ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
di W. BLÖSEL, Roma: l’età repubblicana. Forum ed espansione del dominio (trad. it. a cura di U. COLLA), Torino 2016, pp. 24-35.
L’ammissione dei plebei al consolato, nel 367/6, costituisce una pietra miliare nel cosiddetto «conflitto degli ordini» dal quale la tradizione più tarda, in Livio e in Dionigi di Alicarnasso, vede caratterizzata la storia romana per più di duecento anni, dall’inizio del V secolo fino al 287. La netta dicotomia tra plebei e patrizi nella lotta sugli stessi punti controversi (come ad esempio la protezione dall’arbitrio dei magistrati, la certezza del diritto, la liberazione dalla servitù per debiti e la parità nei diritti politici) offre ai confusi rapporti degli inizi della repubblica una struttura chiara e temi concreti ai quali gli autori più tardi poterono sempre di nuovo ricorrere, senza troppa fatica, nei diversi momenti di queste contrapposizioni, interrotte da fasi di quiete anche decennali. In questo modo, fu loro possibile presentare tutte le diverse conquiste di Roma repubblicana (come il diritto di provocatio, il tribunato della plebe, la legislazione delle dodici tavole, il tribunato consolare, l’ammissione dei plebei alle cariche pubbliche e sacerdotali, l’abolizione della servitù per debiti e l’attribuzione di forza di legge ai plebisciti) come altrettanti prodotti di un unico conflitto degli ordini protrattosi per più generazioni. I compromessi che i plebei e i patrizi accettarono accogliendo la maggior parte di queste nuove istituzioni, centrali nella coscienza che i Romani ebbero di sé, esaltano come tratto fondamentale di entrambe le parti la loro pronta disponibilità alla conciliazione, e il desiderio di concordia, per quanto distanti fossero state le posizioni iniziali. Nondimeno, i due ceti furono sempre costretti alla pace interna da qualche pressione militare dall’esterno. E la grande regolarità con la quale, a ogni nuova contesa interna tra Romani, i vicini popoli dei Volsci, degli Equi e dei Sabini avrebbero invaso il territorio di Roma, induce a sospettare che questi assalti siano una costruzione degli storici.
Ritratto di patrizio romano (vista frontale). Busto, marmo, prima metà del I sec. a.C. Roma, Collezione Torlonia.
Riassumendo, molti dubbi sono stati sollevati sulla visione del conflitto degli ordini come del lunghissimo travaglio necessario alla nascita della repubblica romana. Infatti, esso è ignoto come tale ai primi cronisti di Roma, da Fabio Pittore a Catone il Vecchio e a Polibio, e fino a Cicerone: nella loro esposizione, gli atti di fondazione della repubblica risalgono all’indietro solo fino alla legislazione delle dodici tavole, verso il 450. Questa va considerata una conseguenza dell’origine orale delle tradizioni (oral tradition) relative alla fase di fondazione dello Stato romano, che naturalmente comprende anche il periodo della monarchia. Negli autori citati, a quest’epoca di fondazione, come c’è da aspettarsi date le strutture che caratterizzano la oral tradition, segue una fase intermedia, dalla metà del V fino alla metà del III secolo circa, con un elenco di pochi, aridi fatti e alcuni nomi di persone che con il loro comportamento esemplare servono a illustrare il funzionamento di quelle istituzioni che si erano lentamente e faticosamente consolidate. Infine, con la prima guerra punica (264-241), nei primi storiografi subentrarono i ricordi personali, che anche agli autori successivi avrebbero fornito i contenuti per una storiografia che da allora fu soggetta alle leggi della letteratura.
Con l’estensione temporale del conflitto degli ordini, altrettanto poco chiara è l’identità dei suoi attori. Dalle fonti, infatti, soltanto in modo frammentario è possibile comprendere perché e a partire da quando i patrizi si staccarono dai plebei. Un confronto tipologico con altre aristocrazie nelle società arcaiche indica come caratteristici del patriziato i seguenti elementi: privilegi religiosi, come il monopolio delle cariche sacerdotali; insieme a questo, il monopolio della giurisdizione, che aveva un fondamento sacrale; riti nuziali caratteristici e propri; stretti rapporti economici e familiari con gli aristocratici stranieri; orgoglio per il proprio albero genealogico; possesso di vasti terreni coltivabili, e di cavalli; gran numero di agricoltori dipendenti; infine, il monopolio di magistrature che certamente erano collegate a funzioni sacrali, come l’accoglimento degli auspici, e l’esercizio dell’imperium.
Scena di battaglia. Bassorilievo, pietra calcarea. Isernia, Museo Civico.
La tradizione letteraria ascrive già a Romolo, il primo re, la scelta dei primi senatori, che vengono indicati come patres, e dai quali sarebbero derivati i patrizi. La rilevante importanza della vicinanza genealogica di famiglie tra di loro imparentate si può dedurre, non soltanto a Roma, ma in tutta l’Italia centrale, dall’introduzione del nome gentilizio, che, a partire dall’ultimo terzo del VII secolo, sostituì il patronimico, il nome del padre, con quello di un antenato comune, al quale veniva aggiunto il suffisso -ius; così, ad esempio, dal preteso fondatore della stirpe, Iulus, veniva fatto derivare il nome gentilizio di Iulius.
Anche l’istituzione dell’interregnum, certamente da far risalire all’epoca dei re, testimonia a favore dell’esistenza di un ben definito gruppo di nobili. Ma la distinzione tra le antiche stirpi nobiliari come maiores gentes e le minores gentes aggiunte dai re successivi ai senatori indica chiaramente come questi nobili non formassero affatto una cerchia chiusa di «patrizi». Altrimenti, sarebbe stata impossibile l’integrazione del sabino Attus Clausus, che, secondo la tradizione, si sarebbe trasferito a Roma con ben cinquemila tra clienti e accoliti, un numero a stento credibile. Anche se i Fasticonsulares per il periodo fino al 450 non danno grande affidamento, una decina di consoli, che vi sono indicati e che possono essere collegati soltanto a tarde gentes nobili di origine plebea, testimonia di un’aristocrazia ancora aperta.
Calendario rurale (Fasti Praenestini – CIL I2 1, p. = I.It. XIII, 2, 17 = AE 1898, 14 = 1922, 96 = 1953, 236 = 1993, 144 = 2002, 181 = 2007, 312), ante 22 d.C. Roma, Museo Nazionale Romano.
Ciononostante, già a partire dalla metà del V secolo, si possono notare chiare tendenze esclusivistiche interne al patriziato nella distinzione tra i senatori che sarebbero stati nominati dopo la cacciata dei re, indicati come conscripti, e i patres di antico insediamento. Come è mostrato dall’accoglimento dei Claudii tra i patrizi, si può escludere che già alla fine del VI secolo si sia formato il concetto delimitativo di patricius, riferito soltanto a chi faceva parte della parentela, o della discendenza, di uno degli antichi patres. Sappiamo per certo che nel 458 il magistrato supremo di Tusculum (l’odierna Frascati), Lucio Mamilio, non poté più essere ammesso a far parte del patriziato, quando, in grazia dei suoi meriti per aver salvato Roma dal colpo di Stato di Appio Erdonio, ottenne la cittadinanza romana. Il motivo di questo crescente separatismo dei patrizi va cercato nella decennale fase di rivolgimenti seguita alla cacciata dei re.
In quell’epoca, si deve ipotizzare una dura lotta di concorrenza tra le stirpi nobiliari romane per il possesso delle posizioni di potere. Infatti, la cacciata dell’ultimo re, il quale evidentemente aveva accentrato nella propria persona una quantità di ruoli di comando, aveva lasciato un cospicuo vuoto di potere, che doveva suscitare brame ovunque. Il grande predominio esercitato dagli ultimi tre sovrani etruschi di Roma, Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo, lascia supporre che gli aristocratici romani ora desiderassero soltanto avere sommi magistrati più deboli, la cui autorità non moderasse pesantemente le loro possibilità di azione. In questo modo, diventa evidentemente comprensibile la limitazione dei pieni poteri del magistrato supremo, il praetor maximus, al solo comando delle operazioni belliche.
Guerriero con elmo calcidese. Testa fittile, terracotta policroma, V sec. a.C. da Albano.
Neppure in quel campo, però, né il magistrato né lo «Stato» romano ebbero il monopolio: i warlords dell’età regia, come i fratelli Vibenna, Macstrna o Lars Porsenna, trovano i loro successori tra numerosi aristocratici romani che condussero vere e proprie guerre private insieme ai loro clienti e accoliti: simili compagnie di armati vengono citate per Poplios Valesios, sul lapis Satricanus e anche per Gneo Marcio Coriolano. Il caso più famoso di una guerra privata è quella che nel 479/8 la gens Fabia condusse, guidando a quel che si narra i suoi quattromila clienti, contro la vicina città di Veio, anche se la stilizzazione della fine di quasi tutti i trecentosei Fabii sulle rive del torrente Cremera, secondo il modello del sacrificio dei trecento Spartani, che l’anno precedente, guidati da re Leonida, erano morti alle Termopili, opponendosi all’avanzata persiana, desta più di un dubbio sulla veridicità di molti particolari quali ci sono stati conservati dalla tradizione.
La mancanza di un monopolio della forza nelle mani dello Stato mise in pericolo il labile equilibrio del potere nella stessa Roma. Ad esempio, si narra che nel 460 il sabino Appio Erdonio con la sua compagine di armati, composta da esuli e servi, occupasse il Campidoglio, chiamando addirittura i plebei alla rivolta, e che, infine, fosse sconfitto soltanto dal tuscolano Lucio Mamilio.
Anche all’interno della società romana, però, c’era un numero sufficiente di scontenti che potevano essere mobilitati per combattere l’aristocrazia dominante. Non a caso, nella tradizione annalistica si trovano cronache simili a proposito dei tre adfectatores regni («aspiranti al trono»). Si dice infatti che il plebeo Spurio Cassio Vicellino, che secondo i Fasti fu console nel 502, nel 493 e nel 486, si ingraziò i plebei per i propri progetti di colpo di Stato con una legge per la spartizione dei territori strappati agli Ernici, che erano bottino di guerra, e anche dell’ager publicus; per questo motivo, sarebbe stato infine condannato a morte e fatto giustiziare dai questori. Qualcosa di simile toccò al ricco mercante plebeo Spurio Melio nel 439: dopo che si era procurato numerosi consensi tra i Romani, con laute elargizioni di grano, fu ucciso dal magister equitum Gaio Servilio Ahala, per ordine del Senato. Perfino a un patrizio viene attribuita un’alleanza, poco consona al suo rango, con i plebei: a Marco Manlio Capitolino, il console dell’anno 392, nonché salvatore del Campidoglio contro i Galli. Si dice infatti che egli accusò l’eccessiva avidità dei compagni del suo stesso ordine, con il proprio denaro evitò a molti plebei la servitù per debiti e, insomma, fece causa comune con i Romani meno abbienti. Ciononostante, nel 384, per le sue ambizioni dispotiche fu condannato a morte dall’assemblea popolare e precipitato dalla rupe Tarpea.
Guerrieri senoni (dettaglio). Rilievo, terracotta policroma, II sec. a.C. dal fregio del tempio di Civitalba. Ancona, Museo Nazionale delle Marche.
Anche se tutte queste narrazioni di leggi agrarie, distribuzioni di grano e lotta all’indebitamento sono incentrate su progetti che furono al centro dell’azione dei grandi populres della tarda repubblica, e appaiono perciò anacronistiche, non ci sono dubbi sulla storicità dei tentativi, compiuti nel V secolo da alcuni singoli aristocratici romani, di acquisire un vantaggio, nella lotta per il potere con i loro compagni di ceto, alleandosi con i cittadini romani meno abbienti, se non addirittura di accentrare tutto il potere nelle proprie mani. I patrizi si premunirono di fronte a tale minaccia, cercando di limitare la possibilità di accesso al potere a quelle stirpi nobiliari che possedevano sufficienti proprietà, cariche sacerdotali e un seguito tra i cittadini tale da potersi misurare nella competizione alle magistrature. Questi nobili, infatti, non avevano certo bisogno di cercarsi nuovi accoliti facendosi paladini delle esigenze sociali ed economiche degli strati più poveri della comunità. Si poteva ben temere, invece, una defezione dalla solidarietà di ceto proprio da parte di coloro che ambivano alla scalata verso l’élite di potere, e che non avevano però a disposizione tante risorse. A tenere distanti simili parvenus era diretta la chiusura a riccio delle stirpi patrizie, e formare un ceto a parte; essa va quindi intesa come una reazione all’acuirsi della competizione interna tra gli aristocratici nei primi decenni della repubblica. La forte diminuzione del numero delle gentes (famiglie nobiliari), che riuscivano ad accedere alle supreme magistrature, rilevabile soltanto verso la fine del V secolo, indica che, a quel punto, questo processo di esclusione era ormai compiuto. Quindi, non sarebbe da ritenersi puramente frutto del caso, nella tradizione, se nelle parti a noi pervenute della legge delle dodici tavole, del 451, non troviamo né il concetto di patricius né quello di plebs.
Proprio come la cerchia dei patrizi non si poteva affatto considerare chiusa prima della metà del V secolo, così non si possono intendere i plebei degli inizi dell’età repubblicana meramente come il grande resto dei non patrizi, seguendo il punto di vista polarizzante della tradizione più tarda. Presumibilmente, i clienti dei patroni patrizi, originariamente, non erano annoverati tra i plebei. Non pochi agricoltori romani si trovavano in una simile duratura dipendenza, economica e giuridica, da un aristocratico. La relazione tra cliente e patrono fu descritta, nel caso ideale, come un rapporto di fedeltà, fides, destinato a durare per tutta la vita, nel quale entravano automaticamente, rispetto al patronus, anche i servi liberati. In cambio dell’aiuto economico in caso di cattivo raccolto, o del sostegno in giudizio da parte del patrono, il cliente, dal canto suo, doveva partecipare alle spese che il patrono doveva affrontare per la dote delle proprie figlie, a quelle dovute a multe pecuniarie e a quelle che gli potevano essere necessarie per accedere a cariche pubbliche. Gli artigiani e i mercanti, i recenti immigrati e i vecchi clienti dell’ultimo re verosimilmente non erano integrati in queste strutture. Questi gruppi così eterogenei potrebbero quindi aver formato il nucleo originario dei plebei.
Scena pastorale. Bassorilievo, pietra locale, I sec. a.C. CIL IX 3128 ([- – – ho]mines ego moneo niquei diffidat [- – -]), da Sulmona. L’Aquila, Museo Civico.I plebei si vedono in azione per la prima volta, nelle loro strutture e nei loro obiettivi, nel 494: minacciati dalla servitù per debiti, i soldati plebei dell’esercito romano che erano stati vittoriosi nella lotta contro i popoli vicini si ammutinarono e si recarono sul Monte Sacro (Mons Sacer), cinque chilometri a nord della città, presso il fiume Aniene (Anio), dove rimasero finché non venne presso concordato un compromesso con i patrizi. Secondo tale accordo, i plebei dovevano eleggere ogni anno due tribuni della plebe, tribuni plebis, ai quali era consentito difendere i plebei, all’interno del pomerio, dagli altri magistrati. I plebei giurarono allora una legge (Lex sacrata) per cui chiunque avesse impedito fattivamente a uno dei tribuni della plebe l’esercizio delle sue funzioni di difesa doveva essere considerato sacer, cioè «consacrato agli dèi», e perciò poteva essere ucciso senza incorrere in alcuna pena. Una simile comunità giurata, quale si trova, come istituto militare, anche tra i vicini popoli dei Volsci e dei Sanniti, era necessaria per procurare alla nuova carica, i cui titolari potevano essere eletti soltanto dalla parte plebea della comunità cittadina di Roma, la necessaria autorità nei confronti dei magistrati patrizi.
Tutte le principali rivendicazioni che i plebei avanzarono lungo due secoli paiono concentrarsi nel momento di questa cosiddetta prima secessione. Già la sua datazione al 494, però, appare dubbia; infatti, la tarda tradizione in tal modo fa esplodere il conflitto tra gli ordini in tutta la sua violenza nello stesso anno in cui per la giovane costituzione repubblicana di Roma il pericolo era cessato per la morte di Tarquinio il Superbo, in esilio a Cuma. Inoltre, questa prima uscita in campo della plebe pare sincronizzata a bella posta con il 493, la data, verosimilmente autentica, della fondazione del tempio di Libero, Libera e Cerere sull’Aventino, considerato come il santuario tipico dei plebei, e con l’istituzione della magistratura plebea degli edili, il cui titolo deriva da aedes, tempio, e che perciò in origine potrebbero essere stati i suoi custodi.
Demetra. Statua, terracotta, II-I sec. a.C. da Ariccia. Roma, Museo Nazionale.
La prima secessione della plebe, per quanto concerne la richiesta di riduzione dei debiti, pare evidentemente modellata sull’ultima, del 287, per la quale il motivo fu realmente questo. Infatti, stranamente i tribuni della plebe, di nuova istituzione, secondo le indicazioni della legge delle dodici tavole, non avevano ancora la possibilità di proteggere i debitori dalla servitù. È inoltre accertato per la prima metà del V secolo un forte crollo economico, e quindi proprio i Romani più poveri potrebbero essere stati maggiormente colpiti da spietate richieste di riscossione dei crediti.
Anche il mezzo impiegato dai plebei, un ammutinamento, pare poco verosimile. In primo luogo, una misura simile non avrebbe comportato pericoli solo se i Romani avessero condotto una campagna di guerra a grande distanza dalla metropoli, come accadde al più presto verso l’inizio del III secolo. In secondo luogo, un ammutinamento avrebbe avuto possibilità di successo solo se i plebei a quell’epoca avessero fornito una parte considerevole degli opliti delle truppe di Roma. Ma la distinzione tra il populus, nel senso di «popolo in armi, esercito», in cui certamente nel V secolo gli opliti erano forniti, tra gli agricoltori, dai grandi o medi proprietari, e la plebs (dal latino plere, «riempire, colmare») indica che i plebei originariamente non potevano servire con armi pesanti, perché non erano in grado di procurarsi i costosi armamenti necessari (elmo, corazza, schinieri, scudo, spada, giavellotto), ma soltanto come frombolieri, armati perciò in modo leggero.
Guerriero ferito (dettaglio). Statua frontonale, terracotta, V sec. a.C. dal Tempio di Sassi Caduti. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.
Tanto la rigida delimitazione dell’ambito di competenza dei tribuni della plebe esclusivamente a Roma, all’interno del pomerium, quanto la probabile derivazione del termine tecnico tribunus dalle quattro tribus urbane indicano un’origine puramente civile della carica. Nel 471 il numero dei tribuni della plebe dovette poi, secondo la tradizione, salire a quattro, e, cosa ancora più importante, la loro elezione, e quella degli edili plebei, fu assegnata per legge ai concilia plebis. I plebei in questa assemblea, riservata esclusivamente a loro, erano ordinati per tribù: cioè gli appartenenti ai ventuno distretti abitativi dell’epoca (alle quattro antiche tribù urbane e alle diciassette tribù rustiche) per prima cosa decidevano all’interno della propria tribù quali magistrati eleggere, oppure sulle proposte di legge che venivano loro presentate. Decisiva poi era la maggioranza delle tribù, non la maggioranza del numero complessivo dei cittadini aventi diritto di voto. Come già per i comitia centuriata, anche qui nella votazione valeva il principio corporativo – tipicamente romano – e fondamentalmente diverso dal diritto di voto individuale caratteristico delle poleis greche. I concilia plebis potevano essere convocati soltanto dai tribuni della plebe o dagli edili plebei. Le loro decisioni non diventavano leggi (leges), ma venivano chiamati plebiscita, ed erano cogenti soltanto per i plebei, non per i patrizi.
Nella tradizione ci sono state conservate notizie sporadiche su un’assemblea ugualmente ordinata secondo le tribù, i comitia tributa, che sotto la guida dei pretori e più tardi dei consoli eleggevano i questori e gli edili curuli (costituiti nel 366), e votavano leggi (leges) cogenti per tutti i cittadini. Poiché, al contrario di quanto accade per i comitia centuriata e i concilia plebis, non abbiamo nessuna storia delle origini dei comitia tributa dell’intera cittadinanza romana, le loro grandi somiglianze con i concilia plebis (e, talvolta, perfino la loro confusione nelle fonti) indicano che nel corso del IV secolo i comitia tributa vennero identificati con questi.
Scena di assemblea. Bassorilievo, calcare, 50 d.C. c. dal sarcofago di Lusio Storace. Chieti, Museo Nazionale.
La rivendicazione, da parte plebea, volta a ottenere la parità di diritti politici rispetto ai patrizi nel governo della comunità, anch’essa tramandata dalla tradizione per questa prima fase del conflitto degli ordini, è certamente da ritenere anacronistica per il primo periodo repubblicano. Infatti, anche dopo la presunta prima secessione della plebe, i debiti continuarono a gravare, per nulla diminuiti, sui Romani più poveri, e i privilegi giuridici degli aristocratici continuarono a essere schiaccianti.
Per questi motivi, non stupisce che lo stadio successivo del conflitto degli ordini portasse alla formazione del decenvirato, con il compito di introdurre nuove leggi. A proposito di questa prima, ampia codificazione giuridica in ambito romano la tradizione letteraria offre estese narrazioni. Nel corso della loro contesa sull’uguaglianza giuridica per tutti i cittadini, nel 451 i patrizi e i plebei si sarebbero accordati per costituire un collegio di dieci uomini, formato soltanto da patrizi, sospendendo sia i magistrati supremi sia i tribuni della plebe. I decemviri, guidati da Appio Claudio Crasso Irregillense, fino a quel momento nemico della plebe, avrebbero allora redatto una serie di leggi sul modello di quelle ateniesi, che sarebbe stata incisa su dieci tavole di bronzo. Poiché, però, parvero necessarie due ulteriori tavole, sarebbe stato eletto un secondo decemvirato, nel quale lo stesso Appio Claudio, ora manifestamente ben disposto verso i plebei, avrebbe fatto eleggere soltanto questi ultimi. Sotto la sua guida, però, il secondo decemvirato sarebbe diventato presto una tirannia, pronta a perseguitare sanguinosamente i propri avversari: ma poiché i patrizi e i plebei, diffidando gli uni degli altri, non riuscirono a concordare un’azione comune contro i decemviri, questi sarebbero rimasti al potere per tutto l’anno in corso, come stabilito, finché l’indignazione generale per la violenza minacciata da Appio Claudio sulla plebea Virginia, alla quale il padre poté sottrarla soltanto uccidendola, avrebbe costretto infine i decemviri a dimettersi.
Scena di lettura del testamento davanti al magistrato. Bassorilievo, marmo, I sec. a.C. da un sarcofago.
Mentre sia il fatto che Appio Claudio, nel secondo mandato, venga stilizzato come tiranno, sia il suo preteso rovesciamento in seguito alla seconda secessione della plebe, nel 449, non sono probabilmente che parabole sul valore della solidarietà all’interno di una società, è assolutamente verosimile, dal punto di vista storico, l’attività legislatrice del primo collegio decemvirale. La stessa cosa vale per l’origine greca di parecchie disposizioni di legge, anche se si deve pensare ai Greci dell’Italia meridionale, come ad esempio Cuma, piuttosto che a Solone di Atene.
È da notare come i contenuti specifici delle dodici tavole non si trovino nelle narrazioni letterarie relative ai due decemvirati (a parte la significativa eccezione del presunto divieto di matrimonio tra patrizi e plebei), ma invece siano disseminati in notizie antiquarie. Anche se il loro latino arcaico è sempre stato modernizzato dalle varie fonti intermedie, non c’è motivo di dubitare dell’autenticità delle singole disposizioni, tanto più che esse venivano imparate a memoria dai bambini, in quanto costituirono fino all’età imperiale l’unico codice romano di diritto esistente. La legislazione delle dodici tavole rimase, fino alla tarda antichità, l’unico tentativo da parte dei Romani di regolare giuridicamente tutti i campi della vita; manifestamente, la rapida diminuzione dei conflitti tra i ceti dopo il 451 fece cessare il bisogno di una tale fissazione di principi.
Le prime due tavole erano dedicate alla procedura del processo civile (ad esempio, ai termini di tempo per la citazione in giudizio), la terza al diritto delle obbligazioni, che consentiva di tenere prigioniero il debitore moroso e perfino di venderlo come servo «al di là del Tevere». Questo dimostra l’antichità, almeno di quest’ultima disposizione, poiché il Tevere al più tardi dopo la conquista di Veio, avvenuta nel 396, non costituiva più il confine del territorio di Roma. La quarta e la quinta tavola avevano per oggetto il diritto di famiglia, tra l’altro prevedendo un diritto di successione per gli appartenenti a una stessa gens. La sesta e la settima regolavano il diritto sulle cose e sui beni immobili. L’ottava tavola determinava le pene per chi facesse incantesimi, per i ferimenti, gli incendi e i furti. La nona disponeva che sulla vita di un cittadino potesse decidere soltanto il maximus comitiatus (l’assemblea di tutto il popolo). La decima tavola limitava considerevolmente l’ostentazione di ricchezza e di lusso da parte dei nobili nelle cerimonie funebri e nelle sepolture. Mentre nella dodicesima l’argomento è il furto commesso da un servo e l’intervento del pretore su una ingiusta pretesa di possesso, il divieto di matrimonio tra patrizi e plebei, attribuito all’undicesima tavola, è probabilmente una finzione degli annalisti, che doveva servire come dimostrazione (l’unica) della degenerazione del secondo decemvirato; perciò, gli stessi annalisti pensarono di far sparire questo divieto, dopo neppure cinque anni, per mezzo di un plebiscito molto spettacolare, inscenato dal tribuno della plebe del 445, Gaio Canuleio, pur se un plebiscito non potesse in nessun modo vincolare i patrizi. Inoltre, questo divieto di matrimonio costituirebbe l’unica testimonianza della divisione tra patrizi e plebei contenuta nelle dodici tavole. Furono invece rilevanti, sul piano giuridico, la distinzione sociale tra l’adsiduus, un proprietario di terreni agricoli per il quale poteva garantire soltanto un altro adsiduus, e il proletarius, il cittadino privo di terre, e quella tra cliens e patronus, il quale ultimo, nel caso in cui avesse ingannato il proprio cliens, sarebbe diventato sacer, esecrato e maledetto.
Corteo funebre. Bassorilievo, pietra calcarea, metà I sec. a.C. da S. Vittorino (Amiternum). L’Aquila, Museo Nazionale d’Abruzzo.
La legislazione delle dodici tavole, in quanto codificazione di un diritto tramandato fino a quel momento soltanto oralmente, costituì un grande passo verso la certezza del diritto e l’uguaglianza giuridica fra tutti i cittadini romani. Infatti, in tal modo potevano essere controllate le sentenze che prima i patrizi emettevano nella loro funzione sacerdotale. Quanto invece dalla legislazione delle dodici tavole venissero fissati i privilegi dei patrizi non è ancora chiaro. È molto evidente, piuttosto, il rafforzamento della gerarchia economica, perché i cittadini ricchi vennero chiaramente favoriti. Mentre le dodici tavole rappresentano una nitida istantanea a colori della società romana verso la metà del V secolo, l’evoluzione sociale di Roma fino all’inizio del IV secolo è ricostruibile soltanto in modo molto vago. Secondo la tradizione, l’indebitamento rimase un problema sempre irrisolto.
L’aumento a dieci, successivamente al decemvirato, del numero dei tribuni della plebe, come difesa contro gli abusi dei patrizi, aveva creato per un numero considerevole di plebei ambiziosi e benestanti un nuovo campo d’azione in cui proporsi come difensori dei propri compagni di ceto. Il tribunato della plebe, con la sua inviolabilità, che ogni plebeo era tenuto a difendere, costituiva il punto focale della solidarietà della plebe, che intendeva se stessa come una comunità giurata. In tal modo, con il tempo si formò uno strato di plebei che, basandosi sul sostegno sociale acquisito, durante il periodo in cui avevano rivestito la carica di tribuno, o anche di edile plebeo, e sull’esperienza maturata nel rappresentare gli interessi politici del proprio ceto, iniziò, al di sopra di questo compito puramente difensivo, a pretendere di configurare la politica cittadina nel suo complesso. Poiché i plebei costituivano inoltre senza dubbio la maggioranza degli ufficiali della legione eletti dall’assemblea popolare, i tribuni militum, con il tempo inevitabilmente dovette espandersi la rivendicazione, da parte della plebe, dell’accesso anche alle magistrature regolari. E, a questo punto, la chiusura della cerchia delle famiglie patrizie, che va collocata proprio nella seconda metà del V secolo, fu soltanto una conseguenza, destinata evidentemente ad avere un certo successo. Comunque, nel collegio dei questori, che dal 421 era formato da quattro componenti, per il 409 sono attestati per la prima volta dei plebei, anzi addirittura tre.
[…] Pochi dati significativi riguardano la sua infanzia[1]. Figlio di secondo letto del re Archidamo, Agesilao vede la luce intorno al 444 a.C.[2]; non destinato alla porpora regale, che spettava al fratello maggiore Agide, percorse tutti i gradi della dura educazione spartana, dalla quale erano esclusi solo gli eredi al trono; la prestazione si impose alla memoria dei posteri per via dell’infermità parziale a una gamba, dalla quale era afflitto probabilmente dalla nascita[3]. Il periodo della gioventù di Agesilao coincide con gli anni della guerra del Peloponneso (431-404 a.C.) e del rinnovamento profondo che portò Sparta a trasformarsi da potenza “oplitica” e terrestre a città egemone su tutto lo spazio dell’Ellade, dunque indissolubilmente legata al possesso di una flotta e a un mondo ideale diverso da quello licurgheo[4]. La vita del futuro sovrano, in questi tempi agitati, trascorre senza fatti degni di nota, all’infuori di un evento significativo. Tra le sue conoscenze ascende a un ruolo predominante, in un momento per noi indefinito, un altro uomo dal futuro importante, Lisandro[5]; la relazione con questi assume a un certo punto i connotati del rapporto omoerotico, seguendo un copione frequente nello stato di Licurgo e indirizzando entrambi i personaggi alla strada che li condurrà, in tempi diversi, ai vertici della politica di Sparta e dell’intera Grecia. Se un aspetto del legame fra Lisandro e Agesilao merita di essere qui sottolineato, è che esso nacque verosimilmente da una reciproca attrazione piuttosto che da un calcolo utilitaristico. Da Agesilao Lisandro non poteva sperare moltissimo: il ragazzo era di famiglia regale, ma la sua ascesa al trono non era prevedibile. Neanche per Agesilao l’interesse personale può aver pesato nel desiderio di intraprendere il rapporto con Lisandro: per gli anni in cui il legame nacque, presumibilmente intorno al 430[6], questi era un giovane dall’avvenire promettente e niente più, il cui ingresso imperioso nella storia greca si farà attendere ancora per vent’anni. In breve: la natura disinteressata dell’amore omosessuale fra i due è un dato che le fonti suggeriscono e che ci conviene tenere a mente in vista delle evoluzioni successive del rapporto[7]. In Lisandro e Agesilao si incontrano le due massime figure della storia spartana fra la fine del V e l’inizio del IV secolo; al secondo l’amicizia nata dall’amore di quegli anni garantì – ma solo tardi – i mezzi per la scalata al potere, e si protrasse fino al momento in cui l’attrito tra due caratteri troppo abituati a sovrastare fece dei due compagni degli avversari. Prima che ciò avvenga deve verificarsi l’evento cardinale della vita di Agesilao, ossia la morte del fratello Agide, avvenuta intorno al 400, al termine di un regno più che ventennale[8].
La Sparta dell’epoca era una città diversa da quella in cui Agesilao era nato. La guerra peloponnesiaca ne aveva mutato lo spirito, e la sua conclusione le aveva tolto in Atene l’avversario “ideologico” di buona parte del V secolo a.C., incrinando a un tempo la fiducia dei maggiori alleati: a differenza di Sparta, Corinto e Tebe avevano di che lamentarsi per una guerra che aveva fruttato molto meno delle attese. Il suggestivo quadro tracciato da Plutarco[9] nel descrivere questo periodo, pur se influenzato dal mito di una Sparta licurghea che decade d’un colpo, coglie certamente nel segno: copiose ricchezze s’erano fatte strada nello stato spartano, da sempre celebrato per la refrattarietà all’economia monetaria e alle connesse “tentazioni”; persino l’adamantino kósmos, l’ordinamento di Licurgo, scricchiolava sotto il peso delle licenze concesse agli uomini responsabili della vittoria e a Lisandro sopra tutti. È in questo momento di grandi cambiamenti che, come abbiamo detto, si assiste all’arrivo al potere di Agesilao[10]. Il fratello Agide aveva lasciato alla sua morte un figlio maschio di nome Leotichida[11], in età sufficiente per ricevere il potere regale: a questi, per dettato esplicito della legge, toccava ereditare il titolo di re della linea Euripontide. Ciò che permette ad Agesilao di insinuarsi in questa successione scalzando il nipote non è tanto il sospetto – probabilmente diffuso ad arte – di un’origine adulterina di quest’ultimo, quanto l’appoggio dell’ormai onnipotente Lisandro, la cui influenza su tutta la politica spartana e sugli efori in particolare mette in moto la macchina della contesa dinastica. Non è la prima volta che a Sparta una coalizione, reclamando il trono per il proprio candidato, delegittima l’avversario in quanto figlio naturale: il caso di Demarato, privato del potere alla vigilia delle guerre persiane con la medesima accusa, è stato accostato a quello di Agide già da un osservatore antico;[12] è d’altronde verosimile che in entrambe le azioni l’intervento degli efori sia stato determinante[13], e che le macchinazioni della politica abbiano avuto un peso maggiore delle preoccupazioni sulla genuinità della razza dei re[14].
Oplita. Statuetta, bronzo, ultimo quarto del VI sec. a.C. ca. da una cista (?) presso il tempio di Zeus a Dodona (Epiro). Berlin, Antikensammlung.
Il gruppo contrapposto a Lisandro si difende stornando i sospetti sulla legittimità di Agide e riesumando un vecchio oracolo che, mettendo in guardia Sparta da un regno “zoppicante”, doveva inibire le possibilità di successo dello “zoppo” Agesilao. Tocca ancora a Lisandro, allora, chiudere la partita con una stoccata decisiva. Egli afferma che non l’avvento di un re zoppo, bensì il disequilibrio fra le due famiglie regali di Sparta sarebbe l’evento prefigurato dalla profezia, e che esso si realizzerebbe proprio con l’elezione di un re “bastardo”: accettare che metà della coppia regale sia inquinata da sangue non discendente da Eracle equivarrebbe, infatti, a rendere il regno “zoppicante”, ossia invalido in uno dei suoi due sostegni. Questa brillante finezza ermeneutica, che ricorda un’analoga trovata di Temistocle[15], conquista ad Agesilao il trono; proprio come nel caso di Temistocle, il successo finale è garantito non solo dall’abilità di rivolgere contro gli avversari la loro stessa arma reinterpretando l’oracolo, ma anche dall’appoggio di buona parte dei circoli politici di primo piano all’interno della città. Agesilao arriva così al trono per merito – e quasi come strumento – del potente amico, il quale ha un’ottima ragione per rallegrarsi della riuscita manovra: il re della famiglia Agiade allora in carica, Pausania II (reggenza 408-394 a.C. ca.), aveva dimostrato insofferenza verso la sua politica, contribuendo alla restaurazione della democrazia ad Atene e alla caduta di quella creatura di Lisandro che fu il governo dei Trenta; ora il vincitore di Egospotami aveva in Agesilao il mezzo per combattere eventuali spinte di opposizione da quella parte, potendo disporre dell’appoggio del sovrano Euripontide. Questi gli eventi. È adesso il momento di verificare il modo con cui sono essi trattati nell’Agesilao. Tutte le informazioni finora citate provengono in massima parte da Senofonte, ma con alcune cospicue eccezioni; inoltre, non tutte sono presenti nell’Agesilao, che per questo periodo, così come per altri, è molto meno ricco di notizie rispetto alle Elleniche.
Oplita spartano. Illustrazione di P. Connolly.
Tra i particolari che lo scrittore ateniese tace in entrambe le opere c’è, innanzitutto, il rapporto omoerotico tra Agesilao e Lisandro, sul quale è il solo Plutarco a darci dei ragguagli[16]. Le ragioni del suo silenzio non vanno cercate molto lontano: pesano su tutto la rottura dei rapporti tra Agesilao e Lisandro, la parzialità di Senofonte a favore dell’amico re, la circostanza che riconosce una simile origine per l’amicizia fra i due uomini aggraverebbe, agli occhi dei lettori, il repentino strappo. Bisogna comunque ammettere che il legame non rientra nei tempi trattati dal Senofonte storico e, se proprio vogliamo cercare una giustificazione per il suo silenzio, nulla obbligava lo scrittore a menzionare questo particolare privato. A parte questa significativa eccezione, per tutti gli aspetti salienti della contesa dinastica che aprì ad Agesilao la strada verso il potere sono le Elleniche a garantire l’informazione più completa: Plutarco e Pausania, oltre a qualche dato non fondamentale[17], aggiungono alcune notizie sull’origine adulterina di Leotichida, che, se genuine, delineerebbero al più la cornice dell’evento; la mancanza di esse nel resoconto senofonteo non sembra motivata da preoccupazioni ideologiche. L’ideologia è invece la ragione sicura per l’assenza di alcune informazioni nell’Agesilao. Nell’ordine: la contesa è appena sfiorata[18], le voci con le quali Agide fu screditato taciute, la disputa sul trono presentata in modo tale che Agesilao sembri asceso al potere non per intrighi dinastici, ma per la vittoria in un’onestissima gara di nobiltà; dell’azione di Lisandro nessuna traccia, e d’altronde questo nome poco gradito nell’Agesilao non compare mai. Il quadro di un Agesilao nobile e senza macchia, che diviene re per merito e non in quanto creatura di un politico, è quello che ci aspettiamo da un encomio. Stesso discorso vale per l’esaltazione del potere di Sparta fatta in questo contesto: tutti i problemi nati dal sovvertimento del kósmos scompaiono per lasciar posto all’immagine di Sparta nobile dominatrice della Grecia e culla ideale di tanto grande eroe. In breve: Senofonte esalta nel suo elogio postumo le note positive, ma solo per via di quelle ovvie preoccupazioni encomiastiche che nelle Elleniche dimostra di non possedere.
Il primo atto di Agesilao durante il suo regno è la soppressione di una nascente congiura contro l’ordine costituito; in collaborazione con gli efori il sovrano scopre il responsabile, un non-spartiate di nome Cinadone, si sincera dei suoi piani e annulla il tentativo punendo i complici. L’episodio è significativo per la storia della società spartana in questi anni di rivoluzioni, ma nella vita di Agesilao non è una tappa particolarmente importante[19]. Denso di conseguenze sarà invece il suo primo atto politico, benché nato ancora all’ombra del potere di Lisandro. Non molto dopo l’insediamento di Agesilao arriva in città la notizia che il gran re starebbe allestendo una grande flotta in Fenicia, con un obiettivo che non può che essere Sparta (397 a.C.)[20]: i rapporti del gran re con l’ammiraglio ateniese Conone, allora in esilio ma alla ricerca di rivalse sugli Spartani, non erano certamente un mistero[21]. Per prevenire l’attacco si decide di anticipare il nemico colpendolo in Asia Minore. Qui Sparta era impegnata da circa tre anni in difesa delle città ioniche che, dopo l’appoggio dato a Ciro il Giovane nel fallito tentativo di spodestare il fratello Artaserse, temevano ritorsioni da parte del gran re. Rispetto alle spedizioni asiatiche precedenti, affidate a generali abili come Tibrone e Dercillida ma condotte con contingenti ridotti e senza dispendio di risorse finanziarie, l’impresa del 397 a.C. viene organizzata più in grande stile e con intenti, dichiarati e occulti, ben differenti. Se in pubblico Agesilao proclama di voler dissipare il pericolo persiano con un’azione rapida, che frutti la libertà ai Greci d’Asia, dietro le quinte è ancora Lisandro – scelto tra i trenta spartiati che accompagneranno il re nell’impresa – a manovrare l’amico, con scopi meno nobili del panellenismo di facciata propagandato dai vertici Spartani. Non molto tempo prima, infatti, gli efori avevano decretato la fine delle decarchie, i governi di dieci uomini istituiti da Lisandro nelle città entrate nell’orbita spartana dopo la fine del conflitto peloponnesiaco e venuti quasi subito in odio agli abitanti[22]. Evidentemente Lisandro sperava di riattivare le sue clientele con l’intervento in Asia e di portare nuovamente al potere i suoi fedeli, contando sulla giustificazione dello stato di guerra aperta: il fatto che, oltre a spingere Agesilao verso il comando, egli riservasse un posto per sé al vertice della forza impiegata nella missione non lascia dubbi al riguardo[23]. Comunque sia, la campagna asiatica era destinata a deludere fin dal primo momento tutti i suoi fautori. Il primo spiacere per Sparta, ma soprattutto per Agesilao, fu la scarsa presa che la retorica panellenica ebbe sugli altri Greci; ancora peggiore fu però lo smacco subito dalle autorità spartane in occasione dell’inaugurazione ufficiale della spedizione. Agesilao, riunito il proprio contingente, aveva deciso di celebrare un sacrificio propiziatorio in Aulide, con una scelta che può apparire ingenua o presuntuosa, ma che fu in ogni caso un eloquente messaggio “panellenico”: l’Aulide, in territorio beotico, era la base attribuita dal mito alla prima grande spedizione di tutti i Greci contro il continente asiatico, quella di Agamennone contro Troia; riproducendo le stesse condizioni di partenza, il re spartano chiedeva implicitamente ai suoi connazionali di lasciare da parte le divisioni interne per rinnovare i fasti di quella grande impresa, sotto la guida di Sparta e in nome della comune identità culturale. Ma egli non fa in tempo a completare il sacrificio che i beotarchi (magistratura della Beozia) intervengono e interrompono a metà la cerimonia. Possediamo due versioni leggermente differenti dell’episodio: nelle Ellenichedi Senofonte (III, 4, 3–4) l’azione dei magistrati non riceve una motivazione esplicita, mentre Plutarco (Vita di Agesilao VI, 6-11) sottolinea che Agesilao, compiendo personalmente il sacrificio, aveva prevaricato i diritti dei propri alleati e provocato la reazione dei beotarchi. Come che sia, il gesto di questi ultimi è di una gravità troppo evidente perché lo si possa attribuire solo al comportamento di Agesilao: è chiaro che Tebe non gradiva né la politica né la retorica spartana, e con questo contrasto diplomatico scopriva senza remore la propria disapprovazione di fronte al potente alleato. Agesilao lascia la Beozia turbato dall’infausto presagio e carico di un odio verso i Tebani che la tradizione antica definisce concordemente inestinguibile[24]; predisposto alla partenza il contingente nel porto di Gerasto, salpa alla volta dell’Asia.
Pittore di Dario. Combattimento fra Greci e Persiani. Pittura vascolare da un 𝑘𝑟𝑎𝑡𝑒𝑟 apulo a figure rosse, IV sec. a.C. da Canosa di Puglia. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Lo sbarco e l’insediamento nella base di Efeso, anziché tranquillizzare il re, gli offrono nuovi motivi d’inquietudine: Lisandro, che in Asia ha vecchi compagni e clienti fedeli, monopolizza l’attenzione di tutti i referenti greci e mette ovviamente in ombra le autorità presenti, Agesilao compreso. È a questo punto che si consuma la rottura fra questi e il suo mentore: Agesilao, esasperato dal ruolo di comprimario cui Lisandro lo relega, comincia a ostacolarne i favoriti e a dare segni sempre più manifesti di ostilità, finché l’attrito tra i due non sfocia in un diverbio pubblico e nell’inevitabile allontanamento di Lisandro da Efeso[25]. Bisogna rendere giustizia alle fonti greche, che individuano nei dissapori personali, nella fiera gelosia del primato da parte di Agesilao e nel suo conseguente comportamento stizzoso le ragioni del dissidio: l’aspetto caratteriale pesò certo non poco nella vicenda. A un osservatore attento non dovrebbe comunque sfuggire come questo distacco non solo impediente, ma anche sensibilmente diversa da quella del suo protettore di un tempo: se Lisandro aveva usato il suo prestigio e i suoi appoggi ingaggiando vere e proprie prove di forza con i circoli più conservativi della politica spartana, Agesilao persegue piuttosto lo scopo di conciliarsi le autorità, ostentando più volte obbedienza agli ordini e inserendosi, per quanto possibile, nel solco della tradizione; inoltre, se il primo aveva approfittato del prestigio accumulato in guerra per instaurare regimi contestati come le decarchie, il secondo ama richiamarsi alle sirene del panellenismo che, a dispetto di una politica contraddittoria di Sparta e di gravi incongruenze da parte dello stesso Agesilao, susciteranno alcune simpatie nella Grecia dell’epoca e non solo. In breve: l’ipotesi che Agesilao avesse colto il momento opportuno per sganciarsi dall’orbita lisandrea e imboccare una propria via in politica va tenuta nella debita considerazione. Ormai libero da vincoli e padrone della forza stanziata in Asia, Agesilao predispone le operazioni con freschezza ed energia rimarchevoli in un uomo ormai vicino alla cinquantina. Dato che era stato già stipulato un armistizio con Tissaferne, il potente satrapo di Caria con il quale dovrà scontrarsi[26], cerca di preparare al meglio l’esercito; quando l’avversario dimostra di sfruttare la tregua per acquisire nuove forze, reagisce efficacemente e senza scomporsi per il comportamento fraudolento del Persiano.
Farnabazo II, satrapo di Cilicia. Statere, Tarsos, 380-373 a.C. ca. 𝐴𝑟. 10, 78 gr. 𝑅𝑒𝑐𝑡𝑜: BLTRZ; Il dio Baaltars assiso, voltato a sinistra, con scettro nella destra.
Con l’invasione della Frigia inaspettata per il nemico riesce a razziare indisturbato una gran quantità di beni e con gli uomini a sua disposizione ottiene una serie di successi strategici, senza però poter indurre l’avversario a un confronto in campo aperto[27]. Attraverso un saggio sistema di reclutamento, rimedia in qualche modo alla mancanza di forze a cavallo e, tornato a Efeso nella primavera del 395 a.C. fa della città la sua base; da qui invade la piana del Meandro, sorprendendo nuovamente i Persiani, e con sortite occasionali procede fino alla regione circostante Sardi[28]. Qui ottiene anche il maggior successo militare della campagna, mettendo in fuga le truppe avversarie in prossimità del fiume Pattolo e impadronendosi dell’accampamento dei nemici e di un considerevole bottino[29]: lo smacco subito e l’inimicizia della madre del re Parisatide procurarono al satrapo Tissaferne la perdita del potere e della vita per ordine di Artaserse, che invia al suo posto Titrauste[30]. Mentre questi si insedia nei suoi nuovi territori, Agesilao continua la sua campagna; a seguito di un momentaneo accordo di non belligeranza con Titrauste, attacca la Frigia, conseguendo anche in questo caso piccoli vantaggi tattici che inducono alla tregua il satrapo della regione Farnabazo (394 a.C.)[31]. A questo punto però la sua impresa viene interrotta dall’ingiunzione di tornare in patria, arrivata dalla Grecia con un corriere urgente: l’opposizione antispartana, rinfocolata e dotata di mezzi dal denaro persiano, è ormai sfociata in una guerra aperta da parte di Atene, Argo, Tebe, Corinto e varie altre póleis[32]; dopo un insuccesso psicologicamente significativo presso le mura di Corinto (395 a.C.), che era costato la vita a Lisandro[33], Sparta aveva deciso di correre ai ripari e richiamare la forza impegnata in Asia, rinunciando così al progetto di “liberare” i Greci sottomessi al Gran Re.
I negoziati tra Agesilao e Farnabazo. Illustrazione da E. Ollier, 𝐶𝑎𝑠𝑠𝑒𝑙𝑙’𝑠 𝑖𝑙𝑙𝑢𝑠𝑡𝑟𝑎𝑡𝑒𝑑 𝑈𝑛𝑖𝑣𝑒𝑟𝑠𝑎𝑙 𝐻𝑖𝑠𝑡𝑜𝑟𝑦, I, London-Paris-New York 1882, 433.
Ligio al dovere, Agesilao si lascia alle spalle l’Asia e i sogni di gloria panellenica per tuffarsi in un conflitto che vede ancora una volta Greci contrapporsi ad altri Greci. Percorsa con straordinaria rapidità la strada che dall’Ellesponto arriva alla Tessaglia passando per la Macedonia, si trova coinvolto in qualche scaramuccia lungo la via e, ormai su terra greca, riesce con abilità a sconfiggere un contingente di cavalleria dei Tessali (estate 394 a.C.). Passato in Beozia, si trova di fronte a Coronea una cospicua forza militare composta da contingenti beotici, argivi e ateniesi, oltre che da distaccamenti di quasi tutte le città ostili a Sparta. Attaccata battaglia, si trova ben presto in condizioni di vantaggio tattico, dato che la sua ala destra ha sconfitto gli Argivi; anziché lasciare libero corso ai nemici Tebani, a loro volta vittoriosi sull’ala sinistra di Agesilao, rinnova lo scontro con questi e, dopo averne fiaccato la resistenza, si trova in possesso indiscusso della vittoria (agosto 394 a.C.)[34]. Lo scontro, che gli procura molte ferite, gli garantisce l’entrata nella storia e resterà l’apice della sua lunga carriera di stratega. […]
Dalla vittoria di Coronea alla vigilia della “pace del re”
[…] Dopo aver brillantemente portato a termine la battaglia, Agesilao fa mostra di magnanimità, rifiutandosi di violare l’impunità di quanti tra i nemici erano riusciti a rifugiarsi nel vicino tempio di Atena Itonia; l’atto gli vale le lodi dei contemporanei, riflesse nelle principali fonti a partire dalle Elleniche senofontee[35]. Dopo la vittoria, senza dubbio grande, ma tutt’altro che risolutiva, torna in patria; qui, a quanto pare, riesce a conservare le abitudini assunte prima della partenza per la spedizione e a consolidare, con tale atteggiamento, la posizione di prestigio conquistata a suon di vittorie militari. Alcune condizioni favoriscono la sua definitiva ascesa. Sparta non ha più Lisandro a cui guardare: il vincitore della guerra peloponnesiaca aveva chiuso la sua esistenza un anno prima (395 a.C.), presso le mura di Corinto. Neppure eventuali contrapposizioni con la casa regnante degli Agiadi si prospettavano come temibili: dopo l’esilio (tra il 395 e il 393 a.C.) di Pausania II, apparso troppo fiacco nelle sue azioni belliche, il giovane figlio di questi, Agesipoli, non poteva rappresentare un ostacolo significativo. Infine, Sparta si trovava immersa in un conflitto di proporzioni temibili contro buona parte delle póleis greche, e la guida di un generale già copertosi di gloria come Agesilao doveva essere fortemente desiderata da una vasta porzione della società spartana. Naturalmente Agesilao fa del suo meglio per arrogarsi il posto, provvidenzialmente vacante, di guida ideologica della città.
Battaglia di Coronea. Illustrazione di A. Hook.
La sua condotta ostentatamente modesta è semplicemente quello che la migliore tradizione spartana pretenderebbe da un sovrano, ma proprio questa circostanza enfatizza piuttosto che smorzare l’effetto positivo esercitato sui cittadini: non solo nomi infami del passato – Pausania I su tutti[36] –, anche esempi frequenti dalla contemporaneità dimostravano che, una volta staccatisi dal nido delle leggi licurghee, molti Spartani si affrancavano per sempre dai valori in seno ai quali erano stati nutriti e tornavano dal grande mondo inguaribilmente “delaconizzati”. Agesilao, ormai all’apice del suo successo come generale, deve dunque dimostrare che i lunghi soggiorni al di fuori del Peloponneso non hanno intaccato le virtù laboriosamente impresse in lui dall’agoghḗ né inoculato il pericoloso morbo della disobbedienza. Anche sotto quest’aspetto il suo successo è notevole, perché il suo stile di vita morigerato e il suo rispetto per i poteri costituiti gli aprono la strada per una posizione di preminenza assoluta. Il carattere e la formazione di Agesilao contribuiscono certo in maniera determinante a questo risultato, né si può dare torto alle fonti antiche che riconducono alla sua innata peithárcheia (“obbedienza ai superiori”) le molte dimostrazioni di modestia di questo periodo. D’altro canto, la convivenza politica si accompagna troppo manifestamente a quest’atteggiamento per credere che esso sia del tutto ingenuo e disinteressato. Sappiamo che l’influenza di Agesilao su Sparta tocca il suo punto più alto esattamente dopo il ritorno dall’Asia, e non è un segreto che il mezzo da lui prediletto per consolidare la propria posizione di preminenza in politica sia cercare l’accordo con gli efori e l’élite dirigente della città: quale via, allora, poteva condurre a quest’effetto più rapidamente che esibire dopo i più grandi successi il contegno della persona «che non abbia mai varcato l’Eurota»[37]? Plutarco ci riferisce anche che Agesilao avrebbe di proposito caldeggiato l’affidamento di missioni esterne ad alcuni dei suoi avversari, con lo scopo di denigrare la condotta nel caso – evidentemente non infrequente – che la vita fuori dei confini li avesse sviati dai costumi aviti; l’autorità di chi è rimasto immune alle lusinghe delle apodēmíai (“soggiorni fuori patria”) gli consegnava infatti questa efficace arma propagandistica. Ammissibilmente, la machiavellica idea di inviare all’estero i propri oppositori proprio per indurli in tentazione può essere una spiegazione post eventum, elaborata da Plutarco o dalla sua fonte e poi presentata come dato di fatto; ma le accuse contro gli spartiati “corrotti” dalla lontananza e il confronto col presente, ben differente, comportamento hanno l’aria di essere reali, e si inseriscono agevolmente nel quadro della tattica politica adottata all’epoca da Agesilao.
Il mondo greco nel 394 a.C. durante la Guerra di Corinto.
Pare, per altro, che in questi anni[38] gli si presenti l’occasione per chiudere definitivamente i conti col vecchio protettore Lisandro. Certo, l’amico di un tempo è morto, ma la memoria delle sue azioni è viva nella città e il circolo dei suoi fedelissimi può ancora contare su forze che Agesilao potrebbe temere. Così, secondo parte della tradizione antica[39], egli sarebbe pronto a rendere di pubblico dominio il libello sovversivo che Lisandro si fece scrivere da Cleone di Alicarnasso per indurre gli Spartani a un cambio costituzionale in direzione democratica, libello appena venuto alla luce tra le carte del defunto generale; solo l’intervento degli efori, che non vedrebbero di buon occhio la memoria di un tale simbolo bollata col marchio della rivoluzione, lo avrebbe distolto dal suo intento. Presentato in questo modo l’episodio è particolarmente favorevole ad Agesilao, la cui immagine di uomo ubbidiente si consolida una volta di più, per altro a detrimento del defunto Lisandro; tant’è che quest’ultimo, a dispetto dell’impegno profuso dagli efori, non è sfuggito alla condanna postuma della storia. Forse proprio per questo è legittimo sospettare che i fatti siano andati in maniera diversa, anche ammettendo che le accuse avanzate non discordino con alcune caratteristiche della figura di Lisandro[40]. Il collegio degli efori, che in questo periodo è probabilmente in armonia con Agesilao, potrebbe aver elaborato l’accusa senza avere basi materiali, rinnovando i fasti di calunnie post mortem non inedite a Sparta; persino il possesso del libello da parte di Lisandro, ammesso che un tale pamphlet esistesse davvero, aveva forse ragioni innocenti, oscurate dalla versione maligna diffusa sottobanco dalle autorità; infine; la mancata denuncia ufficiale può interpretarsi come mossa astuta del circolo vicino ad Agesilao, che a un tempo diffondeva su Lisandro il sospetto più infamante per uno spartiate e, confinando la vicenda alle voci senza conferma, si sottraeva abilmente a ogni contraddittorio. Comunque sia, Agesilao è in questo momento l’uomo più importante a Sparta, e forse – come affermò un suo quasi contemporaneo[41] – nella Grecia intera. Il modo più vantaggioso per spendere il credito acquisito è quello di impiegarlo sui campi di battaglia, e Agesilao, favorito dal protrarsi della guerra di Corinto, non tarda a calcare il terreno prediletto con la consueta energia. Sono anni di spedizioni aggressive contro gli avversari di Sparta o in favore dei suoi alleati, durante i quali la fiducia accordata al re guerriero viene continuamente rinnovata dalla città, nella speranza di piegare definitivamente l’opposizione degli altri Greci. A questo tentativo di risolvere la crisi armi alla mano si contrappone da subito, in seno alla politica spartana, il desiderio di procedere per vie diplomatiche venendo a patti con la Persia: alla fine sarà questa seconda strada a prevalere, ma nel frattempo la guerra continua.
Corinto. Tempio di Apollo. Ordine dorico, metà VI sec. a.C.
Tra il 391 e il 390 vengono allestite due spedizioni contro il cuore della guerra, Argo e Corinto[42], con le quali Agesilao si ripromette di spezzare l’unità territoriale creata dagli Argivi con la parte democratica dei Corinzi e di restituire la città agli oligarchi filo-spartani, espulsi dalla fazione prevalente. La pressione esercitata dal re sul territorio corinzio e la sua superiorità militare sugli avversari gli garantiscono alcuni risultati, comunque non decisivi. Tipico è, in questo senso, l’incidente delle Istmiche del 390 a.C. Dopo aver sorpreso gli Argivi intenti a organizzare la competizione istmica, Agesilao interrompe d’autorità i preparativi mettendo in fuga i nemici e affida agli esuli corinzi la celebrazione dell’agone panellenico, che ha effettivamente luogo; è però sufficiente che egli si allontani perché gli Argivi e i Corinzi democratici rinnovino i preparativi per la festa e celebrino la stessa per la seconda volta, lasciando alla posterità il poco edificante esempio di gare eseguite per due volte e vinte ora dalla stessa persona, ora da un atleta differente[43].
Il 390 è anche l’anno di una pesante débacle per gli Spartani, sulla quale Senofonte si dilunga nelle Elleniche[44]. È un disastro imprevedibile per Agesilao. Grazie a un abile uso degli armati alla leggera il condottiero ateniese Ificrate (attivo sul territorio corinzio assieme al collega Callia) attacca e fa letteralmente a pezzi un’intera divisione (móra) di spartiati, distaccatisi dal resto del contingente per scortare un gruppo di uomini che tornava in patria. Per Sparta il danno inflitto è considerevole, sia per la morte di molti cittadini dotati di pieno diritto (una élite drammaticamente piccola per numero di individui, ma vitale per lo Stato), sia sotto il profilo psicologico, compromettendo la fama di imbattibilità che i dominatori del Peloponneso amavano mettere sul tavolo in occasione di trattative diplomatiche[45]; esso, per altro, macchia l’intero sistema oplitico spartano con l’onta con la sconfitta contro i peltasti[46]. Per lo stesso Agesilao il colpo arriva estremamente inopportuno. Poco prima dell’evento degli ambasciatori si erano fatti avanti da Tebe e altre città, i primi con serie proposte di pace; ma il re spartano aveva ostentato indifferenza, mosso dall’odio contro Tebe – come vuole parte degli autori antichi – o semplicemente confidando di poter ottenere condizioni più vantaggiose se, rimanendo accampato presso Corinto, avesse conseguito un successo definitivo e liberato il proprio contingente per azioni nel resto della Grecia. L’inciampo che gli si era parato davanti all’improvviso vanificava le vittorie parziali ottenute in precedenza, come gli dimostrò immediatamente il mutato atteggiamento dell’ambasceria beotica; questa, ammessa finalmente per un abboccamento (forse nella speranza che non fosse informato del disastro della móra), accantonò subito il tema della pace, chiedendo invece di essere condotta a Corinto. Agesilao tenta di rimediare all’incidente con una prova di forza, devastando alla presenza degli ambasciatori il territorio corinzio e dimostrando che anche il provvisorio successo di Callia e Ificrate non aveva né cambiato i rapporti tra le forze in campo né risollevato gli occupanti di Corinto dal timore che essi nutrivano per gli Spartani; dopo non molto, tuttavia, egli lascia un distaccamento a guardia del territorio e ritorna a Sparta senza aver dato al conflitto un esito decisivo. Nei due anni successivi (389-388 a.C.) l’attività militare di Agesilao si rivolge a una regione periferica, l’Acarnania, dove egli interviene su richiesta degli Achei. L’azione non ha più un collegamento diretto con la guerra di Corinto – che non è conclusa[47] –, ma non si può considerare slegata dal conflitto in corso, visto che gli Acarnani sono alleati dei Beoti e degli Ateniesi e hanno ottenuto da questi ultimi delle forze di supporto; essa persegue poi lo scopo, non meno importante, di consolidare la fiducia di un alleato, e fa fede dell’impegno spartano di fungere da arbitro – non imparziale – dei conflitti sull’intero scacchiere greco. Gli eventi di questi anni dimostrano infatti che Sparta consuma uomini e risorse in simili imprese per consolidare ideologicamente il ruolo di forza egemone del quale l’esito della guerra del Peloponneso l’aveva investita: una tale motivazione resta probabile per la spedizione in Acarnania anche se si accetta che gli Achei abbiano ottenuto l’aiuto richiesto con il velato ricatto di abbandonare l’alleanza spartana. La spedizione – che si esaurisce in pratica nel saccheggio del territorio avversario – si conclude senza soddisfare gli Achei, scontentati anche dalla decisione di Agesilao di tornare in patria piuttosto che rimanere e impedire agli Acarnani la semina dei campi. L’impresa raggiunge comunque la conclusione sperata: con la primavera successiva (388 a.C.) si allestisce a Sparta un’ulteriore spedizione affidata ad Agesilao, alla qual notizia gli Acarnani, per timore di restare privati del raccolto per il secondo anno di seguito, accondiscendono alle condizioni dettate dagli Achei ed entrano nell’alleanza spartana. […]
La “pace del re”
Dalle fonti non ci arriva notizia esplicita di contestazioni della dirigenza spartana contro Agesilao; tuttavia è chiaro dagli eventi di questi anni e dallo stesso emergere di uomini opposti a lui per tendenza politica che al sua azione non soddisfaceva e che la fede nella risoluzione dei problemi diplomatici con la Machtpolitik non era grande. Ad anni di distanza dall’inizio della guerra di Corinto, Sparta assisteva all’assedio ostile di buona parte del mondo greco, alla rinnovata ascesa di Atene – che dopo l’annichilimento della guerra del Peloponneso aveva recuperato mura, flotta e parte degli alleati –, alla irrecuperabile perdita della supremazia sul mare per via della flotta messa a disposizione di Conone dalla Persia: troppo, perché non si cercassero soluzioni alternative alla politica belligerante di cui Agesilao era interprete e, probabilmente, fautore. La radice del problema era il Gran Re, il cui oro aveva dato forza al partito anti-spartano in Grecia e le cui navi avevano frantumato le fragili ambizioni della flotta spartana, formatasi d’altronde proprio grazie ai fondi del “Barbaro”. Non desta allora stupore la mossa di riallacciare i rapporti dinamici con la Persia, compromessi dai tempi dell’impegno in Asia, tanto più che la chimera di una guerra contro di essa si era dissolta nel momento stesso in cui Agesilao era stato richiamato in Grecia.
Combattimento tra cavalieri e fanti. Rilievo, pietra locale, 375-360 a.C. c. dal sarcofago della Tomba di Payava, da Xanthos, Lycia. London, British Museum.
L’uomo del momento è Antalcida, un avversario politico di Agesilao che già in passato (392 a.C.) aveva tentato di disarmare la ribellione dei Greci riportando la Persia dalla parte di Sparta; all’epoca egli, recatosi a Sardi, aveva intavolato delle trattative con il satrapo Tiribazo, promettendo da parte di Sparta la completa rinuncia alla difesa delle città greche d’Asia; l’interlocutore persiano era rimasto più che soddisfatto della proposta e aveva cercato di intercedere col gran re Artaserse, ma l’intervento di diplomatici tebani e ateniesi e vari altri fattori avevano mandato a monte la trattativa[48]. Adesso, dopo alcune scaltre manovre nell’Ellesponto, Antalcida esibisce nuovamente la sua proposta, tramite il medesimo mediatore, al re persiano, e lo persuade che proporsi come arbitro della pace tra i Greci sia più conveniente che finanziare una delle due fazioni combattenti (387/86 a.C.); la contropartita che lo Spartano offre al sovrano è, come nel 392 a.C., il diritto di disporre a piacimento delle città greche d’Asia, alla cui difesa per fini di prestigio Sparta è costretta a rinunciare dalle difficoltà in Grecia. Il re accetta, probabilmente convinto che soffocare le rinascenti ambizioni imperiali degli Ateniesi tramite Sparta sia la scelta più vantaggiosa, e con effetto pressoché immediato la sua decisione segna la fine del conflitto di Corinto: la fazione anti-spartana perde mordente e quasi da subito le parti in causa si affaticano nel dimostrare di aderire al principio, sancito nelle condizioni di pace, che «tutti lascino in autonomia le città». Sparta si è così divincolata dalle tenaglie della guerra a prezzo di una colossale disfatta ideologica, avendo lasciato nelle mani dei “barbari” le città asiatiche che Atene, al tempo del suo Impero, aveva molto meglio protetto. Gli anni successivi dimostrano che questa scelta spiana la strada alla propaganda degli avversari[49], ma per il momento il predominio dello Stato lacedemone sulla Grecia è riaffermato imperiosamente e con la clausola sull’autonomia è stata sottratta agli avversari più pericolosi, come i Tebani, la libertà di organizzarsi in blocchi potenzialmente minacciosi; Sparta stessa, spalleggiata dalla Persia, è ben lungi da applicare a se stessa il principio rinunciando al dominio sulla Messenia. Molti elementi della cosiddetta “pace del re” (o “pace di Antalcida”) dovevano risultare sgraditi ad Agesilao, che oltre ad assistere impotente al successo diplomatico del suo avversario Antalcida, vedeva cadere miseramente molti dei capisaldi della sua politica: la retorica panellenica che aveva inaugurato la spedizione in Asia; la speranza di raccogliere gloria militare con grandi imprese, in Grecia o fuori; l’insistenza sulla necessità di risolvere militarmente i guai di Sparta con gli altri Greci. Pare comunque che egli abbia, ancora una volta, pronunciato il personale “obbedisco” e accettato una soluzione alla quale non poteva opporre nulla di sostanziale: poco tempo dopo il raggiungimento dell’accordo fra Artaserse e Antalcida lo troviamo attivo in difesa della clausola sull’autonomia, della quale impone orgogliosamente il rispetto a Tebe (386 a.C.). Anche per quest’episodio affiora nelle fonti il fondato sospetto che, quale che fosse il pensiero di Agesilao sulla soluzione “diplomatica” alla guerra, i danni inflitti alla potenza tebana dalle condizioni di pace lo abbiano persuaso a farsene entusiasta avvocato; certamente il suo comportamento tronfio e aggressivo verso gli ambasciatori tebani si spiega al meglio così. Vero è anche che l’obbligo di autonomia sembra studiato appositamente non solo per ostacolare la ricostruzione dell’Impero ateniese – un evento che era ormai nell’aria, temuto da Sparta e dalla Persia in egual misura – , ma anche per neutralizzare in Tebe il più tenace avversario della guerra di Corinto: in quanto tale esso doveva far parte anche del piano originale di Antalcida, tant’è che le trattative del 392 erano naufragate proprio per l’opposizione di Tebani e Ateniesi a questa condizione[50]; ciò dimostra che l’ostilità fra Sparta e Tebe ha ragioni più profonde che il risentimento e le antipatie personali di uno dei re spartani. […]
La Grecia, anche dopo la pacificazione forzata, ferve di odio contro Sparta; tuttavia l’appoggio persiano consente alla città dell’Eurota di controllare la situazione senza eccessive angosce, con interventi mirati sui punti nevralgici per il mantenimento del predominio. Praticamente per un quinquennio il fuoco dell’insoddisfazione greca cova sotto le ceneri. Sparta agisce con un risoluto attivismo militare al manifestarsi del minimo segno di insubordinazione: nel 385 a.C. a Mantinea, venuta in sospetto al regime, viene immediatamente sottratta ogni possibilità di nuocere con la dissoluzione della pólis in piccole città separate; in questa occasione Agesilao rifiuta il comando dell’operazione in quanto legato da un rapporto di ospitalità con la città attaccata, e la missione viene affidata al re Agesipoli[51]. Poco dopo il sorgere di una forza potenzialmente ostile in Olinto viene ugualmente stroncato con le armi, anche se l’impresa impegna l’esercito di Spartani e alleati per un tempo maggiore (382-379 a.C.)[52]. Agesilao è impegnato in questo tempo nel tentativo di instaurare un governo oligarchico a Fliunte, sfociato poi nel 382/81 a.C. in un assedio che si concluderà, circa due anni più tardi, con la capitolazione della città[53]. Tra la fine di questo decennio e l’inizio del successivo due eventi gravidi di conseguenze scuotono l’opinione pubblica greca con notevole danno per Sparta, e in entrambi Agesilao, pur non giocando un ruolo di primo piano nelle azioni, dimostra nella gestione delle conseguenze una significativa mancanza di tatto.
Generale spartano. Illustrazione di A. Slapsys.
È il 382 quando lo spartiate Febida, alla guida di un contingente destinato a rafforzare le forze stanziate per l’intervento in Grecia settentrionale contro Olinto, raccoglie l’invito di alcuni Tebani filo-oligarchici e occupa a sorpresa la Cadmea o rocca di Tebe; dall’acropoli era possibile tenere in scacco l’intera città, che veniva così ridotta all’arbitrio dello Spartano e dei Tebani a lui favorevoli. Il colpo di mano, compiuto in un momento di pace e in patente spregio del diritto internazionale, suscita una forte opposizione anche nella stessa Sparta, dove si levano accuse gravi contro Febida e la sua nociva intraprendenza[54]. Per avere un’idea della portata dell’evento basti pensare che quando, a distanza di molti anni, il filo-spartano Senofonte riferisce delle conseguenze di questo atto, egli è costretto a qualificarlo come empio e contrario a tutti i principi di correttezza, tale insomma da attirare su Sparta la giusta vendetta degli dèi attraverso lo strumento di Tebe[55]. Tuttavia Agesilao, di fronte all’assemblea chiamata a decidere sul tema, suggerisce ai concittadini di valutare i vantaggi provenienti dall’occupazione prima di pronunciare una condanna sull’uomo e – con cavillosa interpretazione dell’accusa – protesta che per procurare un bene alla patria «si può ben improvvisare»[56]. Dopo di lui arringa i presenti il tebano Leontiade, che ha invitato Febida all’occupazione per accettare l’annullamento dell’atto; sono forse le sue fredde considerazioni sulla convenienza strategica di una Tebe sottomessa a convincere gli Spartani alla ratifica della situazione, ma questo non cancella le colpe di Agesilao, il cui parere orienta certo l’assemblea in maniera determinante. Sparta mantiene la guarnigione sull’acropoli e aiuta Leontiade a installare un governo oligarchico che fa subito le prime vittime tra gli oppositori, e che si sgretolerà dopo due anni tra il plauso generale dei Greci. Non c’è quasi bisogno di dire come buona parte della tradizione antica motivi lo sconcertante intervento di Agesilao: odio contro Tebe. Mai come in questo caso si è tentati di accettare incondizionatamente la spiegazione psicologica, tanto avventato fu l’avvallo dell’azione di Febida: che le ragioni esposte davanti all’assemblea spartana da Leontiade fossero intimamente sentite anche da Agesilao, e che egli giudicasse opportuno tenere Tebe sotto controllo a qualsiasi costo, è perfettamente possibile, ma nel volgere di pochi anni le conseguenze di questa prepotenza dimostreranno che un simile calcolo era lontanissimo dal cogliere il bene di Sparta. Se diamo valore alla testimonianza di Plutarco[57], il sospetto che Agesilao sia stato addirittura il promotore occulto dell’impresa circolava già all’epoca dei fatti, corroborato dalla proverbiale ostilità contro lo Stato beotico; tuttavia il racconto di Senofonte, che qui non sembra deformato dalla tendenziosità in favore di Sparta[58], è esplicito nell’affermare che servì l’appello di Leontiade perché Febida si convincesse dell’impresa[59]; essa quindi fu improvvisata sul momento. Non passa molto tempo e una seconda grave macchia intacca il prestigio spartano, rovinando, dopo quelli con Tebe, anche i rapporti con Atene. Nel 379 a.C. la Cadmea era stata liberata da un piccolo gruppo di esuli che, grazie al celato sostegno di Atene, avevano espulso la guarnigione spartana e restaurarono in città la democrazia; subito dopo l’evento una spedizione affidata da Sparta al re Cleombroto avrebbe dovuto punire Tebe per il suo atto, ma si concluse con un imbarazzante nulla di fatto[60]. È allora che lo spartiata Sfodria, armosta lasciato a Tespie da Cleombroto, decide di propria iniziativa di tentare un colpo analogo a quello di Febida, occupando senza preavviso il Pireo: la ricostruzione delle mura del porto da parte degli Ateniesi aveva fin da subito innervosito gli Spartani, e Sfodria sperava evidentemente di rendersi benemerito verso la città annullando a modo suo questo problema. La scelta è così malaugurata che secondo il racconto delle Elleniche di Senofonte fu addirittura ispirata dai Tebani, desiderosi di screditare Sparta, e viene messa in atto in maniera così maldestra che il fallimento è totale: per un errore sui tempi di marcia Sfodria manca di cogliere di sorpresa gli Ateniesi, e deve ritirarsi senza altro risultato che quello di aver palesato le proprie intenzioni ostili. Atene, che dopo il rientro degli esuli tebani aveva ostentato solidarietà con Sparta[61], ha ora solide ragioni per convertirsi a una politica anti-spartana. A Sparta Sfodria è atteso – e non potrebbe essere altrimenti – da un processo, dato che gli Spartani non hanno alcun interesse a mostrarsi così incuranti del diritto internazionale senza ricavarne neppure un qualche vantaggio. La condanna a morte appare tanto più sicura in quanto lo stesso Agesilao appartiene al partito politico ostile all’uomo[62], ma è proprio dal re che, a sorpresa, arriva un’apertura che gli salva la vita. Le cause sono puramente personali: il figlio di Agesilao[63], legato da un rapporto omoerotico con quello di Sfodria, intercede presso il padre e ottiene che questi muova la propria clientela per evitare la condanna. […] Ciò non fa che amplificare l’enormità del suo sbaglio, visto che il trattamento di favore concesso a Sfodria porta definitivamente gli Ateniesi, furenti per il torto subito, dalla parte dei Tebani[64]. Ad Atene si allestisce il Pireo per la difesa, si preparano navi e si fanno convergere tutti gli sforzi verso il supporto a Tebe. Passa meno di un anno e la creazione della seconda lega navale ateniese ripresenta a Sparta lo spettro di un Impero sul mare da fronteggiare con enorme dispendio di energia e di uomini. Visto l’atteggiamento degli ultimi tempi, non resta che una possibilità, ed è la risposta contro le armi. Nei due anni successivi […] (378 e 377) vengono messe in atto due ulteriori spedizioni contro Tebe, affidate naturalmente ad Agesilao e conclusesi in maniera frustrante per gli Spartani, che non sono capaci di obbligare gli avversari a un confronto decisivo. Durante il ritorno dalla missione del 377 Agesilao è colto da un ascesso alla gamba sana, che ne mette in immediato pericolo la vita e lo rende invalido per le azioni militari: non più giovane, si asterrà dai combattimenti per molto tempo; è così che la spedizione contro Tebe dell’anno successivo, persino meno fruttuosa delle precedenti, viene affidata all’altro re, Cleombroto.
Battaglia di Leuttra. Illustrazione di J. Shumate.
Gli anni trascorsi da Agesilao lontano dai campi di battaglia vedono Sparta nuovamente impegnata in un conflitto dalle sorti alterne in differenti zone della Grecia, che pare finalmente vicino a una conclusione quando, su iniziativa ateniese, si arriva a una conferenza di pace a Sparta (371 a.C.). Atene guarda ormai con sospetto all’accrescersi della potenza tebana, e ha intuito che con Sparta si può trattare, a patto di giocare sull’elasticità del concetto di “pace” comune: si offre la fine delle ostilità e si chiede in cambio la revoca degli armosti e il richiamo dei contingenti militari; si riafferma inoltre la clausola, gradita allo Stato lacedemone, che le città greche siano lasciate indipendenti. Gli Spartani accettano e, al solito, depositano un giuramento per sé e per gli alleati come se il principio di autonomia non li riguardasse. Gli Ateniesi, più fedeli alla lettera del patto, giurano per sé soli, lasciando agli alleati la possibilità di fare altrettanto: questo perché la seconda lega navale, che concede formale indipendenza a tutti i membri pur avendo il fulcro in Atene, non è un organismo contrario alla clausola dell’autonomia. In un primo momento anche Tebe fa mosse di giurare per proprio conto e lasciare agli altri Beoti la scelta su di sé; poi però, con un atto che equivale a una dichiarazione di guerra, chiede di farlo in nome di tutta la comunità beotica. Agesilao, presenta alla ratifica degli accordi, raccoglie la provocazione e minaccia i Tebani con l’esclusione dalla tregua, ciò che era d’altronde inevitabile per il peso attribuito da Sparta al principio messo in discussione. L’assemblea spartana, convocata poco dopo, dimostra di condividere a pieno i sentimenti del vecchio re e invia ordini a Cleombroto perché lasciata la Focide, dov’era di stanza, invada immediatamente la Beozia e riduca gli avversari a più miti consigli. L’ennesimo ricorso alle armi non è destinato a concludersi con un nuovo pareggio. In prossimità di Leuttra la superiore tattica dei Tebani guidati da Epaminonda spazza via Cleombroto e buona parte dei preziosi spartiati che lo avevano seguito, mettendo fine alla trentennale egemonia spartana e assestando il colpo mortale allo Stato lacedemone (371 a.C.)[65]. […]
Gli ultimi anni
La sconfitta di Leuttra decreta il collasso del sistema di potere faticosamente sostenuto da Sparta a partire dalla vittoria nella guerra del Peloponneso, con gli alleati meno convinti che si distaccano progressivamente o entrano in aperto conflitto e i Tebani che si apprestano a ridurre i nemici a uno stato di totale inoffensività. Unica consolazione per Sparta è il fatto che Atene decide di non infierire sull’antica avversaria e, col tempo, diventerà una discreta alleata – non senza qualche atteggiamento contraddittorio – in funzione anti-tebana. All’indomani della catastrofe (371 a.C.) Agesilao è ancora troppo debole per poter partecipare alla spedizione con la quale Sparta si affretta – invano – a salvare il salvabile; si affida perciò il comando a suo figlio Archidamo[66]. L’anno successivo (370 a.C.), ristabilitosi, è impegnato a impedire il riformarsi di un centro politico ostile nel cuore del Peloponneso, in quella Mantinea della quale Sparta aveva dissolto l’unità territoriale una quindicina d’anni prima; la forza, ma soprattutto l’impressione prodotta sugli avversari della potenza spartana non sono più sufficienti a sostenere una simile impresa, che fallisce e, quel che è peggio, attira nel Peloponneso l’esercito tebano. Gli Arcadi hanno, infatti, capito che il mezzo più sicuro per contrastare l’aggressione spartana è l’alleanza con lo Stato beotico[67]. Agesilao si vede così protagonista dell’estrema difesa di Sparta contro i soldati tebani, penetrati a fondo nella Laconia – fatto inaudito – sotto la guida di Epaminonda (370/69 a.C.). Se la città, che per mancanza di mura è alla mercé dei nemici, riesce a salvarsi, il merito è del sangue freddo ed del talento organizzativo del suo vecchio re; nel momento di maggior pericolo egli trova anche la forza d’animo sufficiente a spegnere le prime scintille di una sedizione con un intervento discreto ma deciso. Rallegrarsi della salvezza materiale di Sparta è un lusso che l’azione risoluta di Epaminonda non lascia ad Agesilao: dopo essersi allontanato dalla città il generale tebano punta sulla Messenia e affranca questa regione dalla secolare sottomissione a Sparta, in modo da sottrarre ai nemici le forze residue scardinandone la struttura sociale (primavera 369 a.C.). Come Epaminonda aveva previsto, la perdita della forza lavoro rappresentata dagli iloti messenici precipita lo Stato lacedemone nella sua crisi più profonda, ingigantita dopo poco da una seconda invasione beotica. Sparta si salva anche questa volta, ma è in agonia.
Archidamo III di Sparta. Busto, marmo bianco. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Gli anni successivi vedono Tebe, padrona del campo, invadere per due volte il Peloponneso, mentre la città dell’Eurota è disperatamente impegnata nel tentativo di recuperare la perduta potenza e ostinatamente decisa a respingere qualsiasi proposta di pace che imponga la rinuncia alla Messenia. La seconda circostanza accresce fatalmente l’isolamento di Sparta.
Per Agesilao si possono registrare alcune azioni significative e, soprattutto, una dedizione alla causa patria e un senso del sacrificio personale decisamente ammirevoli. Nel 367 a.C. impiega il suo prestigio diplomatico in una vicenda asiatica, intervenendo in favore del satrapo di Frigia, Ariobarzane, allora in contrasto con il Gran Re. La missione è un successo: l’influsso del re spartano dissuade i fedeli del gran re, tra cui Mausolo di Alicarnasso e il re dei traci Odrisi, Kotys, da azioni contro il ribelle, e questo nonostante gli ottimi rapporti che allora intercorrono tra i Tebani e il Gran Re. Il ricco premio in denaro riscosso per il suo impegno gli consentì, una volta tornato in patria, di risollevare una Sparta ormai disorientata[68]. Agesilao difende nuovamente la patria in occasione della quarta invasione del Peloponneso da parte dei Tebani, poco prima della battaglia di Mantinea (362 a.C.); anche in questo caso la sua saggia tattica preserva la città dalla rovina[69]. La battaglia di Mantinea non vede la sua partecipazione, ma egli è il primo a opporsi alla pace, che comporterebbe per Sparta la rinuncia alle ambizioni di possesso sulla Messenia. L’atto conclusivo della vita di Agesilao è una spedizione in favore di Teos, sovrano dell’Egitto per un breve tempo in anni di complessi movimenti in tutto l’Oriente. Questi si era ribellato al potere del re di Persia e, cercando supporto nella sua guerra per il primato, aveva chiamato a sé personaggi come l’ateniese Cabria, allora esule, e lo stesso Agesilao. Per Sparta lo scopo di questa missione è manifestamente quello di procurarsi fondi nella disperata condizione economica in cui l’aveva precipitata la perdita della Messenia[70]. La spedizione egiziana fa molto onore ad Agesilao, che per il bene della patria si accolla gli oneri di una spedizione mercenaria in età avanzata, meno a Sparta, che svende i gioielli dell’educazione militare al primo offerente perché incapace di adattarsi alla perdita della Messenia e di trovare un sistema di sostentamento alternativo allo sfruttamento degli iloti.
Nectanebo II. Testa, grovacca, Periodo tardo, XXX dinastia (380-332 a.C.). Lyon, Musée des beaux-arts
Agesilao si fa valere come stratega, ma tiene un comportamento inqualificabile: forse deluso dalla scarsa attenzione riservatagli dal committente, lo abbandona a guerra in corso e passa improvvisamente dalla parte del cugino di questi, Nectanebo II, che sostiene militarmente con un certo successo; il re, soddisfatto, lo lascia andare con ricche prebende, destinate a dare respiro a una Sparta in bancarotta. Di ritorno dalla spedizione egiziana, Agesilao si spegne sulla costa della Libia e da qui il suo corpo viene ricondotto in patria, cosparso di cera affinché si conservi durante il viaggio (circa 360 a.C.); a Sparta egli ricevette sicuramente gli onori straordinari tributati in questa città ai re morti, in pomposi funerali che, possiamo ben immaginare, furono malinconici come mai altri nella pólis di Licurgo.
[3] L’infermità, ancorché visibile, non poteva essere grave, perché gli autori antichi affermano concordemente che Agesilao completò con successo il percorso educativo tipico per i giovani spartani: una riuscita in un contesto in cui la fisicità giocava un ruolo tanto importante è impensabile per una persona parzialmente inabile.
[6] Da Plutarco, Vita di Agesilao II 1 ricaviamo che Lisandro aveva il ruolo di amante (erastḗs), riservato al più anziano della coppia; sempre secondo Plutarco, il rapporto iniziò mentre Agesilao era educato tra i ragazzi, quindi adolescente.
[13] Sull’influenza degli efori nelle questioni sulla genuinità di uno dei sovrani cfr. Platone, Alcibiade 121b–c. Un’analisi moderna del tema è in Luria S., op.cit., pp. 406 sgg.
[22] Cfr. Senofonte, Elleniche III 4, 2; Plutarco, Vita di Lisandro XXI 2-3.
[23] L’interpretazione è già in Senofonte, Elleniche III 4, 2-3.
[24] Cfr. Senofonte, Elleniche III 4, 4; Plutarco, Vita di Agesilao VI 11.
[25] Sulla lite tra Agesilao e Lisandro cfr. Senofonte, Elleniche III 4, 7-10; Plutarco, Vita di Agesilao VII 1-8, 6; Vita di Lisandro XXIII 5-XXIV 2.
[26] L’armistizio precede la lite con Lisandro, cfr. Senofonte, Elleniche III 4, 5-6.
[27] Sull’attacco alla Frigia cfr. Senofonte, Elleniche III 4, 11-15; Diodoro, XIV 79, 3.
[28] Sulla campagna nella regione di Sardi cfr. Senofonte, Elleniche III 4, 20-29; Elleniche di Ossirinco 11-13; Diodoro, XIV 80, 1.
[29] Sulle differenze tra il racconto di Senofonte e quello degli altri autori limitatamente alla battaglia del Pattolo, cfr. Luppino Manes E., op.cit., pp. 125-126.
[30] Sulla sostituzione e morte di Tissaferne cfr. Senofonte, Elleniche III 4, 25; Diodoro, XIV 80, 6-8; Plutarco, Vita di Agesilao X 5-7; Vita di Artaserse XXIII 1.
[31] Cfr. Senofonte, Elleniche IV 1, 1-41; Elleniche di Ossirinco 24; Diodoro, XIV 80, 8; Plutarco, Vita di Agesilao XI 1-12, 7.
[32] Cfr. Senofonte, Elleniche IV 2, 1-8; Diodoro, XIV 83, 1; Plutarco, Vita di Agesilao XV 1-8.
[33] Cfr. Senofonte, Elleniche III 5, 6; Diodoro, XIV 81, 2; Plutarco, Vita di Lisandro XXVIII 1-12.
[34] cfr. Senofonte, Elleniche IV 3, 3-9; Plutarco, Vita di Agesilao XVI 5-8.
[38] Plutarco (Vita di Agesilao XX 3) colloca l’evento tra la battaglia di Coronea e la spedizione contro Argo e Corinto del 391 e 390 a.C. Dalle altre fonti non si può dedurre un’indicazione concreta sulla data.
[39] Plutarco, Vita di Agesilao XX 3-7; Vita di Lisandro XXV 1; 30, 3; Cornelio Nepote, Vita Lysandri V 3; Diodoro, XIV 13, 1-8.
[40] Plutarco, Vita di Lisandro XXIV 1-XXVI 6 attribuisce a Lisandro una congiura di proporzioni colossali, preparata dal generale fin nei minimi particolari: alcuni elementi nel suo racconto non possono essere frutto di invenzioni malevole. Uomo notoriamente ambizioso, Lisandro vedeva un limite alle sue possibilità di successo politico nel suo status di semplice spartiate, perché il comando supremo e la massima autorità in guerra erano a Sparta prerogative dei soli re. Né grande doveva essere la sua affezione per il kósmos licurgheo: la sua grande vittoria sugli Ateniesi era stata conseguita con mezzi che nessuno avrebbe detto tipici della tradizione spartana, dalla preponderanza concessa al conflitto per mare e di logoramento rispetto alle battaglie terrestri e “agonali” fino alla manipolazione di ingenti capitali provenienti dalla Persia (si questi temi resta sempre ammirevole la sintesi di Berve H, op.cit., pp. 175-185). Si aggiunga che, dopo l’incidente in Asia, egli si vedeva privato del sostegno di Agesilao, trasformatosi da amico in avversario, e costretto a recuperare terreno dopo evidenti segni di ostilità da parte delle autorità. Infine, la congiura di Cinadone faceva pensare che a Sparta fossero attivi i fermenti per un mutamento radicale dell’ordine costituito. Giocare la carta della rivoluzione a questo punto avrebbe avuto senso, anche se bisogna ammettere che una simile azione, portata avanti in maniera tanto clamorosa, sembrerebbe in contrasto con la prudenza usualmente dimostrata da Lisandro.
[41] Teopompo di Chio (FGrH 115 F 231). Plutarco cita questa affermazione nel corso della descrizione della campagna asiatica di Agesilao (395/94 a.C.); è probabile che già nell’originale una tale considerazione si riferisse al prestigio di Agesilao nel periodo immediatamente precedente o successivo alla battaglia di Coronea.
[42] La prima spedizione, che aveva come obiettivo primario Argo, si concluse con una devastazione del territorio corinzio. La seconda era fin dall’inizio rivolta contro la città dell’Istmo. Il racconto più dettagliato è in Senofonte, Elleniche IV 4, 19-5, 18; da confrontare Diodoro, XIV 86, 5.
[44] Senofonte, Elleniche IV 5, 11-18; Diodoro, XIV 91, 2.
[45] Se ne avverte un’eco nell’orazione che il retore ateniese Andocide pronunciò, probabilmente prima della trattativa per la pace tenutasi nel 392 a.C., per convincere i suoi concittadini a venire a patti con Sparta; non sarebbe, infatti, stato opportuno persistere nell’ostilità contro gli Spartani che «hanno già vinto tre volte in battaglia», ossia a Corinto, a Coronea e presso il Léchaion «senza mai essere stati sconfitti» (Andocide, Sulla pace con Sparta, 18-19).
[46] Il contingente di stanza presso Corinto, dalle cui fila proveniva la móra distrutta, aveva fino a poco tempo prima ostentato sdegnoso disprezzo verso i peltasti in attività sul territorio corinzio (Senofonte, Elleniche IV 4, 17).
[47] Proprio nel 389, in contemporanea con l’impegno di Agesilao in Acarnania (Senofonte, Elleniche IV 6, 1-4; 7 1), il re della linea Agiade, Agesipoli, compie una spedizione contro Argo.
[49] Basti pensare che con una contestazione della politica spartana si apre il documento di fondazione della Seconda Lega Navale ateniese (377 a.C.: SIG3 I, 147).
[64] Senofonte (Elleniche V 4, 34) sposta l’attenzione su quanti fra gli Ateniesi parteggiavano per i Beoti, e li descrive intenti a spiegare al popolo che gli Spartani «avevano fatto ben altro che punire Sfodria: lo avevano addirittura encomiato». In realtà, il popolo ateniese non aveva bisogno di essere sobillato dai filo-tebani: la reazione sconsiderata al colpo di mano di Sfodria dimostrava che Sparta non meritava più alcuna fiducia come alleato. La memoria dell’evento e la rabbia per l’avvenuto rimangono immutate negli Ateniesi anche a distanza di qualche anno: cfr. Senofonte, Elleniche V 4, 63.
[65] Cfr. Diodoro, XV 53, 1 sgg.; Senofonte, Elleniche VI 3, 6-15; Plutarco, Vita di Pelopida XXIII 1 sgg.
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