ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
A giudicare dal metro – l’esametro dattilico – questo frammento, che è forse il più noto di Alcmane, doveva provenire da un προοίμιον citarodico, ovvero da un assolo eseguito dal χοροδιδάσκαλος, che fungeva da introduzione al partenio. Rivolgendosi al coro delle fanciulle, l’esecutore maschile (il poeta stesso?) lamenta la debolezza fisica che gli impedisce di unirsi alle fanciulle in danza, rimpiangendo di non possedere più lo stesso vigore di un tempo e vagheggia di trasformarsi nel «sacro uccello colore di mare», il cerilo, che volteggia sul fiore dell’onda insieme con le femmine, le alcioni. Questa la lettura più credibile del testo di Alcmane, sulla cui interpretazione ha gravato la fantasiosa notizia del paradossografo e teratologo ellenistico Antigono di Caristo (Libro delle meraviglie, 23 ss.), il testimone principale, che cita questi versi per suffragare una tradizione secondo la quale il cerilo, l’alcione maschio, quando per la vecchiaia perde le forze e non riesce più a volare, viene preso sulle ali e trasportato a volo dalle femmine. Interpretazione piuttosto bislacca, in quanto qui il cerilo è visto in atto di volare, non di essere trasportato (D. Page annota giustamente: «ἅμ᾽ ἀλκυόνεσσι ποτῆται, non φορεῖται hic cerylus»). Non si tratta quindi, da parte del poeta, del desiderio di essere trasportato alla danza dalle ragazze del coro (apostrofate al v. 1), quanto piuttosto dello struggimento per la propria menomazione fisica e del rimpianto per la giovinezza perduta.
[1]vv. 1-4«Non più (con οὐ in rilievo in principio di verso e forte stacco rispetto a φέρην δύναται del v. 2), vergini (παρσενικαὶ = παρθένοι) dal canto soave (μελιγάρυες = μελιγήρυες, propriamente “dalla voce di miele”; cfr. Od. XII 187, dove l’aggettivo è riferito al canto delle Sirene) e dal canto sacro (ἱαρόφωνοι = ἱερόφωνοι), le membra hanno forza di portarmi (φέρην = φέρειν; cfr. Sapph. F 58, 15 V γόνα δ’ ο]ὐ φέροισι); fossi, oh fossi (βάλε = lat. utinam, è una forma di imperativo, forse di βάλλω, cristallizzatasi in congiunzione desiderativa) un cerilo (κηρύλος, maschio dell’alcione secondo Antigono, mentre due scoli a Teocrito sostengono che l’alcione prende il nome di “cerilo” nella vecchiaia: cfr. Calame, 473-475), che (ὅς τε: τε è il cosiddetto “τε epico” e ha valore generalizzante, indicando una condizione o attività abituale) sul fior dell’onda (metafora che indica la schiuma delle onde, cfr. Callim. F 260, 57 Pf.) vola (ποτήται = ποτᾶται, πέτεται) insieme con le alcioni con cuore intrepido (νηδεὲς dal prefisso negativo νή + δέος, hapax; cfr. Aristoph. Av. 1376; è correzione di J.F. Boissonade per νηλεές, “spietato”; cfr. Il. XIX 229; IX 497 –, accolto da alcuni editori tra cui Calame, o ἀδεές, tramandati rispettivamente da Antigono e da Fozio),sacro (ἱαρὸς = ἱερὸς, cfr. Riano F 73, 3 P probabilmente in relazione alla leggenda – attestata a partire da Simonid. F 508 – delle “giornate alcionidi”, cioè della quiete marina che si avrebbe al tempo del solstizio d’inverno per consentire all’alcione di nidificare; peraltro, ἱαρὸς è correzione di A. Hecker, mentre la tradizione – Antigono, Fozio, Ateneo – riporta concordemente εἴαρος, e questa lezione ha trovato consensi anche col richiamo a Sapph. F 136 V) uccello dal cangiante colore del mare (ἁλιπόρφυρος, < ἅλς + πορφύρω; cfr. Od. VI 53; XIII 108; Anacr. PMG 447)».
Elihu Vedder, Le Pleiadi. Olio su tela, 1885. New York, Metropolitan Museum of Art.
Ricordava Gennaro Perrotta che «quando un Greco diceva “vorrei essere un uccello”, la frase aveva un senso ben diverso da quello che ha per noi: voleva dire che era al colmo dell’infelicità e voleva divenire un essere irragionevole, per non soffrire»: si tratta in effetti di un tópos che ricorre in Anacreonte (PMG 378) e in vari luoghi di Euripide (Hipp. 732 ss.; 1292-1293; Med. 1297; HF 1157-1158; vd. Di Benedetto 1971, 263), ma in Alcmane il riferimento al cerilo mostra un’evidente connotazione positiva, come figura di un desiderio sia pure irrealizzabile, e sembra piuttosto comparabile – per quanto riguarda il nesso fra l’assimilazione a un animale alato e la liberazione dalla vecchiaia – con l’aspirazione, espressa da Callimaco, nel prologo degli Aitia (F 1, 31-36 Pfeiffer), a essere come una cicala:
θηρὶ μὲν οὐατόεντι πανείκελον ὀγκήσαιτο
ἄλλος, ἐγ]ὼ δ’ εἴην οὑλ[α]χύς, ὁ πτερόεις,
ἆ πάντως, ἵνα γῆρας ἵνα δρόσον ἣν μὲν ἀείδω
πρώκιον ἐκ δίης ἠέρος εἶδαρ ἔδων,
αὖθι τ δ ’ ἐκδύοιμι, τό μοι βάρος
ὅσσον ἔπεστι τριγλώχιν ὀλοῷ νῆσος ἐπ’ Ἐγκελάδῳ.
Nomos, Metaponto c. 500 a.C. AR 8,05 g. Recto: META(ΠOΝΤΙΟΝ), una spiga di grano con cavalletta/cicala.
Altri ragli simile in tutto alla bestia orecchiuta, ma io
sia il minuscolo alato animaletto – ah, sì! Davvero! –
perché la vecchiaia, perché la rugiada – cibandomi di
questo cibo distillato dall’etere divino io canti ma per
contro mi spogli di quella che addosso mi pesa
quanto l’isola a tre punte pesava su Encelado sciagurato.
Dibattuta l’identificazione dell’io: il disegno metrico (esametri dattilici) e la testimonianza di Antigono («[Alcmane] dice così essendo debole a causa della vecchiaia e non potendo partecipare ai cori né alla danza delle fanciulle») ha indotto a più riprese a ricondurre il brano a un προοίμιον, a un preludio citarodico per un partenio (destinato a essere eseguito subito dopo), e forse non è un caso che troviamo un’allocuzione a un coro di giovani coreute da parte del poeta alla fine (vv. 156 ss.) della sezione delia dell’inno omerico Ad Apollo (che in realtà era propriamente un προοίμιον, non diversamente da tutti i più antichi e più estesi inni detti “omerici”). Assai meno verosimile, in quanto priva di riscontri, parrebbe invece l’ipotesi secondo cui l’apostrofe era diretta alle coreute da un corego o da un χοροδιδάσκαλος diverso dal poeta (è semmai il coro a potersi eventualmente rivolgere al suo corego). «Alcmane guida i virginei cori: / “Voglio con voi, fanciulle, volare, volare a la danza, / come il cèrilo vola tratto da le alcioni: / vola con le alcioni tra l’onde schiumanti in tempesta, / cèrilo purpureo nunzio di primavera”»: traduzione “bella e fedele”, il Cèrilo (vv. 12-16), tratto dalle carducciane Odi barbare, costituisce la più famosa tra le riprese di questi celebri versi. Eppure, anche nell’antichità questo brano alcmaniano doveva essere famoso, come mostrano tra gli altri i riecheggiamenti in Saffo (F 58, 11-16 Voigt), negli Uccelli di Aristofane (vv. 250-251) e in Apollonio Rodio (IV 363).
Herbert James Draper, Halcyone. Olio su tela, 1915
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Bibliografia:
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GRESSETH G.K., The Myth of Alcyone, TAPhA 95 (1964), 88-98.
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NERI C. (ed.), Lirici greci. Età arcaica e classica, Roma 2011, 98; 273-274.
TSITSIBAKOU-VASALOS E., Alcman: Poetic Etymology Tradition and Innovation, RCCM 43 (2001), 15-38
VESTRHEIM G., Alcman fr.26: A Wish for Fame, GRBS 44 (2004), 5-18.
di F. FERRARI et al., Bibliothèke. Storia della letteratura, antologia e autori della lingua greca. Per il Liceo classico. Con espansione online – vol.1. Ionia ed età arcaica, Bologna 2012, 454-458.
Trasmesso da un papiro degli inizi del II secolo d.C. pubblicato da Edgar Lobel nel 1957, anche questo componimento, come il precedente Partenio del Louvre, è legato a una situazione cultuale: fa dunque parte di un’ “azione” di omaggio e di lode nei confronti di una divinità, e a sua volta quest’azione appare inserita nel panorama di una festa che prima e dopo il canto comprendeva altri momenti, altre stazioni di un percorso rituale che poteva durare più ore o più giorni. Da quanto ci resta, non possiamo accertare di quale festa precisamente si trattasse, ma è verosimile che il termine ἀγῶνα al v. 8 sia da interpretare nel senso di una competizione fra due o più gruppi corali. In tal caso il nome della divinità cui l’agone e la festa erano dedicati doveva trovarsi nella lacuna a principio del medesimo verso. Non è più che un’ipotesi che questo nome fosse Ἄνθεια, l’epiteto con cui sappiamo che Hera era venerata ad Argo (cfr. Paus. II 22, 1) e a Mileto, ma la presenza al v. 65 del termine πυλεών («corona») associa alla notizia del lessicografo Panfilo (in Athen. XV 678a), secondo il quale era così designata la corona con cui i Laconi erano soliti ornare la statua di Hera, e a un frammento di Alcmane in cui il coro invoca la divinità mentre le offre appunto un πυλεών (F 60 Davies, καὶ τὶν εὔχομαι φέροισα/τόνδ’ ἑλιχρύσω πυλεῶνα/κἠρατῶ κυπαίρω «E t’invoco recando questa corona di elicriso e d’incantevole cipero»), sembra corroborare l’ipotesi (W.S. Barrett, [review] The Oxyrhynchus Papyri XXIV, Gnomon 33 [1961], 683), secondo cui Astimelusa – la corega che dirige il coro delle fanciulle – si muove attraverso lo spazio di danza recando alla dea quest’offerta floreale.
Le coreute, come nel Partenio del Louvre, si confrontano con la loro maestra e guida, con la loro χοραγός, ma questo rapporto fra chi guida e chi segue, chi insegna gesti e movimenti e chi li replica nella linea o nel cerchio del gruppo viene trasposto nel linguaggio di una relazione d’amore: è subito un’emozione diretta al «diaframma» (cfr. φρένας v. 1), forse un ἵμερος («desiderio») ipotizzato nella lacuna a principio del v. 2, a dissipare dalle palpebre delle ragazze il dolce sonno e a spingerle a muovere alla gara (vv. 7-8); ed è uno struggimento che scioglie le membra, più irresistibile del sonno stesso e della morte, quello che emana dallo sguardo di Astimelusa. E la convenzione per cui il corego non era solito rivolgersi ai propri coreuti (sono piuttosto questi ultimi che usano indirizzarsi in vario modo al corego) viene prospettata come rifiuto, da parte di Astimelusa, a ricambiare lo slancio amoroso delle fanciulle del coro (οὐδὲν ἀμείβεται v. 64), mentre la circostanza che ella – non diversamente dalla corega Agesicora nei confronti di Agidò nel F 1 Davies – si colloca vicino a un’altra figura femminile estranea al coro, forse una sacerdotessa, è sentita dalle coreute come ragione del loro anelito frustrato, della loro inappagabile speranza che Astimelusa le prenda per mano. Infine, lo stesso contatto che collega, attraverso l’azione rituale, Astimelusa alla comunità cittadina, tanto che ella è vista immergersi nella folla (κατὰ στρατόν v. 73), si configura in un’analoga prospettiva erotica: la corega è, infatti, definita, con un’interpretazione etimologica del suo nome (v. 74), luminoso «oggetto di desiderio» per tutti i partecipanti alla festa.
Una permeabilità fra pubblico e privato, fra elemento rituale e microcosmico femminile che conferma tratti che erano apparsi sconcertanti nel Partenio del Louvre ma che, dopo la scoperta di questo nuovo documento, possono più facilmente essere decifrati se da un lato li riconduciamo alla funzione iniziatica e paideutica che non meno che dai tiasi di Lesbo veniva assolta dalle comunità femminili spartane (nel cui ambito l’ungersi di profumi, l’apprendere a danzare e a cantare, lo sperimentare le alterne vicende dello sguardo, della conquista e della separazione non costituivano passatempi individualistici ma momenti di una formazione destinata a preparare la παρθένος ad assumere il proprio ruolo di γυνή nella comunità cittadina) e dall’altro li consideriamo nel quadro delle potenzialità espressive del canto melico arcaico: un canto che non appiattisce il suo profilo nella funzione di scandire e accompagnare i dati programmatici della festa ma, senza mai svincolarsi completamente da essi, li rimodella e li reinterpreta trasformando situazioni concrete in immagini e metafore, costrizioni di regia in costellazioni di sentimenti. Tra la funzione pratica del far poesia a servizio del culto e la “letteratura” come fruizione libresca sta una vasta gamma di soluzioni e di risorse all’interno delle quali sperimenta i suoi molti sentieri la lirica greca arcaica.
Con la metamorfosi operata sulle articolazioni del rituale appare congruente l’aspetto stilistico della poesia di Alcmane. Il recupero di modelli del linguaggio amoroso (lo sguardo, il tenere per mano) o la loro esasperazione (la morte che si associa al sonno come termine di dolcezza struggente: cfr. la nota ai vv. 61-63), la finzione per cui lo schema tradizionale dell’invocazione alla Musa viene trasformato nel desiderio di ascoltarne il canto (un canto che si identifica con quello delle coreute già stanno cantando: cfr. anche per la ripresa pindarica della Nemea III, 1-9), la barocca interazione di immagini per cui un profumo di Cipro è definito «umido fascino leggiadramente chiomato di Cinira» (vv. 64-72), l’iridescente alternanza di dichiarazioni programmatiche, descrizioni, appelli accorati, l’amplificazione paratattica del paragone (tre elementi in rapida successione, ai vv. 66-68, per designare l’immagine di Astimelusa: stella, pianticella, piuma) attraverso richiami di analogica immediatezza, sono tratti che contribuiscono a costruire un coerente discorso poetico che, mentre assolve al compito di ripetere atti e tempi registrati sul calendario delle feste spartane – un ruolo esplicitamente ricordato a proposito di Alcmane da un anonimo grammatico in P. Oxy. 2506, F1, col. II rr. 30-34 = T A2: «I Lacedemoni a quel tempo assegnarono ad Alcmane, benché fosse lidio, il ruolo di maestro [διδάσκαλον] dei cori tradizionali [πατρίοις χοροῖς] di fanciulle e di adolescenti» –, riesce nel contempo a comunicare l’impressione che ogni cosa avvenga per improvvisi trasalimenti e personalissime emozioni delle coreute.
Pittore dei Niobidi, Coro di fanciulle (dettaglio). Pittura vascolare da un calyx-krater attico a figure rosse, c. 460-450 a.C., da Altamura, Puglia. London, British Museum
Pittore di Londra D12. Coro di ragazze. Pittura vascolare da una phiale attica con fondale bianco, V sec. a.C. Boston, Museum of Fine Arts.
[1]vv. 1-9 Il componimento si apre con un’invocazione alle Muse: qui le coreute vorrebbero ascoltare la voce (ὀπός) delle dee pronte a intonare un bel canto, e questo canto dissiperà il dolce sonno dalle loro palpebre e le spingerà a radunarsi nello spazio della danza per dare inizio all’esecuzione, agitando la bionda chioma. Il modulo per cui in principio di componimento la Musa (o le Muse) viene invocata di partecipare alla festa trova paralleli nella produzione pindarica (Olym. XI 16 ss.; Pyth. IV 1 ss.; Nem. IX 1 ss.), ma, in particolare, l’idea che i coreuti sono in attesa di udire il canto della Musa (elaborata sceneggiatura che sottintende in realtà un riferimento al canto che i coreuti già stanno eseguendo) compare in Nem. III 4-5, dove è detto che i giovani cantori egineti sono in attesa presso l’acqua asopia (una fontana eginetica) «agognando la voce» (ὄπα μαιόμενοι) della Musa (cfr. RFIC 118 [1990], 5 ss.). «‹O Muse› dell’Olimpo (per le Muse legate all’Olimpo, cfr. Il. II, 491; H. Herm. 450; Hes. Th. 25; 52; è probabile l’integrazione di A. Giannini e di D. Page Μώσαι = Mοῦσαι a principio del v. 1), me nel cuore ‹riempite› (D. Page ha pensato come verbo reggente a πίμπλατε «colmate» a principio del v. 3, connesso in tmesi con περί «attraverso», «da parte a parte») di un canto ‹…› (intendendo ἀοιδας al v. 2 come genitivo, anche se non si può escludere un accusativo plurale) e io ‹desidero› (nella prima parte del v. 3 doveva comunque essere incluso un verbo indicante desiderio, da parte delle coreute, di ascoltare il canto delle Muse) ascoltare la voce ‹verginale› (W. S. Barrett propone l’integrazione in forma laconica παρσηνΐας) ‹di voi› che intonate (ὑμνιοισᾶν = ὑμνουσῶν, trisillabo per consonantizzazione del primo iota di /ιοι/) un bel canto… dissiperà il dolce sonno dalle palpebre (γλεφάρων = βλεφάρων) e mi spinge ad andare (ἴμεν = ἰέναι) all’agone (ἀγῶν (α), nel senso di «gara» o di «luogo della gara», anche se non si può escludere il valore omerico [cfr. Il. XXIII 258; Od. VIII 200] di «raduno»; notevole in ogni caso l’affinità di prospettiva e di espressione, con Pind. Paean. VI 58-61: «La mia lingua brama di [versare] il dolce fiore del miele, ora che sono giunto all’agone in onore del Lossia nella festa dove gli dèi sono ospiti»: un confronto che, fra l’altro, suggerisce di integrare il genitivo del nome di una divinità in principio del v.8, ad esempio Ἀνθεία]ς «della Floreale», cioè un epiteto con cui sappiamo che Hera veniva onorata ad Argo, nel senso di un «agone in onore di…», cfr. anche Pind. Nem. II 23 Διὸς ἀγῶνι; Pyth. VIII 79 Ἥρας τ’ ἀγῶν’) dove (ἇχι = ἧχι, integrazione di Page: da ἧ, «dove», e suffisso avverbiale –χι) ‹al più presto› (con τά]λ ιστα di Barrett) agiterò la bionda chioma».
[2]vv. 10-61 Poiché la struttura strofica ci permette di ricostruire l’altezza delle colonne del papiro (trenta righe ciascuna), possiamo accertare che fra il v. 10, ultimo verso superstite del F 1 [vv. 1-10], e il primo rigo del F 3, col I. [vv. 31-37], intercorrevano venti versi. Di questa colonna I del F 3 sopravvivono solo tracce insignificanti del margine destro fino al r. 7, mentre nulla rimane dei restanti ventitré versi. Il testo riprende a correre integro, o quasi, a partire dal primo rigo della col. II (vv. 61-85). Di tutta la parte fra il v. 10 e il v. 61 restano così solo la fine del v. 10, ἁπ]αλοὶ πόδες («teneri piedi») – un nesso formulare epico (Il. XIX 92; H. Dem. 287; H. Herm. 273) che smembrato e dislocato, appare riferito a giovani coreute anche in fr. lesb. incerti auctoris 16 – e al v. 34 sulla base dello scolio sul margine (κρυερά· ψυχρά), la presenza dell’aggettivo κρυερά «gelida», o «gelidi» se neutro plurale.
[3]vv. 61-85«… e col desiderio (πόσῳ = πόθῳ) che scioglie le membra (λυσιμελεῖ <* λύω «io sciolgo» e μέλη «membra»; cfr. Hes. Th. 120-121; Archil. F 196 W2; Sapph. F 130, 1 V; Carm. pop. 873, 3-4; nell’Od. XX 57 e XXIII 343, l’aggettivo appare riferito al sonno e interpretato come λύων τὰ μελεδήματα, «che dissolve le ansie»), e guarda verso di me (ποτιδέρκεται = προσδέρκεται) in modo più struggente (τακερός è legato etimologicamente con il verbo τήκειν, «liquefare»: cfr. Anacr. PMG 459) del sonno (ὕπνω = ὕπνου) e della morte (σανάτω = θανάτου: poiché il sonno viene spesso sentito come simbolo di dolcezza, e poiché sonno e morte sono spesso associati o identificati – il «sonno della morte» compare in Esiodo F 278, 13 M.-W. e, implicitamente, in Il. XI 241 – anche la morte viene attratta, per analogia, nella sfera erotica) e per nulla falsamente (οὐδέ τι μαψιδίως intensifica la dichiarazione assicurandone la veridicità secondo un modulo che si ritrova nell’ἀδόλως, «senza inganno», di Sapph. F 94, 1 V) quella (κήνα = ἐκείνη; secondo C. Calame, «il dimostrativo κήνα sarà stato utilizzato qui a preferenza di αὕτα perché Astimelusa è in qualche modo estranea al gruppo delle coreute. Il verso seguente lo mostra: ella non dà loro risposta») ‹è› dolce (γκυκῆα = γλυκεῖα). Ma Astimelusa (Ἀστυμέλοισα = Ἀστυμέλουσα) non mi risponde nulla (la lode del coro è come una dichiarazione amorosa, ma la corega prosegue imperturbata le sue evoluzioni di danza, assorta nell’eleganza dei propri gesti; il suo silenzio nei confronti delle compagne suscita in esse un senso di frustrazione accorata: si ha così, credo, da parte del poeta anche una traduzione in termini psicologici del dato convenzionale per cui nel canto corale non avviene che il corego si rivolga ai coreuti, ma solo l’inverso) ma tenendo (ἔχοισα = ἔχουσα) quella (τὸν dimostrativo) corona come (ὥ, forma dorica per ὡς) una stella che vola attraverso (διαιπετής, aggettivo di formazione discussa e altrove non attestato, anche se in Eurip. F 971 N2 troviamo διοπετής proprio in nesso con ἀστήρ, e anche se Omero conosce come epiteto di fiumi l’aggettivo διιπετής – ma in H. Aphr. 4 è riferito agli uccelli – già dagli antichi interpretato come formato su Διί, dativo di Ζεύς, e radice a grado debole di πίπτω, «io cado», e quindi nel senso di «caduto dal cielo») il cielo (ὠρανῶ = οὐρανοῦ) scintillanteo un aureo (χρύσιον = χρύσεον, in quanto «eccellente», con una sorta di paragone di secondo grado, una metafora all’interno della similitudine) virgulto o una morbida piuma (in Alcmane il termine ψίλον – secondo Adler – ha una risonanza particolare in quanto, secondo la testimonianza della Suda s.v. ψιλεύς il poeta chiamava φιλόψιλος «colei che ama fare la piuma», la ragazza che amava essere collocata alla testa del coro)…ha attraversato con gli agili piedi… l’umida grazia di Cinira (Κινύρα genitivo di Κινύρας = Kινύρου: ricercata perifrasi per denotare un «profumo cipriota»; Cinira era, infatti, un leggendario principe di Cipro noto per la sua ricchezza e per aver goduto dei favori di Afrodite, e l’isola era celebre per le sue essenze) si posa (ἵσδει = ἵζει) sulle chiome delle vergini (παρσενικᾶν = παρθένων)…Astimelusa… (il verbo principale, che doveva descrivere l’azione della corega, era forse in principio del v.74: ἔρχεται «va», proposto da D. Page) in mezzo alla folla (στρατόν, con un valore del termine attestato in Eschilo e in Pindaro)… cura (μέλημα, oggetto di desiderio, come in Ibyc. F 288; Pind. Pyth. X 59; F 95, 4-5) del popolo (come dice il suo nome, che significa «colei che sta a cuore alla città»: l’intenzionale gioco di parole viene rincalzato dalla prossimità del nome proprio), avendo preso (ἑλοῖσα = ἑλοῦσα)… dico… oh se davvero (<* ἆ interiettivo + βάλε «oh, se!», lat. utinam)… la coppa d’argento (a proposito di coppe messe in palio per i vincitori di un agone cfr. Pind. Olym. IX 90)… vedessi (ϝίδοιμι: Calame, 416 preferisce leggere ϝίδοι μ’ “«mi vedesse»): se mai (αἴ πως = εἴ πως; protasi del periodo ipotetico della possibilità, la cui apodosi è incentrata su κ’…γενοίμαν, v. 81), o dèi diletti (με σιοὶ φίλοι, che Page e Davies leggono anche μεσιον φιλοῖ),avvicinandosi mi prendesse (con accusativo della persona e genitivo della parte del corpo) per la mano delicata, subito (αἶψα) iodiventerei supplice (la ricostruzione ἱ]κ έτις di Lobel è stata criticata da Calame, ma resta molto probabile) dilei». I resti di questa strofe suggeriscono che le coreute passassero alla descrizione della fanciulla preferita da Astimelusa così come nel F 1 Davies esse passano a più riprese dalla lode della corega a quella di Agidò. νῦν δ᾿ («Ma ora») doveva marcare il contrasto fra il vagheggiamento delle coreute di essere prese per mano da Astimelusa e la realtà della situazione, in cui la corega resta lontana e irraggiungibile (παίδα βα[θ]ύφρονα è epiteto forse riferito a costei).
«[…] Polluce; [non sarò i]o a includere Liceso tra i battuti […] Enar]sforo e il piè veloce Sebro […] e il violento […] il corazzato ed Eutiche e il sire Areio […] e […] che tra i semidei risalta; […] il cacciatore […] grande ed Eurito […] tumulto […] e […] i migliori […] ometteremo […]. Destino [(e Via)] di tutti […] i più anziani [… sc]alzo vigore. Non vi sia uomo che voli nel cielo né che si provi a sposare Afrodite […] sig[n]ora o qualcuna […] o una figlia di Porco […]. Le Grazie, poi, la c[a]sa di Zeus, […] loro che hanno lo sguardo che accende il desiderio; […]issimi […] divinità […] ai cari […] doni […] (?) la giovinezza […]; l’uno per una freccia […] con macina marmorea […] Ade […]; pena insopportabile patirono per aver tramato il male.
Esiste una vendetta degli dèi; beato chi sereno [i]ntesse il proprio giorno senza pianto.
Ma io canto la luce d’Agidò: la vedo come il Sole, che Agidò per noi invoca a testimone, perché risplenda. Ma a me, no, non permette – quest’inclita corega – di elogiare costei né di biasimarla, in alcun modo: perché è lei che appare essere preminente, così come se si ponesse dentro alla mandria un cavallo solido, vincitore di gare, piè-sonante, di sogni d’oltreroccia. Come, non vedi? Il corsiero è enetico; e la chioma di questa mia cugina, Agesicora, è in fiore [c]ome oro ancora intatto; e il suo viso d’argento…, che cosa ancora dirti apertamente? Agesicora è questa. Dietro, Agidò, seconda per bellezza, correrà quale cavallo colassio con l’ibeno. Perché contro di noi, che un manto portiamo alla Mattutina nella notte d’ambrosia, nel far levare l’astro di Sirio, le Colombe combattono. Non c’è, infatti, di porpora quantità sufficiente per compensarci né il variegato serpente tutto d’oro o la mitra lidia delle giovani dallo sgua[r]do di viola adornamento, né i capelli di Nannò né, invero, Areta simile alle dee, né Silacide insieme a Cleesisera, né, giunta da Enesimbr[o]ta, potrai dire: “Astafide sia mia e mi adocchi Fililla e Demar[e]ta e l’amabile Iantemide”. È Agesicora, invece, che mi logora.
Infatti, lei, che ha le caviglie b[e]lle, Agesic[o]r[a], non è qui presente, rimane [accanto] ad Agidò [e] fa l’elogio del nostro banche[tto]. Ma delle […] dèi, ricevete: ché degli [d]èi è la fine e il fine. Capo[co]ro, vorrei dire, [i]o sono solo una fanciulla, invano emetto grida, civetta dalla trave. I[o], tuttavia, soprattutto ad Aotide desidero piacere: dei nostri affanni, infatti, è sempre guaritrice; ma in virtù [di] Agesicora le giovani mettono piede sulla pace amabile. Ché [a]l cavallo di volata [co]sì e […] occorre [a]l timoniere, anche su una nave […]; e lei delle Siren[i]di più canora […], perché sono dee, ma come undici fanciulle, […]; risuona, infatti, [… sull]e (?) correnti dello Xanto un cigno; lei, con la desiderabile, piccola chioma bionda […]».
P. Oxy. 24 2387 (I sec. a.C.-I sec. d.C. c.). Alcmane, Partheneion con marginalia.
Nel 1855, accanto alla seconda piramide di Saqqara (località egiziana non lontana dall’antica Menfi), lo studioso francese A. Mariette scoprì il frammento di un rotolo papiraceo del I-II secolo, oggi conservato al Louvre (𝑃. 𝐿𝑜𝑢𝑣𝑟𝑒 E 3320) e pubblicato nel 1863, le cui quattro colonne di scrittura – mutile la prima e soprattutto l’ultima, ben conservate quelle centrali – contengono un centinaio di versi, corredati da brevi commenti marginali (𝑠𝑐ℎ𝑜𝑙𝑖𝑎), di un partenio di Alcmane. Il componimento, indirizzato a una misteriosa dea dell’aurora (v. 62 Ὀρθρίαι, v. 87 Ἀώτι: forse Elena, che Pᴀᴜs. III 14-15 dice venerata nel bosco del Πλατανιστᾶς, oppure Afrodite) e ad altre divinità (vv. 82-83), e composto di almeno otto strofe (sempre sintatticamente collegate) di quattordici versi ciascuna, era destinato a un coro di ragazze, in occasione di una festa notturna estiva (παννυχίς, vv. 63-64), forse per un rito di passaggio dall’adolescenza alla maturità. È verosimile che la sezione mitica, di cui la prima colonna del papiro conserva la parte finale (vv. 1-35), fosse preceduta da un proemio alle Muse (come in 𝑃𝑀𝐺𝐹 3), verosimilmente contenuto, con l’inizio del racconto mitico, nell’𝑖𝑛𝑐𝑖𝑝𝑖𝑡 perduto (almeno sette versi, più facilmente 14+7). Incentrata sull’arroganza punita di Ippocoonte (il fratello illegittimo di Tindaro e Icario, che aveva scacciato i fratellastri da Sparta: cfr. Sᴛʀᴀʙ. X 2, 24, Ps.-Aᴘᴏʟʟᴏᴅ. III 123-125) e dei suoi figli (dodici secondo lo Pseudo-Apollodoro, venti secondo Dɪᴏᴅ. IV 33, 6), uccisi da Eracle e dai Tindaridi Castore e Polluce per aver negato loro ospitalità[1] (i sacrari funebri di sei di loro, secondo Pᴀᴜs. III 15, 1, sorgevano a nord-est della città, forse non lontano dal luogo della cerimonia), la saga era seguita da uno snodo sentenzioso (vv. 36-39) e quindi dalla celebrazione dei gesti rituali e della bellezza delle undici coreute (i cui nomi sono menzionati, con quello dell’“esterna” Enesimbrota, ai vv. 70-76), tra cui spiccano la splendida corega (v. 44 χοραγός), dal nome parlante di Agesicora (“Colei che guida il coro”), che canta con voce di cigno (v. 100), e Agidò, la più bella ed elegante del gruppo, fonte e oggetto di gelosia e desiderio, vero polo di attrazione di tutta la parte di “attualità” dell’inno. Sotto la loro 𝑙𝑒𝑎𝑑𝑒𝑟𝑠ℎ𝑖𝑝, probabilmente, il coro eseguiva un’offerta votiva (vv. 60-64) per la dea, e proprio Agidò, forse, affrontava il rito di passaggio previsto nella festa. Il carme è strutturato in tre momenti, ovvero il mito, la 𝑔𝑛𝑜́𝑚𝑒 e l’attualità (μῦθος, γνώμη, καιρός), codificati come gli elementi cardine della poesia corale successiva; a essi si aggiungono, in questo componimento, anche l’afflato religioso e l’(auto)celebrazione del canto (tutti elementi strutturali degli epinici di Pindaro e di Bacchilide). Il carme è una celebrazione per una dea, cui è dedicata la festa, e per un gruppo di ragazze, in una fase cruciale della loro crescita (il che spiega perché già gli antichi ritenessero i parteni componimenti per gli dèi e per gli uomini). Un segno sul margine della quarta colonna, di cui non resta altro, indica quasi certamente che l’inno si concludeva quattro righe dopo la fine della terza colonna (e, dunque, quattro versi dopo l’attuale v. 101).
La prima colonna del papiro parigino conserva, assai frammentaria, la conclusione della sezione mitica: vi è nominato Polluce (v. 1), il figlio di Tindaro, che nella peculiare versione del mito adottata da Alcmane (cfr. Eᴜᴘʜᴏʀ. fr. 29 Pow., Cʟᴇᴍ. 𝑃𝑟𝑜𝑡𝑟. 36, 2) partecipò, a quanto pare, con Eracle e il fratello Castore all’uccisione degli usurpatori Ippocoontidi e alla consegna dello scettro spartano al padre Tindaro (figlio di Ebalo come Ippocoonte), come racconta Ps.-Aᴘᴏʟʟᴏᴅ. II 7, 3. Dopo la menzione-preterizione di Liceso, un figlio di Derite e imparentato alla lontana con gli Ippocoontidi (Derite ed Ebalo erano entrambi nipoti di Amicle) e qui non incluso tra di loro, «i battuti» (v. 2), seguiva l’elenco dei dodici figli dell’usurpatore, di cui il papiro ha conservato cinque nomi, Enarsforo e Sebro (v. 3), Eutiche e Areio (v. 6) ed Eurito (v. 9), là dove la notazione sui «migliori» (v. 11 τὼς ἀρίστως), seguita da un altro verbo di preterizione (v. 12 παρήσομες), suggerisce che Alcmane non si soffermasse troppo neppure sui vincitori. Al vano tentativo di combattere contro Eracle fa probabilmente riferimento «lo scalzo vigore» (v. 15 ἀπ]έδιλος ἀλκὰ) e al tragico destino degli Ippocoontidi la menzione di Αἶσα (v. 13), cui – garantisce lo scolio – era associata quella di Πόρος (la «Via», intesa anche come «Espediente»), entrambi forse qualificati dall’epiteto γεραιτάτοι, «i più anziani» (v. 14) «di tutti» (v. 13: presumibilmente «gli dèi»). Ai vv. 16-25, con una tecnica che diverrà fissa nella poesia corale, la narrazione si interrompeva (i verbi ai vv. 16-17 rendono improbabile che il soggetto fosse ancora ἀλκὰ, da cui dipenderebbe il genitivo ἀνθ]ρώπων) per far posto a una riflessione morale (𝑔𝑛𝑜́𝑚𝑒), già topica all’altezza di Alcmane (cfr. per es. 𝑂𝑑. XV 329, XVII 565): non si deve presumere di volare sino al cielo né tentare di sposare Afrodite o un’altra dea o donna di conclamata beltà (vv. 16-21); tra le altre, erano nominate le Cariti «dallo sguardo che accende il desiderio» (ἐρογλεφάροι) e forse una figlia di Porco/Nereo, probabilmente l’oceanina Teti (vv. 19-21). L’ultima parte della prima colonna, alquanto danneggiata, conteneva forse una rassegna di morti più o meno eroiche (vv. 22-33), suggellata da una nuova γνώμη: il fatto che chi ha progettato il male (v. 35 κακὰ μησαμένοι) abbia ricevuto una pena a un tempo «insopportabile» e «indimenticabile» (vv. 34-35 ἄλαστα δὲ / ϝέργα πάσον; cfr. 𝐼𝑙. XXIV 105, 𝑂𝑑. IV 108, Hᴇs. 𝑇ℎ. 467) è garanzia che «esiste una vendetta degli dèi» (v. 36: nel concetto di τίσις è qui implicito anche quello di «giustizia» e la massima è sottolineata dalla struttura paromofonica e allitterante del verso), e che chi nel sereno e pio equilibrio della mente e del cuore (v. 37 εὔφρων) «intesse il proprio giorno» (v. 38 ἁμέραν [δ]ιαπλέκει) «senza lacrime» (v. 39 ἄκλαυτος; cfr. per es. 𝑂𝑑. IV 494) può dirsi a buon diritto «beato» (v. 37 ὄλβιος).
Tale gnomica teodicea inaugura la seconda e la quarta tra le strofe conservate, dove ha luogo il passaggio, proprio attraverso la γνώμη, dalla narrazione mitica alla celebrazione dell’attualità: «ma io» – si dice con movenza tipicamente lirica (cfr. per es. Sᴀᴘᴘʜ. fr. 168b, 4 V.) – «canto la luce d’Agidò» (vv. 39-40). La più bella tra le coreute, forse la persona per la cui maturità il rito era celebrato, è paragonata al Sole (𝑂𝑑. XIX 234; anche Telemaco emana luce in 𝑂𝑑. XVII 41), di cui anzi ella stessa attesta e invoca per le compagne lo splendore (vv. 40-42). Ma la comparazione si tronca subito, perché l’«inclita corega» (v. 44 ἁ κλεννὰ χοραγὸς) non permette che si faccia elogio né biasimo (vv. 43-44 ἐπαινὲν /… μωμέσθαι: per l’espressione, che nella sua polarità designa globalmente il «parlare», si vd. Sᴇᴍ. fr. 7, 112-113 W.²) di Agidò, piuttosto che della propria «preminente» (v. 46 ἐκπρεπὴς) bellezza; un nuovo paragone con un cavallo Enetico (verosimilmente della Paflagonia, tra la Bitinia e il Mar Nero, regione famosa per i suoi muli selvatici: cfr. 𝐼𝑙. II 852-853), robusto vincitore dal piede risuonante (v. 48), suscitatore di sogni che, come quelli transoceanici dell’𝑂𝑑𝑖𝑠𝑠𝑒𝑎 (XXIV 11-14), vivono dietro le rocce (v. 48 ὑποπετριδίων ὀνείρων), e la correlata menzione di una «chioma» (v. 51 χαίτα: capigliatura umana, come per es. in 𝐼𝑙. XXIII 141, e criniera equina, come per es. in 𝐼𝑙. VI 509; le χαῖται sono spesso citate nei riti di passaggio femminili) in fiore come «oro puro» (v. 54 χρυσὸς… ἀκήρατος: la similitudine è riusata per l’Astimeloisa di 𝑃𝑀𝐺𝐹 3, 68; cfr. anche Aʀᴄʜɪʟ. fr. 93a, 6 W.²) introducono, ritardandolo, l’ominoso (come del resto gli altri, che definiscono ruoli prima che persone) nome della corega, Agesicora (vv. 53 e 57), che la strutturale solidarietà del gruppo femminile arriva a definire affettuosamente «cugina» (ἀνεψιᾶ, v. 52) e il cui «argenteo viso» (v. 55 ἀργύριον πρόσωπον) non ha bisogno di esplicite celebrazioni (l’ennesima preterizione, διαφάδαν τί τοι λέγω; «che cosa ancora dirti apertamente?», ha luogo al v. 56).
Kleitias. Scena di danza (dettaglio). Pittura vascolare a figure nere dal «Cratere François», 570-565 a.C., da Chiusi. Firenze, Museo Archeologico Nazionale.
La debita esecuzione dell’elogio di Agesicora permette di tornare ad Agidò, motore del canto e delle omoerotiche passioni delle ragazze: la sua bellezza (v. 58 ϝεῖδος), seconda solo a quella della corega, la segue tuttavia da vicino (vv. 58-59 πεδ’… / δραμείται), come un cavallo colassio quello ibeno (sui rapporti qualitativi tra queste due razze, rispettivamente scita e lidia, informa lo scolio B 1). L’immagine dei cavalli e l’accenno alla corsa (in cui il tempo futuro, δραμείται, «correrà», può non essere una mera 𝑣𝑎𝑟𝑖𝑎𝑡𝑖𝑜 del presente) veicolano un’idea di velocità, funzionale forse a sottolineare che il rito offertoriale deve ormai essere concluso: è infatti, l’alba, perché le Colombe, cioè le Pleiadi (v. 60 Πελειάδες: le sette figlie di Atlante e di Pleione, tramutate prima in colombe e poi in stelle da Zeus per salvarle da Orione, cfr. 𝑠𝑐ℎ𝑜𝑙. Hᴇs. 𝑂𝑝. 382, 𝑠𝑐ℎ𝑜𝑙. Aʀᴀᴛ. 254-255), «nel far levare l’astro di Sirio» (vv. 62-63 ἅτε Σίριον / ἄστρον ἀϝειρομέναι: Sirio era il cane di Orione, lanciato all’inseguimento delle Pleiadi, come in Hᴇs. 𝑂𝑝. 619-620 e nel prologo dell’euripidea 𝐼𝑓𝑖𝑔𝑒𝑛𝑖𝑎 𝑖𝑛 𝐴𝑢𝑙𝑖𝑑𝑒, vv. 6-8), “affrettano” il sorgere del Sole e, dunque, «combattono contro di noi» (vv. 60-63 ἇμιν… / …μάχονται), impegnate, «nella notte di ambrosia» (v. 62 νύκτα δι’ ἀμβροσίαν: si tratta di una formula epica, cfr. 𝐼𝑙. X 41, 142, XXIV 363, 𝑂𝑑. IX 404, XV 8), a offrire il rituale «manto» (φᾶρος), oppure un «aratro» (φάρος, forse più appropriato a un rituale con valenza agricola che calzerebbe a pennello nel periodo più caldo dell’anno, quando le Pleiadi sorgono prima del Sole, che si leva contemporaneamente a Sirio), alla dea «Mattutina» (v. 61 Ὀρθρίαι). Questa “sfida contro le stelle”, d’altra parte, finisce per suggellare in un’implicita, ma topica, similitudine astrale (cfr. per es. 𝑃𝑀𝐺𝐹 3, 67, ancora per Astimeloisa, Sᴀᴘᴘʜ. fr. 34 V., Sɪᴍᴏɴ. 𝑃𝑀𝐺 555; quanto a Sirio, in 𝐼𝑙. XI 62-66 designa lo splendore di Ettore) i due elogi, quello della corega e quello della coreuta principale, e dunque la loro eroica aristia femminile, al termine di una faticosa nottata di riti e al culmine della celebrazione, di cui Agesicora, che sembra mantenere una funzione di guida, e Agidò sono indiscusse protagoniste. Questo, malgrado la problematicità dei versi e le divergenti interpretazioni degli studiosi, pare essere il significato della quinta strofe.
La sesta strofe – che, come le altre, è dotata di autonomia semantica ma resta sintatticamente collegata alla precedente dal solito γάρ, che compare nel verso iniziale di tutte le ultime tre strofe – introduce, in una sorta di falsa 𝑝𝑟𝑎𝑒𝑡𝑒𝑟𝑖𝑡𝑖𝑜 con struttura anaforica e scandita da incipitarie negazioni, tutti gli elementi che celebrano e magnificano la bellezza delle coreute e che sono tuttavia insufficienti (κόρος, al v. 65, indica la «sazietà» sin da 𝐼𝑙. XIII 636) a «compensarle» (v. 65 ἀμύναι, secondo un’interpretazione che risale, a quanto pare, ad Ar. Byz. fr. 33 Slater) e quindi a «distoglierle» dal 𝑓𝑜𝑐𝑢𝑠 (emotivo, erotico e cultuale) del loro rito. Né la «porpora» (πορφύρα, v. 64) delle vesti né un «variegato» monile serpentiforme tutto d’oro massiccio (vv. 66-67 ποικίλος δράκων / παγχρύσιος; l’espressione ritorna anche in Pɪɴᴅ. 𝑃. 8, 46), né una mitra lidia (come quella che Saffo avrebbe voluto per la figlia Cleide nel fr. 98 V.), di cui si adornano le giovani «dallo sguardo di viola» (v. 69 ἰανογ[λ]εφάρων: si tratta di un termine presente solo qui), né le differenti doti delle altre otto fanciulle, i cui nomi sono sigillati ai vv. 70-76: Nannò dai bei capelli (v. 70), Areta «simile alle dee» (v. 71), Silacide e Cleesisera (v. 72), Astafide (v. 74), che ispira la passione erotica dell’io parlante (μοι γένοιτο; cfr. Aʀᴄʜɪʟ. fr. 118 W.², Hɪᴘᴘᴏɴ. fr. 120 Dg.²), Fililla (v. 75), da cui ella vorrebbe essere adocchiata (cfr. 𝑃𝑀𝐺𝐹 3, 62), Damareta e l’«amabile» Iantemide (v. 76); misteriosa resta invece la menzione di Enesimbrota (v. 73), forse una confidente di almeno alcune tra le coreute, ma difficilmente parte del gruppo se occorre andare sino a casa sua per parlarle e se il coro, come pare (cfr. v. 99), era composto da dieci membri, corega compresa. È infatti Agesicora il 𝑓𝑜𝑐𝑢𝑠, è Agesicora che «logora» (v. 77 τείρει; per l’accezione erotica, cfr. Hᴇs. fr. 298 M.-W. = 235a Most e Tᴇʟᴇsᴛ. 𝑃𝑀𝐺 805, 5), e nel suo nome si conclude la strofe.
Quel sentimento, sempre più incontrollabile, di passione e di gelosia, che si accresce nel cuore dell’io parlante magnificando con la sua stessa presenza le due protagoniste della festa, raggiunge l’apice al culmine della cerimonia, quando Agesicora «dalle belle caviglie» (v. 78 κα̣λλίσφυρος: l’epiteto occorre 5 volte nei poemi omerici, 4 negli 𝐼𝑛𝑛𝑖, 11 in Esiodo, e poi 4 in Simonide, dove è sempre riferito alla madre di Eracle, Alcmena) e Agidò sono ormai distanziate dal coro (vv. 78-80). L’elogio-approvazione del sacro banchetto (v. 81 θωστήρι̣ά̣), sanzionato dalla corega (ἐπαινεῖ), e l’offerta finale agli dèi (vv. 82-83, con il formulare δέξασθε: cfr. per es. 𝐼𝑙. II 420 e poi Pɪɴᴅ. fr. 52e, 45 M.), cui appartengono la «fine» (v. 83 ἄνα, cioè ἄνυσις, «compimento»: cfr. per es. Aᴇsᴄʜ. 𝑇ℎ. 713) e il «fine» (v. 84 τέλος, con rilevato 𝑒𝑛𝑗𝑎𝑚𝑏𝑒𝑚𝑒𝑛𝑡, a sottolineare la continuità e l’effettività del supremo potere divino, per cui a ogni esito segue uno scopo: cfr. Hᴇs. 𝑂𝑝. 669, Sᴇᴍ. fr. 1, 1-2 W.²) di ogni cosa, concludono infine il rito: l’allocuzione diretta alla corega (v. 84 [χο]ρο̣στάτις: ma la lettura è incerta) – con il riconoscimento della propria fanciullesca (v. 86 παρσένος) e vana (μάταν) loquacità (λέλακα), degna di una civetta (v. 87 γλαύξ) appollaiata, e con l’accorta professione di fede in Aotide, la stessa dea dell’aurora (cfr. v. 61), cui «soprattutto» (μάλιστα) occorre voler piacere (v. 88) e dalla quale è possibile avere infine cura (essa è ἰάτωρ, «medico») contro gli «affanni» (πόνοι, v. 88), fisici e psicologici, della lunga nottata – propizia infine il desiderato approdo (v. 91 ἐπέβαν, ma il verbo, usato metaforicamente in questo senso anche da Pɪɴᴅ. 𝑁. 3, 20, può indicare altresì la salita su un carro [cfr. per es. 𝐼𝑙. V 221, VIII 44], su una nave [cfr. per es. 𝐼𝑙. VIII 512], e soprattutto su un talamo nuziale [cfr. per es. 𝐼𝑙. XIX 176]) delle «giovani» (v. 90 νεάνιδες), guidate da Agesicora, alla «pace amabile» (v. 91 ἰρ]ή̣νας ἐρατᾶ̣ς), ἄνη e τέλος del loro rito notturno.
Agesicora «cavallo di volata» (σειραφόρος, v. 92) di un carro e «timoniere» (κυβερνήτης, v. 94) di una nave, quasi a recuperare le implicazioni metaforiche dell’ἐπέβαν del v. 91, apre l’ultima strofe: è lei che occorre «ascoltare» (se al v. 95 si può leggere ἀκούην, con un’accezione di obbediente discepolato già attestata, per es., in 𝐼𝑙. XIX 256, 𝑂𝑑. VII 11), sebbene non sia «più canora» (v. 97 ἀοιδοτέρα) delle Sirenidi (forse le Muse, equiparate alle Sirene anche in 𝑃𝑀𝐺𝐹 30), perché sono dee (v. 98 σιαὶ γάρ). Che cosa venisse detto nel seguito di questo verso e in quello successivo è soltanto desumibile dalle incerte indicazioni dello scolio A 21: la corega canterebbe (se al v. 99 si deve leggere ἀ̣ε̣ί̣δ̣ει o ἀ̣ε̣ί̣σ̣ει) come dieci fanciulle in luogo di undici, ovvero farebbe sì che la decade corale di cui è corega canti per undici (un modo come un altro per dire che la sua voce vale per due, cioè che parrebbe più probabile), o ancora (se si ipotizza un errore dello scriba o dello scoliasta, che avrebbe scritto «undici» in luogo di «nove») la sua decade canterebbe al pari delle «nove fanciulle», cioè delle Muse stesse. Ciò che è certo è che Agesicora veniva paragonata ancora a un «cigno» (v. 101 κύκνος) – l’uccello sacro al dio della poesia, Apollo (cfr. per es. Aʟᴄ. fr. 307c V., Sᴀᴘᴘʜ. fr. 208 V.) – che emette i propri gorgheggi (v. 100 φθέγγεται) sulle «correnti» dello Xanto (v. 100, cfr. 𝐼𝑙. VI 4), il fiume «biondo», come «bionda» (v. 101 ξανθᾶι; per le chiome bionde, cfr. pure 𝑃𝑀𝐺𝐹 3, 9, 5, 2 c. 1 18, 59b, 3) è la «piccola chioma» (κομίσκα: il diminutivo ha valore affettivo) «che ispira desiderio» (ἐπ̣ιμέρος, v. 101) della corega. L’immagine del cigno, 𝑎𝑟𝑡 𝑠𝑦𝑚𝑏𝑜𝑙 di canto supremo, ricorda quella della civetta, vanamente garrula, del v. 86 e completa così un implicito confronto ornitologico tra uccelli diversamente canori: uno “schema” che avrà lunga fortuna nelle tenzoni poetiche della tradizione greca, da Pindaro (𝑁. 3, 80-82) a Teocrito (7, 47-48) sino ad Antipatro di Sidone (𝐴𝑃 VII 713, 7-8). A un cigno sarà, infine, paragonato lo stesso Alcmane, nell’elogio tributatogli dall’epigrammista ellenistico Leonida di Taranto (𝐴𝑃 VII 19, 1-2).
Pittore di Villa Giulia. Scena con coro femminile. Pittura vascolare a figure rosse su calyx-krater, c. 460 a.C. da Falerii. Roma, Museo Nazionale di Villa Giulia.
[1] Pᴀᴜs. III 15, 3-5: «Si dice che l’ostilità tra Eracle e la casa di Ippocoonte trasse origine dal rifiuto degli Ippocoontidi di purificarlo, quando egli giunse a Sparta per espiare l’uccisione di Ifito. Ma anche quest’altro incidente contribuì all’inizio del conflitto: Eono, un giovinetto, cugino di Eracle, venne a Sparta insieme a lui; mentre girava per vedere la città, quando giunse alla casa di Ippocoonte, un cane da guardia gli si avventò contro. Eono lanciò una pietra e abbatté la belva; allora corsero fuori i figli di Ippocoonte e uccisero Eono a colpi di bastone. Questo fece inferocire Eracle contro Ippocoonte e i suoi figli, e, irato com’era, corse subito ad affrontarli. Allora egli fu ferito e, nascostosi, batté in ritirata; ma in seguito, fatta una spedizione contro Sparta, gli riuscì di vendicarsi di Ippocoonte e di punirne anche i figli per l’assassinio di Eono».
di A. Aloni, Cantare glorie di eroi. Comunicazione e performance poetica nella Grecia arcaica, Torino 1998, pp. 65-76.
Nel 523 (o 522) a.C., nell’isola di Delo, il rapsodo Cineto di Chio si esibì in una particolarissima performance, in occasione di una festa altrettanto particolare, organizzata dal tiranno Policrate di Samo per onorare Apollo. La particolarità della festa consisteva nel fatto che essa intendeva celebrare, nell’isola cicladica, non solo la locale epiclesi di Apollo, ma anche quella delfica. In questa occasione Cineto, a partire da due diverse composizioni tradizionali, «combinò insieme» (così ritiene Burkert) oppure compose (a mio avviso) un proemio epico di struttura affatto peculiare, in cui le parti celebranti Apollo Delio e Apollo Pizio risultano fuse in un’unica composizione – l’Inno omerico ad Apollo – attraverso una sezione specificamente rivolta a descrivere e celebrare la festa in atto; sezione tanto precisa e puntuale nei contenuti, che di essa si servì in seguito Tucidide (III, 104) per il suo excursus sulla storia più antica delle Delie.
Le fonti che ci tramandano il ricordo dell’iniziativa policratea non dicono assolutamente nulla a proposito della struttura della festa; solo in Zenobio l’evento viene definito agōn. Questo indizio, unito a quanto si dice nell’Inno stesso (soprattutto ai vv. 149-150) e alla descrizione tucididea, ci permette di affermare che la festa composita comprendeva una parte musico-corale, di carattere probabilmente competitivo.
È questo il quadro generale in cui va inserito l’Inno. Sulla funzione pratica degli Inni omerici nel contesto della poesia greca arcaica vi è fra gli studiosi un accordo sostanzialmente unanime, anche se non molto esplicito e talvolta silenzioso. La funzione proemiale dell’Inno ad Apollo sembra assicurata anche dalla coincidenza strutturale e tematica di fondo che esso mostra con gli altri Inni della silloge: come è stato anche recentemente notato, l’Inno non si differenzia che per una particolare elaborazione, e una notevole espansione di talune fra le parti che tradizionalmente compongono un proemio rapsodico.
L’unico elemento anomalo rispetto alla forma tradizionale dei proemi omerici è costituito dai vv. 146-176; l’anomalia, anzi la rottura, è evidente sotto molti punti di vista: dopo una serie di appellazioni dirette al dio, il poeta passa a descrivere i caratteri generali della festa in atto, per appuntare infine la sua attenzione su un gruppo di fanciulle (v. 157); queste formano un coro destinato a cantare, dopo aver celebrato Apollo, Leto e Artemide, le vicende degli uomini e delle donne dei tempi antichi. A questo coro il poeta si raccomanda e gli affida il compito di conservare nel tempo il suo ricordo.
All’inserimento già eccezionale della seconda persona divina, segue l’irrompere in scena dell’”io” del poeta medesimo, e del “voi” del coro, in un’apostrofe in cui sono contemporaneamente presenti valenze descrittive e iussive. Se tutto ciò è eccezionale, addirittura stravagante nel caso dell’innodia epica, la menzione di elementi pragmatici relativi alla performance in atto, almeno per quanto riguarda l’entrata in scena del coro e il rapporto coro-corifeo è invece quasi normale nella lirica, soprattutto nella lirica corale. Tuttavia testimonianze esplicite sia della compresenza, a livello enunciativo nel canto, delle diverse persone del corifeo (= poeta = “io”) e del coro (= “tu”), sia soprattutto di un rapporto pragmatico e iussivo fra i due non sono frequenti neppure nella lirica corale, forse anche per la nostra limitata conoscenza dei testi della lirica corale, forse anche per la nostra limitata conoscenza dei testi della lirica corale cerimoniale e religiosa; è questo il genere dove lo stretto legame tra esecuzione corale e rito apriva le maggiori possibilità di un’esplicita interazione fra i partecipanti all’azione rituale. Le eccezioni non mancano, ma sono relativamente poche, rintracciabili per la lirica arcaica appunto negli sparuti resti della lirica ieratico-cerimoniale, mentre frequenti richieste del poeta – o comunque di un “io” identificabile con il corifeo – nei riguardi di un coro sono presenti solo in alcuni peani epigrafici posteriori all’epoca classica, ma di impianto sicuramente tradizionale. Un rapporto complessivo tra un poeta-corifeo e un coro, paragonabile a quello che compare nei vv. 146-176 dell’Inno ad Apollo, ricorre infine nei due Inni “dorici” di Callimaco (V-VI).
Apollo citaredo. Statua, marmo, copia romana del II sec. d.C. da originale ellenistico, da Cirene. London, British Museum.
L’esistenza di un rapporto pragmatico assai simile fra “io” del poeta e “voi” del coro in composizioni tanto diverse da loro e tanto distanti nel tempo e nello spazio non deve indurre a tracciare un’improbabile linea genetica che le colleghi, essa sarà piuttosto un indizio dell’esistenza di uno schema formale diffuso già in epoca arcaica, e collegato a talune caratteristiche e necessariamente devono essersi mantenute identiche nel tempo. In altre parole nulla vieta che uno schema formale permanga nel tempo, pur modificandosi o annullandosi la sua funzione originaria.
In questo quadro, le somiglianze tra il rapporto pragmatico sotteso alla sezione centrale dell’Inno ad Apollo e quello presente nei due Inni callimachei assumono un particolare significato, mettendo ancora in maggiore evidenza l’anomalia che caratterizza l’Inno omerico. Infatti il poeta ellenistico, fino dalla scelta dialettale, intende privilegiare come suo modello non già l’innodia di tipo omerico, bensì – nel quadro, vero o fittizio che sia, di un evento festivo e rituale – la tradizione del canto cerimoniale che, per quanto è dato sapere, si espresse in dorico in tutta l’epoca arcaica e classica, fino all’attico Sofocle.
Se torniamo all’Inno ad Apollo, si pone il problema di una migliore definizione delle performances poetiche inserite nelle feste delie, o meglio ancora delle particolari performances che caratterizzavano la festa istituita da Policrate; questa infatti costituì una rottura del quadro tradizionale, ed è probabile che molte delle innovazioni introdotte dal tiranno non sopravvissero alla sua fine.
A proposito delle Delie in generale, non vi è unanimità fra gli studiosi circa la collocazione temporale della festa e del suo rapporto con le Apollonie. L’opinione più recente, e anche la più diffusa, colloca la festa nel mese di Hieros (all’inizio della primavera) e sostiene l’identità, per il periodo arcaico, fra le due feste.
L’identificazione fra le due feste consente di ascrivere alle Delie anche le notizie, letterarie e soprattutto documentarie, relative alle Apollonie, ampliando così un poco l’insieme di una documentazione assai ristretta. Sulla struttura delle Delie arcaiche le fonti rischiano pericolosamente di ridursi al passo tucidideo più volte citato (essenzialmente basato sull’Inno ad Apollo) e all’Inno medesimo, il testo peraltro del quale si vorrebbe illuminare le valenze pragmatiche e performative. Al fine di evitare, almeno in parte, il rischio della circolarità possiamo per il momento trascurare Tucidide e l’Inno; le altre fonti concordano tutte su un punto: le performances delie sono di tipo corale, e vedono coinvolti cori di entrambi i sessi. Erodoto (IV, 35), Callimaco (Del., 304-305) e Pausania (VIII, 21, 3; I, 18, 5) affermano che nel contesto delle feste di Delo venivano cantate le composizioni dell’antico poeta Olen; questi canti vengono in generale definiti “inni”. In Callimaco ricorre la definizione di nómos: in questo caso però non è certissimo che il canto vada inquadrato nel contesto delle Delie piuttosto che in quello delle Afrodisie. La partecipazione di cori di adolescenti alla festa e la sua prevalente funzione iniziatica vengono più o meno esplicitamente dichiarate da Erodoto (IV, 34), Ateneo (X, 424f), Plutarco (Thes., 21), Pausania (I, 43, 4) e Luciano (de salt., 16). Quest’ultimo chiama “iporchemi” i canti che venivano eseguiti da cori di paîdes con l’accompagnamento della lira e del flauto. Similmente le fonti epigrafiche menzionano costantemente la presenza, alla feste di Delo, di coreghi e di cori, mentre affatto sporadica è la menzione dei rapsodi.
Tutto ciò induce a ritenere che gli agoni poetici di Delo si incentrassero su performances di tipo corale; questo potrebbe essere tanto più vero per le Delie, qualora se ne consideri la partecipazione internazionale e il carattere marcatamente spettacolare. Ricorda Plutarco (Nic., 3) che il ricchissimo Nicia, in occasione di una sua coregia a Delo, volle dare particolare splendore alla theōría ateniese: fece sbarcare a Renea uomini e attrezzature il giorno prima della festa, durante la notte fece gettare fra le due isole un ponte di barche attraverso il quale il coro magnificamente abbigliato fece il suo ingresso a Delo cantando. È difficile che qualcuno abbia potuto, anche in seguito, emulare lo sfarzo di Nicia; l’episodio resta tuttavia significativo dell’investimento che le città facevano al momento della loro partecipazione alle Delie.
Anche i testi letterari che in qualche modo possono collegarsi alle Delie sembrano ricondursi a due generi corali: il peana e il ditirambo. Fra i peani di Pindaro il IV (fr. 52 d S.-M.), il V (fr. 52 e S.-M.), e il VIIb (fr. 52 h S.-M.) furono composti per le feste di Delo, il IV sicuramente per una theōría dell’isola di Ceo; dubbi sono invece i committenti degli altri, anche se è probabile una connessione del V con Atene. Fra i ditirambi delii rientrano sia il carme 17 di Bacchilide, anch’esso per i Cei, sia il Memnone di Simonide (PMG 389); quest’ultimo era compreso in una raccolta di ditirambi detta Dēliaká. A proposito della raccolta, sono egualmente possibili due spiegazioni: o essa riuniva i ditirambi composti da Simonide per le feste di Delo, ed era quindi una sottosezione di una – peraltro non attestata – raccolta dei ditirambi di Simonide, oppure era una silloge particolare di provenienza delia, dove il Memnone era inserito insieme ad altri ditirambi di altri poeti. In entrambi i casi è comunque evidente come i ditirambi occupassero un posto di rilievo all’interno delle Delie.
Distinguere i peani dai ditirambi era difficile anche per gli antichi: neppure la presenza o l’assenza del ritornello iḕ paián serve a individuare con certezza un peana. Ancora più difficile appare una distinzione dal punto di vista pragmatico: soprattutto quando, come nel caso di Delo, ditirambi e peani sono inseriti all’interno di feste apollinee.
Autore anonimo. Un aedo canta accompagnandosi alla lira. Pittura vascolare su kyklix attica a figure nere, 515 a.C. ca. Wisconsin, Chazen Museum of Art.
Tali caratteristiche delle feste delie non sono senza conseguenze per la definizione delle linee complessive della performance di Cineto: restando fisso il carattere proemiale, introduttivo dell’Inno ad Apollo, occorre interrogarsi sulla natura di quanto all’Inno doveva seguire. Una regolare successione di altri canti epici, di argomento eroico e di forma esametrica, pare improbabile per molte ragioni. Infatti, non vi è quasi traccia di un agone rapsodico nella documentazione relativa alla festa, mentre con esso contrastano alcune peculiarità dell’Inno medesimo. Questo infatti si conclude nel modo più stereotipo con due versi che esprimono il saluto del dio e l’intenzione generica di ricordarsi ancora del dio e di un altro canto. Manca qualsiasi accenno di preghiera personale al dio. Questa preghiera contiene sovente – in forma più o meno esplicita – una richiesta di vittoria agonale, che può essere introdotta o addirittura riassunta in un hílēthi (1, 17; 23, 4; cfr. 19, 48), o avere espressione più ampia come nell’Inno a Demetra (v. 494) e negli Inni 30, 18 e 31, 17, dove il poeta chiede la «prosperità che rallegra il cuore», o come negli Inni 11, 5; 15, 9 e 20, 8 contrassegnati da una forma imperativa di dídōmi cui corrispondono predicati diversi: týchē, eudaimonía, aretḗ, ólbos. La richiesta di vittoria è poi affatto esplicita nell’Inno 26 (a Dioniso 12-13), in cui si chiede di tornare felicemente ogni anno alla festa del dio e nell’Inno VI (ad Afrodite, vv. 19-20).
Il fatto che il poeta non accenni ad alcuna richiesta di vittoria non avrebbe in sé molto peso, come ogni altro argomento e silentio: anche l’Inno ad Ermes, fra i maggiori, si conclude con un identico stringatissimo finale. È significativo però che i tre motivi tipici della conclusione abbiano già avuto un’ampia e peculiare trattazione in precedenza, e occupino buona parte della sezione centrale relativa alla festa in atto. Dopo la menzione del coro delle Deliadi (v. 156 sgg.) assistiamo a una sorta di trasferimento al coro delle funzioni proprie del rapsodo o dei rapsodi all’interno degli agoni: dopo aver cantato Apollo, Leto e Artemide esse canteranno le vicende degli uomini e delle donne antichi. La terminologia è generica, ma proprio per questo significativa; ricorrono infatti i temi chiave delle conclusioni: il canto del coro è definito (v. 161) hýmnos e aoidḗ, mentre la produzione poetica è allusa mediante l’azione di “ricordare” (v. 160).
In pratica, i vv. 158-159 riprendono i temi propri del saluto al dio, mentre i vv. 160-161 si riferiscono alla transizione dalle lodi del dio a un altro canto di diverso argomento. La parte relativa alla preghiera e alla richiesta di vittoria riceve infine una trattazione assolutamente straordinaria ai vv. 165-173, che è opportuno esaminare da vicino.
Ordunque siate benigni, Apollo con Artemide,
e voi tutti siate felici, e di me anche in futuro
ricordatevi, quando uno degli uomini che vivono sulla terra,
uno straniero, che qui giunga dopo aver molto sofferto, vi chieda:
«O fanciulle, chi è per voi il più dolce fra gli aedi
che qui sono soliti venire, e chi vi è più gradito?»
E voi tutte, concordi, rispondete con parole di lode:
«È un uomo cieco, e vive nella rocciosa Chio:
e tutti i suoi canti saranno sempre i più belli».
(trad. it. di F. Càssola)
Vi è un inizio favorevole (v. 165, «siate benigni») in cui si chiede il favore di Apollo e Artemide e dove il verbo sembra aprire la strada al tema della richiesta di protezione e di vittoria; a questo punto invece segue un’improvvisa reduplicazione del tema del saluto, rivolto però alle ragazze del coro (v. 166, «e voi tutte siate felici»); su questa s’innesta una ripresa del tema “ricordare”. Qui lo spostamento dei referenti è completo, oggetto del ricordo non sono altri canti, ma il poeta stesso: si realizza così una forma di preghiera del tutto senza paralleli. L’eccellenza del poeta e del suo canto non fa parte di una richiesta di vittoria, ma è un dato incontestabilmente affermato, e offerto alle Deliadi perché lo proclamino nel futuro (vv. 169-173).
All’interno di questa trama manca insomma ogni accenno alla situazione agonale, e al desiderio del rapsodo di prevalere su altri poeti, pur in presenza di tutti i temi che tradizionalmente vengono impiegati per esprimere questi concetti. Vi è invece in positivo la coscienza della propria eccellenza e della superiorità della tradizione (cioè Omero) che il poeta rinnova nel suo canto. Da cosa può derivare questa coscienza? Tentativamente possiamo pensare che la competizione, se esiste, non riguarda il poeta bensì i cori che succederanno alla sua performance. Se Cineto fu incaricato da Policrate di comporre ed eseguire un inno sostanzialmente nuovo, è chiaro che una scelta di eccellenza doveva essere già stata fatta, e di questo il poeta non poteva non essere cosciente. Il rapsodo epico – in sé il poeta meno occasione, ripetitore fedele delle parole eterne delle Muse e della tradizione – si trova coinvolto in un evento di tipo, per così dire, lirico, condizionato da una committenza esigente, non diversa da quella che dava incarico a Ibico o a Simonide di comporre ditirambi o peani per le occasioni festive dei tiranni e delle città.
Siamo così giunti a una prima definizione del contesto della performance delia di Cineto; l’elemento più interessante, e anomalo, è certamente l’associazione organica dell’esibizione solistica per eccellenza – quella del rapsodo – e di quella corale; al coro delle Deliadi infatti, e non a un rapsodo, spetta il compito di proseguire la performance iniziata dall’aedo. Sembrano cadere a livello delle performance le linee di demarcazione tra forme poetiche epiche e liriche. La cosa è solo in parte eccezionale, basti pensare alla posizione ambigua della citarodia stesicorea, a proposito della quale gli studiosi sono incerti fra esecuzione solistica o corale, e a quanto abbiamo detto a proposito del proemio.
Pitagora di Reggio, statua di suonatore di lira. Copia romana del II secolo a.C., da un originale in bronzo del V secolo a.C. Marmo, 168 cm. Musée du Louvre, Parigi.
La festa policratea si caratterizza però in modo peculiare: un’unica performance che comprende esibizioni sia di un poeta epico solista sia di uno o più cori lirici: il punto di contatto consiste nella materia del canto che è per entrambi la narrazione di vicende divine o eroiche.
Diventa così più chiaro il senso dei particolari tratti pragmatici che caratterizzano l’Inno; le frequenti appellazioni al dio, la presenza massiccia di elementi deittico-iussivi nella parte centrale accomunano l’Inno a composizioni proprie della lirica ieratico-rituale. Ciò accade non per scelta soggettiva del poeta, ma proprio perché l’Inno si inquadra in una performance dove essa funge da proemio a una o più composizioni corali, connesse con i riti della duplice festa di Apollo.
Potremmo ancora chiederci che tipo di composizione lirica corale seguisse – parliamo sempre della festa delia del 523 o 522 – il canto rapsodico di Cineto. Naturalmente qualsiasi definizione comporta notevoli margini di dubbio legati all’applicazione all’epoca arcaica di classificazioni operanti solo in epoca successiva, e perciò incongruenti rispetto alle circostanze concrete che presiedevano alle esecuzioni arcaiche. Proprio questa sfasatura fra tassonomia e performances rende poco significativo il testo che con maggiore chiarezza parrebbe definire il canto delle Deliadi. Nell’Eracleeuripideo (v. 687 sgg.) il coro dei vecchi si chiede se dovrà cantare un peana, come le Dēliádes che danzano in cerchio. Da un lato non è esplicito il riferimento alle Delie, dall’altro l’attribuzione di un peana a un coro femminile appare in contrasto con il fatto che esso è di norma affidato a un coro maschile. In questo caso penso che, stante il fatto che le due performances sono dal punto di vista funzionale (occasione e destinazione) ampiamente sovrapponibili, il peana venga assegnato alle Deliadi soprattutto per rafforzare l’analogia con il canto che i vecchi (maschi) vorrebbero eseguire. Non è infine da dimenticare che nel V secolo il ditirambo ha ad Atene una precisa caratterizzazione – negli anni Venti i ditirambografi sono già nel mirino di Aristofane – e il suo inserimento nel contesto della tragedia sarebbe probabilmente apparso fuori luogo.
Nel quadro di una festa pensata e voluta, con chiari intenti politici, da un tiranno come Policrate, strettamente collegato con i tiranni ateniesi, l’ipotesi più probabile è che i cori eseguissero dei ditirambi. Una festa caratterizzata da performances ditirambiche verrebbero anche a colmare una sorta di lacuna letteraria e storico religiosa. Delle quattro grandi tirannidi dell’epoca arcaica (Corinto, Sicione, Atene, Samo), quella samia era finora l’unica a non mostrare alcun interesse alle performances ditirambiche, se si eccettua una notizia contenuta in uno scolio all’Andromacadi Euripide, secondo cui l’incontro tra Elena e Menelao durante la presa di Troia era narrato anche da Ibico in un ditirambo.
Questa conclusione non contrasta né con le notizie relative alle performances delle Delie che abbiamo prima esaminato né con quanto si può desumere dall’Inno a proposito del canto del coro. La presenza di esecuzioni e competizioni ditirambiche è ampiamente attestata per le Delie, mentre lo svolgimento di una tematica narrativa eroica coincide con quanto sappiamo a proposito del ditirambo.
Più difficile da spiegare appare il collegamento fra un proemio rapsodico, esametrico e recitato, e un ditirambo. Difficile, tuttavia non impossibile; innanzitutto non si può dubitare dell’esistenza di proemi monodici a performances lirico-corali, caratterizzati da un forte rapporto pragmatico fra “io” del poeta o del corego e “tu”-“voi” del coro: le fonti ne attestano l’esistenza già per Terpandro, benché ne restino imprecise le caratteristiche formali e di contenuto, in assenza di testi esplicitamente ascritti al genere stesso. Inoltre, in un articolo recente, J.L. Malena ha ampiamente argomentato circa l’esistenza di proemi ai ditirambi, cioè di monodie liriche o citarodiche finalizzate a introdurre o avviare il successivo canto del coro. Il proemio ditirambico, che risalirebbe a una fase assai antica della storia del genere, si caratterizzerebbe dal punto di vista dei contenuti come un’invocazione al dio seguita da una serie di ordini al coro; formalmente esso avrebbe andamento metrico prevalentemente dattilico e dizione assai prossima a quella dell’epos, come mostrerebbe un frammento di Terpandro (697 PMG: 4 da): secondo i commentatori antichi il verso, probabilmente il primo di una composizione, riprende modalità tipiche della poesia ditirambica. Analoga funzione proemiale, anche se non collegabile a un ditirambo, avrebbe il fr.84 Calame di Alcmane, dove, ancora in tetrametri dattilici, la Musa è invocata perché dia inizio agli eratá épea.
Ulteriormente significativo è il fr.90 Calame di Alcmane: i quattro esametri del “frammento del cerilo” sono parte di un proemio eseguito dal poeta, o da un corego, a introduzione di una performance corale, probabilmente da parteni.
Altri indizi aiutano a definire meglio il quadro in cui inserire il rapporto fra proemio e ditirambo.
L’unico frammento di Laso di Ermione tramandatoci consiste nell’inizio di un hýmnos in onore di Demetra, Core e Climeno (Athen. 14, 624e–f = fr.1 Privitera). Il metro è dattilico e la struttura del primo verso ricorda quella tipica degli Inni omerici. Da Ateneo il frammento è tramandato come parte di un «inno a Demetra ad Ermione»: una definizione in cui si sottolinea la località destinataria del canto e che potrebbe perciò essere connessa con la funzione proemiale del canto, finalizzato a contestualizzare un’intera performance (per esempio i ditirambi) all’interno della festa di Demetra ad Ermione. […]
Il proemio di tipo epico appare dunque una prassi consolidata in relazione alle più antiche performances di ditirambi; da queste la performance delia aperta da Cineto si distingue solamente per il fatto di usare un proemio di tipo non lirico ma rapsodico, non cantato ma recitato. Le ragioni di questa scelta ci sfuggono, e probabilmente nessuna fonte antica sarà mai in grado di illuminarci su essa. Lo impediscono soprattutto le profonde incisioni operate dal corpus della poesia arcaica dalla classificazione alessandrina: opposizioni quali cantato vs recitato, monodico vs corale, utili e sensate da un punto di vista tassonomico e bibliotecario, appaiono sempre più non avere alcuna corrispondenza con le concrete e originarie condizioni di esecuzione.
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di D.L.Page, Alcman. The Parthenion, cap. III: The Religious Ceremony, Oxford University Press, Oxford 1951, 69-82; trad. it. Eleonora Tagliaferro.
1. L’ambiente.
I frammenti di Alcmane concordano in generale con la comune tradizione dei culti laconici arcaici, nei quali tre caratteristiche sono più prominenti: la grandezza di Apollo, Artemide e Atena; l’importanza relativamente scarsa degli altri Olimpi; e la sopravvivenza di superstizioni più primitive – i culti dei Tindaridi; delle Grazie, della Luna e delle Muse; di Ino e Pasifae, e di idoli pre-ellenici ancora più arcaici.
Artemide Orthia come Πότνια Θηρῶν, raffigurata tra gli uccelli. Placchetta, avorio, c. 660 a.C. da Sparta. Atene, Museo Archeologico Nazionale
Si deve ritenere che Zeus avesse una grande importanza a Sparta, anche se, perfino qui, come in molte altre città greche, di tracce del suo culto ne siano rimaste stranamente poche e appena percettibili. Al culto di Zeus Lakedàimon e Zeus Ourànios provvedono soltanto i re di Sparta, ed è a Zeus Agètor che essi sacrificano dinanzi al campo di battaglia. questo è tutto ciò che si sa per stabilire la sua superiorità, non certo deducibile dal culto dedicatogli. Fuori di Sparta, nei rozzi villaggi, Zeus è un dio piatto e insignificante, l’ombra di rivali vinti e semidimenticati. Era è una dea modesta e sottomessa, Demetra oscura. Poseidone ha il suo regno sotto la terra, gaiavòchos: il mare appartiene ai Vecchi e alle Sirene. Dioniso si fa vedere raramente in città, ma fa baldoria senza preoccupazioni sulle pendici del monte, virginibus bacchata Lacænis Taygeta. Afrodite si muove in varie strane forme: Morphò, Arèia, Enòplios, armata Venus Lacedæmonis. Ermes non ha un suo proprio culto.
Nella tradizione ad avere la preminenza è Apollo; ad Amicle è per metà ancora rivale della potenza dorica; altrove è il Carneo, il cui enigmatico rituale a malapena riesce ad accordare la festa del raccolto con una parata marziale. Molteplici sono i poteri e i titoli di Artemide. Atena regna sull’Acropoli.
Così in Alcmane sono le divinità primitive ad avere il rilievo maggiore, sempre prescindendo da Apollo, del quale sopravvivono numerose tracce. Per Alcmane i figli di Tindaro sono figure della religione più che del mito: essi abitano sotto la terra, al buio, e la loro benevolenza va impetrata venerandoli in santuari e templi, specialmente nel centro del loro culto, Terapne; la leggenda internazionale non li ha ancora assorbiti. Per Alcmane, inoltre, la Musa che egli invoca non è una comune divinità. Il suo tempio sorge vicino ad Atena Calcieco; a lei sacrifica l’esercito prima della battaglia. è tra le idee più antiche, benedice e ispira tutto il suo popolo, non soltanto i suoi poeti. È una potenza cosmica, tanto che Alcmane non la chiama in modo indeterminato figlia di «Zeus e Memoria», ma del Cielo e della Terra. Regina dell’Oceano, thalassomèdoisa, è Ino, balia del piccolo Dioniso a Prasie, che dava oracoli attraverso i sogni a Talame e attraverso la magia a Epidauro Limera. Non governava da sola, poiché molte spiagge e molti porti erano frequentati dal suo Vecchio del Mare, come il gèron di Gizio e il Porco del Partenio di Alcmane. È possibile che la Luna e la Rugiada non siano semplici personificazioni poetiche. Se è vero che non viene ricordato alcun culto laconico di Hèrsa, la Luna era però venerata dal semplice contadino di Gizio, e la sua rivale Pasifae possedeva un celebre tempio, in cui l’eforo coscienziosamente attendeva nel sogno l’ispirazione.
Per il resto Zeus è appena ricordato; Demetra e Poseidone non hanno lasciato traccia; Era resta fedele alla tradizione. A celebrare i portentosi riti di Dioniso sulle cime dei monti sono donne, sue sole devote. Quanto ad Afrodite essa non mostra nessuna delle sue qualità laconiche.
Degli dèi più grandi, Apollo ha lasciato notevoli tracce, Atena poche, Artemide soltanto un verso – a meno che il Partenio non sia proprio un suo canto. Sarà questo il problema che prenderemo ora in considerazione: in onore di quale o di quali divinità venne composto questo carme?
2. Orthia.
Nel papiro stesso si rilevano due chiavi fondamentali per l’identificazione della divinità celebrata. Al v.87 il coro canta:
τᾶι μὲν Ἀώτι μάλιστα/Ϝανδάνην ἐρῶ
vorrei piacere soprattutto ad Aotis
e ai vv.61 sg., dove il testo ha
ἇμιν/ὀρθρίαι φᾶρος φεροίσαις
a noi che portiamo un velo (?) a Orthria;
nella nota a piè di colonna si legge Orthìai phàros. Sosiphànes àrotron. Il commentatore dunque assegna la cerimonia al culto di Orthia, una delle più celebri divinità laconiche, mentre il testo dà alla dea l’appellativo di Aòtis. Il commento non è in sintonia con il testo: esso legge Orthìai phàros, non orthrìai phàros. E l’importanza di questa lezione non deve essere sottovalutata; il suo ripristino nel testo di Alcmane può essere dubbio o addirittura da escludere; l’interesse e l’importanza che ha per noi riposano però su fondamenta più salde – sul fatto che tale lezione doveva essere coerente con quella che nell’antichità fu la tradizione comune circa l’occasione di questo componimento. Essa doveva essere appropriata non solo di per sé, ma coerente con il resto di ciò che è attestato nella lirica, ivi compresa, probabilmente, un’invocazione iniziale. Si può allora ragionevolmente supporre che essa ci presenti l’opinione degli studiosi di Alessandria che chiosarono il brano. Non è verosimile che Sosibio, che era appunto un Laconico, abbia lasciato in dubbio su questo punto la sua gente, né che Aristofane e Aristarco, di cui sono conservati commenti minori, abbiamo taciuto sulla questione più importante.
Ex-voto raffiguranti divinità femminili con sembianze ferine. Placchette, avorio, VII sec. a.C., dal corredo del Santuario di Artemide Orthia di Sparta. Atene, Museo Archeologico Nazionale.
Questo non può bastare a risolvere il problema, ma rende ragionevole, o addirittura impone, di considerare in primo luogo se il resto della documentazione a nostra disposizione sia compatibile o meno con l’identificazione di Orthia. Il commento la chiama Orthia, il testo Aòtis. Che cosa significa Aòtis, e fino a che punto può essere considerato un appellativo ad Orthia?
Va anzitutto chiaramente compreso il significato del culto di Orthia; e va compreso basandosi sulla documentazione relativa a Orthia stessa, non su analogie eventuali che essa presenta col culto di Artemide. Che vi sia una rassomiglianza tra le due dee risulta infatti ben chiaro, ma essa non va innanzitutto dimostrata, prima che vi si possa fondare la discussione. Le iscrizioni più antiche che associano i due nomi, parlando – come fa la nostra tradizione letteraria – di «Artemide Orthia», risalgono tutte alla seconda metà del I secolo d.C.
In generale i risultati degli scavi del tèmenos di Orthia hanno confermato e chiarito le testimonianze della tradizione letteraria e della più antica tradizione epigrafica.
Il più famoso rito del suo culto era la diamastìgosis, la fustigazione di giovani spartani presso l’altare; ma non c’è nessuna prova che questo rito abominevole risalga al tempo di Alcmane. Analoga è una cerimonia ricordata da Senofonte[1], nel corso della quale alcuni tentavano di sottrarre a Orthia dei formaggi, mentre altri cacciavano a frustate i ladri. Tre specie di competizioni rituali tra giovinetti sono abbondantemente documentate epigraficamente a partire dal IV secolo a.C.: la mòa, una gara musicale; i kelòia, evidentemente una competizione letteraria [2]; e il kattheratòrion, una specie di gara di caccia. Venivano dedicati a Orthia dai vincitori di queste competizioni dei falcetti di ferro, i premi della vittoria – chiara prova dell’importanza della dea in agricoltura. Inoltre una Lydòn pompè, di cui null’altro sappiamo, è menzionata da Plutarco [3], il quale attesta pure che erano familiari alla tradizione più antica cori femminili in onore di Orthia [4]. Più significativa e illuminante è l’associazione della statua di culto con i lýgoi, i vimini, per cui la dea era chiamata anche Lygodèsma: il vimine era un importante talismano contro le malattie femminili ed è indizio di una dea interessata alla fertilità. Questa stessa concezione di Orthia è alla base dell’etimologia del suo nome (nella forma di Orthosìa): hòti orthòi eis soterìan è orthòi toùs gennomènous («perché raddrizza per la salute o perché raddrizza i neonati» [5]). Tutto ciò risulta coerente al rapporto della dea, segnalato più sopra, con la fertilità della vegetazione, e all’importanza dei giovanetti nel suo rituale: evidentemente ella era, come una vera dea della fertilità kourotròphos.
Queste testimonianze sono confermate e integrate dalla documentazione archeologica [6]. La dea della fertilità, della nascita e della crescita di tutti gli esseri viventi emerge sempre più chiaramente dalle rovine del santuario. Le sue seguaci sono rappresentate da numerose figurine; è chiaro che alle donne soprattutto era rivolto l’interesse della dea e importante doveva essere il loro ruolo nel suo rito. Per di più risulta che accanto al tempio di Orthia sorgeva quello di Ilizia e tra i resti del primo vi sono alcuni ex-voto che dovevano essere offerti a Ilizia stessa – il che vuol dire che questa aveva una qualche parte nel culto di Orthia – o a Orthia dotata di analoghe capacità. Questi oggetti confermano l’opinione, già presa in considerazione, che Orthia fosse una dea della nascita umana. Può darsi che questa definizione vada estesa sino a proporre una nozione più generale di fertilità umana: lo farebbero pensare abbondanti frammenti di documentazione, specialmente le figurine in terracotta di maschi e femmine in amore. Inoltre l’eccezionale numero e varietà di animali trovati fra le sue offerte votive indicano che Orthia era anche regina del regno degli animali selvatici. Della sua importanza per ciò che concerne la fertilità del mondo vegetale si è già detto.
Questo, in breve, è quanto va osservato delle caratteristiche salienti di Orthia. La documentazione le attribuisce quel potere sulla nascita e crescita del mondo umano, animale e vegetale che è tra gli attributi più antichi della divina Artemide, dea dei monti, dei fiumi e dei campi, portatrice di prosperità e calamità all’uomo, al bestiame e al raccolto; dea del matrimonio e del parto, protettrice di donne e di vergini. C’è poco tra le vestigia di Orthia che non ci si possa attendere da un santuario di Artemide.
3. La documentazione relativa al titolo «Aòtis»
Non c’è motivo di supporre che l’appellativo «Aòtis» potesse significare vagamente «dell’Alba». L’analogia di Dereàtis, Limnàtis, Karyàtis ed altri appellativi – tutti appellativi laconici di Artemide – suggerisce, o addirittura esige, che Aòtis vada inteso in senso locale: proprio come Karyàtis significa «a Carie», così Aòtis significa «all’Alba», vale a dire, molto probabilmente, «(che vive) in Oriente». Che cosa s’intende dire con l’affermazione che una dea abita all’Alba o in Oriente? Non è una risposta sufficiente il fatto che il tempio di Orthia sorga ad est della città di Sparta o che guardi verso est; tali circostanze, in realtà, richiedono una spiegazione piuttosto che fornirla, e la spiegazione è probabilmente che sia priva di valore se non la si rinvenga nelle radici più profonde del culto stesso.
Ora, la documentazione a nostra disposizione suggerisce una sola risposta immediata al problema. Artemide, almeno fin dal V secolo a.C., fu dea strettamente associata alla Luna [7]. Che si sia immaginato che abitasse all’est è allora abbastanza plausibile da un punto di vista astronomico.
Ma, si è obiettato, la concezione di Artemide come Dea-Luna non può essere fatta risalire all’età di Alcmane; e, in ogni caso, che cosa può provare Artemide riguardo a Orthia? L’obiezione è benvenuta, perché fornisce l’occasione di eliminare un equivoco.
L’identificazione di Artemide con la Luna può essersi determinata per la prima volta nel V secolo, o nel IV, o quando si vuole: ma la nostra indagine si muove sul terreno dei culti religiosi, non delle leggende poetiche. L’intima connessione di Artemide, e di Orthia, con la Luna dev’essersi certo saldamente fissata in un’antichità più remota: ed è questa connessione, e non l’identificazione, con la Luna che è probabilmente rilevante per il problema del termine «Aòtis».
Questa connessione nasce non dall’artificiale creazione di un mito, ma dalle radici profonde del culto stesso. La relazione tra le fasi della luna e il ritmo di nascita e crescita è fissa e fondamentale; e la de – sia essa Orthia o Artemide o Era – che governa le fasi della luna deve controllare questo ritmo, direttamente o indirettamente. Questo fatto era compreso chiaramente nell’antica Grecia, così come lo è oggi. La connessione con la Luna è implicita nella caratteristica fondamentale della divinità e del culto sia di Orthia che di Artemide e da tale caratteristica direttamente deducibile. La spiegazione la si ricava, come appare necessario, dalle radici dei loro poteri e del loro culto primitivo: ed essa rimarrà vera, anche se dovesse apparire in seguito che Orthia non ha nulla a che fare con Aòtis nel Partenio di Alcmane.
È dunque possibile ora trarre una conclusione provvisoria: che il titolo Aòtis è perfettamente, anche se non esclusivamente, appropriato a una dea strettamente connessa con la Luna; perciò appropriata a Orthia, la cui influenza sulla Luna è il requisito indispensabile delle sue funzioni più significative.
Si può ora osservare che la cerimonia di Alcmane pare aver luogo proprio prima dell’alba: cfr. vv. 62, 61 e 39. È naturale supporre che la cerimonia si svolga in quel periodo del mese in cui la Luna è ancora alta sull’orizzonte al sorgere del sole, ed infatti il levarsi del sole segnerà il culmine della danza o del rito nel suo complesso.
Artemide Orthia. Statuetta, piombo, fine VII-inizi VI sec. a.C. da Sparta. New York, Metropolitan Museum of Art.
4. La lezione del testo
Sulla lezione da adottare nel testo non c’è completo accordo. Orthriai può essere: a) nominativo plurale; b) dativo singolare; c) una corruzione di Orthìai (per l’intrusione del r- superfluo può essere citato un parallelo dal v.56, dove diaphràdan è stato corretto con diaphàdan).
a)Òrthriai nom. plur.: questa è l’interpretazione meno diffusa, ma contro di essa non può essere portato alcun serio rilievo. b) Orthrìai dat. sing.: questa interpretazione presenta dei piccoli pregi che la raccomandano. Se Orthrìa è un titolo, esso è facilmente conciliabile con l’altro appellativo che occorre in questa lirica, Aòtis; e fornisce molto opportunamente un oggetto più lontano per il verbo pheròisais. Orthrìa non è altrimenti attestato come titolo di culto, ma anche Aòtis è un unicum, e sappiamo che Alcmane era eccentrico nell’attribuire appellativi ad Artemide [8]. Il dativo che il nostro manoscritto presenta può essere accettato senza sospetto. c)Orthìai, dat. sing di Orthìa, da dea Orthia: questa, che è la variante data dallo scolio, è stata spesso preferita al testo dagli studiosi moderni. Due obiezioni le sono state mosse: una erronea, l’altra viceversa sostanziale. 1. Si è sostenuto che Orthia non può essere descritta come «Aòtis». Questa asserzione è stata già confutata. La questione se questo titolo sia appropriato a Orthia è solo indirettamente connessa con il fatto che più tardi in Artemide si è riconosciuta una dea lunare. Per entrambe le dee la stretta connessione con la Luna è profondamente radicata nel loro culto; e se si ammette che Aòtis è un titolo appropriato a una dea che controlla, direttamente o indirettamente, i movimenti della Luna, allora non c’è ragione di negarlo né ad Artemide né a Orthia. 2. La seconda obiezione è davvero seria: e cioè che la sillaba centrale di vorthìa non poteva essere scandita come breve da Alcmane. Orthriai va dunque mantenuto nel testo, e va interpretato, secondo le varie opinioni, come nominativo plurale o dativo singolare.
5.La documentazione relativa all’aratro
Dobbiamo ora considerare un ulteriore elemento della documentazione sull’identità della nostra dea: il phàros che il coro porta.
La spiegazione àrotron, un “aratro”, è scritta su phàros nel testo, e a piè di colonna il commento spiega ancora: Orthìai phàros. Sosiphànes àrotron. Un verso di Antimaco è citato da Erodiano a sostegno dell’insolito significato attribuito a phàros [9].
Va osservato che questa tradizione antica non è stata un’inferenza immediata dal nostro testo; essa deve essere stata ricavata dalla documentazione esterna sulla natura della cerimonia; ed è ragionevole supporre che l’antica variante Orthìai fosse suggerita da questa stessa fonte, o fosse almeno coerente con essa.
Va inoltre riconosciuto altrettanto verosimile che Orthia abbia avuto in dedica sia un aratro che una falce, trattandosi di una dea, com’essa è certamente, in stretta relazione con la vita vegetale e anzi con ogni forma vivente della natura. È vero che un aratro è una dedica eccezionale: ma il fatto sarebbe di scarsa importanza, se anche non si citassero a sostegno le falci. I commenti moderni istituiscono un confronto con una moneta di Leontini, che mostra un aratro associato alla testa di Artemide; ma è discutibile che l’ipotizzata presenza di un aratro in Alcmane risulti rafforzata da una tale dubbia analogia o che abbia bisogno di esserne rafforzata. La tradizione antica afferma che un aratro era trasportato nella cerimonia descritta da Alcmane: non serve obiettare che, per quel che ne sappiamo, esso non compariva in nessun’altra cerimonia, né molto di più può valere il fatto che un aratro venisse associato a una dea che era strettamente connessa con Orthia. L’aratro può giustificarsi, com’è naturale, solo tenendo presente la natura fondamentale del culto di Orthia. S’è visto che la sua associazione con la Luna l’esigeva il carattere del suo culto; anche l’offerta di un aratro la si può chiaramente intendere per lo stesso motivo.
A coloro che hanno obiettato che un aratro era un oggetto troppo pesante perché delle ragazze potessero trasportarlo durante una danza, basterà rispondere che, nel mondo moderno, in molte regioni, si usano aratri che possono essere sollevati con due mani, o addirittura con una soltanto; che non abbiamo alcuna ragione di supporre che un aratro laconico al tempo di Alcmane, specialmente un aratro (forse un modello) ideato per una dedica, fosse ingombrante; e che il testo non dice, o almeno non dice necessariamente, che l’aratro era spostato durante un’evoluzione della danza specificamente ideata per l’atto della dedica.
La spiegazione alternativa di phàros, “veste”, si concilia molto facilmente con più d’un aspetto del culto di Orthia: di per sé la presenza di una veste è adatta quanto l’aratro a questo contesto, ma va tuttavia osservato che questa presenza contrasterebbe con la testimonianza antica. Sulla base della documentazione che abbiamo dinanzi, dobbiamo concludere perciò che l’interpretazione di phàros, “aratro”, si basa su una notizia circa la natura della cerimonia che noi non siamo in grado di valutare; che l’aratro costituisce una dedica del tutto appropriata ad Orthia; e che nessun’altra interpretazione risulta parimenti accettabile. Coloro che contestano la tradizione alessandrina su questo punto non hanno neppure la giustificazione che essa presenti una qualche difficoltà alla nostra comprensione.
6.Documentazione supplementare
I rimanenti indizi che abbiamo possono essere considerati più in breve.
a) La cerimonia è chiamata apertamente thostèria al v.81. Questa parola va connessa con il verbo thòsthai [10], “banchettare”; e rivela l’esistenza d’una qualche sorta di banchetto talmente importante da far definire sommariamente la cerimonia stessa «il nostro banchetto». In questo non c’è nulla di sorprendente o chiarificatore; ricordiamo che nelle Eree olimpiche «i vincitori ricevono … una parte della vacca sacrificata ad Era». Il banchetto rituale non ci dice nulla della identità o della natura della dea. b) Il canto e la danza sono eseguiti da un coro di fanciulle. Cori femminili al servizio di Orthia sono ricordati nella tradizione più antica: Elena stessa fu rapita mentre «danzava nel santuario di Artemide Orthia» [11]. Essi sono un tratto comune nei culti laconici di Artemide. c) È perlomeno non improbabile che il coro di Agesicora sia in gara con un altro coro, e che l’altro coro fosse chiamato «le Peleiadi».
C’è abbondante documentazione per quanto riguarda competizioni musicali e di altro tipo in onore di Orthia in epoca più tarda; anche se tra fanciulli, e non tra fanciulle, e vinte da singoli, non da gruppi. Sono anche abbastanza documentate competizioni tra cori femminili in altri culti peloponnesiaci e corse di fanciulle in culti laconici. Una gara di corsa tra cori di fanciulle al servizio di Orthia può essere ammessa in perfetta tranquillità.
Resta, peraltro, incerto se il titolo Peleiàdes sia specificamente appropriato nelle celebrazioni di Orthia. Se le fanciulle sono immaginate come stelle, le Pleiadi, allora la connessione dei movimenti delle Pleiadi con le stagioni dell’agricoltura giustifica il titolo. d) Il coro narrava la morte dei figli di Ippocoonte. Non c’è nessuna testimonianza letteraria o epigrafica per una connessione di Orthia con i Dioscuri o con gli Ippocoontidi. Sono stati in realtà raccolti frammenti di documentazione archeologica, ma essi non offrono un quadro chiaro. La narrazione di questa leggenda, tuttavia, – forse la più popolare e veneranda di tutte le storie locali spartane – non può essere stata limitata a nessun culto particolare: non c’è in questo argomento alcuna prova né a favore né contro Orthia. e) Ai vv.82 sgg. vien chiesto di accogliere la preghiera di Agesicora e Agidò a tutti gli dèi, al plurale. Non possiamo dire se la menzione sia generica o specifica. Se è specifica, non ci saranno difficoltà nel trovare possibili compagni a Orthia. La sua connessione con Ilizia è così stretta, sia in teoria che di fatto, che un’associazione dei loro culti non desterebbe sorpresa. Testimonianze archeologiche hanno altresì suggerito che nel suo culto spartano Orthia potrebbe essere stata associata a un’anonima divinità maschile, e che una stretta connessione tra Orthia e Afrodite potrebbe essere stata una caratteristica di questo santuario. f) Infine, i cavalli. Il paragone tra giovinette e puledre è così frequente nella letteratura antica che non c’è bisogno di cercare una particolare spiegazione per le metafore e le similitudini di questo tipo nel Partenio. Ma non è fuor di luogo in questa sede osservare che il cavallo è eccezionalmente importante tra le offerte votive di Orthia. Tra le terrecotte i cavalli superano quasi tutti gli altri animali messi insieme; fra le figurine in calcare, i cavalli sono quasi il doppio di tutte le altre; fra gli oggetti di piombo e di avorio, essi sono molto numerosi. La loro importanza nel culto è sottolineata in particolar modo da due figurine di terracotta, l’una che rappresenta Orthia stessa sul dorso di un cavallo, l’altra che mostra la testa di Orthia tra quelle di due cavalli.
Maschere. Terracotta, VII sec. a.C. dal Santuario di Artemide Orthia a Sparta. London, British Museum
7.Conclusione
Questo è lo stato della documentazione. Non vi sono molte ragioni di dubitare dell’interpretazione che pare più calzante:
1. L’identificazione di Orthia riposa per intero sulla testimonianza del commento. Nulla o quasi nel testo suggerisce realmente che la dea in questione sia Orthia (o Artemide). 2. Gli indizi interni alla lirica stessa possono tutti facilmente conciliarsi con il culto di Orthia. La presenza dell’aratro, se di aratro si tratta, è particolarmente appropriata, così come quella di un coro di fanciulle. Il titolo “Aòtis” non rappresenta un ostacolo, può essere stato anzi molto adatto a Orthia. La restante documentazione appare del tutto coerente con questa identificazione e nulla sembra in contrasto. 3. Tra gli argomenti addotti a favore dell’identificazione della dea con Orthia non n’è emerso nessuno più forte di quanto era stato osservato in principio, che cioè la presenza del suo nome nel testo del commentatore prova che questa era l’identificazione accettata dagli antichi; e non è verisimile che essi abbiano sbagliato su questo punto. 4. Incidentalmente dovrà considerarsi assodato che, se anche non è Orthia la dea in questione, non vi sono elementi sufficienti per provare, o anche soltanto per suggerire, una qualsiasi altra identificazione: le prove sarebbero, infatti, troppo vaghe e oscure.
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