cui Genserico decise di violare la pace per dare l’avvio alla «quarta guerra punica» (come la definì Sidonio Apollinare, Carm. VII 550-556; 588), fu la richiesta d’intervento espressagli esplicitamente dall’imperatrice, l’Augusta Licinia Eudossia (PLRE 2, 410-412), decisa a vendicare l’uccisione del marito e l’onta delle odiate nozze a cui Massimo l’aveva costretta (cfr. Procop. Bell. III 4, 37-39; Malal. Chronogr. 14, 26, 365; CP 592, 2-7). Anche nel Panegyricus dictus Avito Augusto di Sidonio Apollinare (Carm. VII 441), recitato il 1° gennaio 456, si allude alle «armi furtive del Vandalo» (furtivis Vandalus armis), che ebbe ragione di Roma nn con una guerra giusta e leale, ma per il tradimento dell’imperatrice. In realtà, la strategia usata da Genserico rende probabile l’ipotesi che già da tempo il re avesse deciso di violare i trattati di pace del 442 e di prepararsi a entrare in guerra. La rapida e fortunata incursione sulle coste laziali fu resa possibile da una grande spedizione marittima, a cui presero parte anche soldati libici reclutati sulle coste africane. Quindi, difficilmente si sarebbe potuta improvvisare una simile spedizione in tempi brevi. Genserico si ritenne svincolato dai patti che lo legavano all’Impero romano oltre che dalla morte di coloro che li avevano stipulati, in particolare Valentiniano (la cui scomparsa fornì il pretesto per iniziare la guerra), anche dall’ascesa sul trono d’Occidente di un sovrano che non era investito di un’autorità legittima. Massimo era un usurpatore, e pertanto bisognava rispondere all’invito di Eudossia.

La flotta di Genserico in viaggio verso Roma. Illustrazione di S. Ó’Brógáin.

Quali che furono le cause, Genserico si lanciò all’attacco di Roma. La sua efficiente marina poteva contare su un valido corpo di soldati, anche se il re non aveva certamente con sé tutti gli uomini (Vandali e Alani) abili alle armi, la cui presenza era troppo necessaria in Africa per gestire l’immenso territorio controllato. Si valse però del contributo e della preparazione militare di guerrieri mauri e libici (Paul. Diac. Rom. XIV 16). Per trasportare il corpo di spedizione (si calcola che il suo esercito dovesse essere composto da almeno 14.000 uomini), sembra che Genserico non disponesse di grandi navi, bensì, in prevalenza, di piccoli e veloci legni. Roma non era affatto preparata a fronteggiare un attacco di tale entità: i generali dell’Impero, tra i quali all’epoca si distinguevano Maggiorano e Ricimero, erano ancora impegnati, con le poche forze disponibili, nell’Italia settentrionale. Tutto sommato, la città era considerata sicura per la famiglia imperiale, trasferitavisi al tempo delle incursioni di Attila, e il suo perimetro era quasi indifeso. L’imperatore Massimo, dal canto suo, avvertiva uno spiacevole presentimento, se, come riferisce Sidonio Apollinare (Ep. II 13, 5), considerava felice Damocle per il fatto che, almeno solo per la durata di un banchetto, aveva dimenticato la minaccia della spada che stava sospesa sulla sua testa (felicem te, Damocles, qui non uno longius prandio regni necessitatem toleravisti). L’imperatore sapeva probabilmente che Genserico lo considerava un usurpatore, e non rimase poi molto stupito quando il suo presagio divenne realtà.

Dopo una felice e tranquilla navigazione, la flotta vandalica giunse alle foci del Tevere. Gli storici non precisano dove avvenne lo sbarco dei Vandali, né l’itinerario seguito da Genserico per arrivare in Italia. Procopio (Bell. III 5, 1) dice semplicemente che «salpò per l’Italia con una potente flotta» (στόλῳ πολλῷ ἐς Ἰταλίαν κατέπλευσεν): probabilmente i Vandali sbarcarono a Ostia e, subito dopo, s’impadronirono di Porto, che certamente divenne la base per le operazioni successive e da cui, seguendo la via Portuense, si incamminarono verso Roma. Genserico, condottiero troppo prudente ed esperto per spingersi subito sotto le mura della città, al sesto miglio della vecchia porta claudiana fermò le sue truppe. Questo particolare si deduce dal frammento già citato dell’Antiocheno (FHG IV 201, 6 Müller), secondo il quale i Vandali si sarebbero accampati «in Azesto» (ἐν τῷ Ἀζέστῳ). Dal momento che non esiste nella campagna romana una località con questo nome, sembra evidente che si tratti di una corruzione dell’espressione a sexto (miliario): dunque, l’accampamento dei Vandali doveva trovarsi sulle colline, nei pressi dell’attuale Magliana. Se a Roma qualcuno avesse organizzato una valida difesa, probabilmente sarebbe stato difficile per gli invasori superare la cinta muraria che l’imperatore Aureliano aveva fatto costruire a protezione della città. Invece gli avvenimenti precipitarono. Giovanni di Antiochia (ad l.c.) riferisce che Massimo, venuto a conoscenza dell’imminente arrivo di Genserico, pensò soltanto ad abbandonare la città. Dato il segnale del “si salvi chi può”, si avviò a cavallo verso una porta, «ma i suoi più fidi servi e gli uomini della guardia imperiale, nel vederlo fuggire, lo insultarono e lo vituperarono per la viltà. Quando già era quasi in salvo, un tale lo colpì con una pietra alla tempia, uccidendolo. La folla, poi, gli fu addosso, lo fece a pezzi e ne portò in giro le membra sulle picche» (αὐτῶν τῶν βασιλικῶν δορυφόρων καὶ τῶν ἀμφ’ αὐτὸν ἐλευθέρων οἷς μάλιστα ἐκεῖνος ἐπίστευεν, ἀπολιπόντων, οἳ ὁρῶντες ἐξελαύνοντα ἐλοιδόρουν τε καὶ δειλίαν ὠνείδιζον· τῆς δὲ πόλεως ἐξιέναι μέλλοντα βαλών τις λίθῳ κατὰ τοῦ κροτάφου ἀνεῖλε· καὶ τὸ πλῆθος ἐπελ θὸν τόν τε νεκρὸν διέσπασε, καὶ τὰ μέλη ἐπὶ κόντῳ φέρων ἐπαιωνίζετο; cfr. Procop. Bell. III 5, 2). Alcune fonti riportano il nome dell’uccisore: Giordane (Get. 45, 235) dice che fu un soldato romano di nome Urso, mentre, secondo Sidonio (Carm. VII 442), fu un milite burgundo della guardia del corpo, che era quasi tutta composta da barbari. Due giorni dopo, Genserico, avendo saputo che Roma era senza governo e senza difesa, l’assediò per quattordici giorni: vinta facilmente la resistenza degli abitanti, il Vandalo decise di espugnarla, ma accadde allora qualcosa che non aveva calcolato. Ad attenderlo, trovò papa Leone I: si ripeteva quanto era già accaduto tre anni prima con Attila. Ancora una volta, all’avvicinarsi di un nemico tanto temibile e preceduto da una fama terribile, il papa ritenne opportuno intervenire in prima persona, sperando di limitare i danni (Chron. min. I 484 Mommsen; Paul. Diac. Rom. XIV 16).

The Hague, Koninklijke Bibliotheek. MMW 10 A 11 (XV secolo), Saint Augustin, La Cité de Dieu, traduite en français par R. de Presles, f. 15r. Papa Leone il Grande convince Genserico ad astenersi dal saccheggio di Roma.

L’impresa riuscì anche questa volta, anche perché i Vandali non erano più l’orda scalmanata che aveva attraversato il Noricum e la Gallia. Genserico li teneva in pugno e, con un solo cenno, poteva incitarli alla distruzione, ma anche obbligarli a rispettare determinati vincoli. Quando Leone I e il sovrano barbaro si trovarono di fronte, quest’ultimo provò rispetto per il pontefice e forse subì, come già Alarico e poi Attila, il fascino della città Eterna. Qualcosa scosse l’animo di Genserico, che diede l’ordine di non appiccare incendi e di non abbandonarsi a inutili spargimenti di sangue. In quell’occasione, a quanto sembra, la foga distruttiva e priva di senso che ancora oggi è chiamata “vandalismo” non si manifestò. Un condottiero non poteva privare comunque i suoi soldati dalla preda bellica – oro, argento, oggetti preziosi –, come imponevano le dure leggi della guerra, e il papa non poté quindi impedire il sistematico saccheggio di Roma. I Vandali portarono via con loro anche uno stuolo di prigionieri: in particolare prelevarono quelli che, per età o per prestanza fisica, potevano essere impiegati utilmente in Africa e coloro che, per condizione sociale, potevano essere oggetto di un buon riscatto. Del gruppo facevano parte anche l’imperatrice Eudossia con le due figlie, Placidia ed Eudocia, e Gaudenzio, figlio del generale Ezio, più diversi senatori, che non erano fuggiti (Iord. Rom. 334; Procop. Bell. III 5, 3-5; Malal. Chronogr. 14, 26, 366; Chron. min. II 86 Mommsen). Così, finita la ragione della sua “permanenza” a Roma, Genserico prese la via del ritorno e, senza altri atti di guerra, tornò in Africa per celebrare al più presto il matrimonio tra suo figlio Unnerico e la principessa Eudocia (Procop. Bell. III 5, 6).

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Riferimenti bibliografici:

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La battaglia di Teutoburgo – settembre 9 d.C. (Vell. II 117-119)

Nel 9 d.C., l’esperto generale romano Publio Quintilio Varo, governatore della Germania, seguendo le informazioni fornite da Arminio, fidato comandante cherusco e praefectus di un contingente di auxilia germanico, si pose alla guida di un’armata per reprimere una rivolta scoppiata all’estremità settentrionale dell’Impero in un territorio solo parzialmente sottomesso. Anziché incontrare gli attesi rinforzi promessi dai Cherusci, Varo cadde in un’imboscata, approntata nientemeno che dallo stesso Arminio, nella foresta di Teutoburgo. Circondato su tre lati da pendici boscose, paludi e terrapieni erbosi, l’esercito romano resse l’urto iniziale; durante la marcia in territorio “amico”, le truppe si erano però distanziate in modo talmente disordinato da rendere in definitiva impossibile un disimpegno. I continui attacchi “mordi e fuggi” degli assalitori germanici aumentarono la confusione e il panico nei ranghi di Varo e solo alcuni soldati superstiti riuscirono a riattraversare il Reno. Il sito della catastrofe (clades Variana) è stato localizzato dagli studiosi nei pressi dell’altura di Kalkriese, vicino a Osnabrück.

La distruzione di tre “invincibili” legioni romane a opera dei “barbari” germani scosse Roma fin nel profondo. La battaglia della foresta di Teutoburgo (saltus Teutoburgensis), passata alla storia come una delle più importanti in assoluto, cambiò effettivamente il corso della storia. Secondo Svetonio (Aug. 23, 2), come ricevette la notizia, il princeps avrebbe iniziato a battere violentemente la testa contro le pareti, gridando: Quinctili Vare, legiones redde! («Quintilio Varo, rendimi le legioni!»). Il numero delle unità coinvolte – XVII, XVIII e XIX – non furono mai più utilizzati, in parte per vergogna e in parte per superstizione.

The Varian disaster, 9 CE. Illustrazione di A. McBride.

Il biasimo, comunque, non è da attribuire ai soldati: secondo il contemporaneo Velleio Patercolo, la responsabilità ultima della disgregazione e della distruzione dell’esercito di Varo era dovuta alla mediocrità dello stesso comandante e alla codardia dimostrata dai suoi subalterni. Quella che segue è la versione dei fatti trasmessa dallo storico (Vell. II 117-119):

Tantum quod ultimam imposuerat Pannonico ac Delmatico bello Caesar manum cum intra quinque consummati tanti operis dies funestae ex Germania epistulae caesi Vari trucidatarumque legionum trium totidiemque alarum et sex cohortium ***, velut in hoc saltem tantummodo indulgente nobis Fortuna, ne occupato duce ‹tanta clades inferretur. Sed› et causa ‹et› persona mora exigit.

Varus Quintilius nobili magis quam inlustri ortus familia, vir ingenio mitis, moribus quietus, ut corpore ita animo immobilior, otio magis castrorum quam bellicae adsuetus militiae, pecuniae vero quam non contemptor Syria, cui praefuerat, declaravit, quam pauper divitem ingressus dives pauperem reliquit; is cum exercitui qui erat in Germania praeesset, concepit a se homines qui nihil praeter vocem membraque habent hominum, quique gladiis domari non poterant, posse iure mulceri. Quo proposito mediam ingressus Germaniam velut inter viros pacis gaudentes dulcedine iurisdictionibus agendoque pro tribunali ordine trahebat aestiva. At illi, quod nisi expertus vix credat, in summa feritate versutissimi natumque mendacio genus, simulantes fictas litium series et nunc provocantes alter alterum in iurgia, nunc agentes gratias quod ea Romana iustitia finiret feritasque sua novitate incognitae disciplinae mitesceret et solita armis decerni iure terminarentur, in summam socordiam perduxere Quinctilium, usque eo ut se praetorem urbanum in foro ius dicere, non in mediis Germaniae finibus exercitui praeesse crederet.

Tum iuvenis genere nobilis, manu fortis, sensu celer, ultra barbarum promptus ingenio, nomine Arminius, Segimeri principis gentis eius filius, ardorem animi vultu oculisque praeferens, adsiduus militiae nostrae prioris comes, ‹cum› iure etiam civitatis Rom‹an›ae ius equestris consecutus gradus, segnitia ducis in occasionem sceleris usus est, haud imprudenter suspicatus neminem celerius opprimi quam qui nihil timeret, et frequentissimum initium esse calamitatis securitatem. Primo igitur paucos, mox plures in societatem consilii recepit; opprimi posse Romanos et dicit et persuadet, decretis facta iungit, tempus insidiarum constituit. Id Varo per virum eius gentis fidelem clarique nominis, Segesten, indicatur. Postulabat etiam ‹vinciri socios. Sed praevalebant iam› fata consiliis omnemque animi eius aciem praestrinxerat; quippe ita se res habet ut plerumque cui fortunam mutaturus ‹est› deus consilia corrumpat, efficiatque, quod miserrimum est, ut quod accidit id etiam merito accidisse videatur et casus in culpam transeat. Negat itaque se credere spe‹cie›mque in se benevolentiae ex merito aestimare profitetur. Nec diutius post primum indicem secundo relictus locus.

Ordinem atrocissimae calamitatis, qua nulla post Crassi in Parthis damnum in externis gentibus gravior Romanis fuit, iustis voluminibus ut alii ita nos conabimur exponere: nunc summa deflenda est. Exercitus omnium fortissimus, disciplina, manu experientiaque bellorum inter Romanos milites principes, marcore ducis, perfidia hostis, iniquitate Fortunae circumventus, cum ne pugnandi quidem egrediendive occasio iis, in quantum voluerant, data esset immunis, castigatis etiam quibusdam gravi poena quia Romanis et armis et animis usi fuissent, inclusus silvis paludibus insidiis ab eo hoste ad internecionem more pecudum trucidatus est quem ita semper tractaverat ut vitam aut mortem eius nunc ira nunc venia temperaret. Duci plus ad moriendum quam ad pugnandum animi fuit; quippe paterni avitique exempli successor se ipse transfixit. At e praefectis castrorum duobus quam clarum exemplum L. Eggius, tam turpe Ceionius prodidit, qui, cum longe maximam partem absumpisset acies, auctor deditionis supplicio quam proelio mori maluit. At Vala Numonius, legatus Vari, cetera quietus ac probus, diri auctor exempli, spoliatum equite peditem relinquens fuga cum alis Rhenum petere ingressus est; quod factum eius Fortuna ulta est; non enim desertis superfuit sed desertor occidit. […] Vari corpus semiustum hostis laceraverat feritas; caput eius abscisum latumque ad Maroboduum et ab eo missum ad Caesarem gentilicii tamen tumuli sepultura honoratum est.

Cenotafio di Marco Celio, centurione della legio XVIII (CIL XIII 8648). Edicola con iscrizione, c. 9-14, da Colonia Ulpia Traiana (od. Xanten). Bonn, Rhein. Landesmus.

«Cesare aveva appena portato a termine la campagna dalmato-pannonica, quando, cinque giorni dopo che si era conclusa questa così grande impresa, delle lettere di malaugurio dalla Germania recarono la notizia che Varo era stato ucciso ed erano state massacrate tre legioni, altrettanti squadroni di cavalleria e sei coorti [ausiliarie]***, come se, almeno riguardo a ciò, soltanto la Sorte fosse stata benevola verso di noi, non ci sarebbe stato il pericolo che, impegnato il comandante, ci venisse inferta una simile disfatta. Ma i prodromi [di questa sciagura] e il personaggio richiedono che io mi soffermi un poco.

Quintilio Varo, nato da una famiglia più illustre che nobile, era un uomo di indole mansueta, tranquillo di carattere, alquanto lento sia nel corpo sia nella mente, avvezzo più all’inattività nell’accampamento che alle fatiche della guerra; ma che non disprezzasse il denaro, invero, lo provò la provincia di Siria, della quale era stato governatore, dove entrò povero e se ne uscì ricco, lasciando la regione povera da che era ricca; egli, allorché ebbe assunto il comando dell’armata di stanza in Germania, credette che fossero uomini quegli esseri che non avevano nulla di umano fuorché la voce e le membra e che quelli che non potevano essere domati con le armi, potessero essere ammansiti con il diritto. A questo scopo, penetrato nel cuore della Germania, come se [si trovasse] fra persone che godevano dei frutti della pace, conduceva la campagna estiva amministrando la giustizia civile e presiedendo i tribunali.

Eppure quelli [= i Cheruschi] – cosa che si stenta a credere, senza averne fatta personale esperienza – astutissimi pur nella massima rozzezza, razza nata per la menzogna, simulando una serie di finte querele, ora provocandosi a vicenda in contese e ora mostrandosi riconoscenti, perché quelle fossero ricomposte dalla giustizia romana, la loro indole selvaggia fosse addolcita dalla novità di una disciplina sconosciuta e fossero determinate col diritto quelle cose che si era soliti decidere con le armi, ridussero Quintilio ad un’eccessiva indolenza, al tal punto che egli credeva di esercitare il diritto nel foro come un pretore urbano anziché di avere il comando di un esercito nel bel mezzo della Germania.

Fu allora che un giovane di nobile stirpe, di nome Arminio – figlio di Sigimero, capo di questa tribù, vigoroso, acuto di mente, d’ingegno superiore a quello di un barbaro, che mostrava nello sguardo e nel volto l’ardore del suo animo, fedele compagno d’armi nella nostra precedente campagna, gratificato del diritto di cittadinanza romana, conseguendo anche i diritti dell’ordine equestre – approfittò dell’indolenza del generale per ordire il suo misfatto, poiché non senza saggezza aveva considerato che nessuno può essere eliminato più rapidamente di chi non ha nessun timore e che la troppa sicurezza molto spesso sia il principio di una disgrazia. Dapprima fece partecipi del suo piano pochi dei suoi, poi molti altri. Disse – e li convinse – che i Romani potevano essere schiacciati; fece seguire alla decisione l’azione, stabilì il momento opportuno per l’agguato. Ciò venne riferito a Varo da un uomo fidato, originario di quella gente dal nome illustre, Segeste. Chiedeva anche di ‹arrestare i cospiratori, ma ormai› il destino ‹prevaleva› sulle decisioni [poiché] aveva completamente offuscato il lume della ragione. Così, infatti, vanno le cose che per lo più la divinità, quando intende cambiare la Fortuna di qualcuno, gli sconvolge la mente e fa in modo che – e questa è la cosa più triste – quanto accade gli sembra essere accaduto anche giustamente e la sfortuna si tramuta in colpa. Varo si rifiuta di credergli e dichiara di sperare [da parte dei Germani] in una buona disposizione nei suoi riguardi, adeguata ai meriti. Non rimase ancora tempo, dopo il primo avvertimento, per riceverne un altro.

Anch’io, come altri [scrittori], cercherò di esporre in un’opera di maggior respiro le circostanze dettagliate di quest’orribile disgrazia che causò ai Romani la perdita più grave in terra straniera, dopo quella di Crasso presso i Parti: ora devo accontentarmi di deplorarla sommariamente. L’esercito più forte di tutti, primo tra le truppe romane per disciplina, coraggio ed esperienza in guerra, si trovò intrappolato, vittima dell’indolenza del suo comandante, della perfidia del nemico, dell’iniquità della Sorte e, senza che fosse stata data ai soldati nemmeno la possibilità di tentare una sortita e di combattere liberamente, com’essi avrebbero voluto, poiché alcuni furono anche puniti severamente per aver fatto ricorso alle armi e al coraggio, da veri Romani, chiuso da un’imboscata tra le selve e le paludi, fu ridotto allo sterminio da quel nemico che aveva sempre sgozzato come bestie al punto da regolare la sua vita e la sua morte ora con collera, ora con pietà. Il generale mostrò nella morte maggior coraggio di quanto ne avesse mostrato nel combattere: erede, infatti, dell’esempio del padre e del nonno si trafisse con la sua stessa spada. Ma dei due prefetti del campo, Lucio Eggio lasciò un esempio tanto illustre quanto fu vergognoso quello di Ceionio, il quale, quando la battaglia aveva già portato via la maggior parte dei suoi, propose di arrendersi e preferì morire tra le torture invece che in combattimento. Quanto a Vala Numonio, luogotenente di Varo, per il resto uomo tranquillo e onesto, fu autore di uno scelleratissimo esempio, abbandonando i cavalieri che erano stati privati del cavallo e ridotti a piedi, cercò di fuggire con gli altri verso il Reno. La fortuna, però, fece vendetta del suo gesto. Non sopravvisse, infatti, a quelli che aveva tradito, e morì da traditore. […] La furia selvaggia dei nemici bruciò a metà il corpo di Varo e lo fece a pezzi. La sua testa mozzata e mandata a Maroboduo, che poi la inviò a Cesare, ebbe tuttavia gli onori della sepoltura nella tomba di famiglia».

The Battle of Teutoburg Forest (Germany, AD 9). Illustrazione di A. McBride.

Una delle conseguenze del disastro di Teutoburgo fu il definitivo abbandono dei piani per un eventuale controllo della Germania Magna. Roma non effettuò ulteriori tentativi di annessione dei territori transrenani e per i successivi quattro secoli il fiume segnò il confine dell’Impero romano.

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24 agosto 410. Il sacco di Roma

L’episodio più famoso del complesso fenomeno delle migrazioni di popoli (Völkerwanderungen) fu il sacco di Roma a opera dei Visigoti nel 410 (Prosp. epit. Chron. 1240 a. 410, Roma a Gothis Alarico duce capta [VIIII kl. Septemb.]; Cassiod. Chron. 1185 a. 410, Roma a Gothis Halarico duce capta est, ubi clementer usi victoria sunt; Exc. Sangal. 541, Roma fracta est a Gothis Alarici VIIII kl. Septembres). Era la prima volta in ottocento anni che la città cadeva in mano ai barbari, ma, in concreto, l’avvenimento non ebbe molta importanza dal punto di vista strategico. Il saccheggio dell’Urbe suscitò ovunque scoramento, terrore e scandalo, e inferse una ferita insanabile alla psicologia dei sudditi dell’Impero: il valore simbolico dell’evento fu superiore alla sua portata effettiva al punto da risultare più traumatico della deposizione dell’ultimo Augustus d’Occidente (476).

Joseph-Noël Sylvestre, Il Sacco di Roma dei Visigoti. Olio su tela, 1890.

Il sacco di Roma del 410 fu il risultato del secondo tentativo da parte del comandante visigoto Alarico di strappare all’imperatore Onorio l’autorizzazione a insediare i suoi nei territori danubiani. L’eliminazione, il 22 agosto 408, del potentissimo Stilicone aveva creato un vuoto politico e militare, di cui il Goto aveva saputo approfittato, trovandosi spianata la strada per Roma. Tra l’altro, nello stesso anno, l’armata alariciana era stata ingrossata dagli uomini dei reparti ausiliari germanici – circa 30.000 soldati, secondo Zosimo di Panopoli (V 35, 5-6) – che avevano prestato servizio sotto il defunto Stilicone, furibondi per il massacro di donne e bambini perpetrato dalle truppe imperiali a seguito dell’assassinio del “generalissimo”. Per parte sua, Alarico, che non aveva certo ambizioni di conquista in Italia, «ricordando dei patti stipulati a suo tempo con Stilicone» e la promessa di 4.000 libbre d’oro, mirava a ottenere che l’imperatore onorasse tali accordi. Così, aveva tentato di negoziare, mandando un’ambasceria a Ravenna per chiedere la pace in cambio di una modesta somma di denaro per i suoi uomini e uno scambio di ostaggi, ma Onorio aveva respinto le sue richieste (Zos. V 36, 1; cfr. Iord. Get. 30, 152). Continuando a gravare sulla Penisola la minaccia alariciana, l’imperatore, consigliato dal magister officiorum Olimpio, si era limitato a porre a capo dell’esercito uomini inetti e «adatti solo a suscitare il disprezzo dei nemici» (καταφρόνησιν ἐμποιῆσαι τοῖς πολεμίοις ἀρκοῦντας): Turpilione, Varane e Vigilanzio.

Flavio Onorio. Solidus, Ravenna post 408. AV 4,47 g. Recto: D(ominus) N(oster) Honori-us P(ius) F(elix) Aug(ustus). Busto elmato, perlato-diademato, drappeggiato e corazzato dell’imperatore, voltato a destra.

Alarico, invece, «poiché aveva intenzione di intraprendere un’impresa tanto importante in condizioni di netta superiorità e non di semplice parità» (ἐπεὶ δὲ μεγίστοις οὕτως πράγμασιν οὐκ ἐκ τοῦ ἴσου μόνον ἀλλὰ καὶ ἐκ μείζονος ὑπεροχῆς ἐγχειρῆσαι διενοεῖτο), aveva richiamato dalla Pannonia superior suo cognato Ataulfo perché gli portasse dei rincalzi gotici e unni e quello, durante la marcia verso Roma, aveva devastato la Penisola senza incontrare resistenza (Zos. V 37, 1-3).

L’Urbe, stretta d’assedio, fu flagellata dalla carestia, poiché il blocco dell’accesso al Tevere impediva la fornitura dei viveri attraverso il porto, e dalle epidemie, perché i cadaveri non potevano essere seppelliti fuori dalle mura a causa delle truppe di Alarico che stazionavano presso le porte. Gli abitanti della città decisero di resistere nella speranza che da Ravenna giungessero aiuti (Zos. V 39, 2-3). Alla fine, i Romani decisero di mandare al nemico un’ambasceria composta dall’ex praefectus urbi Basilio e da Giovanni, già primicerius notariorum, per dichiarare che sarebbero stati disposti a combattere all’ultimo sangue. Quando Alarico, ricevuti i delegati, ascoltò le loro parole, si mise a ridere per quell’atteggiamento un po’ fanfarone – vista la situazione; allora, parlando di pace, il condottiero «diceva che non avrebbe desistito dall’assedio, se non avesse ottenuto tutto l’oro e l’argento della città e, inoltre, tutte le suppellettili che trovasse e i servi di origine barbara» (ἔλεγε γὰρ οὐκ ἄλλως ἀποστήσεσθαι τῆς πολιορκίας, εἰ μὴ τὸν χρυσὸν ἅπαντα, ὅσον ἡ πόλις ἔχει, καὶ τὸν ἄργυρον λάβοι, καὶ πρὸς τούτοις ὅσα ἐν ἐπίπλοις εὕροι κατὰ τὴν πόλιν καὶ ἔτι τοὺς βαρβάρους οἰκέτας). A uno degli ambasciatori che gli chiedeva che cosa sarebbe rimasto alla città, se mai avesse ottenuto tutto ciò, Alarico avrebbe risposto: «Le vite umane» (Zos. V 40). La popolazione di Roma, in preda alla disperazione, si rivolse allora alle divinità antiche e il prefetto della città Pompeiano, consultati alcuni Etruschi, raccomandò al vescovo Innocenzo I di non tenere conto delle cerimonie pagane fintanto che fossero celebrate in forma privata. Ma se ciò tranquillizzò in parte quei Romani che provavano ancora nostalgia verso la tradizione antica, la mossa successiva ebbe l’effetto opposto: infatti, per poter pagare quanto Alarico chiedeva, le statue d’oro e d’argento delle divinità vennero portate via dai templi. Secondo il pagano Zosimo, questo episodio rappresentò l’inizio della fine di Roma: «I Romani persero il coraggio e il valore: così allora avevano profetizzato coloro che si occupavano di cose divine e di riti tradizionali» (ὅσα τῆς ἀνδρείας ἦν καὶ ἀρετῆς παρὰ Ῥωμαίοις ἀπέσβη, τοῦτο τῶν περὶ τὰ θεῖα καὶ τὰς πατρίους ἁγιστείας ἐσχολακότων ἐξ ἐκείνου τοῦ χρόνου προφητευσάντων, Zos. V 41, 7). Ad Alarico furono promesse «5.000 libbre d’oro, 30.000 libbre d’argento, 4.000 tuniche di seta, 3.000 pelli scarlatte e 3.000 libbre di pepe» (πεντακισχιλίας μὲν χρυσοῦ λίτρας, τρισμυρίας τε πρὸς ταύταις ἀργύρου, σηρικοὺς δὲ τετρακισχιλίους χιτῶνας, ἔτι δὲ κοκκοβαφῆ τρισχίλια δέρματα καὶ πέπερι σταθμὸν ἕλκον τρισχιλίων λιτρῶν, Zos. V 41, 4); dopo aver ricevuto un parte di quanto gli era dovuto, il comandante goto fece aprire le porte della città per consentire agli abitanti di rifornirsi di viveri, concedendo loro tre giorni di mercato: questa fu l’occasione per i suoi soldati di vendere alimenti a prezzi altissimi (Zos. V 42).

Alarico allora si ritirò da Roma e pose l’accampamento in Etruria, continuando comunque a inviare richieste a Ravenna: chiese tributi annuali in denaro e grano e alloggi per la sua gente in entrambe le Venetiae, in Noricum e in Dalmatia (Zos. V 48, 3). Giovio, praefectus praetorio, mandato come ambasciatore da Onorio presso Alarico per i negoziati, riferì all’imperatore che il Visigoto si sarebbe con tutta probabilità accontentato anche di meno si gli fosse stato concesso il titolo di magister utriusque militiae, già appartenuto a Stilicone, ma Onorio acconsentì ai versamenti di denaro e grano, rifiutando di concedere quella dignità. Il divieto dell’imperatore di conferire ai Goti cariche o comandi romani, sentito come un affronto, mandò Alarico su tutte le furie: egli prontamente diede ordine alla sua armata di dirigersi nuovamente su Roma (Zos. V 49). Secondo Zosimo, pur continuando a negoziare, il condottiero goto mandò «i vescovi di ciascuna città come ambasciatori, perché esortassero nel contempo l’imperatore a non permettere che la città, che regnava su gran parte della Terra da più di mille anni, fosse abbandonata alla devastazione dei barbari, e che edifici di notevole grandezza venissero distrutti dal fuoco nemico; accettasse piuttosto di concludere le trattative a condizioni molto moderate» (τοὺς κατὰ πόλιν ἐπισκόπους ἐξέπεμπε πρεσβευσομένους ἅμα καὶ παραινοῦντας τῷ βασιλεῖ μὴ περιιδεῖν τὴν ἀπὸ πλειόνων ἢ χιλίων ἐνιαυτῶν τοῦ πολλοῦ τῆς γῆς βασιλεύουσαν μέρους ἐκδεδομένην βαρβάροις εἰς πόρθησιν, μηδὲ οἰκοδομημάτων μεγέθη τηλικαῦτα διαφθειρόμενα πολεμίῳ πυρί, θέσθαι δὲ τὴν εἰρήνην ἐπὶ μετρίαις σφόδρα συνθήκαις, Zos. V 50, 2). Alarico, dunque, rinunciava alla sua richiesta delle regioni adriatiche in cui insediare la sua gente, accontentandosi delle due province danubiane del Noricum, territorio che – come veniva fatto notare all’imperatore – non rappresentava una grave perdita poiché era «devastato da continue incursioni e dava un modesto contributo alle casse dello Stato» (συνεχεῖς τε ὑφισταμένους ἐφόδους καὶ εὐτελῆ φόρον τῷ δημοσίῳ εἰσφέροντας, Zos. V 50, 3).

Flavio Valente o Flavio Onorio. Busto, marmo, fine IV secolo-inizi V secolo. Roma, Musei Capitolini

Quanto accadde in seguito dimostra, comunque, che Alarico continuò a manovrare politicamente anziché guidare l’esercito a Roma: minacciando di prendere la città con la forza, il condottiero goto impose ai Romani di passare dalla sua parte contro Onorio e pretese che il Senato dichiarasse il Teodoside decaduto e insediasse Prisco Attalo. Per parte sua, costui, eminente membro del venerando consiglio e già comes sacrarum largitionum, si dimostrò disponibile a collaborare con i Visigoti, convertendosi all’Arianesimo e facendosi battezzare dal vescovo Sigesaro (Zos. VI 6-7; Sozom. HE. IX 9). Tuttavia, le trattative diplomatiche si conclusero con un nulla di fatto: Onorio, alla fine, temendo di perdere la porpora, offrì di condividere con Attalo la carica imperiale, ma Attalo non accettò; allora, l’Augustus rispose dando ordine a Eracliano, comes Africae, di bloccare le forniture di grano all’Italia; quando poi l’usurpatore, sollecitato da Alarico a inviare contingenti in Africa, oppose il proprio rifiuto, i Goti lo deposero (Zos. VI 11-12). Alarico tentò ancora di negoziare con Onorio ma, attaccato dalle truppe imperiali, decise infine di tornare indietro e di completare il sacco di Roma. Lo storico Zosimo, che era pagano, attribuisce a Onorio e ai suoi consiglieri tutte le colpe di quanto accadde in seguito: «A tal punto era cieca la mente di coloro che amministravano lo Stato, privati della provvidenza divina» (τοσοῦτον ἐτύφλωττεν ὁ νοῦς τῶν τότε τὴν πολιτείαν οἰκονομούντων, θεοῦ προνοίας ἐστερημένων, Zos. V 51, 2).

Prisco Attalo. Siliqua, Roma, 409-410. AR 2,32 g. Recto: Priscus Attalus P(ius) F(elix) Aug(ustus). Busto perlato-diademato, drappeggiato e corazzato, voltato a destra

Il 24 agosto 410, dopo una pressione esercitata per almeno un paio d’anni, ebbe inizio il vero e proprio sacco di Roma, che si protrasse per tre giorni. Secondo alcuni storici, Alarico sarebbe riuscito a entrare a Roma con l’aiuto di certi servi goti che si trovavano in città (cfr. Procop. Vand. I 2, 13-23). L’eco delle devastazioni e delle atrocità commesse in quella circostanza dai soldati alariciani si diffuse immediatamente per ogni dove, trasmessa e amplificata nei toni più drammatici da quanti, superstiti e in fuga, avevano assistito allo scempio. Un secolo più tardi Procopio di Cesarea raccontò che quando Onorio, al sicuro nel suo palazzo, fu informato della morte di Roma sarebbe scoppiato in lacrime e lamenti, ma si sarebbe tranquillizzato allorché gli fu spiegato che si trattava della città di Roma e non di Roma, il suo gallo prediletto:

«Si narra che, a Ravenna, fu un eunuco – a quanto pare un guardiano del pollaio – ad annunciare all’imperatore Onorio che Roma era perita, e che egli esclamò, mettendosi a gridare: “Ma se soltanto adesso ha mangiato dalle mie mani!”. Possedeva infatti un gallo gigantesco, che aveva nome Roma. L’eunuco, capito l’equivoco, precisò che era stata la città di Roma a cedere per opera di Alarico, e allora l’imperatore, con sollievo, rispose tranquillamente: “Oh, mio caro! E io temevo che fosse morto il mio gallo!”. Tanta, si dice, era la stoltezza che offuscava la mente di questo imperatore».

τότε λέγουσιν ἐν Ῥαβέννῃ Ὁνωρίῳ τῷ βασιλεῖ τῶν τινα εὐνούχων δηλονότι ὀρνιθοκόμον ἀγγεῖλαι ὅτι δὴ Ῥώμη ἀπόλωλε. καὶ τὸν ἀναβοήσαντα φάναι “Καίτοι ἔναγχος ἐδήδοκεν ἐκ χειρῶν τῶν ἐμῶν”. εἶναι γάρ οἱ ἀλεκτρυόνα ὑπερμεγέθη, Ῥώμην ὄνομα, καὶ τὸν μὲν εὐνοῦχον ξυνέντα τοῦ λόγου εἰπεῖν Ῥώμην τὴν πόλιν πρὸς Ἀλαρίχου ἀπολωλέναι, ἀνενεγκόντα δὲ τὸν βασιλέα ὑπολαβεῖν “Ἀλλ’ ἔγωγε, ὦ ἑταῖρε, Ῥώμην μοι ἀπολωλέναι τὴν ὄρνιν ᾠήθην”. τοσαύτῃ ἀμαθίᾳ τὸν βασιλέα τοῦτον ἔχεσθαι λέγουσι.

(Procop. Vand. I 2, 25-26)

John William Waterhouse, I favoriti dell’imperatore Onorio. Olio su tela, 1883. Adelaide, Art Gallery of South Australia.

Una reazione più normale ebbe invece Sofronio Eusebio Girolamo, il quale si trovava a Betlemme, quando, nella lettera alla sua discepola Principia (Hier. Ep. VI 127, 12), le riferì di una terribile notizia giunta da Occidente. Si venne a sapere che Roma era assediata e che i suoi abitanti stavano comprando la propria salvezza con l’oro:

«Mentre così vanno le cose a Gerusalemme, dall’Occidente ci giunge la terribile notizia che Roma viene assediata, che si compra a peso d’oro la incolumità dei cittadini, ma che dopo queste estorsioni riprende l’assedio: a quelli che già sono stati privati dei beni si vuol togliere anche la vita. Mi viene a mancare la voce, il pianto mi impedisce di dettare. “La città che ha conquistato tutto il mondo è conquistata”: anzi, cade per fame prima ancora che per l’impeto delle armi, tanto che a stento vi si trova qualcuno da prendere prigioniero. La disperata bramosia fa sì che ci si getti su cibi nefandi: gli affamati si sbranano l’uno con l’altro, perfino la madre non risparmia il figlio lattante e inghiotte nel suo ventre ciò che ha appena partorito. “Moab fu presa, di notte sono state devastate le sue mura”. “O Dio, sono penetrati i pagani nella tua eredità, hanno profanato il tuo santo tempio; hanno ridotto Gerusalemme in rovine. Hanno dato i cadaveri dei tuoi servi in pasto agli uccelli del cielo, i corpi dei tuoi fedeli alle bestie selvatiche. Hanno versato il loro sangue come acqua intorno a Gerusalemme, e non c’è chi seppellisca”.

“Come ridire la strage, i lutti di quella notte? / Chi può la rovina adeguare col pianto? / Cadeva la città vetusta, sovrana nel tempo: / un gran numero di cadaveri erano sparsi / per le strade e anche nelle case. /Era l’immagine moltiplicata della morte”».

Dum haec aguntur in Iebus, terribilis de Occidente rumor adfertur, obsideri Romam, et auro salutem ciuium redimi, spoliatosque rursum circumdari, ut post substantiam, uitam quoque amitterent. haeret uox, et singultus intercipiunt uerba dictantis. capitur Urbs, quae totum cepit orbem; immo fame perit antequam gladio, et uix pauci qui caperentur, inventi sunt. ad nefandos cibos erupit esurientium rabies, et sua inuicem membra laniarunt, dum mater non parcit lactanti infantiae, et recipit utero, quem paulo ante effuderat. nocte Moab capta est, nocte cecidit murus eius [Is. 15, 1]. Deus, uenerunt gentes in hereditatem tuam, polluerunt templum sanctum tuum. posuerunt Hierusalem in pomorum custodiam; posuerunt cadauera seruorum tuorum escas uolatilibus caeli, carnes sanctorum tuorum bestiis terrae; effuderunt sanguinem ipsorum sicut aquam in circuitu Hierusalem, et non erat qui sepeliret [Psalm. 79, 1-3].

Quis cladem illius noctis, quis funera fando / explicet, aut possit lacrimis aequare dolorem? / Urbs antiqua ruit, multos dominata per annos; / plurima, perque uias sparguntur inertia passim / corpora, perque domos, et plurima mortis imago” [Verg. Aen. II 361-365].

Il fatto che Roma, in quel frangente, fosse stata violata e fosse rimasta inerme alla mercé di un’orda barbarica per più giorni scatenò una violenta polemica tra i cristiani e i pagani: questi ultimi non mancarono di far notare come la Roma della tradizione, protetta dagli dèi, avesse saputo non solo preservarsi per secoli dalla violenza delle externae gentes, ma anche espandersi fino a creare un impero di straordinarie dimensioni e vigore, mentre ora i sepolcri degli apostoli di Cristo non avevano saputo tutelarla dalle spade di Alarico e dei suoi.

Evariste-Vital Luminais, Il sacco di Roma.

Il De civitate Dei, che Aurelio Agostino, vescovo di Ippona, iniziò nel 413, fu un’altra risposta diretta tanto a quell’evento traumatico quanto alla polemica degli intellettuali: egli doveva dimostrare ai pagani che la devastazione della città non era una conseguenza dell’abbandono degli dèi, ma allo stesso tempo doveva anche rassicurare i cristiani incapaci di comprendere perché le sofferenze ricadessero pure su di loro. L’opera del prelato africano è pressoché contemporanea agli eventi narrati e non minimizza le violenze perpetrate: le donne furono violentate; così tanta gente fu ammazzata che i cadaveri giacevano dappertutto senza sepoltura; moltissimi furono fatti prigionieri (August. De civ. D. I 12, 1; 16). In Agostino, come in altri pensatori cristiani, il commento dei fatti del 410 trascendeva però i termini della polemica spicciola con i pagani circa l’«efficacia difensiva» delle rispettive divinità, per aprirsi a una riflessione più ampia sulla Storia e sulla ragione stessa dell’Impero cristiano. La sua grande opera era tesa a ricondurre tutto entro una visione provvidenzialistica della Storia, diretta all’avvento della «città di Dio», estranea a quella terrena; in questa chiave ogni accadimento storico, compreso il saccheggio alariciano, trovava una giustificazione negli imperscrutabili disegni celesti.

Raffaello Sanzio, Incendio di Borgo. Dettaglio con il quadriportico con dietro la facciata dell’antica basilica di San Pietro. Affresco, 1514. Città del Vaticano, Stanze Vaticane.

Gli scrittori cristiani posteriori sentirono l’esigenza di ridimensionare la barbarie dei Visigoti, e ne sottolinearono invece la pietas: sebbene fossero ariani, essi avevano dimostrato maggiore rispetto verso Dio e i luoghi consacrati di quanto non avessero fatto gli stessi Romani, sia cattolici sia pagani (cfr. Iord. Get. 30, 156). Anzi, negli Historiarum adversus paganos libri VII di Paolo Orosio Alarico diventava un mero strumento dell’indignazione divina per castigare i Romani dei loro comportamenti superbi, lascivi e blasfemi. Il condottiero barbaro, per esempio, avrebbe dato ordine ai suoi uomini di non violare i sacrari delle basiliche di San Pietro e di San Paolo, dove molti cittadini avevano cercato rifugio (Oros. VII 39, 1); una donna aveva lottato contro un guerriero che la voleva stuprare e lo aveva provocato fino quasi al punto di farsi uccidere, ma il violentatore avrebbe ceduto alla compassione e l’avrebbe accompagnata al sicuro nella basilica di San Pietro (Sozom. HE. IX 10); un altro soldato sarebbe entrato nella casa di pie donne esigendo oro e argento, gli sarebbero stati mostrati dei vasi liturgici appartenenti a San Pietro ed egli li avrebbe consegnati ad Alarico; questi, poi, li avrebbe fatti rispettosamente riportare nella basilica (Oros. VII 39, 3-7). Se si deve credere a Orosio, infine, Alarico avrebbe addirittura organizzato una stupenda cerimonia per simboleggiare l’unione dei popoli in Cristo: la pia processione si sarebbe svolta tra due file di spade sguainate e gli abitanti della città e gli invasori, insieme, avrebbero elevato un inno a Dio (Oros. VII 39, 8-9). L’interpretazione del presbitero spagnolo si preoccupava non tanto di ridimensionare l’accaduto, quanto di inserirlo in una visione complessiva, capace di spiegare gli eventi storici attribuendoli comunque alla volontà divina, ricomponendo il trauma e superando quindi l’immediato sconforto.

Alarico. Illustrazione di P. Kruklidis.

Questa visione del sacco di Roma è probabilmente frutto più della retorica sul nobile barbaro che della realtà storica. Un esempio analogo di retorica lo ritroviamo nel V secolo, negli scritti di Salviano di Marsiglia (Salvian. De gubern. D. VII). In base alle tante prove conservate possiamo affermare che i tre giorni di saccheggio non ebbero un impatto meramente psicologico. Anche Orosio ammette che nel 417 a Roma si potevano ancora vedere edifici distrutti dall’incendio, sebbene si affretti ad aggiungere che i fulmini (segno evidente della disapprovazione divina) avevano appiccato più incendi di quanto non avessero fatto i Goti. La casa dello storico Sallustio era ancora mezza distrutta alla metà del VI secolo, stando a quanto ci riferisce Procopio (Procop. Vand. I 2, 24). Fra il 430 e il 440 l’imperatore Valentiniano III finanziò il ripristino di un fastigium d’argento (una struttura a forma di baldacchino a coronamento di un altare) – che si dice pesasse 1.610 libbre –, che i barbari avevano sottratto dalla basilica costantiniana del Laterano (Lib. pont. 46, fecit autem Valentinianus Augustus ex rogatu Xysti episcopi fastidium argenteum in basilica Constantiniana, quod a barbaris sublatum fuerat, qui habet pens. libras ĪDCX).

Non ci furono soltanto danni materiali, ma anche forti ripercussioni sociali. Molti vennero fatti prigionieri dai Goti, inclusi uomini di Chiesa e la stessa Galla Placidia, sorellastra di Onorio. In tanti abbandonarono le loro proprietà e fuggirono da Roma e, quando i Goti si spostarono a sud dell’Urbe, lasciarono addirittura l’Italia. Lo studioso biblico Tirannio Rufino di Aquileia, con l’egocentrismo e la monomaniacalità tipica del vero erudito, nel Prologus alle Omelie sui Numeri di Origene, protestò seccato: «E infatti alla nostra vista, come infatti tu stesso puoi vedere, il barbaro, che appiccava fiamme alla città di Reggio, era tenuto lontano da noi dal solo brevissimo stretto, dove il suolo d’Italia si divide da quello di Sicilia. Ebbene, in queste condizioni, come posso trovare la tranquillità di mente necessaria per scrivere e soprattutto per tradurre?» (In conspectu etenim, ut videbas etiam ipse, nostro Barbarus, qui Regino oppido miscebat incendia, angustissimo a nobis freto, ubi Italiae solum Siculo dirimitur, arcebatur. In his ergo posito, quae esse ad scribendum securitas potuit, et praecipue ad interpretandum, ubi non ita proprios expedire sensus, ut alienos aptare proponitur?, Ruf. prol. ad Orig. in num. Homil., PG XII, pp. 583-586).

Leonardo da Vinci, San Girolamo penitente. Olio su pannello, 1480. Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana.

Sull’altra sponda del Mediterraneo, Gerolamo, acerrimo nemico di Rufino, dovette interrompere i suoi monumentali Commentarii in Ezechielem prophetam, distratto dall’arrivo della notizia del sacco di Roma. Il biblista non riusciva a nascondere il proprio incredulo sgomento di fronte al quadro sconsolante al quale gli toccava di assistere. Proprio nella prefazione al III libro dei Commentarii egli si chiedeva con angoscia: «Chi potrebbe credere che sarebbe crollata Roma, costruita per i conquistatori del mondo intero, che essa stessa sarebbe diventata per i suoi popoli madre e sepolcro, che un tempo fu signora di tutti quanti i lidi d’Oriente, d’Egitto e d’Africa, li avrebbe riempiti di una massa di servi e di serve, che la santa Betlemme avrebbe accolto ogni giorno mendicanti, che, un tempo nobili di entrambi i sessi e assai ricchi, giungono a fiumi?» (Quis crederet ut totius orbis exstructa victoriis Roma corrueret, ut ipsa suis populis et mater fieret et sepulcrum, ut tota Orientis, Aegypti, Africae littora olim dominatricis urbis, servorum et ancillarum numero complerentur, ut quotidie sancta Bethleem, nobiles quondam utriusque sexus, atque omnibus divitiis affluentes, susciperet mendicantes?, Hier. in Ezechiel. III praef. 2).

Agostino di Ippona. Affresco, c. VI secolo. Roma, Basilica di S. Giovanni in Laterano.

Agostino non si dimostrò altrettanto comprensivo quando i profughi giunsero a Cartagine, e rimarcò che, nonostante tutto il mondo fosse in lutto per il loro tragico destino, non facevano altro che andarsene a teatro e divertirsi: «Questa pestilenza accecò le anime dei miseri in modo tanto tenebroso, le macchiò in modo tanto infame, che, una volta distrutta Roma – e forse sarà incredibile per i posteri! –, quelli che ne erano posseduti e riuscirono con la fuga a raggiungere Cartagine, impazzivano a gara ogni giorno, nei teatri, dietro gli istrioni. O menti dementi! È tanto grande questo errore – o piuttosto questo furore – che, mentre i popoli d’Oriente piangono la vostra fine e le città più grandi e lontane manifestano lutto e afflizione, voi cercate, frequentate, riempite i teatri e fate pazzie maggiori di prima?» (quae [pestilentia] animos miserorum tantis obcaecavit tenebris, tanta deformitate foedavit, ut etiam modo – quod incredibile forsitan erit, si a nostris posteris audietur – Romana Urbe vastata, quos pestilentia ista possedit atque inde fugientes Carthaginem pervenire potuerunt, in theatris cotidie certatim pro histrionibus insanirent. O mentes amentes! quis est hic tantus non error, sed furor, ut exitium vestrum, sicut audivimus, plangentibus orientalibus populis et maximis civitatibus in remotissimis terris publicum luctum maeroremque ducentibus vos theatra quaereretis intraretis impleretis et multo insaniora quam fuerant antea faceretis?, August. De civ. D. I 32-33).

Per Procopio, che scriveva nel VI secolo, le gravi conseguenze del sacco perpetrato dai Goti non si fecero sentire soltanto sulla città di Roma, ma su gran parte dell’Italia: «Distrussero così radicalmente le città espugnate, che nulla è rimasto ai nostri giorni in ricordo di esse, specialmente delle città a sud del Golfo Ionico, eccetto qualche torrione o l’arco di una porta o qualcosa del genere, rimasto in piedi per caso. Uccisero tutte le persone che incontrarono sul loro cammino, sia vecchi sia giovani, senza risparmiare né le donne né i bambini. Di conseguenza, anche oggi l’Italia si trova a essere scarsamente popolata». (πόλεις τε γάρ, ὅσας εἷλον, οὕτω κατειργάσαντο ὥστε οὐδὲν εἰς ἐμὲ αὐταῖς ἀπολέλειπται γνώρισμα, ἄλλως τε καὶ ἐντὸς τοῦ Ἰονίου κόλπου, πλήν γε δὴ ὅτι πύργον ἕνα ἢ πύλην μίαν ἤ τι τοιοῦτο αὐταῖς περιεῖναι ξυνέβη· τούς τε ἀνθρώπους ἅπαντας ἔκτεινον, ὅσοι ἐγένοντο ἐν ποσίν, ὁμοίως μὲν πρεσβύτας, ὁμοίως δὲ νέους, οὔτε γυναικῶν οὔτε παίδων φειδόμενοι. ὅθεν εἰς ἔτι καὶ νῦν ὀλιγάνθρωπον τὴν Ἰταλίαν ξυμβαίνει εἶναι, Procop. Vand. I 2, 11-12).

Ricostruzione di un guerriero visigoto. Illustrazione di A. Gagelmann.

Ciò sembra essere confermato da quanto Rutilio Namaziano scrive nel poema che narra il viaggio da lui intrapreso nel 416 per tornare da Roma a casa sua in Gallia. Egli fu costretto a prendere il mare in quanto il viaggio via terra, lungo l’Aurelia, non era più sicuro perché i ponti erano stati distrutti dai Goti, le stazioni di posta (cursus publicus) non erano più garantite, e lungo la strada si poteva incappare in bande di predoni e mercenari allo sbando: «Si sceglie il mare, perché le vie di terra, fradice in piano per i fiumi, sulle alture sono aspre di rocce: dopo che i campi di Tuscia, dopo che la via Aurelia, sofferte a ferro e fuoco le orde dei Goti, non domano più le selve con locande, né i fiumi con ponti: è meglio affidare le vele al mare, benché incerto» (Electum pelagus, quoniam terrena viarum / plana madent fluviis, cautibus alta rigent. / Postquam Tuscus ager postquamque Aurelius agger / perpessus Geticas ense vel igne manus / non silvas domibus, non flumina ponte cohercet, / incerto satius credere vela mari, Rutil. Namat. 37-42).

Hubert Robert, Acquedotto in rovina.

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Il potere militare presso i Germani: parentela e seguito

La ricerca storiografica moderna non si è occupata di nessun’altra coppia concettuale in modo tanto più intenso e incontrastato di quanto non abbia fatto con «dominio» (Herrschaft) e «seguito» (Gefolgschaft), stravolgendola con impegno ideologico e dilettantismo polemico. Un trattamento simile hanno conosciuto le categorie di «parentela» (Sippe) ed «esercito tribale» (Stammesheer). Nelle fonti letterarie, da Cesare a Wulfila, ai testi altomedievali del continente, delle isole britanniche e della Scandinavia, si parla piuttosto di «potere militare» e «seguito», ma questi concetti richiedono una spiegazione più esaustiva.

Che fra le popolazioni germaniche vigesse una monarchia o un’oligarchia, c’era pur sempre un’élite che deteneva il potere, o meglio un legittimo diritto sulle azioni altrui. Questa rivendicazione di potere si basava sulla maggiore ricchezza e coinvolgeva sia gli uomini liberi sia quelli non liberi e meno ricchi. Il potere era prima di tutto sulla casa, cioè l’autorità di comando sulla propria famiglia e sui propri dipendenti, ed era esercitato su un gruppo di persone libere da incombenze quotidiane che, come soldati addestrati, agivano in base agli ordini del loro signore. Quando Arminio assediò il suocero Segeste per liberare la moglie Thusnelda, due gruppi abbastanza numerosi di seguaci si affrontarono per espugnare la casa di Segeste, evidentemente ben fortificata; quando Arminio attaccò il re dei Marcomanni, egli era a capo di un esercito multietnico di seguaci che combattevano schiere di guerrieri strutturate in modo simile da Marobodo, alle quali si erano aggiunti anche lo zio di Arminio e il principe cherusco Inguiomero con il loro seguito (Tac. Ann. I 57-59).

Arminio. Illustrazione di A. Gagelmann.

I resoconti di Cesare e di Tacito, che si riferiscono in modo sistematico a un «seguito» germanico, non presentano vuote astrazioni, ma sono molto concreti: sono i resoconti della vita di una società arcaica, naturalmente, come mostrano i confronti fra le istituzioni germaniche e quelle non germaniche. Le fonti latine si riferiscono al «seguito» con il termine comitatus, un fenomeno sociale che si affermò pienamente durante l’epoca delle migrazioni (IV-V secolo), come mostrano le varie espressioni per indicarlo: þiudans in gotico, fylgja in norreno, þeod in sassone, Truste in franco e Gasindium in longobardico.

Ogni capo militare degno del suo rango aveva il suo «seguito», le dimensioni del quale variavano in proporzione alla fama, al prestigio e al carisma: disporre di un gran numero di seguaci era naturalmente motivo di vanto e la dimostrazione pratica della propria competenza militare. I guerrieri accompagnavano il loro condottiero in ogni occasione, sia in guerra sia nelle adunanze pubbliche, vivendo insieme a lui e per lui, quasi fosse la sua scorta armata personale. Tacito (Germ. 13, 3) lo spiega molto chiaramente: haec dignitas, hae vires: magno semper electorum iuvenum globo circumdari in pace decus, in bello praesidium. Nec solum in sua gente cuique, sed apud finitimas quoque civitates id nomen, ea gloria est, si numero ac virtute comitatus emineat; expetuntur enim legationibus et muneribus ornantur et ipsa plerumque fama bella profligant («Questa è la dignità, questa la manifestazione di forza: essere sempre seguiti da una folta schiera di giovani scelti, decoro in tempo di pace, difesa in tempo di guerra. Per ciascun capo militare è motivo di gloria e di onore, non soltanto presso la sua gente ma anche tra le tribù limitrofe, distinguersi per la consistenza e per il valore del proprio seguito; infatti, essi sono richiesti per incarichi diplomatici, sono gratificati con donativi e combattono vittoriosamente le guerre soprattutto grazie alla propria fama»).

Fondamentale era il rapporto di subordinazione del seguace al comandante, rapporto sancito da un solenne giuramento, che regolava i legami e i vincoli di fiducia fra il signore e gli uomini sotto il suo comando. Tacito (Germ. 14, 1), infatti, osserva che principes pro victoria pugnant, comites pro principe («I condottieri combattono per la vittoria, i seguaci combattono per i capi»). I meriti personali conseguiti dal membro del «seguito» sul campo e la considerazione goduta presso il proprio comandante consentivano ad alcuni di distinguersi dal resto del gruppo: questi gregari erano spesso investiti di importanti responsabilità, prove e missioni. A ciò va aggiunto che il condottiero precedeva i suoi in battaglia, ma anche che il suo «seguito» aveva l’obbligo morale di non sopravvivergli: Cum ventum in aciem, turpe principi virtute vinci, turpe comitatui virtutem principis non adaequare (Tac. Germ. 14, 1, «Non appena si viene alle armi, è vergognoso per un capo essere superato in valore e altrettanto turpe per il gruppo non emulare il proprio condottiero»). Il guerriero doveva al suo capo valore e coraggio, difesa e protezione: sopravvivergli in battaglia era motivo di infamia che poteva pesare sulla coscienza per il resto della vita.

Cavaliere germanico. Disco decorativo, bronzo, VI secolo, da una tomba alamannica a Bräunlingen. Karlsruhe, Badisches Landesmuseum.

Se i comites costituivano la milizia privata del condottiero, anche costui era tenuto a osservare alcuni obblighi, fra i quali garantire fama e ricchezza ai suoi uomini, condurli alla vittoria in guerra e consentire loro di vivere dignitosamente in pace (Tac. Germ. 14, 2): Exigunt enim principis sui liberalitate illum bellatorem equum, illam cruentam victricemque frameam; nam epulae et quamquam incompti, largi tamen apparatus pro stipendio cedunt («Infatti, dalla generosità del loro condottiero i gregari richiedono come ricompensa o quel particolare cavallo da guerra o quella speciale lancia insanguinata e vittoriosa, mentre i pasti e il vitto nel suo complesso, semplice seppur abbondante, costituiscono la loro paga»).

Il peso economico rappresentato dal «seguito» doveva essere ragguardevole, considerata la povertà dell’economia germanica, fondata sull’agricoltura; perciò, soltanto condottieri molto potenti potevano permettersi di supportare un «seguito». La munificenza dei condottieri, pertanto, derivava soprattutto dal bottino razziato ai vicini, che veniva spartito equamente tra i guerrieri in base all’onore riconosciuto a ciascuno (Germ. 15, 2): Mos est civitatibus ultro ac viritim conferre principibus vel armentorum vel frugum, quo pro honore acceptum etiam necessitatibus subvenit. Gaudent praecipue finitimarum gentium donis, quae non modo a singulis, sed et publice mittuntur, electi equi, magnifica arma, phalerae torquesque («È usanza delle tribù offrire spontaneamente e a titolo personale ai condottieri bestiame e prodotti agricoli, che, accolti come segno di distinzione, sopperiscono anche alle loro necessità. Si compiacciono particolarmente dei doni ricevuti dalle tribù vicine, inviate non solo da singole persone, ma anche a nome di tutta la comunità: cavalli di razza, splendide armi, decorazioni militari e monili»).

Guerriero franco. Pietra tombale, VII secolo, da Niederdollendorf (Königswinter). Bonn, Rheinisches Landesmuseum.jpg

D’altra parte, l’adesione al comitatus era volontaria, per il puro piacere di fare la guerra (Tac. Germ. 14, 2): Si civitas, in qua orti sunt longa pace et otio torpeat, plerique nobilium adulescentium petunt ultro eas nationes, quae tum bellum aliquod gerunt («Se la comunità in cui sono nati s’infiacchisce in un prolungato periodo di pace, molti giovani delle famiglie nobili si trasferiscono presso altre popolazioni, che in quel momento sono impegnate in qualche conflitto»). In una società arcaica come quella dei Germani la mera capacità di comando non assicurava di per sé il potere; chi intendeva detenerlo doveva disporre di qualcuno che lo precedesse o lo seguisse. Ogni individuo occupava un certo posto all’interno di un ordine gerarchico ed era tenuto a mantenerlo, persino migliorarlo, se non voleva rischiare di perdere la propria posizione (Germ. 13, 3): Gradus quin etiam ipse comitatus habet, iudicio eius quem sectantur; magnaque et comitum aemulatio, quibus primus apud principem suum locus («Il seguito ha dei gradi, secondo le disposizioni del capo; c’è una certa competizione tra coloro che ne fanno parte, per vedere a chi tocchi il primo posto nella considerazione del capo»).

Analogamente a questo senso di aemulatio, un giovane poteva diventare capo: secondo una concezione tipicamente germanica, l’età decideva di rado l’ordine gerarchico degli individui. L’esperienza militare non era un prerequisito necessario, mentre contavano di più insignis nobilitas aut magna patrum merita («la ragguardevole nobiltà o i grandi meriti dei padri»), che facevano risalire fino ai capostipiti divini il carisma personale e il «credito» che nasceva dal capo. Tra l’altro, i guerrieri più giovani ceteris robustioribus ac iam pridem probatis adgregantur, nec rubor inter comites aspici (Tac. Germ. 13, 2, «si aggregavano ai più forti e ai più esperti e non era motivo di vergogna mostrarsi parte di un seguito»).

La tecnica di combattimento della fanteria germanica, simile alla falange. Illustrazione di A. Gagelmann.

In origine, come per la maggior parte dei barbari, anche la disposizione in battaglia dei Germani era ordinata per famiglie, Sippen e gruppi tribali, ma le forme di organizzazione del seguito finirono per sconvolgere e modificare gli assetti tradizionali. La scelta dei membri del seguito era una decisione che naturalmente spettava a un capo carismatico: coloro che lo avrebbero accompagnato, percorrendo un tratto di strada insieme, costituivano la «compagnia» (das Gesinde < ant. norr. Sinni, «che partecipa a una spedizione, gregario»; a.a.t. sind, «strada, cammino, direzione»).

Senza tutte le premesse materiali, e soprattutto senza il successo in battaglia, il credito e il capitale avevano vita breve. La costituzione di un «seguito» attorno alla figura di un capo carismatico era un atto volontario che comportava, però, determinati obblighi di reciprocità. I guerrieri e il loro leader esercitavano l’uso delle armi, nella convinzione che facilius inter ancipitia clarescunt magnumque comitatum non nisi vi belloque tueare fosse più facile acquisire fama in mezzo ai pericoli dei conflitti e si potesse mantenere un seguito numeroso solo con la forza e per mezzo della guerra»).

Guerriero cherusco (I secolo d.C.). Illustrazione di Pablo Outeiral.

Presso gli antichi popoli germanici era consuetudine che i ragazzi non assumessero le armi fin quando non ne fossero stati degni: si trattava di un diritto ottenuto compiendo con successo una prova, un rito di passaggio, che consisteva generalmente nell’uccisione di una fiera e nel riportarne la carcassa al cospetto degli anziani per dimostrare l’effettivo superamento della prova. Non era raro che all’abbattimento di un animale feroce si sostituisse l’uccisione del primo uomo in combattimento. Per esempio, si può citare questa usanza presso i Chatti, verso le doti belliche dei quali Tacito mostra una certa ammirazione (Germ. 30, 3): Omne robur in pedite, quem super arma ferramentis quoque et copiis onerant: alios ad proelium ire videas, Chattos ad bellum («La loro forza militare risiede interamente nella fanteria, che oltre alle armi caricano anche di arnesi da lavoro e vettovaglie: gli altri li vedi andare in battaglia, i Chatti in campagna militare»). Da loro vigeva l’uso di lasciarsi crescere barba e capelli nel corso dell’adolescenza, per poi radersi al primo avversario ucciso in battaglia (Germ. 31, 1): Super sanguinem et spolia revelant frontem, seque tum demum pretia nascendi rettulisse dignosque patria ac parentibus ferunt («Sul cadavere insanguinato si radono il volto e solo allora ritengono di aver pagato il prezzo della loro nascita e si considerano degni della patria e dei genitori»). Parimenti, il giovane guerriero doveva ritenersi degno della nuova comunità e del nuovo padre (il princeps) solo dopo aver dimostrato il proprio valore sul campo. Sempre presso i Chatti Tacito informa dell’esistenza di una consorteria di guerrieri, un gruppo ristretto e a carattere iniziatico, che richiedeva ai suoi membri il superamento di una certa prova: Fortissimus quisque ferreum insuper anulum (ignominiosum id genti) velut vinculum gestat, donec se caede hostis absolvat. […] Haec prima semper acies, visu nova: nam ne in pace quidem vultu mitiore mansuescunt («Chiunque sia particolarmente forte tra loro indossa un anello di ferro – motivo di vergogna presso questa gente –, come se si trattasse di un simbolo di servitù, finché non se ne libera uccidendo un nemico […]. A costoro spetta l’inizio di ogni combattimento: la loro schiera è sempre la prima, terribile a vedersi; neppure in tempo di pace si addolciscono assumendo un aspetto più mansueto»).

Le battaglie erano situazioni nelle quali era particolarmente richiesto l’aiuto divino e per questo motivo si ricorreva a rituali di culto. Perciò, i membri di una consorteria guerriera dovevano assumere un aspetto spaventoso e terribile sia nei confronti dei nemici umani sia contro ostili forze soprannaturali. A tal proposito, Tacito (Germ. 43, 5) fornisce un’interessante descrizione dei guerrieri arii orientali, i quali truces insitae feritati arte ac tempore lenocinantur: nigra scuta, tincta corpora; atras ad proelia noctes legunt ipsaque formidine atque umbra feralis exercitus terrorem inferunt, nullo hostium sustinente novum ac velut infernum aspectum («truci d’aspetto, accrescono la loro naturale ferocia con l’arte e con la scelta del tempo: portano scudi neri e corpi tinti di scuro; per combattere scelgono le notti senza luna e il solo orrore e l’ombra di questo esercito di fantasmi bastano a seminare il panico, perché non esiste avversario capace di sostenere il loro aspetto insolito»). Il fatto che alcuni Arii si mascherassero come un esercito di fantasmi per la battaglia va visto come un gesto eminentemente sciamanico: se da una parte, come la maggior parte dei guerrieri germanici, non disponevano di proprietà personali, non curavano la propria casa, ma campavano sulle spalle degli altri, dall’altra la loro condizione garantiva loro il privilegio di una vita separata rispetto al resto del*þeuda («popolo»), e di ricevere un addestramento segreto, grazie al quale scendevano in battaglia in preda a un’estasi particolare. Certamente, il loro comportamento non era mera espressione di una ritualità ancestrale, ma il simbolo di un forte legame fra uomini che tendeva a rompere l’ordine gerarchico della Sippe.

Placche di Torslunda. Lamine con rilievi a sbalzo, bronzo, c. VI-VIII secolo, da Torslunda (Öland, Svezia). Stockholm, Historiska museet.

Quanto all’estasi del guerriero (ciò che i Romani chiamavano furor), presso i popoli germanici i casi emblematici furono quelli dei cosiddetti cosiddetti berserkir («vestiti da orsi») e ulfedhnar («teste di lupo») – divenuti assai popolari soprattutto in età vichinga (IX-X secolo). Con ogni probabilità, si trattava di varianti dei guerrieri d’élite arii e chatti: erano soliti andare in battaglia completamente nudi, difesi da uno scudo e coperti dalla pelliccia del loro animale totemico. Dopo essersi consacrati al dio *Wōdanaz (Wuoðan), prima della battaglia, questi guerrieri cadevano in uno stato mentale di furia (berserksgangr), ringhiando, ululando e perfino mordendo gli scudi; probabilmente, il rituale prevedeva l’assunzione di sostanze psicotrope, tali da renderli particolarmente feroci e insensibili al dolore e alla fatica e da convincerli di trasformarsi nella fiera di cui indossavano le pelli. Nella mischia i guerrieri invasati dimostravano una forza sovrumana, non avvertendo il dolore delle ferite subite e, incapaci di distinguere tra amici e nemici, massacravano chiunque capitasse loro a tiro.

Sulla panoplia del guerriero germanico, Tacito (Germ. 6) riferisce queste informazioni: Ne ferrum quidem superest, sicut ex genere telorum colligitur. rari gladiis aut maioribus lanceis utuntur: hastas vel ipsorum vocabulo frameas gerunt angusto et brevi ferro, sed ita acri et ad usum habili, ut eodem telo, prout ratio poscit, vel comminus vel eminus pugnent. et eques quidem scuto frameaque contentus est, pedites et missilia spargunt, pluraque singuli, atque in immensum vibrant, nudi aut sagulo leves. nulla cultus iactatio : scuta tantum lectissimis coloribus distinguunt. paucis loricae, vix uni alterive cassis aut galea. equi non forma, non velocitate conspicui. sed nec variare gyros in morem nostrum docentur: in rectum aut uno flexu dextro agunt, ita coniuncto orbe ut nemo posterior sit. in universum aestimanti plus penes peditem roboris; eoque mixti proeliantur, apta et congruente ad equestrem pugnam velocitate peditum, quos ex omni iuventute delectos ante aciem locant. definitur et numerus: centeni ex singulis pagis sunt, idque ipsum inter suos vocantur, et quod primo numerus fuit, iam nomen et honor est. acies per cuneos componitur. cedere loco, dummodo rursus instes, consilii quam formidinis arbitrantur. corpora suorum etiam in dubiis proeliis referunt. scutum reliquisse praecipuum flagitium, nec aut sacris adesse aut concilium inire ignominioso fas, multique superstites bellorum infamiam laqueo finierunt («Nemmeno il ferro abbonda in Germania, come si può dedurre dal tipo di armi. Pochi usano spade o lance abbastanza lunghe: portano piuttosto certe lance, che chiamano “framee”, dalla punta di ferro stretta e corta, così aguzza e adatta all’impiego che la stessa arma è utilizzata sia per combattere da vicino sia da lontano. Anche i cavalieri si accontentano del solo scudo e della framea; i fanti, nudi o coperti da una tunica leggera, scagliano proiettili (ogni guerriero ne lancia molti) a notevole distanza. Non hanno alcuna ricercatezza nell’ornamentazione, tutt’al più marcano gli scudi con i loro colori preferiti. Pochi indossano una corazza e ancor meno l’elmo, sia esso di metallo o di cuoio. I loro cavalli non si distinguono per bellezza né per velocità; non sono nemmeno addestrati a compiere evoluzioni com’è nostro uso: li conducono in linea retta oppure verso destra, con una rotazione estremamente compatta, in modo che nessuno resti indietro. Secondo una valutazione complessiva, la maggior forza d’urto sta nella fanteria: perciò, cavalieri e fanti combattono misti e i secondi mantengono una velocità di movimento adatta al combattimento equestre; i fanti, scelti tra tutta la gioventù, sono schierati in prima linea. Anche il numero di questi guerrieri è prestabilito: cento per ciascun villaggio e tra i Germani sono detti “i cento”, e quello che in origine era soltanto un numero, ora costituisce un titolo di distinzione. Lo schieramento della fanteria si compone di formazioni a cuneo. La ritirata strategica è considerata manifestazione di prudenza e non di viltà, purché poi si torni appunto all’attacco. Riportano dal campo di battaglia i corpi dei caduti anche in caso di scontri dall’esito incerto e considerano una colpa gravissima l’abbandono dello scudo sul campo: al disertore non è concesso di assistere ai sacrifici né di prendere parte alle assemblee, tanto che molti, sopravvissuti al combattimento, per porre fine alla loro infamante condizione si impiccano»).

Prigioniero germanico (forse suebico). Statuetta, bronzo, II secolo. Wien, Römermuseum.

Il passo è molto interessante: la maggior parte dei guerrieri era dotata principalmente della framea (forse da fram, «in avanti»), una lancia corta, dalla punta stretta e affusolata; doveva essere un’arma molto versatile e maneggevole, sia da lancio (eminus) sia per il combattimento corpo a corpo (comminus). Fra i proiettili (missilia), lanciati a grande distanza e con estrema precisione, probabilmente figuravano giavellotti, frecce e pietre. La spada era uno strumento bellico piuttosto raro tra i popoli germanici del I secolo: avrebbe trovato maggiore diffusione in seguito, ma all’epoca di Tacito costituiva un elemento di distinzione per i guerrieri scelti e i loro condottieri. Come arma di difesa, i guerrieri portavano lo scutum, cioè lo scudo rettangolare. Ogni tribù doveva avere i propri simboli e i propri colori araldici, per poter riconoscere in combattimento i propri compagni. Gli stessi simboli dipinti dovevano possedere proprietà magiche-apotropaiche. Come lo scudo, anche la framea era considerata un oggetto magico, data la sua capacità di togliere la vita. Percio, perdere, o abbandonare al nemico le proprie armi, costituiva il più grave dei disonori: Tacito riferisce che coloro che se ne macchiavano incorrevano nel biasimo generale e non erano più ammessi alle cerimonie sacre né alle assemblee della tribù. Chi commetteva un atto simile, non di rado, non sopportando l’onta si impiccava per la vergogna.

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I popoli germanici: il mito delle origini e il pantheon

Cesare non inventò il nome dei Germani, né fu il primo Romano a incontrarli di persona, ma furono le sue esperienze durante le guerre galliche ad aiutare quella che oggi chiameremmo «etnografia germanica» a far breccia presso i Romani: si manifestò infatti un immediato interesse per le leggende relative alla loro provenienza, per le loro «origini sacre» e per le loro divinità. Uno studioso che riporti queste leggende prendendone allo stesso tempo le distanze dal punto di vista storiografico non corre grandi rischi. È invece di gran lunga più difficile, se non addirittura impossibile, rispondere alle domande sulla «vera» origine e provenienza geografica dei Germani. Se si pensa alle discussioni degli studiosi e degli appassionati della materia, alla gravosa eredità delle ideologie, fino alle aberrazioni del razzismo che erano e sono state connesse a questo tema, si è tentati di non parlarne affatto; tuttavia, siccome l’obiettivo è offrire una conoscenza il più possibile certa (conoscenza che sull’argomento è davvero modesta), proveremo ugualmente a occuparcene.

Sebbene non vi sia alcuna certezza assoluta al riguardo, è molto accreditata l’ipotesi secondo la quale le prime attestazioni dei Germani sono rintracciabili intorno al 500 a.C., in un’area che può essere fatta coincidere, dal punto di vista archeologico ma, con l’aiuto dell’idronimia, anche filologico, con quella della “Cultura di Jastorf” dell’Età del Ferro. Jastorf, nei dintorni di Uelzen, si trova al margine orientale della Lüneburger Heide (Bassa Sassonia), quasi 40 km a sud di Lüneburg, ed è il luogo di ritrovamenti archeologici che dà il nome a una cultura il cui nucleo comprendeva in un primo momento solo l’Hannover orientale, lo Schleswig-Holstein, il Meclemburgo e le regioni limitrofe. All’incirca nella stessa zona ebbe probabilmente inizio quell’importante processo storico-linguistico che viene chiamato «mutazione consonantica germanica» (o Legge di Grimm). Per illustrarlo basteranno due esempi: la p del latino pater diventa f, come nell’inglese father; la c di centum diventa h, come nel tedesco hundert. Attraverso la mutazione fonetica delle consonanti velari e labiali il germanico comune si differenziò dalle altre lingue indoeuropee, quali il greco, il latino, il sanscrito, lo slavo e il celtico. Mentre si compiva questo processo linguistico, divenne germanica una regione che si estendeva dalla foce del Reno, a ovest, fino all’Oder, a est, e dalla barriera di Löss, a sud, fino alla Scandinavia meridionale, a nord. Inoltre, va ricordato che gli Sciri e i Bastarni dovevano già essersi messi in cammino verso l’Europa sudorientale prima della conclusione della mutazione fonetica germanica; mutazione che essi, in un’area in cui si parlava dacico, getico e greco, portarono a compimento autonomamente, cosicché rimasero, dal punto di vista linguistico, germanici.

Massima espansione della “Cultura di Jastorf” tra IV e II secolo a.C. Da Krüger 2003; Dąbrowska 1986; Grygiel 2013.

È vero, peraltro, che proprio i migliori specialisti del settore mettono in guardia dall’equiparare i reperti archeologici a quelli filologici. Non è quindi possibile porre sullo stesso piano la cultura di Jastorf, di per sé molto espansiva, con i suoi sottogruppi, e i confini del territorio linguistico germanico; pertanto, sebbene i risultati dell’archeologia e della linguistica siano considerevoli, i metodi di queste discipline non consentono di trarre alcuna conclusione sulle cause storiche dei fenomeni descritti. Uno di questi fenomeni è senz’altro il fatto che i Germani si diffusero su vasti territori dell’Europa centrale e settentrionale prima che la migrazione di popoli vera e propria avesse luogo.

Come la slavizzazione di mezza Europa tra la fine del V e l’inizio del VII secolo, avvenuta con incredibile velocità, anche l’espansione germanica si può a stento descrivere con le categorie storiche utilizzate di solito. Bisogna però ricordare che già Cesare, nella sua qualità di etnografo, aveva compreso che, per molte tribù della Gallia nordorientale e orientale, la provenienza germanica era elemento di grande prestigio. Ciò sembra trovare conferma nel fatto che nei territori dell’originario nucleo germanico vi erano popoli la cui importanza si basava sulla loro antichità. Plinio il Vecchio, per esempio, riferisce che gli Ingevoni sarebbero stati il primo popolo della Germania (Plin. NH IV 96), mentre Cesare menziona i Suebi, quibus ne dii quidem immortales pares esse possint (Caes. BG IV 7, 5, «ai quali neppure gli dèi immortali potevano stare alla pari»).

All’interno del popolo suebo si distingueva la tribù dei Semnones, stanziata tra il medio corso dell’Elba e dell’Oder; nel III secolo, con il nuovo nome di Alamanni, si sarebbero spostati in direzione sud-ovest in una regione delimitata dal Meno e dall’alto corso del Danubio. Questi Semnones, riferisce Tacito (Germ. 39), si consideravano i più antichi e i più nobili e la tesi di questa presunta superiorità troverebbe conferma in particolari riti religiosi (fides antiquitatis religione firmatur): tra la fine di settembre e gli inizi di ottobre i rappresentanti di tutte le tribù della medesima stirpe si radunano in silvam sacram per espletare i riti dedicati agli antenati e per un ancestrale sentimento religioso (prisca formidine); durante queste cerimonie, tra l’altro, compiono anche sacrifici umani. Per questa ragione i Semnones possedevano uno speciale carisma ed esercitavano il proprio dominio su un territorio così esteso che essi poterono essere considerati la tribù principale della loro stirpe (Sueborum caput).

Un elemento caratteristico dell’abbigliamento tribale suebo, ripreso e conservato da molti altri popoli, fra i quali i Bastarni stanziati presso il Mar Nero, era l’artistico “nodo suebo” di capelli intrecciati, anch’esso segno di grande prestigio, che gruppi originariamente provenienti da altre tribù vollero far proprio. L’esempio della diffusione dei Suebi all’interno della Germania Magna, a causa della quale al tempo di Cesare gli stessi Suebi erano spesso identificati con tutti i popoli transrenani, potrebbe perciò offrire una spiegazione della precedente germanizzazione di gruppi celti, veneti e altri antichi popoli europei non ulteriormente definibili.

Una peculiarità etnica ben distinta, un senso comunitario gentilizio, si manifestava nel loro distinguersi dagli altri popoli, dagli “stranieri”. Per i Germani i popoli a sud-ovest erano Volcae (cfr. ted. Volk, engl. folk, lat. vulgus), il cui nome ancora oggi serve a definire i vicino celto-romani come Welsh, Welschen, Walschen e Walchen. In conseguenza di ciò, nacque la denominazione ancora vigente presso i Greci moderni, gli Slavi e gli Ungheresi delle popolazioni romanze come Vlahi, Vlasi, Walachen e Olàh. Il pendant orientale era rappresentato dai Veneti, emigrati dal Mar Baltico fino all’Adriatico, il cui nome, nelle forme Wenden, Winden e Windische, sopravvive ancora oggi come denominazione dei popoli balto-slavi. Gli Scandinavi, infine, avevano ancora dei vicini a nord, lo strano popolo dei Finni, dedito alla magia di tipo sciamanico.

Thor (dettaglio). Incisione su pietra, XI secolo, dalla Altunastenen. Altuna (Uppland, Svezia).

Particolare prestigio aveva, come sottolineato da Tacito, l’anzianità della tribù, costantemente rinnovata e ricordata da un preciso rituale religioso. Origini venerabili, ovviamente dovute agli dèi, e il culto degli dèi stessi, origo et religio costituivano il fulcro della vita di una gens: quanto più antiche erano le origini e quanto migliori erano gli dèi, tanto migliore, nel senso di «più rispettabile», era il popolo. I Semnones coltivavano le origini della gens Sueborum, gli initia gentis, presso la quale a governare era il supremo dio onnipotente (regnator omnium deus). I popoli che si sentivano di appartenere alla stessa comunità d’origine, eiusdem sanguinis populi, inviavano in determinati momenti presso i Semnones dei propri delegati, che dovevano prendere parte alle cerimonie. Che le osservazioni svolte da Tacito fossero considerate attuali anche molto tempo dopo la sua morte è confermato dal fatto che i Quadi suebi, sconfitti da Marco Aurelio, volevano abbandonare il territorio dov’erano stanziati, fra le odierne Slovenia e Moravia orientale, per trasferirsi presso i Semnones tra l’Elba e l’Havel, cosa che tuttavia, a quanto sembra, l’imperatore riuscì a impedire (DCass. LXXI 20, 2).

Sebbene la vita di una tribù fosse sottoposta a continui cambiamenti, o forse proprio per questo, la sua vetustà era fonte di particolare prestigio. Dagli inizi dell’etnografia antica (già Erodoto aveva indagato prima di tutto sull’antichità di una nazione) alla visione nazionalistica moderna, l’antichità di un popolo decide infatti della sua posizione gerarchica, fino a creare le basi per rivendicazioni territoriali. Tuttavia, ha osservato Wenskus (1961, 82), «ciò che distingue la visione nazionalistica dalla coscienza etnica è il suo spirito missionario rivolto al futuro, che può portare all’aggressività e all’imperialismo. Mentre l’orgoglio per i propri antenati e per l’antica fama dovrebbe solo rendere consapevoli della posizione privilegiata della propria coscienza etnica, la visione nazionalistica ne trae delle conclusioni per il comportamento del singolo che risultano estranee all’originario pensiero etnico. Non si può pensare di comprendere lo spirito missionario della visione nazionalistica senza le correnti universalistiche che dal Cristianesimo e dalle filosofie antiche si riversarono sul pensiero etnico: senza la concezione di un’umanità comune, che è oggetto dello spirito missionario e che manca alla coscienza etnica, la visione nazionalistica è impensabile. La coscienza etnica non ha alcuna tendenza missionaria in sé, cerca solo di salvaguardare e di legittimare la propria posizione privilegiata».

Le società cultuali vengono presentate dalle fonti antiche più importanti come comunità originarie, genera (Plin. NH IV 99; Tac. Germ. 2), un termine in contrasto con il loro costituirsi come associazioni di entità autonome in un culto comune, paragonabile all’incirca alla lega anfizionica greca; tale contraddizione si può sciogliere se consideriamo che le tradizioni etniche vivono sempre più a lungo delle entità politiche che le hanno principalmente sostenute. Così il ricordo di alcune società cultuali pre-germaniche (Ingevoni e Lugi) potrebbe essere sopravvissuto in età successiva e aver portato, in virtù della sua antichità, un «senso di appartenenza» nei popoli germanici; in questo senso va inteso, con ogni probabilità, il più importante mito d’origine germanico.

In Germania 2, 2, Tacito riferisce che negli antichi carmi (carminibus antiquis), la sola forma di tradizione storica in loro possesso, i Germani celebrano il dio Tuistone, «l’ermafrodito» nato dalla Terra, il cui nome doveva essere *Tiwaz (cfr. il Tyr norreno). Considerato il dio primigenio e il giudice celeste, garante del diritto e testimone dei giuramenti, era padre del mitico Mannus, considerato il capostipite della stirpe, primo ordinatore della società (originem gentis conditoremque). Il nome di Tuisto/Tiwaz deriva dalla radice i.e. *deiw-os, cioè «che splende come il Sole», o *djeus dalla quale, a loro volta, discenderebbero il grec. Ζεύς e le voci lat. divus, deus, «dio», e Iuppiter (< *Djus-piter, «dio padre»). Insomma, Tuisto era considerato il padre degli uomini e degli dèi. Sotto certi aspetti, però, questo nume ricorda da vicino il Mars Romanus, il padre della stirpe capitolina, proiezione ideale del Romano. Non è un caso, tra l’altro, che quando le popolazioni germaniche adattarono il proprio calendario a quello romano, identificando le due divinità, traducessero Martis dies con Zios dagaz (< ted. Dienstag, engl. Tuesday).

Divinità antropomorfica. Statuetta, legno di quercia, V secolo a.C., da Altfriesack. Berlin, Neues Museum.

Il progenitore Mann, secondo la leggenda, ebbe tre figli, dai nomi dei quali derivano rispettivamente quello degli Ingaevones, che al tempo di Tacito abitavano le coste dell’Oceano, quello degli Herminones, che vivevano nella Germania continentale, e quello degli Istaevones. È molto più verosimile che il processo si sia svolto in ordine inverso: dal nome di questi gruppi etnici si è ipotizzato quello dei mitici capostipiti Inguio, Hermin e Istwo (analogamente a quanto avvenuto in Grecia, dove i progenitori Ione, Doro ed Eolo derivano dal nome degli Ioni, dei Dori e degli Eoli). Plinio il Vecchio (Plin. NH IV 99) specifica che gli Ingaevones erano popolazioni stanziate lungo le coste del Mare del Nord e del Baltico (come Cimbri, Teutoni e Chauci); gli Herminones (NH IV 100) erano insediati a est del Reno (Suebi, Hermonduri, Chatti e Cherusci); più a ovest di loro, lungo il Reno, risiedevano gli Istaevones. Tuttavia, osserva Tacito, oltre al venerabile albero genealogico a tre rami esistevano anche «nomi autentici e antichi di popoli» che egualmente vantavano origini divine, fra i quali i già menzionati Suebi, ma anche i Marsi che difendevano il tempio di Tanfana e, infine, i Vandili (o Vandali). L’autore mostra dunque di essere a conoscenza di tradizioni differenti, che peraltro riporta non senza modificarle; il suo predecessore, Plinio il Vecchio, conosceva infatti cinque genealogie germaniche, cioè, oltre alle tre ricordate in seguito anche da Tacito e a quella dei Vandili, anche quella del gruppo celto-germanico dei Bastarni, stanziati sulle rive del baso Danubio e sul Mar Nero. La discussione sul significato di tali genealogie è oggi più che mai accesa. Come dato in una certa misura attestato può valore solo il fatto che queste antiche società di culto, all’epoca in cui i Romani penetrarono nell’interno della Germania, se non si stavano già sciogliendo, stavano comunque attraversando una fase di notevoli cambiamenti.

Plinio, per esempio, al pari di Tacito, nomina i Gutones (gli antenati dei Goti), come abitanti della Germania orientale. Ma mentre Tacito li annovera fra i Suebi, secondo Plinio i Gutones sarebbero stati un sottogruppo dei Vandili. Sia la leggenda sull’origine dei Goti, che pure fu messa per iscritto solo molto più tardi (da Giordane nel VI secolo), sia quella ancora più recente dei Longobardi (che nel I secolo erano ritenuti ugualmente Suebi) sull’Elba considerano la vittoria sui Vandali la prima azione determinante ai fini della creazione dell’identità del popolo. In simili storie probabilmente sopravviveva il ricordo del fatto che un tempo il proprio popolo non era che un sottogruppo che dipendeva da società cultuali e stirpi più grandi dalle quali ci si distaccò a forza, causando o accelerando con questo la loro rovina. Non di rado avvenimenti del genere sono legati ai nomi delle divinità e a fatti leggendari. Di conseguenza, per quanto possano essere stati importanti come causa di eventi storici, non possono essere pienamente oggetto di conoscenza storica.

Se non si tratta di uno scherzo della tradizione e se ci si può quindi fidare della cronologia relativa, furono in primo luogo le gentes, nel senso di popoli, tribù e gruppi tribali, che si richiamavano a un’origine divina a paragonarsi alle divinità stesse. La loro sconfitta costituì un trauma persino per i popoli vicini, perché l’aiuto divino, che per loro era scontato, non si era tradotto in concreto. Così dal dio Mannus discendevano non tre individui singoli, bensì tre popoli (Ingaevones, Herminones e Instaevones), con i quali erano in competizione altre «genti dai veri nomi antichi» (tribù o gruppi di tribù) come Suebi, Marsi e Vandili, con miti d’origine molto simili. Di contro, si pianse la caduta di Ariovisto e si celebrarono le gesta e la fine di Arminio senza che vi fosse alcun segno che i due fossero stati deificati (cfr. Tac. Germ. 8), e anche nel periodo effettivo della migrazione dei popoli (IV-VI secolo) nessun principe germanico fu oggetto di una venerazione paragonabile all’antico culto orientale del sovrano. Tuttavia, le dinastie reali più importanti riuscirono a trasferire su di sé l’origine divina del proprio popolo, in un certo senso monopolizzandola.

Così dai Vandali Hasdingi scaturì la dinastia regia degli Hasdingi («dalle lunghe chiome»), le cui tradizioni e istituzioni antiche risalgono con ogni probabilità all’età lugico-vandilica. Quelli che sono considerati i loro re più antichi conosciuti sono infatti coppie di dioscuri, i cui nomi, Ambri e Assi, o Raus e Rapt, significano all’incirca «ontano e frassino», o «trave e canna». Sono evidenti precise analogie con il nome dei Goti Amali, considerati, dal canto loro, «a(n)si», un termine che egualmente indica una «trave» o un «albero», dal quale si possono realizzare «idoli su pali»; e, in effetti, ci sono pervenute raffigurazioni di divinità del genere in legno, talvolta di dimensioni più grandi del naturale.

L’albero genealogico degli Amali inizia con Gaut, il padre divino della stirpe dei Gauti scandinavi; quando i genealogisti anglosassoni non si accontentarono più di far risalire l’origine della stirpe regia a Woðanaz/Odino (cfr. Beda, Hist. Angl. I 5), ricondussero le loro origini divino fino a quel dio dei Gauti. La famiglia reale degli Svedesi si chiamava Ynglingar: essi erano i discendenti di Yngvi/Freyr e ogni nuovo sovrano era considerato la reincarnazione di questo dio. Probabilmente, questa credenza fu anche alla base della decisione dei Goti di chiamare «a(n)si» (cioè «semidei») gli Amali vittoriosi: il successo su un nemico superiore rendeva evidente l’origine «necessariamente sovrumana» della famiglia reale. Ma anche la seconda stirpe dei Balti, predecessori dei Visigoti, aveva origine, come gli Amali, da «semidei ed eroi» (Jord. Get. 78 ss.; Merob. Carm. IV 16 ss.). In questa forma attenuata, la stessa esegesi cristiana poteva accogliere antiche tradizioni di culto senza per questo fare proprio il politeismo pagano; un vescovo gallico, per esempio, sosteneva che il salico merovingio Clodoveo, che discendeva da un dio-toro, avrebbe dovuto rinunciare a rivendicare la divinità, ma non l’evidente rango dei suoi predecessori.

Dal tempo di Cesare fino all’anno Mille il tema delle divinità germaniche fu sempre attuale, quindi bisogna operare una distinzione fra le notizie che risalgono agli autori classici e all’epoca delle migrazioni dei popoli e quelle degli scrittori scandinavi che cercarono di dare organicità all’argomento: le figure di Odino, Frigg e Baldr, Freyr e Freya, Thor e Loki e tutti gli altri, che, dopo la grande battaglia dei Vani, abitano riuniti più o meno liberamente nel Walhalla o vengono evocate durante la festa di Bayreuth dalla musica di Wagner, hanno un valore limitato per la comprensione della religione germanica continentale. Tuttavia, l’idea della bipartizione del pantheon germanico che il Nord scandinavo tramanda nel racconto della battaglia fra gli Asi e i Vani, cui segue la conciliazione finale, si affermò con ogni probabilità anche nell’Europa continentale (questo scontro tra esseri divini, tra l’altro, sembra richiamare da vicino la Titanomachia della mitologia ellenica con l’affermazione degli dèi olimpici).

Secondo questa concezione da un lato c’erano i Vani, più antichi e stanziali, dispensatori di fertilità che conoscevano i matrimoni tra fratelli e, palesemente, anche le strutture matriarcali, ma che contavano fra loro anche divinità gemellari benigne; dall’altro c’erano gli Asi, più giovani e bellicosi, che rifiutavano i costumi della generazione precedente. Alla loro testa c’era Woðan/Odino, il dio intorno al quale si raccoglieva il seguito organizzato su base patriarcale. Gli Amali veneravano il loro predecessore Gaut e passarono agli Asi solo nel corso della loro storia continentale. Gli svedesi Ynglingar si consideravano discendenti del dio dei Vani Yngvi/Freyr. Prima che i Longobardi divenissero seguaci di Odino, si facevano chiamare Winnili ed erano associati alla divinità vanica Frea/Freya, sorella di Freyr.

Woðan. Bratteato, oro, c. fine VI secolo, da Vadstena (Östergötland). Stockholm, Statens historiska museum.

Queste storie furono trascritte molto tardi. Vi si può discernere una cronologia relativa, una successione di fenomeni e di processi, ma esse non trasmettono alcuna informazione su avvenimenti precisi e sui loro protagonisti: simili racconti non hanno una storicità databile e spazialmente definibile. Su un altro versante, Cesare, Plinio il Vecchio, Tacito e altri autori antichi descrivono la religione dei Germani a loro contemporanei, o almeno vicini nel tempo. Ovviamente, i loro interessi influenzavano la loro capacità di osservazione e di comprensione, vagliando la realtà germanica attraverso la pratica dell’interpretatio. Cesare, d’altronde, voleva raffigurare i Germani come selvaggi il più possibile primitivi e poco capaci di evolversi, affinché risultassero particolarmente temibili all’opinione pubblica romana e sentiti come una vera minaccia; sul piano cultuale, perciò, egli attribuì una religione naturale di tipo animistico che oltre al Sole, alla Luna e al fuoco non conosceva alcuna divinità né alcuna forma organizzata di venerazione. Dal canto suo, Tacito, nella sua interpretatio Romana, formulò un’equivalenza fra gli dèi che con variazioni minime sopravvive ancora oggi nel nome di quattro dei sette giorni della settimana, anche se raramente si è consapevoli della loro origine: Martis dies – Tuesday, Mercuris dies – Wednesday; Iovis dies – Thursday; Veneris dies – Friday.

Sulla scorta della descrizione cesariana del pantheon celtico (Caes. BG VI 17), Tacito (Germ. 9, 1) afferma che i Germani deorum maxime Mercurium colunt, cui certis diebus humanis quoque hostis litare fas habent («tra gli dèi tributano particolare venerazione a Mercurio, al quale ritengono sia lecito immolare anche vittime umane in giorni stabiliti»). L’autore equiparava Woðan/Odinoal romano Mercurius, per la sua funzione di guida delle anime (psicopompo): i guerrieri, infatti, prima di scendere in battaglia lo invocavano per offrirgli le proprie prodezze e nell’eventualità della morte lo pregavano affinché concedesse loro un’esistenza ultraterrena fra gli antichi eroi. Allo stesso modo, nell’Historia Langobardorum (VII secolo) Paolo Diacono identificò Odino (Goðan, «il re degli dèi») al Mercurio romano. Il teologo Abramo di Brema (XI secolo) ricondusse l’etimo del nome divino alla radice *wud- («furia»), mentre Agrippa di Nettesheim (1486-1535) alla radice * guð-, da cui il lang. Goðan e il norr. Óðr, che come aggettivo vuol dire «matto», «pazzo», «furioso», mentre come sostantivo significa «anima», ma anche «poesia». Il legame tra Woðan/Odino e Mercurio ritorna nell’identificazione del Mercurii dies al Woðanas dagaz (< engl. Wednesday, o.engl. wodnesdæg, ted. Mittwoch).

Stele votiva a Hercules Magusanus (AE 1971, 282). Pietra calcarea, c. 226. Bonn, Rheinisches Landesmuseum.

Mentre, dunque, Woðanaz era il dio della regalità, della magia e della guerra – tutte prerogative dell’élite guerriera – Þunaraz o Þonar (cfr. norr. Þórr) era un’entità elementale, connessa alla pioggia, al tuono e al fulmine. La maggior parte delle testimonianze pervenute dimostrano il forte legame tra la nazione germanica e questo dio: secondo la mitologia, Þonar era in costante lotta contro i Giganti (emanazione delle forze ostili della natura), raffigurato come un eroe solare e civilizzatore, paladino della giustizia e ordinatore del cosmo. Il suo legame con il popolo, che spesso era depositario della metallurgia, dimostra l’attributo del maglio (attrezzo che nella tradizione scandinava aveva persino un nome, Mjöllnir, «Il frantumatore»). Mentre Cesare riconduceva il dio Þonar al romano Vulcanus, sia per l’aspetto di artefice sia per quello di nume del fuoco e della luce, Tacito lo interpretò, in quanto uccisore di mostri e dotato di uno strumento simile alla clava, come Hercules. Per certi versi, entrambi gli autori avevano ragione. Ma, a proposito dell’interpretatio tacitiana si può aggiungere un’ulteriore spiegazione: gli antichi ritenevano che la clava di Ercole fosse stata ricavata dal tronco di una quercia, albero sacro a Giove, perché capace di attirare i fulmini. Per questo motivo la pianta era sacra, sia perché vista come oggetto di chiara manifestazione divina (Iuppiter tonans) sia perché luogo in cui l’umanità preistorica poteva reperire più facilmente la fonte principale della sua tecnologia e del suo sostentamento. Inoltre, tuoni e fulmini (e, per esteso, i temporali) erano forieri di pioggia, necessaria alla vita e alla produttività del suolo. Così, il semi-dio doveva essere un re sacro, che grazie alla clava di legno di quercia adunava le nuvole e attirava sul suo popolo le piogge benefiche; allo stesso modo, questo potere sovrannaturale di controllo degli elementi poteva essere usato per uccidere e incenerire i nemici. In pratica, presso i Germani, dalla clava in semplice legno (forse usata anche per i lavori manuali) fu gradualmente sostituita ed evoluta nel martello, che conservava ancora i poteri della quercia. In seguito, constatando che Hercules era Iovis filius – anch’egli assimilabile al germanico Þonar –, lo Iovis dies latino fu adattato al Þonaras dagaz (< ted. Donnerstag, engl. Thursday).

La Venere romana fu equiparata alla Frigg germanica, perciò, il Veneris dies fu interpretato come Frigu dagaz (< ted. Freitag; o.engl. Frigedæg > engl. Friday). Non è impossibile che vi sia quest’ultima dietro il culto di Iside che Tacito attribuisce a un sottogruppo dei Suebi (Germ. 9, 1): si spiegherebbe così la sua importanza presso i Longobardi, che provenivano anch’essi da quella stirpe.

Nella Abrenuntiatio Diaboli (formula battesimale) sassone vengono rinnegate le tre divinità principali Uuoðen, Þunaer e Seaxneat (quest’ultimo al posto di Tiu/Tuisto); presso gli Svedesi, a Uppsala, il terzo nome della lista è naturalmente Freyr. È significativo che Tacito conoscesse una dea tellurica di nome Nerthus, venerata dagli Ingaevones, tra i cui vicini scandinavi la figura del dio maschile Njörd svolgeva il ruolo di padre dei fratelli Freyr e Freya. Che intrattenesse oppure no un simile rapporto con Njörd, considerato tutto ciò che Tacito riferisce sul suo conto, Nerthus va inclusa nella cerchia delle divinità vaniche; ne facevano parte anche i numi Alci, oggetto di venerazione da parte delle tribù orientali in quanto salvatori e fratelli divini, che l’autore latino identificò con gli antichi dioscuri, Castore e Polluce (Tac. Germ. 43, 3).

André-Charles Voillemot, Veleda. Olio su tela, 1869.jpg

Al contrario di quanto racconta Cesare, le fonti riferiscono di sacerdoti in abiti femminili e soprattutto di sacerdotesse, che si mettono in evidenza non da ultimo in qualità di veggenti e indovine. Tacito (Germ. 8, 2) afferma che i Germani inesse quin etiam sanctum aliquid et providum putant, nec aut consilia earum aspernantur aut responsa neglegunt («ritengono anche che nelle donne vi sia qualcosa di sacro e profetico, e non disprezzano i loro consigli né trascurano i loro responsi»). Un passo di Cassio Dione dagli Excerpta Ursiniana riferisce dell’arrivo a Roma, sotto Domiziano, nel 91/2, della sacerdotessa Ganna insieme a Masio, re dei Semnones (DCass. LXVII 5, 3 = Exc. U 45, p. 400 = Suid. s.v. θειάζουσα): Μάσυος ὁ Σεμνόνων βασιλεὺς καὶ Γάννα (παρθένος ἦν μετὰ τὴν Οὐελήδαν ἐν τῇ Κελτικῇ θειάζουσα) ἦλθον πρὸς τὸν Δομιτιανόν, καὶ τιμῆς παρ’ αὐτοῦ τυχόντες ἀνεκομίσθησαν («Masio, re dei Semnones, e Ganna – era una vergine sacerdotessa che in Germania era succeduta a Veleda –, si presentarono da Domiziano e, dopo essere stati ospitati da lui con onore, ripartirono»).

Un’iscrizione su ostrakon del II secolo dall’egiziana Elefantina (SB III 6221), contenente una lista di persone appartenenti al seguito del praefectus Aegypti, menziona una veggente semnonica di nome Baluburg o Waluburg: Βαλουβουργ Σήνονι σιβύλλᾳ.

Nel 9 a.C., il figliastro di Augusto, il console Nerone Claudio Druso Maggiore, aveva condotto delle campagne militari in territorio suebico. Secondo Svetonio (Claud. 1), quando Druso volle attraversare il fiume Elba, indietreggiò spaventato alla vista di una barbara mulier straordinariamente grande, forse una semnona, che gli intimò sermone latino di non avanzare oltre. Anche Cassio Dione (LV 1, 3) riferisce che, come giunse in prossimità del fiume, Druso incontrò una donna dalle dimensioni sovrumane, che gli disse: ποῖ δῆτα ἐπείγῃ, Δροῦσε ἀκόρεστε; οὐ πάντα σοι ταῦτα ἰδεῖν πέπρωται. ἀλλ’ ἄπιθι· καὶ γάρ σοι καὶ τῶν ἔργων καὶ τοῦ βίου τελευτὴ ἤδη πάρεστι («Fin dove vuoi arrivare, insaziabile Druso? Non è nel tuo destino che tu veda tutti questi territori; torna indietro piuttosto, poiché la fine delle tue imprese è ormai prossima!»). Nonostante l’avvertimento, Druso aveva comunque tentato di attraversare la corrente, ma senza successo. Piuttosto si era accontentato di far erigere un monumento alle recenti vittorie. Quindi, decise di tornare indietro e, lungo la via, rimase ferito per una caduta da cavallo che gli aveva procurato la rottura di un femore e un’infezione tale da condurlo alla morte prima di raggiungere il Reno (DCass. LV 1, 4; Liv. Per. 142, 2; Val. Max. V 5, 3; Plin. NH VII 19, 20; 84; Tac. Ann. III 5, 2). Probabilmente la mulier barbarica di cui parlano Svetonio e Cassio Dione potrebbe essere identificata con quella Albruna menzionata da Tacito (Germ. 8, 2).

La barbara mulier ferma Druso. Illustrazione da Ward and Lock’s Illustrated History of the World, London 1882.

Tra le veggenti germaniche, una delle più celebri è senz’altro Veleda, virgo nationis Bructerae (Tac. Hist. IV 61): la sua vicenda, narrata da Tacito nei libri IV e V delle sue Historiae, è legata alla rivolta di Giulio Civile nel 69, apparentemente a favore di Vespasiano contro Vitellio.  Com’è noto, Civile apparteneva a un nobile casato dei Batavi, un popolo germanico che abitava un’isola (insula Batavorum) circondata dalle due ramificazioni del Reno, presso il Mare del Nord. Civile si era romanizzato servendo nell’esercito imperiale come praefectus di una coorte di suoi connazionali. A quanto si dice, fu la profetessa Veleda a ispirare la sua sollevazione, predicendo al principe batavo le vittorie che in seguito avrebbe conseguito contro le forze imperiali. La donna esercitava un fortissimo ascendente su diverse tribù germaniche (late imperitabat), proprio grazie alle sue conclamate capacità profetiche. Nel corso della ribellione, spesso ella fu chiamata insieme allo stesso Civile a presenziare negli arbitrati per la ricomposizione di rivalità e contese. Si dice che Veleda vivesse isolata all’interno di una torre e mantenesse i contatti con l’esterno soltanto grazie ai propri familiari. La sua dimora, verosimilmente, doveva trovarsi presso il corso del Lippe, dato che proprio su questo fiume i seguaci di Civile vittoriosi le portarono in dono la nave ammiraglia romana, bottino di guerra. Quando la ribellione fu repressa, anche Veleda finì fra i prigionieri dei Romani

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