Filippo l’Arabo: un effimero ritorno alla tradizione

Il principato di Filippo l’Arabo (244-249) desta particolare interesse, nel cinquantennio dell’«anarchia militare», sotto almeno due aspetti: innanzitutto, toccò a lui celebrare il millenario di Roma; in secondo luogo, durante il suo governo, lungo il basso Danubio iniziarono le prime grandi incursioni di genti esterne (PIR² I 461).

Marco Giulio Filippo, noto già agli antichi come Filippo l’Arabo per la sua origine, nacque presumibilmente intorno al 204 in un piccolo villaggio chiamato Trachontis dell’Auranitis (od. oasi di Chahba in Ḥawrān, Siria meridionale). Entrato nell’esercito imperiale, Filippo seguì una brillante carriera militare finché, nel 243, non ottenne la carica di praefectus praetorio, il cui prestigio era stato rinvigorito in quegli anni dall’azione di Timesiteo, suocero di Gordiano III. Secondo le fonti storiografiche – decisamente poco favorevoli –, Filippo era un uomo di umili origini e di modesta cultura, superbo e desideroso di raggiungere il potere (cfr. [Aur. Vict.] Epit. Caes. 28, 4, is Philippus humillimo ortus loco fuit). I mezzi di cui si servì nella sua irresistibile ascesa sarebbero stati di ogni tipo: dalla trama alla corruzione, all’assassinio. Assurto a capo del Pretorio, succeduto al defunto Timesiteo, Filippo partecipò alla campagna persiana di Gordiano III. La documentazione storiografica tramanda diverse versioni sulle convulse vicende che portarono alla fine di Gordiano: le fonti ufficiali riportano che il giovane imperatore sarebbe caduto in battaglia contro i Sasanidi nei pressi di Mesiché, in Mesopotamia, e sul luogo sarebbe stato eretto un memoriale (cfr. RSDS ll. 7-8; Zon. XII 17 D); gli autori ostili a Filippo, invece, riferiscono che l’ambizioso praefectus avrebbe iniziato a sobillare i soldati, impegnati sul fronte orientale, contro il loro stesso sovrano e a compiere vere e proprie azioni di sabotaggio: per creare una situazione di grande difficoltà e avere quindi il massimo spazio di manovra, cavalcando lo scontento, Filippo avrebbe insinuato la preferenza accordata da Gordiano verso i foederati gotici dell’esercito e avrebbe ostacolato l’arrivo delle navi cariche di rifornimenti, creando difficoltà di approvvigionamento. A questo punto, Filippo avrebbe ordinato l’assassinio di Gordiano III e si sarebbe fatto proclamare imperatore dai soldati, che a quel punto l’avrebbero visto come loro salvatore (Aur. Vict. Caes. 27, 7-8; Amm. Marc. XXIII 5, 7; 17; SHA Gord. 30, 8-9; Zos. I 18, 3; 19, 1; Zon. XII 18 D).

Šāpur I trionfa su Filippo Arabo e Valeriano. Rilievo, roccia calcarea, c. 241-272. Naqš-e Rajab (Pārs), Necropoli monumentale.

Gli storici contemporanei valutano i resoconti antichi con grande cautela e tendono a ritenere che molte delle informazioni tràdite siano viziate da forti pregiudizi nei confronti di Filippo l’Arabo, che non apparteneva all’establishment romano e veniva, perciò, considerato un outsider. Indubbiamente egli agì con una buona dose di spregiudicatezza, ma è probabile che Filippo non sia stato il mandante dell’assassinio del giovane predecessore.

D’altronde, il suo avvento all’Impero, tra la fine di febbraio e gli inizi di marzo 244, consolidò il potere della componente militare di rango equestre sull’ordine senatorio: era la terza volta in meno di trent’anni che saliva al governo un membro esterno all’aristocrazia (cfr. Cod. Iust. III 42, 6).

Il primo atto ufficiale del nuovo Augustus fu concludere al più presto possibile l’ormai annosa guerra contro i Persiani, stipulando con re Shāpūr un trattato di pace, che alcuni detrattori definirono poco onorevole: secondo i termini dell’accordo, i Romani, pur rinunciando al protettorato sull’Armenia, conservavano le province di Mesopotamia e Syria al prezzo di un gravoso indennizzo di 500.000 aurei (RSDS ll. 8-9; IGR III 1202; Zos. I 19, 1; Zon. XII 19 D.; Syncell. I 683 B.). Nondimeno, questa pacificazione fu celebrata come un successo dalla propaganda imperiale, anche se con prudenza: una serie monetale battuta per l’occasione reca la legenda Pax fundata cum Persis (cfr. RIC IV 3, 69 []).

M. Giulio Filippo Augusto Arabo. Antoninianus, Antiochia c. 244-249. AR 4,55 g. Obverso: Pax fundata cum Persis. Pax stante voltata a sinistra con ramo d’ulivo nella destra e lungo scettro nella sinistra.

In secondo luogo, Filippo rinverdì la vecchia usanza, già adottata dai predecessori fin dai tempi di Antonino Pio, di cooptare al trono un proprio familiare, in modo tale da assicurare la successione e instaurare una dinastia. Così il princeps si associò nell’Impero il figlioletto di appena sette anni, Marco Giulio Severo Filippo, attribuendogli il rango di Caesar (RIC IV 3, 216a []). Poi, per conferire maggiore legittimità al proprio regime, l’imperatore celebrò l’apoteosi di suo padre, Giulio Marino, malgrado questi non fosse mai asceso alla porpora: a conferma di ciò concorrono alcuni monetali bronzei con la legenda θεῷ Μαρίνῳ («al divo Marino») e il busto del genitore sorretto in volo da un’aquila (RPC VIII 2243; IGR III 1199-1200; cfr. [Aur. Vict.] Epit. Caes. 28, 4, … patre nobilissimo latronum ductore).

Conclusa l’onerosa pace con i Persiani, Filippo rimase in Oriente fino all’inizio dell’estate. Avviando una tendenza, che in seguito sarebbe diventata una prassi, di decentrare il potere e delegare responsabilità ad altri, si apprende da Zosimo (I 19, 2) che l’imperatore investì il fratello maggiore, Gaio Giulio Prisco, del comando delle legioni siriane: la decisione non era casuale, ma rientrava perfettamente nel solco del progetto dinastico di Filippo. Prisco, che tuttavia non venne associato al trono, era stato praefectus praetorio sotto Gordiano III, prima come collega di Timesiteo e poi dell’Augusto fratello. Nel 244 egli conservò l’incarico di comandante del Pretorio e il titolo di vir eminentissimus (ἐξοχώτατος), ma fu insignito anche della praefectura Mesopotamiae, retta cum imperio pro consule (ἔπαρχος Μεσοποταμίας), e del ruolo di rector totius Orientis (cfr. IGR III 1201-1202; P. Euphr. 1; CIL III 14149 = ILS 9005). Tra le incombenze ricevute, a quanto sembra, Prisco si vide assegnare l’improbo compito di riscuotere le somme necessarie per pagare l’indennizzo persiano, impresa resa ancor più ardua dal fatto che la corresponsione dovesse essere in oro.

Quanto a Filippo, egli si adoperò per una riorganizzazione amministrativa delle province orientali, conferendo a diverse comunità lo statuto giuridico di colonia (richiamandosi alla politica dei Severi), e compì una serie di restauri nelle città più colpite dalla recente guerra in Syria e in Palaestina: si hanno tracce del suo passaggio a Nisibis e Singara, entrambe elevate al rango di coloniae; la chiusura della zecca di re Abgar X a Edessa, in Mesopotamia; gli interventi a Flavia Neapolis (od. Nāblus) e a Bostra (od. Buṣrā), dichiarata città metropolitana, quartier generale della Legio III Cyrenaica.

Un esattore delle imposte. Rilievo, calcare, c. II-III secolo, da Saintes.

Proprio a soli dodici miglia di distanza da Bostra, nell’Auranitis, sorgeva il villaggio che aveva visto i natali dell’imperatore. Egli lo rifondò con il nome di colonia Philippopolis (Aur. Vict. Caes. 28). I resti dell’abitato, con il suo impianto quadrangolare cinto da mura e con le porte collocate ai limiti di cardo e decumanus, conservano ancora oggi gran parte degli edifici realizzati sotto Filippo. Intorno all’incrocio tra i due principali assi viari furono disposti gli edifici più rappresentativi: il teatro, la basilica, il tetrapylon, il palazzo imperiale, il tempio esastilo dedicato alla domus divina (il Philippeion) e il sacello del Divo Marino (IGR III, 1200). Tutt’intorno furono costruiti le insulae, l’acquedotto, gli impianti termali, la necropoli e alcune residenze dalle quali provengono composizioni musive di notevole bellezza e valore artistico. La città, dopo la morte dell’imperatore, non sarebbe stata completata, rimanendo così, per certi versi, chiusa storicamente nella sua breve parentesi architettonica (si è ipotizzato che fosse stata edificata dal sovrano e per il sovrano!); Philippopolis può essere a ragione considerata l’ultima delle città romane fondate nel Levante (cfr. IGR III, 1195-1202).

Vale la pena di soffermarsi su uno dei numerosi mosaici che Philippopolis ha restituito nel 1952, opera nella quale è possibile ravvisare alcuni spunti circa la mutata concezione religiosa sotto Filippo l’Arabo. Conservato al Museo di Damasco, il reperto (337 cm x 276 cm), che ha subito qualche rimaneggiamento nelle epoche successive, è bordato da quadrati intorno ai quali si snoda il motivo della greca. Al centro si trova la figura di Gea, circondata da quattro puttini identificabili con le personificazioni romane delle Stagioni (Horae). Alle spalle della dea, sempre in posizione centrale, sono rappresentati Trittolemo, il genio benefico delle terre coltivate, a cui Demetra insegnò l’uso degli strumenti per lavorare la terra, e la personificazione dell’Agricoltura, nota col nome di Gheorghia. Sulla destra compare Prometeo, intento a modellare la prima figura umana con accanto Afrodite e, sul registro superiore, Hermes fiancheggiato da due figure femminili, fra le quali è stata individuata l’immagine di Psiche. Sulla sinistra, invece, sta seduta la figura di Aion, nel cui volto si è tentato di riconoscere l’effige dell’imperatore. Aion, il tempo assoluto, la divinità solare suprema e primordiale, opposta a Cronos proprio perché quest’ultimo rappresenta il tempo nella sua quantità e relatività, ha alle spalle le quattro Stagioni. Completa la composizione, in alto, la raffigurazione dei quattro venti principali, due per parte, con al centro due Geni che fanno sgorgare acqua sulla terra da due contenitori. Il carattere fortemente simbolico di tutta la rappresentazione si discosta dalle tradizionali scene mitologiche in cui compaiono cicli epici o divinità a sé stanti, come era d’uso nel panorama iconografico ellenistico-romano.

Allegoria del Saeculum Aureum. Mosaico, III secolo, da Philippopolis (od. Chahba, Siria). Damasco, National Museum (foto da Charboennaux 1960).

Qui, al contrario, il principale soggetto a cui alludono tutte le figure, divinità comprese, è il ciclo naturale della vita, nelle sue continue e periodiche mutazioni e rinnovamenti. Si è quindi di fronte alla celebrazione del “Buon Governo” e del Saeculum Aureum, in cui Aion (con il volto di Filippo) permette e favorisce tutte le attività. Tale visione si inserisce bene in quell’atmosfera di unificazione e pacificazione tra tutte le genti e le religioni che si stabilì in questi anni di principato. Anzi, proprio la politica religiosa di Filippo può considerarsi il coronamento delle tendenze sincretistiche degli ultimi Severi. E questo, in special modo, per quanto riguardava il rapporto con il Cristianesimo.

È infatti curioso che la tradizione patristica – Eusebio di Cesarea (HE VI 34), Giovanni Crisostomo (De sanct. Babyl. in Iulian. 6) – e più tarda – Zonara (XII 19 D) –, abbia considerato Filippo l’Arabo addirittura un seguace della nuova religione: tra i vari episodi, forse il più eclatante è quello che avrebbe visto l’imperatore presentarsi a una funzione religiosa ad Antiochia, in occasione della Pasqua, e che il vescovo Babila gli avrebbe impedito l’accesso se prima non si fosse confessato e pubblicamente pentito. D’altra parte, Eusebio riferisce che, già agli inizi del III secolo, l’Auranitis, sotto l’episcopato di Berillo di Bostra, era sede di una fiorente comunità cristiana con tanto di scuola teologica, le cui deviazioni dottrinali, sia in materia cristologica sia sull’immortalità dell’anima, avevano indotto i vescovi orientali a riunire un sinodo e ad appellarsi al prestigio di Origene di Alessandria (Euseb. HE VI 20; 33; 37); tra l’altro, lo stesso Origene fu in contatto epistolare con Filippo e l’imperatrice Marcia Otacilia Severa (Euseb. HE VI 36, 3).

Non è dato di sapere con certezza se il princeps sia stato realmente un cristiano (cfr. Oros. VII 20, 2) o se, come più prudentemente ritengono alcuni studiosi, egli abbia solo manifestato particolare simpatia verso il Cristianesimo, come aveva già fatto a suo tempo Severo Alessandro. Comunque, è curioso osservare come una simile tradizione sia stata sviluppata proprio da quei Padri della Chiesa che fino a qualche decennio prima avevano ritenuto assurdo che un imperatore romano potesse farsi cristiano! Altre fonti, successivamente, ricordano le proteste dei gentiles contro il governo di Filippo, che non perseguitava più i Cristiani (Orig. contra Cels. 3, 15), e le preoccupazioni della comunità alessandrina dopo la scomparsa dell’imperatore (Dionig. Alex. ap. Euseb. HE VI 41, 9).

Il presunto Cristianesimo di Filippo, tuttavia, non è confermato dagli autori non cristiani. Dai dati esteriori emerge, invece, che il princeps arabo fu uno strenuo propagatore dei valori tradizionali della romanità e dell’Impero, come si evince dall’apoteosi del padre e dalla forte aspirazioni a celebrare il millenario dell’Urbe. Sarebbe più prudente, perciò, considerare Filippo non solo tollerante verso ogni credo religioso, ma soprattutto desideroso di portare unità e pace nell’Impero, sotto la sovranità di una nuova dinastia, accogliendo benevolmente tutte le forze e le energie disponibili, secondo quel ciclo naturale della vita così ben espresso nel mosaico di Philippopolis.

Marcia Otacilia Severa. Busto, marmo, c. 244-249. New York, Metropolitan Museum of Art.

Completata la risistemazione dell’Oriente e lasciate istruzioni al fratello, Filippo si affrettò a raggiungere Roma come Persicus Maximus (cfr. CIL VI 1097). L’atteggiamento assunto dal nuovo uomo forte fu di continuità con il predecessore Gordiano III, nel segno di un recupero della centralità dell’Urbe: i Romani ricordavano fin troppo bene l’assenza di Massimino il Trace dalla città per tutta la durata del suo principato, mentre, da parte sua, Filippo doveva aver fatto tesoro della tragica fine del «barbaro», colpevole di aver trascurato Roma e le sue istituzioni. Oppure, più semplicemente, il nuovo sovrano sapeva perfettamente che ottenere la sanzione del Senato, del Pretorio e del Popolo romano gli avrebbe garantito la massima legittimazione al potere – una conferma che l’appellatio imperatoria delle truppe non bastava. La dedica di un altare votivo alla Victoria Redux di Filippo e Otacilia, curata da un certo Pomponio Giuliano per conto della Legio II Parthica di stanza sui Colli Albani, testimonia che l’imperatore e il suo seguito erano nell’Urbe non oltre il 23 luglio 244 (ILS 505). La permanenza in città dell’imperatore è ulteriormente confermata dall’assunzione, l’anno successivo, del consolato ordinario. Il princeps concesse ai pretoriani gli attesi donativa e al popolino i consueti congiaria del valore di 350 denarii (Chron. a. CCCLIIII 147 M); quindi, cercò di intrattenere buoni rapporti con il Senato, nonostante egli appartenesse alla classe equestre e provenisse da una lontana provincia. Si dedicò all’urbanistica della città, realizzando anche nuove costruzioni, tra le quali una fontana monumentale trans Tiberim e una residenza sul Celio (Aur. Vict. Caes. 28, 1).

Nel resto dell’Impero, comunque, l’opera di Filippo, inserendosi nella linea dei predecessori, fu quella di provvedere alla sistemazione e al rinnovamento del complesso sistema viario, lavori che solitamente erano di competenza delle amministrazioni locali: il gran numero di cippi miliari, recanti il nome di Filippo, attesta una febbrile attività nell’ambito delle infrastrutture (cfr. A. Stein, s.v. Iulius 386, RE 10, 1918, 766 []).

M. Giulio Filippo Arabo. Busto, marmo, c. 244-249. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

Da ogni parte, l’ascesa al potere di Filippo fu salutata come un periodo di ritrovata pace – tema piuttosto ricorrente nella monetazione coeva (cfr., p. es., RIC IV 3, 69; 72; 99-100). Ma le difficoltà c’erano ancora e soprattutto sui fronti esterni: dalle province danubiane della Moesia e dalla Dacia giungevano notizie poco rassicuranti. Si apprende, infatti, da Zosimo (I 20, 1-2), unica fonte al riguardo, che i Carpi, una popolazione vagamente associata alla stirpe germanica, a partire forse dallo stesso 244, compirono razzie al di qua del Danubio e che invano furono contrastati, agli inizi del 245, da Messalino e da Severiano: il primo era governatore della Moesia Inferior, il secondo era cognato dell’imperatore ed era stato posto al comando delle legioni illiriche (cfr. Cod. Iust. II 26, 3). Le incursioni e i saccheggi compiuti dai barbari costrinsero Filippo ad assumere personalmente il comando delle operazioni di guerra già nello stesso 245. La presenza dell’imperatore al fronte sarebbe confermata da due documenti: una constitutio (FIRA 2, 657) promulgata il 12 novembre ad Aquae in Dacia (od. Cioroiul Nou, Romania) e trasmessa dall’Epitome Codicum Gregoriani et Hermogeniani Wisigothica; e un’iscrizione (CIL III 14191 = OGIS 519 = IGR IV 598 = FIRA 1, 107 = MAMA X 114 = AE 1898, 102+128 []) riportante il rescritto in favore degli abitanti di Aragua in Phrygia (od. Yapılcan, Turchia). Vale la pena di soffermarsi su questa epigrafe, che testimonia la disponibilità di Filippo l’Arabo nei confronti dei più deboli. L’imperatore fu interpellato da un miles centenarius frumentarius di nome Didimo, che gli sottopose la richiesta di soccorso per conto del κοινόν τῶν Ἀραγουηνῶν, vittima di abusi ed estorsioni dei funzionari imperiali. Il fatto che sia stato proprio un soldato, anziché un magistrato o un retore di professione, a recare la petizione rivela decisive trasformazioni sia nel ruolo di intermediari, assunto dai soldati, sia nelle modalità di comunicazione fra sudditi e principe. Dal momento che l’imperatore si trovava impegnato nella guerra carpica, perché non ricorrere all’intercessione di un uomo d’armi, anziché un declamatore? Come si legge nel rescritto, Filippo e suo figlio delegarono al governatore d’Asia, il proconsole Marco Aurelio Egletto, l’incarico di dirimere la questione.

Quanto alla guerra carpica, Zosimo informa che per tutto il 246 Filippo l’Arabo fu impegnato sul limes, dapprima in Moesia e poi in Dacia, dove era già nell’estate di quell’anno: egli concesse alla provincia il diritto di battere moneta. Nel quadro di un’estesa offensiva volta ad arginare le infiltrazioni di  externae gentes, Filippo riportò importanti successi anche sui Germani (presumibilmente Quadi), ricevendo il titolo onorifico di Germanicus Maximus (IGR IV 635 []; P. London 3, 951). Comunque, solo nel 247 riuscì dopo ripetuti scontri a riportare una vittoria decisiva sui Carpi, costringendoli a chiedere la pace. Il successo ottenuto fu dal principe celebrato in Roma con grande pompa e con l’attribuzione a sé stesso del cognome onorifico di Carpicus Maximus (RIC IV 3, 66, Victoria Carpica). Proprio in questa occasione il figlio di Filippo fu innalzato al rango di Augustus (CIL XI 6325; Zos. I 22, 2; Zon. XII 19 D; Oros. VII 20, 1) e alla consorte dell’imperatore, Otacilia Severa, venne conferito il pomposo appellativo di mater Augusti et castrorum et Senatus et patriae (PIR² I 462).

M. Giulio Filippo Augusto Arabo. Antoninianus, Roma c. 248. AR 4,77 g. Obverso: Co(n)sul III – Saeculares Aug(ustorum). Cippo commemorativo iscritto.

Difficilmente, nei precedenti decenni, si era giunti, come con Filippo, a un così grande consenso verso l’imperatore da parte non solo di Roma, ma anche di molte delle provincie romane. Numerose iscrizioni, provenienti da ogni parte dell’Impero, testimoniano il favore riscosso da Filippo: dediche onorifiche, altari votivi e basi di statua recano formule in honorem o d’invocazione agli dèi pro salute del principe, del Genius / Numen Augusti e della domus divina; i militari celebrano le vittorie, vere e presunte, del loro imperatore. Quale migliore premessa, quindi, a quel primo Millennio di Roma che stava per celebrarsi e per il quale fervevano imponenti preparativi. Le fonti si soffermano molto su questi festeggiamenti, avvenuti tra il 21 e il 23 aprile del 248: tre giorni e tre notti di feste ininterrotte, svolte in tutte le città dell’Impero e, naturalmente, nell’Urbe, dove si susseguirono spettacoli nei teatri, nel Colosseo e nel Circo Massimo, a cui il princeps, al suo terzo consolato, assistette dalla residenza sul Palatino (CIL VI 488; S.H.A. Gord. 33, 1; Zos. II 1-7; Aur. Vict. Caes. 28, 1; [Aur. Vict.] Epit. Caes. 28, 3; Eutrop. IX 3; Oros. VII 20, 2; Hieron. Chron. s. a. CCXLVICCXLVII; Chron. a. CCCLIIII 147, 33 M). Le monete di questo periodo ricordano ampiamente i festeggiamenti: sui coni, corredati dalla legenda Saeculares Augustorum, sono raffigurati gli animali esotici dei ludi o sono riproposti il cippo o la colonna commemorativa dell’evento (cfr., p. es., RIC IV 3, 24c; 161; 200; 265c). La suggestione dei festeggiamenti pare abbia avuto anche riflessi letterari: forse in quell’occasione un senatore, Gaio Asinio Quadrato, pubblicò una storia di Roma in quindici libri (Χιλιετηρίς), che abbracciava appunto circa un millennio dalla fondazione dell’Urbe al principato di Severo Alessandro (Suda κ 1905, s.v. Κοδράτος = Asin. FGrHist. 97).

Per un brevissimo momento, con la celebrazione del millenario, Roma parve tornare ai fasti del passato, recuperando una tradizione viva ormai solo nella memoria. Nonostante il clima di giubileo suscitato dai ricchi apparati e dagli splendidi giochi nell’Urbe, la situazione generale nella compagine imperiale non era assolutamente delle più rosee. L’analisi documenti papiracei provenienti dall’Egitto (P. Oxy. 1, 78; 6, 970; 33, 2854; 42, 3046-3050; 3178; P. Leit. 16 = SB 8, 10208; P. Mil. Vogl. 2, 97) ha permesso di ricostruire, almeno in parte, le linee della politica economico-fiscale di Filippo l’Arabo, soprattutto per quanto concerne l’apparato amministrativo provinciale, e i tentativi di riforma del sistema tributario: questioni altrimenti oscure, a causa della grave lacuna della storiografia contemporanea. I testi pervenuti restituiscono una vera e propria crisi agraria che colpì l’Aegyptus nei primi anni di governo di Filippo (cfr. anche Or. Sibyll. XIII, 42-49; 50-51): la situazione era aggravata dalle mancate piene del Nilo, che avevano come effetti quelli di rendere meno produttivi i campi, rallentando e impoverendo le attività rurali; di conseguenza, all’abbandono dei terreni inutilizzabili (e, quindi, non tassabili) le autorità provinciali cercarono di rispondere con una revisione delle proprietà fondiarie, ridefinendone i confini. I periodi di magra e le malannate provocavano forti ripercussioni sul sistema d’imposizione fiscale, costringendo i proprietari a richiedere possibili sgravi e a cedere forzatamente i terreni. Effetti altrettanto disastrosi si ebbero sulla politica annonaria, dovuti alla difficoltà di reperimento e trasporto delle derrate alimentari provenienti dall’Egitto. Perciò, sia i funzionari pubblici sia lo stesso imperatore tentarono di introdurre innovazioni nel sistema delle prestazioni liturgiche in modo da evitare la paralisi dei rifornimenti granari. Il settore annonario era, dunque, quello più colpito proprio a causa della particolare onerosità che, in una situazione simile, comportava il servizio di rifornimento: la responsabilità era normalmente detenuta dai membri delle βουλαί cittadine, magistrati con compiti amministrativi, che, in onore al proprio ruolo, si assumevano l’incombenza di investire a fondo perduto le proprie rendite fondiarie per le liturgie (λειτουργίαι). La crisi agraria, però, costrinse molti membri della classe buleutica a rinunciare a ogni incarico pubblico: sono testimoniati casi di cessio bonorum per funzionari sfiniti dall’aggravio liturgico. Se la tassazione diretta gravava pesantemente sull’attività agricola, le liturgie allontanavano dal lavoro, a volte per anni, persone che per garantire servizi non potevano badare ai propri interessi, abbandonando la propria attività e la terra. Verificandosi simili congiunture, coloro che erano incaricati di queste prestazioni, specie quelle della riscossione dei tributi, si vedevano costretti a indebitarsi per far fronte alla responsabilità di una sfortunata esazione. Probabilmente verso la fine del suo principato (c. 248/9 ?), Filippo tentò di affrontare la crisi egiziana allargando l’onere liturgico anche ai privati cittadini (ἰδιῶται), cercando nuovi soggetti che potessero farsi carico delle prestazioni (P. Oxy. 33, 2664): molto probabilmente le persone individuate per tali incombenze furono i coloni (κωμῆται; cfr. SB 5, 7696). Inoltre, complice la spirale inflazionistica che da tempo vessava l’Impero, proprio sotto Filippo l’Arabo, il rapporto di valore tra la moneta d’oro e quella d’argento mutò considerevolmente, a scapito della seconda, al punto che per avere un aureus occorreva scambiare tra i 60 e i 65 denarii d’argento. L’aumento del prezzo dell’oro fu provocato dalla scarsità in circolazione del numerario prezioso (cfr. IGR I, 5 1330, 5008 []; 5010 []). Insomma, la “macchina” dell’Impero, già vacillante e instabile sul piano economico, sembrava precipitare verso più profonde crisi e fratture.

Oxford, Bodleian Library MS. Gr. class. g. 58 (P). P. Oxy. 6, 970, c. 244-245. Denuncia di terreni non inondati dalla piena del Nilo [].

Nuove e pressanti difficoltà militari incombevano di nuovo dal settore danubiano: pur con alcune imprecisioni, un passo di Giordane (Get. 89) tramanda che i Goti, che fino ad allora erano rimasti tranquilli, avevano ricevuto un regolare tributo e, durante l’ultima campagna persiana (242-244), avevano militato al soldo di Gordiano III, si videro togliere lo stipendium da Filippo, trasformandosi da amici a nemici di Roma (Gothi… subtracta sibi stipendia sua aegre ferentes, de amicis effecti sunt inimici). Perciò, nel corso del 248, dalle loro sedi settentrionali, sotto la guida di re Ostrogota e dei condottieri Argaito e Gunterico, cominciarono a premere e a varcare i confini della Moesia, mostrando chiaramente che la questione danubiana era tutt’altro che risolta: all’invasione si unirono anche Bastarni, Carpi, Vandali Asdingi e Taifali e l’orda, raggiunta Marcianopolis (od. Devnya, Bulgaria), la capitale della provincia, la posero sotto assedio. L’irruzione dei barbari nelle province balcaniche rivelò la debolezza della frontiera danubiana: forse per la negligenza dell’imperatore nel rispondere all’offensiva, forse per le sue politiche fiscali, il disagio e il malcontento nei confronti della dinastia orientale dilagarono tra le legioni stanziate sul limes; non sono chiari i motivi che portarono alla loro rivolta, ma, presa probabilmente coscienza di essere l’ago della bilancia in un settore così delicato e sentendosi forse poco rappresentati, i soldati della Pannonia e della Moesia acclamarono imperatore il loro comandante (ταξιάρχης), Tiberio Claudio Marino Pacaziano, di famiglia senatoria, che era subentrato a Severiano (Zos. I 21, 2; Zon. XII 19 D.; CIL III 94; AE 1965, 21; PIR² II 929-930). La ribellione di Pacaziano può essere datata grazie alle sue emissioni monetali, che offrono gli stessi identici temi di propaganda dell’imperatore in carica: un antoninianus (RIC IV 3, 6) porta sul dritto il busto radiato, drappeggiato e corazzato dell’usurpatore e la sua sequenza onomastica (Imp. Ti. Cl. Mar. Pacatianus Aug.), mentre sul rovescio reca la tradizionale personificazione di Roma assisa in trono con la legenda Romae Aetern(ae) an(no) mill(esimo) et primo. L’anti-imperatore, evidentemente, prese possesso della zecca di Viminacium, capitale della Moesia Superior, perché non sono state trovate monete di Filippo ivi coniate nell’anno X dell’era locale, cioè nel 248/9. Da lì Pacaziano emise coni che celebravano la concordia tra i soldati e la fedeltà delle truppe (Concordia militum, Fides militum), la prosperità e la pace eterna (Felicitas publica, Pax aeterna) e il ritorno dell’imperatore (Fortuna Redux).

Tib. Claudio Marino Pacaziano. Antoninianus, Viminacium c. 248-249. AR 4,33 g. Recto. Imp(erator) Ti(berius) Cl(audius) Mar(inus) Pacatianus Aug(ustus). Busto radiato, drappeggiato e corazzato dell’usurpatore, voltato a destra.

Simili agitazioni si ebbero, a quanto sembra, anche in Germania Superior, dove i militari acclamarono Augustus un certo Marco Silbannaco, personaggio noto solo da un antoninianus rinvenuto nell’odierna Lorena (RIC IV 3, 105, 1; cfr. Eutrop. IX 4), e in Dacia, dove prese il potere Sponsiano, figura non altrimenti nota se non grazie a una coppia di aurei (RIC IV 3, 106, 1), scoperti nel 1713 in Transilvania e riconosciuti autentici solo nel 2022 []. Ancora più pericolose furono le sollevazioni avvenute in Oriente: il regime fiscale instaurato da Prisco era diventato in poco tempo tanto insostenibile quanto oppressivo, al punto tale da far scoppiare dei disordini. Probabilmente l’abrasione del nome di Prisco da un’iscrizione palmirena, databile ad alcuni anni prima, è indice dell’impopolarità raggiunta dal fratello dell’imperatore (cfr. IGR III 1033). A ogni modo, nella confusione più totale, si fece proclamare Augustus un certo Marco Furio Rufo Iotapiano, esponente dell’élite di Emesa, che vantava legami di parentela con Severo Alessandro o addirittura di discendere da Alessandro Magno (PIR² IV 49). Con ogni probabilità, il rector Orientis cercò di reagire ed eliminare il pretendente, ma le fonti non chiariscono la conclusione della vicenda (cfr. Aur. Vict. Caes. 29, 2; Pol. Silv. Later. 38, in Chron. min. I, MGH AA. IX, 521; Zos. I 20, 2; I 21, 2; Or. Sibyll. XIII 89-102).

Con la presenza di ben quattro usurpatori, portati alla porpora dalle legioni sempre più affamate di bottino e di gloria, pronte a schierarsi con il primo disposto ad accontentarle, Filippo si vide sfumare il sogno di aver avviato una nuova epoca in cui l’Impero fosse felicemente unito sotto la sua guida. Una tradizione confluita in Zosimo (I 21, 1) e in Zonara (XII 19 D.), apparentemente in contraddizione con l’immagine dell’uomo duro e spietato, riporta un evento mai accaduto prima di allora nella storia di Roma: il princeps, turbato dalle circostanze, si presentò in Senato per rassegnare le sue dimissioni. La procedura, assai singolare per i costumi romani, suscitò l’immediata reazione dei patres che respinsero la proposta. Nel consesso si distinse il praefectus Urbi, Gaio Messio Quinto Decio, «uomo in vista per famiglia e dignità, stimato e dotato inoltre di ogni virtù» (γένει προέχων καὶ ἀξιώματι, προσέτι δὲ καὶ πάσαις διαπρέπων ταῖς ἀρεταῖς): egli, dimostrando la propria lealtà, affermava che le preoccupazioni del principe erano infondate e che i rivali di Filippo, indegni del titolo usurpato, sarebbero stati presto eliminati dai loro stessi fautori. Seppur sfiduciato, l’imperatore tornò sui suoi passi, riprendendo il controllo della situazione: decise di inviare proprio Decio a fronteggiare le invasioni lungo le sponde del Danubio e a ristabilire la disciplina tra i soldati Illyriciani. Il nuovo plenipotenziario, nativo di Budalia (od. Martinci, Serbia), una cittadina che sorgeva nei pressi di Sirmium, nella Pannonia Inferior, si distinse subito per abilità e rapidità d’intervento. Egli, assunto il comando delle legioni, respinse i Goti e i loro alleati, quindi, punì severamente i fautori di Pacaziano: vedendo che il generale perseguiva i colpevoli con particolare diligenza e scorgendo in lui una figura che eccelleva per capacità politica ed esperienza militare, nel giugno 249, i soldati Illyriciani decisero di fargli indossare la porpora. Stando alle fonti (Zos. I 22, 1; Zon. XII 20 D.), inizialmente riluttante a mettersi contro Filippo, considerati i rapporti con lui, successivamente Decio si decise ad affrontare in armi il suo avversario. Filippo, informato dell’appellatio imperatoria di Decio, riunite le legioni a lui fedeli, si era messo in marcia verso le province danubiane.

M. Giulio Severo Filippo II. Busto, marmo, c. ante 249. Venezia, Museo Archeologico Nazionale.

Nel settembre del 249 d.C. i due imperatori-soldati si scontrarono a Verona (Aur. Vict. Caes. 28, 10; [Aur. Vict.] Epit. Caes. 28, 2; Eutrop. IX 3) e Filippo trovò la morte, come era d’uso, per mano amica, nella sua tenda (Or. Sibyll. XIII 79-80). Secondo un’altra tradizione, invece, risalente a Giovanni Antiocheno (FGrHist 4 F 148 = FHG IV 597 M), non ci sarebbe stata alcuna battaglia a Verona: l’imperatore sarebbe stato ucciso a tradimento negli accampamenti di Beroea (od. Veroia, Grecia settentrionale), di ritorno da una campagna vittoriosa sui barbari. Comunque sia, giunta a Roma la notizia della caduta di Filippo, suo figlio dodicenne fu barbaramente trucidato dai pretoriani (Aur. Vict. Caes. 28, 11; Eutrop. l.c.; Oros. VII 20, 4).

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Gordiano III, un principe troppo giovane

La crisi economica del III secolo non investì allo stesso modo tutte le regioni dell’Impero romano. A soffrirne maggiormente furono le province occidentali e in particolar modo le aree di confine, più esposte agli attacchi dei razziatori alamanni, franchi e burgundi. Spesso i coloni abbandonavano le proprie terre per trovare rifugio in città o all’interno delle fortezze e, di conseguenza, diminuivano drasticamente le eccedenze alimentari da importare a Roma. Nonostante i ripetuti tentativi da parte del governo centrale di creare nuovi insediamenti agricoli e di incentivare il reperimento di manodopera anche fra i prigionieri di guerra, vastissimi territori e non solo nelle zone di frontiera furono definitivamente abbandonati.

Due leoni sbranano un cinghiale. Mosaico, III sec. da Thysdrus (od. El-Jem).

Questo stato di cose non tardò a far sentire forti ripercussioni, con esiti ancor più drastici, anche nei comparti dell’artigianato e del commercio. Se, infatti, i contadini erano facilmente rimpiazzabili, trovare un buon fabbro o un esperto scalpellino divenne sempre più difficile. Nelle Galliae e nelle regioni lungo i grandi fiumi di confine a poco a poco scomparvero le secolari tradizioni artigianali e pare che i commerci abbiano subito un improvviso arresto: nessuno si arrischiava a percorrere grandi distanze se non in ambito strettamente locale.

La situazione si fece tanto seria che i funzionari imperiali per sopperire agli equipaggiamenti militari dovettero improvvisare dal nulla fabricae tessili e d’armi, obbligando talvolta con la forza gli artigiani locali a collaborare.

Diversamente, le province orientali e quelle africane, meno esposte agli attacchi delle popolazioni esterne, riuscirono a conservare ancora per un po’ un certo grado di prosperità. Ciononostante, nel 237, il terzo anno di principato di Massimino il Trace, proprio in Africa proconsularis si verificò un’importante sollevazione. Il procurator fisci inviato in quella provincia, un uomo rapace e di pochi scrupoli, conscio del fatto che il sistema delle confische avrebbe rimpinguato enormemente le casse imperiali, impose un’onerosa ammenda ad alcuni giovani esponenti dell’aristocrazia locale, privandoli di gran parte del loro patrimonio. Il provvedimento innescò una violenta reazione: nei tre giorni di dilazione concessi dal funzionario, i fautori della rivolta misero in piedi un piccolo esercito di servi e contadini, armati di scuri e bastoni, e, approfittando di un’udienza ufficiale, gli insorti eliminarono fisicamente il procuratore e occuparono Thysdrus (od. El-Jem), considerata la «capitale dell’olio» nel commercio mediterraneo (SHA Max. 14, 1).

M. Antonio Gordiano I Semproniano Africano. Sesterzio, Roma 238. Æ 18, 47 g. Recto: Imp(erator) Caes(ar) M. Ant(onius) Gordianus Afr(icanus) Aug(ustus). Busto laureato, drappeggiato e corazzato dell’imperatore, voltato a destra.

Come atto supremo della loro sollevazione i giovani ribelli acclamarono Augustus il loro governatore, Marco Antonio Sempronio Gordiano. Questi, che aveva da poco oltrepassato gli ottant’anni e si trovava al culmine di una brillante carriera politica, fu scosso dall’improvvisa ascesa alla porpora imperiale. Accettato l’incarico dopo un’iniziale riluttanza, come suo primo atto ufficiale Gordiano elevò il proprio figlio al suo stesso rango (SHA Gord. 5-9; Hdn. VII 5).

Il biografo Giulio Capitolino informa che i due neo-imperatori inviarono a Roma una legatio cum litteris per informare il Senato sui recenti sviluppi in Africa e sulle loro intenzioni di governo: la generosità, l’umanità e la limitata pressione fiscale furono opposte alla durezza di Massimino (SHA Gord. 9, 7). La risposta della plebe urbana alla diffusione della notizia fu immediata: l’uccisione dei fautori del Trace da parte della cittadinanza e il subito riconoscimento dei due Gordiani come veri imperatori Senatus consulto lascerebbero sospettare l’ipotesi di un complotto ben orchestrato, o comunque che nell’Urbe alcuni esponenti dell’aristocrazia abbiano seguito con particolare sollecitudine gli eventi africani.

Senonché, appena tre settimane dopo l’avvento dei due Gordiani, il governatore della Numidia, un certo Capelliano, forse per motivi personali fedele a Massimino, avanzò con le sue truppe e un contingente di Mauri contro Cartagine, sede provvisoria dei nuovi Augusti. Il giovane Gordiano morì in combattimento, mentre suo padre, alla notizia della caduta dell’amato figlio, si tolse la vita (Hdn. VII 9, 11; SHA Max. 19, 20, Gord. 15-16; Zon. 12, 17; ILS 8499).

M. Antonio Gordiano I Semproniano Africano. Denario, Roma 238. AR. 3,4 g. Obverso: Romae aeternae. Personificazione dell’Urbe, voltata a sinistra, assisa con scudo, elmo, lancia e palladio.

Nel marzo del 238 i senatori, preoccupati del vuoto di potere e soprattutto delle possibili reazioni delle forze armate, presso le quali da tempo serpeggiava un certo malcontento, e di Massimino, ormai dichiarato decaduto e hostis publicus, in maniera del tutto insospettata e con grande decisione assunsero la direzione del governo, attraverso la commissione speciale dei XXviri rei publicae curandae (Hdn. VII 7, 2-7; SHA Max. 15, 2; Gord. 9-11; Aur. Vict. Caes. 26; ILS 1186).

Il venerando consesso, riunito nel tempio di Giove Capitolino, dopo un confronto concitato, espresse i suoi candidati all’imperium nelle persone di Pupieno Massimo e Calvino Balbino, attribuendo loro i medesimi poteri e concedendo la stessa titolatura. Le fonti antiche e soprattutto l’Historia Augusta li presentano assai differenti fra loro per indole e attitudine: Balbino vantava nobili natali, era uno stimatissimo oratore e un consolare che con liberalità e rettitudine aveva governato diverse province; Pupieno, invece, era di estrazione sociale più bassa, un rude militare che si era guadagnato il rispetto e gli onori della nobiltà sui campi di battaglia contro Sarmati e Germani; di lui la plebe urbana apprezzava soprattutto la semplicità dei modi, che non aveva mai abbandonato nemmeno dopo aver raggiunto il rango senatorio. Insomma, si trattava di due uomini diversissimi, ma complementari, nei quali il Senato riconosceva l’importanza di coniugare la mitezza nella giurisdizione civile a una maggiore decisione nel potere militare.

Nel momento stesso in cui la Curia conferiva in Campidoglio la porpora ai due patres, una sedizione popolare turbò la cerimonia, costringendo a cooptare insieme a Pupieno e Balbino il tredicenne Gordiano, nipote dei due Africani, nominandolo Caesar (Hdn. VII 10; AE 1951, 48).

M. Antonio Gordiano III Pio. Busto, marmo, c. 238-242. Berlin, Altes Museum.

Raggiunto dalle notizie degli eventi, Massimino, che non si era mai degnato di visitare Roma, si mise alla testa del suo esercito e marciò alla volta della capitale. Rimase, tuttavia, invischiato nell’assedio di Aquileia, dove trovò la morte per mano dei suoi stessi soldati della legio II Parthica (Hdn. VII 8; 12, 8; VIII 1-5; SHA Max. 21-23; Balb. 11, 2; Zos. 1, 15). La morte del comune nemico, però, non sortì effetti benefici, ma peggiorò la situazione, aumentando i contrasti tra i due imperatori eletti dal Senato e seminando il malcontento nella guardia, i cui membri temevano di restare esclusi dai giochi. Così, assassinati i due contendenti, i pretoriani acclamarono imperatore Gordiano III (SHA Gord. 22, 5; Hdn. VIII 8).

L’ascesa al trono di Gordiano III fu salutata come l’inizio di una nuova era di pace, giustizia e stabilità, soprattutto dalle classi agiate, sia italiche sia provinciali, per le quali l’eliminazione di Massimino il Trace rappresentava la migliore garanzia di un ritorno alla normalità. Alle spalle del giovanissimo imperatore ci fu una folta schiera di eminenti personalità politiche, tra le quali spiccava l’energico praefectus praetorio (dal 241) C. Furio Sabinio Aquila Timesiteo: a suggellare l’intesa politica e i comuni intenti, Gordiano ne prese in sposa la figlia, Furia Sabina Tranquillina (CIL XIII 1807 = ILS 1330; SHA Gord. 23, 5; 6; 24, 2; 25, 1). Ma la tanto sospirata pace ebbe brevissima durata; all’orizzonte si profilavano oscure e minacciose nubi: sul fronte danubiano facevano la loro ricomparsa Daci, Carpi e Goti, mentre a Oriente i Sassanidi, guidati da Šāpūr I, premevano lungo la linea di confine, mettendo in serie crisi la stabilità dell’Impero.

Contro le popolazioni che premevano sulla frontiera danubiana Gordiano poté valersi del governatore della Moesia inferior, Tullio Menofilo, che con le armi e con la diplomazia riuscì a scacciare Carpi e Goti dalle province balcaniche (FGH IV, pp. 186-187).

M. Antonio Gordiano III Pio. Busto corazzato, marmo, c. 242, da Gabii. Paris, Musée du Louvre.

Ancora nel 241 l’imperatore, consigliato dal suocero, apprestò un’armata per avviare una campagna militare sul fronte orientale: a Roma fu solennemente riaperto il tempio di Giano, a indicare l’inizio delle ostilità (SHA Gord. 23, 6-7). L’anno seguente fu ripresa la Syria e, oltrepassato l’Eufrate, fu riconquistata Carrhae e liberata la provincia di Mesopotamia dai Persiani (SHA Gord. 26, 4-6; 27, 2-8). La spedizione si stava rivelando un vero successo e il giovane imperatore stava pianificando un’offensiva diretta al cuore del territorio nemico, quando Timesiteo, sulla via per Ctesifonte, cadde malato e morì in circostanze non chiare (SHA Gord. 28, 1).

Il vertice del praetorium passò a un suo stretto collaboratore Marco Giulio Filippo, originario della provincia d’Arabia. La campagna militare non subì battute d’arresto, ma proseguì secondo i piani prestabiliti: l’obiettivo ora era la conquista di Ctesifonte, ma l’esercito romano venne sbaragliato nella battaglia di Mesiche (od. Falluja, Iraq), dove trovò la morte lo stesso Gordiano III. Secondo certe fonti, l’imperatore sarebbe stato assassinato dallo stesso Filippo, che, non appena acclamato dalle truppe come successore, si sarebbe preoccupato di stipulare un frettoloso trattato di pace con i nemici (SHA Gord. 29; [Aur. Vict.] Epit. Caes. 27).

Sembra tuttavia più attendibile la versione che vuole Gordiano III morto in battaglia: la fine iniqua e poco dignitosa sarebbe una leggenda costruita a posteriori per screditare Filippo. Un dato certo è piuttosto lo sfruttamento da parte del nuovo Augustus della memoria del predecessore: infatti, responsabile o meno della sua scomparsa, Filippo fu molto attento a onorarne in modo consono la memoria, lasciandone intatte le immagini e impedendone la damnatio memoriae. Non solo: Filippo acconsentì che Gordiano ricevesse la massima onorificenza per un imperatore defunto, l’apoteosi.

Gordiano III (dettaglio). Rilievo, marmo, c. 238, dal Sarcofago di Acilia. Roma, Museo Nazionale Romano di P.zzo Massimo alle Terme.

Quanto ai soldati, essi celebrarono il loro giovane condottiero innalzandogli un cenotafio nel luogo stesso in cui cadde. Il testo dell’iscrizione è tramandato dalle fonti, ma sembra che sia stato inventato di sana pianta, ma non per questo meno arguto. Vi sarebbe infatti stato scritto: Divo Gordiano victori Persarum, victori Gothorum, victori Sarmatarum, depulsori Romanarum seditionum, victori Germanorum, sed non victori Philipporum («Al divo Gordiano, vincitore dei Persiani, dei Goti, dei Sarmati, di ogni sedizione romana, dei Germani, ma non dei Filippi», SHA Gord. 34, 2; cfr. Amm. Marc. XXIII 5, 7).

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Massimino, il “barbaro” che difese l’Impero

La dinastia severiana, nonostante le sue contraddizioni, aveva rappresentato nel complesso un periodo di stabilità politica e di ripristino di favorevoli condizioni economiche per l’Impero. Il periodo di anarchia politica che le succedette ebbe effetti devastanti sulla compagine stessa dell’Impero, innescando un processo di regressione economica, fatto non nuovo nel mondo romano, ma acuito dalle continue invasioni barbariche. Le fonti storiche e letterarie relative a questo periodo sono confuse e frammentarie, tanto che risulta assai difficile per gli storici ricostruirne con esattezza le convulse vicende; nel complesso, emerge un quadro di estrema incertezza per il futuro, di una profonda inquietudine che scuoteva la granitica certezza dell’invincibilità di Roma.

La critica storica moderna tende a ridimensionare il quadro negativo offerto dalle fonti, e soprattutto l’idea di una crisi totale e dagli effetti disastrosi: se è vero che l’incertezza politica regnava sovrana e i confini erano perennemente in tensione, tuttavia la crisi non colpì allo stesso modo tutte le parti dell’Impero. Sicuramente le più svantaggiate furono le province occidentali, dove più si faceva sentire il peso delle invasioni, mentre nelle province orientali e soprattutto in quelle africane la vita continuò a prosperare sino a tutto il IV secolo. Ma, al di là di queste differenze regionali, è comunque certo che i decenni centrali del III secolo misero in serio pericolo la sopravvivenza dell’Impero come organismo unitario, sia dal punto di vista politico sia da quello socio-economico.

La crisi finanziaria fu allo stesso tempo causa ed effetto dell’indebolimento politico: lo Stato sosteneva enormi spese, soprattutto per il mantenimento delle truppe e la promozione di campagne militari. L’imposizione fiscale straordinaria rappresentava spesso una misura necessaria per far fronte alla mancanza di liquidità. I contadini da una parte, i ceti mercantili provinciali dall’altra vennero a poco a poco spogliati, attraverso requisizioni in natura e imposte straordinarie. Nelle province le ribellioni si moltiplicarono. L’autorità imperiale, per esercitare la sua oppressione, doveva appoggiarsi ai soldati, favorendone in tal modo le richieste e l’indisciplina. L’esercito acquistava forza e l’amministrazione militare iniziava a immischiarsi pericolosamente nella gestione stessa dello Stato: l’Impero stesso era diventato una monarchia militare.

Giulio Vero Massimino il Trace. Denario, Roma 236. AR. 3,7 g. Recto: Maximinus Pius Aug(ustus) Germ(anicus). Testa laureata, drappeggiata e corazzata dell’imperatore, voltata a destra.

Proprio l’importanza via via assunta dalle forze armate, garanti dell’integrità e della stabilità della compagine imperiale, fu dunque densissima di conseguenze: il tumulto di Mogontiacum, che rovesciò la dinastia dei Severi, pose altresì fine unilateralmente all’accordo tra soldati e monarchia. Per tutta quanta la storia imperiale, mai fino ad allora i militari avevano pensato neppure per un attimo a mettere in discussione l’istituto imperiale. D’ora in poi, la loro indispensabilità li avrebbe spinti a eleggere i propri Augusti, esprimendo di volta in volta i propri candidati alla porpora; tratto caratteristico di quest’epoca fu l’oscurità dei prescelti. Disordine interno e minacce esterne all’Impero contribuirono in egual misura a definire il cinquantennio più convulso della storia romana, il cui fenomeno più evidente fu il pullulare di usurpatori, che con la forza delle armi si sarebbero contesi il vertice supremo dello Stato.

In tutto ciò, il Senato, malgrado i tentativi di difendere le sue prerogative, sarebbe rimasto nell’ombra, incapace di far sentire la propria voce e di esercitare un potere reale, tale da garantire una legale successione al trono: di contro, si sarebbe limitato il più delle volte a ratificare ufficialmente una scelta compiuta altrove che a Roma.

Il periodo tra il 235 e il 285 è tradizionalmente definito «anarchia militare» o «età dei Soldatenkaiser»: questa definizione, di comodo come tutte le definizioni storiche, sottolinea la preminenza quasi assoluta dell’elemento militare nella scelta dell’imperatore e allude al fatto che gli eserciti fossero dislocati per blocchi territoriali spesso distanti fra loro, ognuno dei quali proponeva contemporaneamente un proprio candidato.

Giulio Vero Massimino il Trace. Busto togato di profilo, marmo, 235-238 d.C. Roma, Musei Capitolini.

Nel marzo del 235, tra quanti tumultuarono a Mogontiacum contro Severo Alessandro, c’era anche Giulio Vero Massimino, noto in seguito (dal IV secolo) come Massimino il Trace. Costui era originario della regione interna della Tracia, proveniva da una famiglia semi-barbara di pastori (Hdn. VI 8, 1; SHA Maxim. 1, 5; Iord. Get. 15, 83). Dopo una brillante carriera militare nei reparti di cavalleria sotto i Severi, fra il 231 e il 233, durante la spedizione contro i Sassanidi, Massimino era stato tra i generali che avevano guidato vittoriosamente le truppe in Mesopotamia (Hdn. VII 8, 4; Iord. Get. 15, 88). Nel 234 Severo Alessandro lo aveva assegnato in qualità di praefectus tironibus al quadrante renano perché addestrasse i legionari alla prossima guerra contro Alamanni e Franchi.

Detronizzato e tolto di mezzo l’ultimo Severo, Massimino fu acclamato imperator dai soldati nei quartieri di Mogontiacum: fu lui il primo a dare avvio alla lunga serie di effimeri principati, che si susseguirono nel corso di un cinquantennio (Hdn. VI 8,4-5; 9,6; SHA Max. 8,1; Aur. Vict. Caes. 25, 1; Eutrop. 9, 1; CIL VI 2001; 2009; IGR 3, 1213). La tradizione storiografica di parte senatoria – da cui dipende ogni ricostruzione – è unanime nel dire che Massimino fu il primo imperatore proveniente dai ranghi dell’esercito e a essere rivestito della porpora senza il consenso volontario dell’autorevole consesso. Infatti, al Senato, nonostante le fondate remore, più per prudenza che per spontanea adesione, non restò che sanzionare ufficialmente ciò che ormai era un dato di fatto. E dietro il giudizio della tradizione si cela forse la presa d’atto che fin da subito i rapporti fra il nuovo Augustus e i patres non furono certo idilliaci.

Oltre al fatto che non si recò mai nell’Urbe e che ordinò di erigergli una statua nella Curia, la sua costituzione fisica, per i tempi certo fuori dalla norma, ha consentito agli stessi autori antichi di divertirsi costruendo e consegnando l’immagine “barbarica” di un uomo dalle capacità eccezionali, in grado di compiere le azioni più incredibili – tutto l’opposto, cioè, del misuratissimo Severo Alessandro. Il biografo dell’Historia Augusta dice di lui: Erat magnitudine conspicuus, virtute inter omnes milites clarus, forma virili decorus, ferus moribus, asper, superbus, contemptor, saepe tamen iustus (SHA Max. 2, 2, «era un omone di grossa corporatura, famoso per il coraggio in mezzo a tutti i commilitoni, bello d’aspetto, rozzo nei modi, grossolano, pieno di sé, sprezzante, ma spesso giusto»). Erodiano, addirittura, riferisce che «era tale da suscitare timore (φοβερώτατος) con il suo aspetto (τὴν ὄψιν) ed era tanto forzuto (μέγιστος τὸ σῶμα) che nessun guerriero barbaro fra i più abili in combattimento né alcun atleta greco si sarebbe potuto misurare con lui». A proposito dell’altezza di quest’uomo si stima che fosse di 8 piedi e 6 dita, cioè fosse alto m 2, 46.

Massimino il Trace. Illustrazione di Joaquín Santiago García.

Il nuovo imperatore, esperto unicamente nell’arte bellica, iniziò la sua politica di rafforzamento del potere attraverso lauti donativi ai soldati, eliminando chiunque rappresentasse un ostacolo sul proprio cammino; tolse di mezzo soprattutto gli amici e i consiglieri del suo predecessore. Gli atti di crudeltà di cui è accusato fin dai suoi esordi (cfr. SHA Max. 9, 2, neque enim fuit crudelius animal in terris) sono da mettere in relazione proprio con la necessità di consolidare un potere evidentemente non da tutti ben accetto. Infatti, i nostalgici di Severo Alessandro si espressero con due congiure, entrambe scoperte e ferocemente represse, messe in atto da generali appoggiati dal Senato, che mal si adattava a sopportare l’onta di un imperatore-soldato.

Ciò che stava più a cuore a Massimino era la guerra contro le tribù germaniche, che il suo predecessore aveva condotto blandamente. Il nuovo imperatore, anzi, si distinse proprio nello sforzo di ristabilire l’ordine lungo tutto il limes renano e danubiano, come dimostra anche il coevo riattamento di un certo numero di strade in quei settori. Con rapida decisione Massimino attraversò il Reno alla guida dell’esercito radunato da Severo e conseguì un’importante vittoria: il colpo inferto agli Alamanni e alle tribù loro alleate fu così duro da costringerli alla resa senza condizioni (Hdn. VII 2; Aur. Vict. Caes. 26, 1; SHA Max. 11, 7-12, 6). La risonanza del trionfo gli meritò il titolo onorifico di Germanicus Maximus, mentre suo figlio Giulio Massimo fu elevato al rango di Caesar (CIL XIII 8954; RIC 4, 2, 143-144; Aur. Vict. Caes. 25, 2). Poi, nel 236 l’imperatore si portò in Pannonia, dove affrontò vittoriosamente Sarmati e Daci, fregiandosi dei titoli di Sarmaticus Maximus e Dacicus Maximus (CIL II 4757; 4826; 4853; 4870).

Le necessità finanziarie per condurre le campagne contro i barbari inasprirono, a detta delle fonti, il regime autoritario instaurato da Massimino, provocando un odio feroce da parte della popolazione, fomentato ad arte dai senatori, che non aspettavano altro che l’occasione più favorevole per deporlo (Hdn. VII 3).

Un lanciarius del III secolo. Illustrazione di Stefano Borin (Eschbach 2020).

Mentre Massimino si preparava, dal suo quartiere generale a Sirmium, a un ultimo grandioso attacco che si poneva l’ambizioso obiettivo di soggiogare tutte le popolazioni germaniche, la situazione interna precipitò. La sua politica di esazioni, accompagnate da estorsioni e violenze, con prelievi anche dal tesoro pubblico di città e templi, fece aumentare il malcontento un po’ in tutto l’Impero. La prima esplosione di questo risentimento si ebbe a Thysdrus (od. El-Jem), la «capitale dell’olio» dell’Africa proconsularis. Le malversazioni di un funzionario imperiale (fisci procurator in Lybia) spinsero i latifondisti locali ad armare servi e contadini; l’ufficiale fu catturato e ucciso e fu il punto di non ritorno (SHA Max. 14, 1). Gli insorti proclamarono imperatore Marco Antonio Gordiano Semproniano, il proconsole della provincia, virum venerabilem natu grandiorem, omni virtutum genere florentem (SHA Max. 14, 2, «un uomo rispettabile, già avanti negli anni e adorno di ogni virtù»). Suo legato era l’omonimo figlio, Gordiano il Giovane, che fu associato al potere nel 238 (SHA Gord. 5-9; Hdn. VII 5).

L’arrivo nell’Urbe della notizia di quell’avvenimento provocò reazioni entusiastiche e il Senato riconobbe subito il nuovo imperatore, deponendo formalmente Massimino e decretando lui e suo figlio hostes publici, mentre il popolo di Roma assalì i funzionari del Trace: il praefectus praetorio Vitaliano fu assassinato, mentre il praefectus Urbi Sabino fu massacrato dalla folla. L’allargamento in varie province della rivolta spinse il Senato a creare una commissione speciale di XXviri rei publicae curandae, con l’incarico di difendere lo Stato (Hdn. VII 7, 2-7; SHA Max. 15, 2; Gord. 9-11; Aur. Vict. Caes. 26).

Nel frattempo, il legatus Augusti pro praetore della Numidia, provincia confinante a ovest con l’Africa, un certo Capelliano, pare forse per motivi personali, decise in quella circostanza di tenersi leale a Massimino: alla testa della legio III Augusta di stanza a Lambaesis (od. Tazoult) il governatore marciò contro le bande dei rivoltosi e, accerchiati i ribelli a Cartagine, il 12 aprile 238 sconfisse i due Gordiani in battaglia (Hdn. VII 9, 11; SHA Max. 19, 20, Gord. 15-16; Zon. 12, 17; ILS 8499).

M. Antonio Gordiano Semproniano. Busto, marmo, III sec. Roma, Musei Capitolini.

La fine dei Gordiani, dopo solo tre settimane di principato, non segnò la fine dell’insurrezione, ormai sanzionata dal Senato, dal popolo di Roma e dalle autorità nella maggior parte delle province. Anzi, gli eventi indussero il venerando consesso a estrarre dal collegio dei XXviri due personaggi eminenti e a nominarli Augusti: Marco Clodio Pupieno e Decimo Calvino Balbino, patres Senatus, come si definirono nelle monete che fecero coniare. Per accontentare anche il popolo romano, il supremo consiglio cooptò come Caesar ai due prescelti il giovanissimo nipote di Gordiano I, appena tredicenne (Hdn. VII 10; AE 1951, 48).

Informato di tutti questi eventi, incollerito, Massimino abbandonò il fronte danubiano per mettersi in marcia verso l’Italia alla testa delle sue armate assieme al figlioletto: distribuiti lauti donativi alle truppe, percorse la via tradizionale per scendere nella Penisola da nord e, dopo una breve tappa a Emona (od. Lubiana), si diresse su Aquileia. Siccome un Senatus consultum diramato in ogni dove ordinava ai governatori provinciali di tagliare i rifornimenti al nemico pubblico, Massimino doveva essere rapido. Nel frattempo, Pupieno si era incaricato di marciare contro di lui e si era diretto a Ravenna, dove aveva posto il proprio quartier generale, mentre Balbino rimaneva a Roma insieme al giovane Gordiano.

Massimino rimase bloccato nell’assedio di Aquileia: la difesa della città era stata predisposta da Menofilo e Crispino nei minimi dettagli e diversi contingenti militari l’avevano raggiunta da ogni parte d’Italia. Impediti nei rifornimenti dai difensori e non avendo possibilità di riuscita nella loro spedizione, gli uomini della legio II Parthica si ribellarono al loro comandante e dopo averlo preso nel mezzo insieme al figlio, lo assassinarono. Le teste dei Massimini, padre e figlio, furono infilzate su picche e portate prima a Ravenna, poi a Roma; i loro corpi, mutilati, furono dati in pasto ai cani; il loro nome fu colpito dalla damnatio memoriae (Hdn. VII 8; 12, 8; VIII 1-5; SHA Max. 21-23; Balb. 11, 2; Zos. 1, 15).

Giulio Vero Massimino il Trace. Sesterzio, Roma 235 Æ. 18, 4 g. Obverso: Providentia Aug(usta)S(enatus) c(onsulto). Providentia, stante verso sinistra, con cornucopia, scettro e globo.

La morte dell’usurpatore, comunque, non ristabilì l’ordine, ma acuì i dissapori interni tra gli imperatori eletti dal Senato e i pretoriani, esclusi dalle lotte politiche. Perciò, nello stesso anno, dopo 99 giorni di governo i due anziani Augusti furono trucidati e le guardie acclamarono il giovane Gordiano III (SHA Gord. 22, 5; Hdn. VIII 8).

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Aureliano: una riforma graduale

di F. CERATO, Aureliano: una riforma graduale.

L’acclamazione di Lucio Domizio Aureliano[1], magister equitum di Claudio[2], al soglio imperiale, avvenuta nel 270 d.C. a Sirmium, in Pannonia, nell’attuale Serbia[3], ristabiliva una prassi ormai consolidata: già da tempo, infatti, erano le gerarchie militari a scegliere l’imperator e l’avallo del Senato di Roma era una pura formalità. Inoltre, Aureliano apparteneva – tanto come il suo predecessore, Claudio il Gotico, quanto il suo successore, Probo – a quella covata di generali che dovevano la propria fortuna a Gallieno. Per la tradizione storiografica superstite, ancor più di Claudio II, il cui regno fu anche fin troppo breve, Aureliano rappresenta l’anti-Gallieno; e, in effetti, il nuovo Augustus dovette affrontare il difficile problema di rimarginare le ferite territoriali che l’Impero aveva subito proprio sotto Gallieno (253-268). Austerità, disciplina, rigore furono le virtutes che marcarono la figura di Aureliano nella tradizione, appunto, e probabilmente anche nei fatti, in contrapposizione all’“effemminato” Gallieno.

L. Domizio Aureliano. Busto, bronzo, III sec. d.C. ca. Brescia, Museo di S. Giulia.

Il tentativo da parte del Senato di eleggere imperator Quintillo, fratello del defunto Cesare, non poteva che scontrarsi con lo strapotere dell’esercito[4]. Alla notizia della morte del fratello, infatti, lo stesso Quintilio, che presidiava Aquileia con una parte dell’esercito, fu abbandonato dai soldati e si tolse la vita[5]. Quanto ad Aureliano, anche lui di origini illirica[6], era stato vicinissimo a Claudio II e la sua designazione fu fatta accompagnare dalla voce, con ogni probabilità inventata ad arte, che lo stesso Claudio lo avesse scelto suo successore. Aureliano, inoltre, non fu certamente estraneo all’eliminazione di Manlio Acilio Aureolo, un ex generale di Gallieno, che avrebbe potuto essere un potenziale rivale nell’ascesa al potere[7].

Finalmente, senza più ostacoli, la prima decisione del nuovo imperator fu quella di recarsi immediatamente a Roma per ottenere la ratifica del Senato nella sua nuova dignitas: da qui, forse, un atteggiamento di reciproca diffidenza, se non ostilità, tra imperatore e Senato nel corso del suo regno. Volitivo e deciso rappresentante di quei quadri dell’esercito il cui potere si era ormai accresciuto a dismisura, il nuovo Cesare si trovò subito a confrontarsi con una serie di scorrerie organizzate dalle più diverse tribù germaniche: gli Juthungi, che tornavano in Raetia dopo essere penetrati in Italia, i Vandali, che avevano invaso la Pannonia, e gli ormai noti e sempre irrequieti Alamanni e Marcomanni[8].

Soldati romani ausiliari dell’età di Aureliano (III sec.). Illustrazione di G. Sumner.

Pertanto, prima di scendere a Roma a certificare la propria posizione, Aureliano si rendeva perfettamente conto che il problema degli sconfinamenti barbarici era della massima urgenza. Riprendendo la strategia del predecessore, l’imperator lasciò i propri presidi pannonici per dirigersi verso la Pianura padana per tagliare la via del ritorno al nemico: le orde juthungiche, infatti, dilagate in Italia settentrionale per fare bottino, venute a conoscenza dell’arrivo di un nuovo imperatore, tentarono di ritirarsi, ma furono intercettate dai Romani nei pressi del Danubio e sbaragliate. Non distrutti completamente, i barbari furono costretti a scendere a patti, ma le loro istanze di rinnovo dei precedenti trattati e del riconoscimento di nuovi sussidi furono rifiutate da Aureliano con estrema fermezza. In compenso, in quell’occasione, pare che egli abbia compiuto un gesto emblematico della sua personalità: davanti a tutto l’esercito schierato, ricevette gli emissari juthungici, accordò loro la pace, ma rifiutò il foedus (che avrebbe reso l’Impero tributario dei barbari), avvertendo così la controparte di un netto cambiamento di rotta nella politica imperiale[9].

Mappa dell’invasione della Raetia e dell’Italia settentrionale negli anni 268-271.

Compiute tali imprese, discese quindi a Roma per pretendere l’ufficializzazione della sua posizione imperatoria dalle mani del Senato. Assumendo la carica governativa, Aureliano ricevette un Impero diviso in tre parti: l’Imperium Galliarum, costituito dalle province più occidentali (Hispaniae, Galliae, Britannia), retto da Gaio Pio Esuvio Tetrico, in piena crisi interna ed esposto a continui sconfinamenti di incursori d’oltre Reno; in Oriente, Syria, Asia ed Aegyptus avevano defezionato a favore del Regno di Palmira, fondato da Settimio Odenato, e allora governato da Zenobia e dal figlio Settimio Vaballato[10].

Zenobia, Antoniniano, Antiochia apud Oronten, 272 d.C. AR 2,52 gr. Recto: S(eptimia) Zenobia Aug(usta). Busto drappeggiato, voltato a destra, con stephané e luna crescente.

Pur deciso a adempiere al suo compito, Aureliano doveva temporeggiare a causa delle insufficienti risorse militari: per quanto temprate da anni di esperienza sul campo, poteva contare solo su quattordici legioni, tutte schierate sul limes danubiano, ma sarebbe stato rischioso disimpegnarle da là e trasferirle su altri fronti. Quanto all’Imperium Galliarum, l’usurpatore Tetrico versava in una situazione forse più grave di quella di Roma, vessato dalle tribù germaniche e non in grado di perseguire alcuna politica di espansione[11]. Ben diversa era la condotta da tenere verso il Regnum Palmyrense, ormai all’apogeo: Aureliano dovette ricorrere a concessioni, riconoscendo al principe Vaballato il possesso delle province orientali, i titoli di vir consularis, rex, imperator e dux Romanorum e il diritto di battere moneta con la propria effigie sul diritto (purché sul rovescio apparisse quella di Aureliano): in questo modo l’imperatore poté garantirsi, almeno formalmente, l’unità dell’Impero.

Aqmat, figlia di Hagagu, di Zebida con iscrizione. Busto a rilievo, pietra locale, fine II sec. d.C. da Palmira. London, British Museum.

Mentre si trovava ancora nell’Urbe, nel novembre del 270, Aureliano fu raggiunto dalla notizia di una nuova invasione che stava diffondendo il panico in Pannonia, rimasta sguarnita dopo l’impresa contro gli Juthungi[12]. Questa fu la volta dei Vandali Asdingi, al cui seguito militavano alcune bande di Sarmati Iazigi[13]. Il rapido intervento dell’imperator in persona costrinse l’orda a capitolare e a chiedere la pace. Aureliano, dopo essersi consultato con i suoi uomini,  concesse l’armistizio, ma a patto che i capi barbari consegnassero in ostaggio molti dei loro figli e fornissero un contingente di cavalleria ausiliaria da 2.000 uomini; non potendo rifiutare, i razziatori accordarono quanto richiesto e poterono far rientro nei loro territori oltre Danubio[14]. Per questi successi l’imperatore ottenne l’appellativo di Sarmaticus maximus[15].

Scena di battaglia fra Romani e Sarmati. Bassorilievo, marmo, 113 d.C. ca. Dettaglio dalla Colonna Traiana (attribuito ad Apollodoro di Damasco).

Non era trascorso molto tempo che già una nuova minaccia si profilava all’orizzonte: stavolta si trattava di una cospicua invasione congiunta di Alamanni, Marcomanni e alcune bande juthungiche. Ancora una volta, Aureliano fu costretto ad accorrere verso l’Italia, ora che gli invasori avevano ormai superato i passi alpini. Raggiunto il cuore della Pianura padana a marce forzate percorrendo la via Postumia, nei pressi di Piacenza l’imperatore stesso fu colto da un’imboscata tesagli dalla coalizione nemica[16]. Se, da una parte, la pesante sconfitta inflisse un duro colpo all’immagine pubblica dell’imperatore, dall’altra, è vero che i vincitori non seppero coglierne i frutti, perché, spinti da un’irrefrenabile smania di bottino, si divisero in orde più piccole, sparpagliandosi in tutta l’area padana. Ciò permise all’imperatore di radunare nuovamente le forze e di dare la caccia ai razziatori. Con due scontri campali, uno a Fanum e uno a Ticinum, Aureliano riuscì a stornare la minaccia barbarica e a ricacciare i nemici al di là del limes danubiano[17].

Cavaliere barbaro disarcionato. Statuetta, bronzo, III sec. d.C.

Insomma, fin da subito l’attività dell’imperatore non si limitò alla semplice azione di contenimento: grazie all’esperienza delle campagne condotte vittoriosamente nel primo anno di regno, Aureliano concepì e attuò una radicale riforma territoriale e amministrativa dell’area del basso Danubio, finalizzata a facilitare il controllo di quell’area sulla lunga durata. Punto cardine dell’operazione fu una decisione sofferta, ma inevitabile: l’abbandono del territorio occupato a nord del fiume, divenuto ormai del tutto incontrollabile[18]. L’area dacica sulla sponda destra, invece, fu suddivisa in due province: la Dacia Ripensis, in cui si attestarono le due legioni che prima tenevano il territorio transdanubiano, e la Dacia Mediterranea, più a sud[19]. Quanto all’ex provincia di Dacia, Aureliano concesse ai Goti di stanziarvisi liberamente, attestando il limes romano sul Danubio[20].

Monumento funebre a un argentarius (P. Curtilius P.L. Agat. Faber Argentarius). Marmo, I sec. d.C. dall’Italia.

Nel 271, preoccupato per gli intrighi del Senato, che tentava con ogni mezzo di riacquistare l’antica auctoritas, il nuovo imperatore, per conservare il potere, prese a pretesto le reali condizioni di corruzione, malversazione e disservizio in cui versava l’apparato amministrativo dell’Impero, zecca inclusa, promuovendo una riforma fiscale. E proprio mentre si apprestava a indagare e punire i reati commessi, in relazione alla coniazione delle monete d’argento, si scatenò una ribellione dei monetarii, gli addetti alla zecca di Roma: proprio quegli operai erano stati accusati di appropriazione indebita di metallo prezioso. Ben presto, tuttavia, la ribellione a tal punto da coinvolgere anche parte della popolazione urbana, alcuni membri del Senato, il praefectus Urbi e i funzionari dell’Aerarium: pare, inoltre, che a capo della sedizione si fosse posto Felicissimo il procurator fisci[21]. L’intervento dell’Augustus fu spietato e la sommossa fu repressa in modo estremamente cruento: tutti i magistrati e i maggiorenti coinvolti furono epurati. Per alcuni anni le attività della zecca furono sospese[22].

L. Domizio Aureliano, Antoniniano, Sciscia, 273 d.C. AR 4,26 gr. Recto: Imp(erator) C(aesar) Aurelianus Aug(ustus). Busto corazzato e radiato dell’imperatore, voltato a destra.

Fu in quella circostanza – pare – che l’imperator decise la fortificazione dell’Urbe con poderose mura merlate, intervallate ogni 30 metri da 381 torri a pianta rettangolare, e da 17 o 18 porte principali, per una circonferenza totale di dodici miglia[23]. Questa importantissima opera pubblica, ancora oggi nota come mura Aureliane, era sintomo di come ormai non fosse nemmeno sicuro il cuore dell’Impero[24].

Mura Aureliane, Roma.

Al di là delle pur pressanti questioni interne, il nodo da affrontare per Aureliano era, però, un altro: si trattava di tentare di ristabilire l’unità statale, minacciata dall’Imperium Galliarum e dall’incredibile espansione di Palmira in Oriente.

Il Regno palmireno, sotto la guida della geniale regina Zenobia, che agiva come reggente del giovane figlio Vaballato, aveva accresciuto enormemente la propria sfera d’influenza grazie a una serie di fortunate campagne militari, approfittando del momento di incertezza, seguito alla morte di Claudio II: dietro il paravento dell’incarico di corrector totius Orientis, affidato al defunto re Odenato dagli stessi Romani, Zenobia mirava ormai all’impero personale per sé e per il figlio[25]. Dopo un iniziale accordo con il potere centrale, si era avuta a livello ufficiale la ratifica di quella che già da tempo era una vera e propria usurpazione: dalla monetazione palmirena, infatti, era scomparsa l’effigie di Aureliano, sostituita da quella di Zenobia e di Vaballato, i quali si fregiavano del titolo di Augusti; era una vera e propria proclamazione di indipendenza da Roma e un’aperta dichiarazione di ostilità nei confronti dell’imperatore[26].

Tempio di Beelshamên. 131. Palmira.

In breve tempo le truppe di Zenobia si erano impadronite delle limitrofe province romane di Arabia, Aegyptus, Syria e parte dell’Asia Minore. Nell’ottobre 270 un corpo d’armata palmireno di 70.000 uomini, guidato dal generale Settimio Zabdas, aveva approfittato del fatto che il praefectus Aegypti, Teagino Probo, fosse impegnato con la flotta per combattere i pirati, e aveva occupato la provincia nilotica. L’ingresso dei Palmireni ad Alessandria fu salutato come un trionfo e una liberazione dai fautori della regina[27]. Zenobia aveva rivelato passo a passo i propri piani di conquista del potere: all’inizio, infatti, aveva presentato se stessa e il figlio come paladini degli interessi di Roma in Oriente; poi nel 271 si era autoproclamata Augusta e imperatrix Romanorum, reggente per conto di Vaballato. Inoltre, la regina non solo aveva stretto un accordo segreto con i Sasanidi, ma aveva persino cercato il consenso in certi ambienti cristiani, giudaici e intellettuali: ella diede il suo appoggio al vescovo eretico Paolo di Samosata perché si insediasse ad Antiochia e si servì dei consigli di importanti intellettuali del tempo, lo storico Nicostrato di Trapezunte, il sofista Callinico di Petra e il retore neoplatonico Cassio Longino[28].

Iscrizione in onore di Giulio Aurelio Zenobio, padre di Zenobia. Colonna, arenaria, III sec. d.C. Palmira.

Nel 272 Aureliano decise di passare ai fatti, inviando in Aegyptus la sua flotta, guidata da Marco Aurelio Probo, che recuperò la provincia senza colpo ferire, e congiuntamente occupando senza trovare resistenza la provincia di Bithynia[29]; poi conquistò le città di Ancyra[30] e Tyana (quest’ultima per tradimento), riservando nei confronti dei civili un trattamento mite al fine di sgretolare il consenso verso Zenobia[31]. Tale condotta fu tenuta dall’imperatore ogni volta che si trovò ad assediare una città orientale per tutto il corso della campagna.

Soldati palmireni. Illustrazione di A. McBride.

Perduto il controllo sull’Asia Minore e sull’Egitto, Zenobia ordinò a Zabdas di radunare l’esercito nel cuore del suo dominio e di attendere il nemico. Le truppe palmirene, composte da due legioni, arcieri e cavalleria pesante (i clibanarii), assembrate fuori dalla capitale siriaca, Antiochia sull’Oronte, mossero allora incontro all’imperatore, che fu intercettato sulle sponde del fiume, nella località di Immae. Aureliano, memore della sua esperienza di magister equitum, al primo assalto dei cavalieri palmireni, fiduciosi delle loro corazzature, ordinò alla fanteria di attestarsi al di là dell’Oronte e diede istruzione ai suoi cavalieri, più leggeri e veloci, di non contrattaccare il nemico, ma di andargli incontro e di simulare una ritirata tattica. Raccomandò loro di insistere in questo senso finché i clibanarii nemici, appesantiti dalle corazze e sfiancati dalla corsa, non avessero desistito dall’inseguimento. Solo in quel momento, gli equites avrebbero contrattaccato e distrutto gli avversari, mentre la fanteria e il grosso dell’esercito imperiale, varcato il fiume avrebbero attaccato sul fianco di Zabdas. Il Palmireno subì una pesantissima sconfitta[32].

Ritiratosi in fretta e furia entro le mura della città vicina, dove si era insediata anche la corte di Zenobia per meglio seguire gli eventi, nottetempo i Palmireni decisero di abbandonare la piazzaforte nelle mani di Aureliano.

Esempio di eques clibanarius. Illustrazione di S. James.

Significativa allo scopo di fiaccare gli avversari fu la decisione assunta dall’imperatore in merito alla comunità cristiana di Antiochia, quando conquistò la città: nel 264 un concilio di vescovi, tenutosi nella città sull’Oronte, aveva condannato la condotta e la dottrina di Paolo di Samosata e lo aveva sostituito con Donno[33]. Durante la spedizione di Aureliano contro Zenobia, il vescovo eretico aveva rivendicato il possesso della casa episcopale e aveva preteso la propria reintegrazione a capo della comunità dei fedeli. La diatriba, all’avviso di questi ultimi, aveva richiesto l’attenzione dell’imperator vittorioso, il quale stabilì una volta per tutte che l’ufficio pastorale spettasse al vescovo che fosse stato in comunione con quello romano e quelli d’Italia. In forza di questa sentenza, Paolo di Samosata fu bandito dalla città[34].

Statua di Tyche-Fortuna di Antiochia. Marmo, copia romana del I secolo d.C. da originale di Eutichide del III secolo a.C. Musei Vaticani.

Aureliano, dunque, venuto a sapere che i nemici si erano attestati nei pressi di Emesa, fu sul punto di muovere loro incontro. Tuttavia, avvisato della presenza di un nutrito contingente di arcieri collocato sulla cima della collina di Dafne, nei sobborghi di Antiochia, ordinò alle sue truppe di prendere l’altura e di eliminare quella potenziale spina nel fianco[35]. Alla notizia della brillante vittoria romana, le città di Apamea, Larissa e Aretusa, tutte sull’Oronte, aprirono le porte al passaggio del vincitore[36]. Aureliano si diresse alla volta di Emesa, dove lo attendevano i 70.000 Palmireni guidati dal solito Zabdas: ancora una volta il generalissimo di Zenobia, che, evidentemente, non aveva imparato la lezione, puntò tutto sulla cavalleria, in effetti, in superiorità numerica rispetto a quella romana. Inaspettatamente, l’imperatore, pur volgendo la battaglia a suo svantaggio, ricevette il rinforzo di contingenti da tutta l’area circostante, anche da quelli che avevano defezionato dalla causa di Zenobia, e riportò una vittoria schiacciante[37].

Divinità palmirene. (Da sinistra a destra) il dio lunare Agli-Bol, il dio supremo Beelshamên ed il dio solare Malakbêl. Calcare, I secolo da Bir Wereb (Wadi Miyah, Siria). Paris, Musée du Louvre

Zenobia, avendo deciso di ritirarsi nella propria capitale, nella concitazione della fuga, aveva dimenticato di recuperare il tesoro reale custodito in Emesa: qui l’imperatore, salutato dalla popolazione civile come un liberatore, fu riconosciuto come il prescelto di El-Gabal, il dio Sol Invictus. Per questa ragione, Aureliano stabilì di restaurare il santuario urbano e di assumere il culto del dio nel proprio pantheon personale[38].

Scutum. Legno e pelle, III sec. d.C. da Dura Europos. Yale University.

Dopo un breve assedio[39], anche Palmira, l’ultima resistenza, capitolò e la regina ribelle fu catturata, sorpresa a fuggire verso gli alleati sasanidi[40]. L’atteggiamento dell’imperatore fu, ancora una volta, deliberatamente di estrema mitezza: solo i funzionari, i consiglieri e i generali di Zenobia furono messi a morte. Solo la sovrana fu risparmiata, per servire al vincitore come preda eccellente da esibire nel trionfo[41].

Mappa della campagna orientale di Aureliano (272).

Nel 273, mentre si apprestava a fare rientro a Roma, Aureliano fu raggiunto dalla notizia che gli abitanti di Palmira si erano nuovamente ribellati, sobillati da un certo Apseo, e avevano cercato la connivenza del praefectus Mesopotamiae e rector Orientis, Marcellino. Siccome, però, quest’ultimo esitava, avevano cercato di innalzare alla porpora un parente di Zenobia, un certo Achilleo (o Antioco)[42]. Senza alcun indugio l’imperatore tornò indietro e sedò la rivolta: stavolta si mostrò duro e spietato, comminando esecuzioni sommarie e radendo al suolo la città; agli abitanti superstiti concesse la facoltà di riedificare il centro urbano[43]. Pacificato in questo modo l’Oriente, ottenuti gli appellativi di Palmyrenicus maximus[44], Adiabenicus[45], Parthicus maximus[46], Persicus maximus[47], e soprattutto di Restitutor orbis[48], tornò nell’Urbe da trionfatore[49].

Tornato in Italia e respinti nuovamente gli Alamanni, Aureliano poté finalmente rivolgersi all’altro grande fattore di disgregazione dell’Impero: l’Imperium Galliarum. All’interno di quell’organismo statale la situazione era tutt’altro che tranquilla, anzi, probabilmente, versava in condizioni peggiori di quelle affrontate dal governo legittimo. Nel 271, infatti, l’usurpatore Marco Piavonio Vittorino era stato assassinato da uno dei suoi ufficiali e gli era succeduto Tetrico, già governatore dell’Aquitania, che aveva nominato il figlio omonimo prima Cesare e poi Augusto, associandoselo all’impero. Nel 274 Aureliano mosse guerra all’usurpatore gallico e le truppe romane affrontarono quelle nemiche in campo aperto, apud Catalaunos (Châlons-sur-Marne). La versione ufficiale vuole che Tetrico avesse contattato Aureliano prima della battaglia, chiedendogli di accoglierlo dalla sua parte e di aiutarlo per guerreggiare contro Faustino, che lo aveva spodestato nella sua capitale, Augusta Treverorum. Sta di fatto che, abbandonato dalla maggior parte dei suoi, Tetrico fu sconfitto in uno scontro sanguinoso e che accompagnò il trionfo di Aureliano insieme a Zenobia[50].

C. Pio Esuvio Tetrico, Doppio antoniniano, Colonia Agrippinensis o Augusta Treverorum, 271-274 d.C. Æ 5,62 gr. Recto: Imp(erator) Tetricus P(ius) F(elix) Aug(ustus). Busto radiato e corazzato dell’imperatore, voltato a destra.

È curioso che sia la regina palmirena sia l’ex imperatore delle Galliae sarebbero stati risparmiati: l’una confinata a vita a Tivoli, l’altro perdonato e rivestito addirittura della carica di corrector Lucaniae et Bruttiorum, in ossequio alla sua dignità senatoria[51].

Nel 274, dunque, Aureliano aveva finalmente realizzato la restitutio imperii. Alla rinnovata unità politica egli volle far corrispondere l’unità ideologico-religiosa, promuovendo e anzi imponendo ai cittadini dell’Impero il culto del suo nume protettore, il Sol Invictus: quello tributato a questa divinità era un culto di ispirazione monoteistica e orientale, ed era tipico dell’elemento militare; stando così le cose, Aureliano, essendo il comandante in capo delle forze armate, era anche il sommo sacerdote del nuovo culto: insomma, in lui si realizzava una perfetta sintesi fra le istanze politiche e quelle spirituali (dominus et deus)[52]. Anche l’apparato e il cerimoniale di corte furono condizionati da questo monoteismo solare protettore dell’Impero e dell’Augusto al tempo stesso; l’imperatore fu il primo nella storia romana a indossare il diadema orientale e la corona radiata: queste novità dimostrano quanto la suggestione dello sconfitti Regno palmireno avesse colpito l’immaginario di Aureliano e, inoltre, celano i germi della concezione e rappresentazione dell’assolutismo e della sacralità del potere che avrebbero caratterizzato il successivo Dominatus. L’imperatore dedicò un colossale tempio al Sol Invictus, eretto presso le pendici del Quirinale, e pretese che fossero resi onori superiori a qualsiasi altra divinità[53].

L. Domizio Aureliano. Antoniniano, Serdica, inizi 274 d.C. Æ-AR 3, 31 gr. Verso: Sol, radiato, stante, verso sinistra; regge nella mano sinistra un globo e la destra è alzata sopra un prigioniero ai suoi piedi; in leggenda: Oriens Aug(usti).

Sotto il suo principato, nella città di Roma si incrementarono le distribuzioni gratuite agli aventi diritto di pane, carne di maiale, olio, sale e probabilmente anche vino: per queste si rese necessario creare alcune corporazioni di mestiere, indispensabili per assicurare la continuità del servizio, come i navicularii (battellieri) del Nilo e del Tevere, oppure i fornai di Roma.

Scene di vita pastorale. Bassorilievo, marmo, III sec. d.C. dal sarcofago di Giulio Achilleo. Roma, Museo Nazionale Romano.

Il sostegno materiale e logistico fu cercato attraverso una importante riforma monetaria, in un tentativo di miglioramento qualitativo del denaro: nella primavera del 274, infatti, Aureliano tentò di porre rimedio alla costante svalutazione della moneta d’argento e all’instabilità dell’emissione dei tipi aurei, ormai tendenti al ribasso. Secondo Zosimo, l’imperatore adottò nuove misure che avevano il loro punto focale nell’introduzione di una nuova moneta argentea (ἀργύριον νέον), ritirando, al contempo, i coni adulterati (τὸ κίβδηλον)[54]. Segno tangibile dei provvedimenti fu l’emissione di nuovi antoniniani, chiamati aurelianiani, dal peso medio di 1/50 di libbra[55].

Aureliano. Aureo. Mediolanum, 271-272 d.C., AV 4,70 g. Recto: Imp(erator) C(aesar) L(ucius) Dom(itius) Aurelianus P(ius) F(elix) Aug(ustus). Busto dell’imperatore voltato verso destra, laureato e corazzato.

L’opera di risistemazione e di riaggregazione dell’Impero avrebbe dovuto avere un suggello nella vendetta contro i Sasanidi per la cattura di Valeriano: nel 275 Aureliano si mise in viaggio per raggiungere l’Asia Minore e da lì guidare una campagna contro il nemico orientale[56]. Mentre l’imperatore si trovava sulla via di Bisanzio, dove lo attendeva l’esercito, il liberto Erote, uno dei suoi segretari, più volte segnalato per malversazione, temendo la punizione del padrone, ordì una congiura contro di lui. Avendo una certa familiarità con le generalità e con i documenti dell’imperatore, conoscendone perfettamente la grafia, decise di stilare una lista di ufficiali sospettati di corruzione e di lesa maestà da processare e mettere a morte, siglandola con la firma dell’Augustus. Nell’accampamento di Caenophrurium, tra Perinto e Bisanzio, gli ufficiali della guardia pretoriana intercettarono il documento e, colti dall’ira, massacrarono l’imperatore[57].

***

Note:

[1] Sulla figura di questo imperatore, essenziali sono le fonti citate già in E. Groag, s.v. Domitius(36) Aurelian, in RE V 1 (1903), coll. 1347-1419. Cfr., inoltre, J. Scarborough, Aurelian: Questions and Problems, CJ 68 (1973), pp. 334-345; S. Dmitriev, Traditions and Innovations in the Reign of Aurelian, CQ 54 (2004), pp. 568-578; U. Hartmann, Claudius Gothicus und Aurelianus, in K.-P. Johne (ed.), Die Zeit der Soldatenkaiser. Krise und Transformation des Römischen Reiches im 3. Jahrhundert n. Chr., I, Berlin 2008, pp. 297-323; si vd. anche la recente biografia di J.F. White, The Roman Emperor Aurelian, Barnsley 2016.

[2] Cfr. S.H.A. III Aurel. 16, 4; 18, 1.

[3] Sull’appellatio imperatoria di Aureliano, cfr. C. Scarre, Chronicle of the Roman Emperors, New York 1999, p. 184; A. Watson, Aurelian and the Third Century, London-New York 1999, p. 45.

[4] Sul rapporto conflittuale con il Senato, si vd. R. Suski, Aurelian and the Senate. A Few Remarks upon Emperor Aurelian’s Policy of Political Nominations, in T. Derda et al. (eds), Euergesias charin. Studies presented to Benedetto Bravo and Ewa Wipszycka, Warsaw 2002, 279-291.

[5] Cfr. Zonar. XII 26. Su Quintillo, si vd. D.T. Barnes, Some Persons in the Historia Augusta, Phoenix 26 (1972), pp. 168-170.

[6] Sulle origini di Aureliano, si vd. S.H.A. III Aurel. 1-2; Eutr. IX 13, 1; Aur. Vict. Caes. 35, 1.

[7] Cfr. S.H.A. III Aurel. 5, 1-3; Zonar. ibid.; Zos. I 41,1; M. Grant, Gli imperatori romani: storia e segreti, Roma 1984, p. 241; Aur. Vict. Caes. 33. Su Aureolo, in part., si vd. Barnes, 1972, p. 149.

[8] Cfr. Grant, 1984, p. 245.

[9] A proposito delle imprese dell’imperatore contro gli Juthungi, si vd. R.T. Saunders, Aurelian’s “Two” Juthungian Wars, Historia 41 (1992), pp. 311-327.

[10] Sul Regno di Palmira, si vd. D. Potter, Palmyra and Rome: Odaenathus’ Titulature and the Use of the Imperium Maius, ZPE 113 (1996), pp. 271-285; R. Stoneman, Palmyra and its Empire. Zenobia Revolt against Rome, Michigan 1994. Sull’ascesa di Zenobia, si vd. P. Southern, Empress Zenobia: Palmyra’s Rebel Queen, 2008, pp. 84-92; T. Bryce, Ancient Syria: A Three Thousand Year History, Oxford 2014, p. 299. Per una discussione intorno alle fonti, si vd. D. Burgersdijk, Zenobia’s Biography in the Historia Augusta, TALANTA 36-37 (2004-2005), pp. 139-152. Si vd. ancora P. Jones, Rewriting Power. Zenobia, Aurelian, and the Historia Augusta, CW 109 (2016), pp. 221-233.

[11] Sulla figura di Tetrico, si vd. PIR², E 99; S. Estiot, Tétricus I et II : les apports de la statistique à la numismatique de l’empire gaulois, H&M 4 (1989), pp. 243-266; R. Ziegler, Kaiser Tetricus und der senatorische Adel, Tyche 18 (2003), pp. 223-232; M. Polfer, Tetricus I (AD 271–273), in De Imperatoribus Romanis: An Online Encyclopedia of Roman Rulers and Their Families [http://www.roman-emperors.org/tetrici.htm].

[12] Cfr. Zos. I 48, 1.

[13] S.H.A. III Aurel. 18, 2; Zos. I 48, 2; Watson, 1999, p. 217. Cfr. anche M. Colombo, La presenza di Sarmati e di altri popoli nei trionfi di Gallieno, Aureliano e Probo: contributo alla storia dei Sarmati e all’esegesi della Historia Augusta, Hermes 138 (2010), pp. 470-486.

[14] Si vd. Dexip. Scyth. fr. 7; cfr. Grant, 1984, p. 246.

[15] CIL III 13715; S.H.A. III Aurel. 30, 5; Watson, 1999, p. 221.

[16] Cfr. S.H.A. III Aurel. 21, 1-3; Watson, 1999, p. 50; D.S. Potter, The Roman Empire at Bay, AD 180-395, London-New York 2005, p. 269, sugli sviluppi successivi alla battaglia.

[17] Cfr. CIL IX, 6308; 6309. Si vd. anche S.H.A. III Aurel. 18, 4; 19, 4; Zos. I 49; Aur. Vict. Caes. 35, 2; Watson, 1999, pp. 51, 216 e sgg.; Grant, 1984, p. 246.

[18] Cfr. Watson, 1999, pp. 155-157; si vd. anche S.H.A. III Aurel. 39, 7; Eutr. IX.

[19] Su questa ripartizione, si vd. P. Petit, Histoire générale de l’Empire romain : La crise de l’Empire (des derniers Antonins à Dioclétien), Paris 1974, p. 482.

[20] Sul rapporto fra Aureliano e i Goti, e soprattutto sulla campagna contro Cannabaude, si vd. S.H.A. III Aurel. 22, 2; Grant, 1984, p. 247; P. Southern, The Roman Empire: from Severus to Constantine, London-New York 2001 p. 225. Sulla figura di Cannabaude, cfr. H. Wolfram, Die Goten, Münich 1990, p. 106; A. Goltz, Die Völker an der mittleren und nordöstlichen Reichsgrenze, in K-P. Johne, 2008, pp. 449-464 [p. 461].

[21] Su Felicissimo, si vd. Barnes, 1972, p. 157.

[22] Cfr. S.H.A. III Aurel. 38, 2-4; Aur. Vict. Caes. 35, 6. Sulla rivolta dei monetarii, si vd. R. Turcan, Le délit des monétaires rebellés contre Aurélien, Latomus 28 (1969), pp. 948-959, e V. Cubelli, Aureliano imperatore: la rivolta dei monetieri e la cosiddetta riforma monetaria, Firenze 1992.

[23] L. Cozza, Roma: le Mura Aureliane dalla Porta Flaminia al Tevere, PBSR 57 (1989), pp. 1-5.

[24] Zos. I 49, 2.

[25] Si vd. S.H.A. III Aurel. 22, 1. Cfr. R. Rémondon – A. Pastorino, La crisi dell’impero romano, da Marco Aurelio ad Anastasio, Milano 1975, p. 82.

[26] Sui tipi monetali dei sovrani palmireni, si vd. R. Bland, The Coinage of Vabalathus and Zenobia from Antioch and Alexandria, NC 171 (2011), pp. 133-186.

[27] Sulla conquista dell’Egitto da parte dei Palmireni, si vd. Zos. I 44.

[28] Sulla cultura di Zenobia, si vd. G. Bowersock, L’Ellenismo nel mondo tardoantico, Roma-Bari 1992, pp. 20-21. A proposito di Longino, si vd. J. Lamb, Longinus, the Dialectic, and the Practice of Mastery, ELH 60 (1993), pp. 545-567.

[29] S.H.A. III Aurel. 22, 4. Cfr. Bryce, 2014, p. 307.

[30] Zos. I 50, 2.

[31] Cfr. Zos. ibid.; S.H.A. III Aurel. 23.

[32] S.H.A. III Aurel. 25, 1; Zos. I 50, 2-4. Sulla vittoria a Immae, si vd., in particolare, G. Downey, Aurelian’s Victory over Zenobia at Immae, A.D. 272, TAPhA 81 (1950), pp. 57-68. Cfr. anche Bryce, 2014, p. 309.

[33] Euseb. Hist. Eccl. 30, 7.

[34] Cfr. F. Millar, Paul of Samosata, Zenobia and Aurelian: The Church, Local Culture and Political Allegiance in Third-Century Syria, JRS 61 (1971), pp. 1-17; K. Butcher, Roman Syria and the Near East, Malibu 2003, p. 378; Southern, 2008, p. 138.

[35] Zos. I 52, 1-2.

[36] Zos. I 52, 3.

[37] S.H.A. III Aurel. 25, 2-3; Zos. I 52, 3-54, 3. Cfr. Bryce, 2014, p. 310.

[38] S.H.A. III Aurel. 25, 6.

[39] Zos. I 54, 2.

[40] Sull’assedio di Palmira, si vd. Zos. I 55-56. S.H.A. III Aurel. 27-30.

[41] Secondo la versione di Zos. I 59, Zenobia sarebbe morta durante il viaggio.

[42] Per questa rivolta si vd. Zos. I 60, 1-2; S.H.A. III Aurel. 31, 2. Si vd. Barnes, 1972, pp. 145-146 (su Achilleo/Antioco).

[43] S.H.A. III Aurel. 31, 3-10.

[44] CIL V, 4319.

[45] S.H.A. III Aurel. 30, 5.

[46] S.H.A. III ibid.; CIL XII, 5456; AE 1980, 640; CIL VI, 1112 (p. 4324); VIII, 9040; XII, 5549; XIII, 8973; AE 1949, 35.

[47] CIL XII, 5561; 5571a; AE 1936, 129.

[48] AE 1981, 917; 1992, 1847; CIL VIII, 10205; 22361; 22449; XI, 1214; XII, 5456.

[49] Zos. I 61, 1.

[50] Sulla resa di Tetrico, si vd. E. Cizek, L’empereur Aurélien et son temps, Paris 1994, pp. 119-122. Sull’immagine dell’imperatore vittorioso sull’usurpatore gallico e sulla regina palmirena, si vd. A. Mastino – A. Ibba, L’imperatore pacator orbis, in M. Cassia et. al. (eds.), Pignora amicitia. Scritti di storia antica e di storiografia offerti a Mario Mazza, Catania 2012, pp. 192-196.

[51] Sul destino riservato a Zenobia, si vd., in particolare, S.H.A. III Tyr. Trig. 24; ma anche 30, 27; Eutr. IX 10-13; Grant, 1984, p. 248. A proposito di Tetrico, invece, si vd. S.H.A. III Tyr. Trig. 25, 1-4.

[52] A proposito dell’associazione della gens Aurelia al culto solare, si vd. J.C. Richard, Le culte de Sol et les Aurelii: à propos de Paul Fest. p. 22 L., in Mélanges offerts à Jacques Heurgon: L’Italie préromaine et la Rome républicaine, Rome 1976, pp. 915-925.

[53] Sulla dedicatio e sulla aedificatio del tempio, si vd. Jer. ab Abr. 2291 (275 d.C.); Cassiod. Chron. 990; S.H.A. III Aurel. 1, 3; 25, 4-6; 35, 3; 39, 2. Cfr. J. Calzini Gysens – F. Coarelli, s.v. Sol, templum, in E.M. Steinby (ed.), Lexicon Topographicum Urbis Romae, IV, Roma 1999, pp. 331-333

[54] Zos. I 61, 3.

[55] Cfr. A. Savio, Monete romane, Roma 2001, p. 198, e G.G. Belloni, La moneta romana, Roma 2004, p. 263. Sulla riforma monetaria di Aureliano, in generale, si vd. R.A.G. Carson, The Reform of Aurelian, RN 7 (1965), pp. 225-235, W. Weiser, Die Münzreform des Aurelian, ZPE 53 (1983), pp. 279-295, e il più recente M. Haklai-Rotenberg, Aurelian’s Monetary Reform. Between Debasement and Public Trust, Chiron 41 (2011), pp. 1-40. Sulle conseguenze della riforma, si vd. C. Crisafulli, La riforma di Aureliano e la successiva circolazione monetale in Italia, in M. Asolati – G. Gorini (eds.), I ritrovamenti monetali e i processi storico-economici nel mondo antico, Padova 2012, pp. 255-282.

[56] A proposito delle intenzioni di Aureliano, si vd. S.H.A. III Aurel. 35, 4; Grant, 1984, p. 249; Watson, 1999, p. 102.

[57] S.H.A. III Aurel. 35-37.