Il mito di Licaone (Paus. VIII 2)

di PAUSANIA, Viaggio in Grecia. Arcadia (libro VIII), a cura di S. RIZZO, Milano 2004, pp. 134-139, e note a pp. 433-436. Testo greco di Pausaniae Graeciae descriptio, vol. 3, ed. F. SPIRO, Leipzig, Teubner, 1903 [perseus.tufts.edu].

 

Λυκάων δὲ ὁ Πελασγοῦ τοσάδε εὗρεν ‹ἢ› ὁ πατήρ οἱ σοφώτερα· Λυκόσουράν τε γὰρ πόλιν ᾤκισεν ἐν τῷ ὄρει τῷ Λυκαίῳ καὶ Δία ὠνόμασε Λυκαῖον καὶ ἀγῶνα ἔθηκε Λύκαια. οὐκέτι δὲ τὰ παρ᾽ Ἀθηναίοις Παναθήναια τεθῆναι πρότερα ἀποφαίνομαι· τούτῳ γὰρ τῷ ἀγῶνι Ἀθήναια ὄνομα ἦν, Παναθήναια δὲ κληθῆναί φασιν ἐπὶ Θησέως, ὅτι ὑπὸ Ἀθηναίων ἐτέθη συνειλεγμένων ἐς μίαν ἁπάντων πόλιν. [2] ὁ δὲ ἀγὼν ὁ Ὀλυμπικὸς — ἐπανάγουσι γὰρ δὴ αὐτὸν ἐς τὰ ἀνωτέρω τοῦ ἀνθρώπων γένους, Κρόνον καὶ Δία αὐτόθι παλαῖσαι λέγοντες καὶ ὡς Κούρητες δράμοιεν πρῶτοι — τούτων ἕνεκα ἐκτὸς ἔστω μοι τοῦ παρόντος λόγου. δοκῶ δὲ ἔγωγε Κέκροπι ἡλικίαν τῷ βασιλεύσαντι Ἀθηναίων καὶ Λυκάονι εἶναι τὴν αὐτήν, σοφίᾳ δὲ οὐχ ὁμοίᾳ σφᾶς ἐς τὸ θεῖον χρήσασθαι. [3] ὁ μὲν γὰρ Δία τε ὠνόμασεν Ὕπατον πρῶτος, καὶ ὁπόσα ἔχει ψυχήν, τούτων μὲν ἠξίωσεν οὐδὲν θῦσαι, πέμματα δὲ ἐπιχώρια ἐπὶ τοῦ βωμοῦ καθήγισεν, ἃ πελάνους καλοῦσιν ἔτι καὶ ἐς ἡμᾶς Ἀθηναῖοι· Λυκάων δὲ ἐπὶ τὸν βωμὸν τοῦ Λυκαίου Διὸς βρέφος ἤνεγκεν ἀνθρώπου καὶ ἔθυσε τὸ βρέφος καὶ ἔσπεισεν ἐπὶ τοῦ βωμοῦ τὸ αἷμα, καὶ αὐτὸν αὐτίκα ἐπὶ τῇ θυσίᾳ γενέσθαι λύκον φασὶν ἀντὶ ἀνθρώπου. [4] καὶ ἐμέ γε ὁ λόγος οὗτος πείθει, λέγεται δὲ ὑπὸ Ἀρκάδων ἐκ παλαιοῦ, καὶ τὸ εἰκὸς αὐτῷ πρόσεστιν. οἱ γὰρ δὴ τότε ἄνθρωποι ξένοι καὶ ὁμοτράπεζοι θεοῖς ἦσαν ὑπὸ δικαιοσύνης καὶ εὐσεβείας, καί σφισιν ἐναργῶς ἀπήντα παρὰ τῶν θεῶν τιμή τε οὖσιν ἀγαθοῖς καὶ ἀδικήσασιν ὡσαύτως ἡ ὀργή, ἐπεί τοι καὶ θεοὶ τότε ἐγίνοντο ἐξ ἀνθρώπων, οἳ γέρα καὶ ἐς τόδε ἔτι ἔχουσιν ὡς Ἀρισταῖος καὶ Βριτόμαρτις ἡ Κρητικὴ καὶ Ἡρακλῆς ὁ Ἀλκμήνης καὶ Ἀμφιάραος ὁ Ὀικλέους, ἐπὶ δὲ αὐτοῖς Πολυδεύκης τε καὶ Κάστωρ. [5] οὕτω πείθοιτο ἄν τις καὶ Λυκάονα θηρίον καὶ τὴν Ταντάλου Νιόβην γενέσθαι λίθον. ἐπ᾽ ἐμοῦ δὲ — κακία γὰρ δὴ ἐπὶ πλεῖστον ηὔξετο καὶ γῆν τε ἐπενέμετο πᾶσαν καὶ πόλεις πάσας — οὔτε θεὸς ἐγίνετο οὐδεὶς ἔτι ἐξ ἀνθρώπου, πλὴν ὅσον λόγῳ καὶ κολακείᾳ πρὸς τὸ ὑπερέχον, καὶ ἀδίκοις τὸ μήνιμα τὸ ἐκ τῶν θεῶν ὀψέ τε καὶ ἀπελθοῦσιν ἐνθένδε ἀπόκειται. [6] ἐν δὲ τῷ παντὶ αἰῶνι πολλὰ μὲν πάλαι συμβάντα, ‹τὰ› δὲ καὶ ἔτι γινόμενα ἄπιστα εἶναι πεποιήκασιν ἐς τοὺς πολλοὺς οἱ τοῖς ἀληθέσιν ἐποικοδομοῦντες ἐψευσμένα. λέγουσι γὰρ δὴ ὡς Λυκάονος ὕστερον ἀεί τις ἐξ ἀνθρώπου λύκος γίνοιτο ἐπὶ τῇ θυσίᾳ τοῦ Λυκαίου Διός, γίνοιτο δὲ οὐκ ἐς ἅπαντα τὸν βίον· ὁπότε δὲ εἴη λύκος, εἰ μὲν κρεῶν ἀπόσχοιτο ἀνθρωπίνων, ὕστερον ἔτει δεκάτῳ φασὶν αὐτὸν αὖθις ἄνθρωπον ἐκ λύκου γίνεσθαι, γευσάμενον δὲ ἐς ἀεὶ μένειν θηρίον. [7] ὡσαύτως δὲ καὶ Νιόβην λέγουσιν ἐν Σιπύλῳ τῷ ὄρει θέρους ὥρᾳ κλαίειν. ἤδη δὲ καὶ ἄλλα ἤκουσα, τοῖς γρυψὶ στίγματα ὁποῖα καὶ ταῖς παρδάλεσιν εἶναι, καὶ ὡς οἱ Τρίτωνες ἀνθρώπου φωνῇ φθέγγοιντο· οἱ δὲ καὶ φυσᾶν διὰ κόχλου τετρυπημένης φασὶν αὐτούς. ὁπόσοι δὲ μυθολογήμασιν ἀκούοντες ἥδονται, πεφύκασι καὶ αὐτοί τι ἐπιτερατεύεσθαι· καὶ οὕτω τοῖς ἀληθέσιν ἐλυμήναντο, συγκεραννύντες αὐτὰ ἐψευσμένοις.

Jan Cossier, Giove e Licaone. Olio su tela, 1640 c. Madrid, Museo Nacional del Prado.

[1] Le innovazioni di Licaone figlio di Pelasgo[1], frutto di una sapienza maggiore ‹di› quella del padre suo, furono le seguenti. Fondò la città di Licosura sul monte Liceo, diede a Zeus il titolo di “Liceo” e istituì delle gare Licee[2]. Ed è mia opinione che, prima delle Licee, non erano state ancora istituite nemmeno le prime Panatenee degli Ateniesi. E dico «prime», perché questa gara si chiamava in quel tempo Atenee, mentre il nome di Panatenee dicono che fu loro dato sotto Teseo, perché organizzate allora dagli Ateniesi ormai riuniti tutti insieme in un’unica città. [2] Per quanto, poi, riguarda il certame olimpico, proprio perché lo fanno risalire a un periodo anteriore al genere umano raccontando che là Crono e Zeus si misurarono nella lotta e che i Cureti disputarono la prima gara di corsa, per questo motivo intendo escluderlo da quanto ora stiamo dicendo[3]. Personalmente ritengo che l’età di Licaone fu la stessa di quella di Cecrope, re degli Ateniesi[4], ma non simile fu la saggezza che essi dimostrarono nei confronti della divinità. [3] L’uno, infatti, fu il primo a chiamare Ipato (sc. “Supremo”) Zeus e, ritenendo giusto escludere dal sacrificio tutto ciò che fosse animato, offrì sull’altare dolciumi fatti alla maniera locale, che ancora ai tempi miei gli Ateniesi chiamano pelánoi (sc. libazioni)[5]. Licaone, invece, portò all’altare di Zeus Liceo un bambino appena nato e lo sacrificò e del suo sangue fece libazione sull’altare e, subito dopo il sacrificio, dicono che da uomo si trasformò in lupo[6]. [4] Per quanto mi riguarda, anch’io credo a questo racconto: esso gode di un’antica tradizione presso gli Arcadi e, inoltre, ha tutto l’aspetto della verisimiglianza[7]. Gli uomini di allora, infatti, grazie alla loro giustizia e religiosa pietà, erano ospiti e commensali degli dèi e da parte degli dèi ricevevano apertamente onore quando erano buoni e allo stesso modo erano colpiti dal loro sdegno quando peccavano. E, in effetti, in quei tempi alcuni da uomini che erano diventavano dèi, e ancor oggi conservano i loro onori, come Aristeo, la cretese Britomarti, Eracle figlio di Alcmena, Anfiarao figlio di Oicle e, oltre a questi, Polluce e Castore[8]. [5] Si potrebbe perciò credere che anche Licaone sia diventato una belva e Niobe di Tantalo una pietra[9]. Ai miei tempi, invece, poiché la malvagità cresceva fino al culmine o occupava tutta quanta la Terra e tutte quante le città, nessuno più da uomo diventava dio se non a parole e per adulazione verso i potenti, mentre la vendetta divina troppo tardi colpisce gli ingiusti e quando già se ne sono andati da questo mondo. [6] Ma in tutto il lungo volgere del tempo coloro che sulla verità costruiscono castelli di menzogne hanno fatto sì che la gente non presti fede ai molti casi verificatisi in antico e ‹a quelli› che ancora succedono. E difatti si dice che dopo i tempi di Licaone, in seguito al sacrificio offerto a Zeus Liceo, un uomo si trasformi ogni volta in lupo: non lo resterebbe, però, per tutta la vita, ma, quando è un lupo, se si astiene dal mangiare carne umana, al decimo anno dicono che di nuovo da lupo ridiventa uomo. Se invece ne assaggia, rimane bestia per sempre[10]. [7] Allo stesso modo, raccontano anche che Niobe sul monte Sipilo piange nella stagione estiva. E altri racconti udii ancora: che i grifoni hanno la pelle maculata come quella dei leopardi e che i Tritoni emettono voce umana. C’è anche chi dice che essi suonano soffiando in una conchiglia perforata[11]. E coloro che prendono diletto ad ascoltare racconti meravigliosi sono soliti aggiungervi anch’essi qualche elemento portentoso e in questo modo corruppero le verità mescolandole con le menzogne.

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Note:

[1] In questo capitolo e fino a tutto il quinto Pausania illustra la successione dei re di Arcadia da Pelasgo ad Aristocrate II, cioè dai tempi mitici alla fine della seconda guerra messenica (668 a.C., secondo Pausania). Questa lista dei re arcadi, i quali avrebbero regnato su tutta l’Argolide (mentre sappiamo per certo che una unità politica arcadica non esistette nei tempi remoti, ma fu il prodotto, completamente attuato con la fondazione di Megalopoli, 370 a.C., della resistenza degli Arcadi all’espansionismo spartano), è probabilmente frutto di composizione di fonti anche tarde e diverse, per lo più a noi non note, alcune delle quali sicuramente scritte (le più antiche), altre orali e raccolte dalle tradizioni locali delle città arcadi (le più recenti) che Pausania visitò, v. J. HEJNIC, Pausanias the Periget and the Archaic History of Arcadia, Prague 1961; F. HILLER VON GAERTRINGEN, Pausanias’ arkadische Königsliste, Klio 21 (1927), 1-13; J. ROY, The Sons of Lycaon in Pausanias’ Arcadian King-List, ABSA 63 (1968), 287- 292, e cfr. cap. 6, 1 e nota 1. Licaone era figlio di Pelasgo e di Melibea, figlia di Oceano o, secondo altri, della ninfa Cillene (Apollod. 3, 8, 1) o di Deianira, figlia di un altro Licaone, figlio di Ezeo (Dion. 1, 11 e 13).

[2] Licosura, la «prima città che il sole vide» (v. cap. 38, 1), ricorda il nome di Licaone. Per il monte Liceo v. cap. 38, 2 sgg. L’epiteto Liceo è qui connesso (Licaone – Licosura – monte Liceo) con la radice del nome greco del lupo più che con quella che indica la luce e rimanda all’aspetto solare del dio. Le gare Licee (v. cap. 38, 5), ricordate da Pindaro (O. 9, 97; 13, 108; N. 10, 48) e paragonate dagli antichi ai romani Lupercalia (Liv. 1, 5, 1 sg.; Dion. 1, 80; Plut. Caes. 61, 1; ecc.), erano considerate da Aristotele le quarte nell’ordine cronologico dopo le Eleusinie, le Panatenee e la gara di corsa istituita da Danao (fr. 637 R.). Ma Pausania, una volta accettate l’autoctonia di Pelasgo e l’attività di «primi civilizzatori» di Pelasgo e di Licaone, reputa, coerentemente, le Licee anteriori a tutte le altre gare famose, anteriori anche alle Eleusinie, dal momento che queste furono istituite per l’invenzione del grano, mentre Pelasgo e Licaone vissero ai tempi in cui gli uomini si cibavano di ghiande. Che le Panatenee (v. 1, 2 nota 7) siano state istituite da Teseo (per il sinecismo, v. App. I, 19) è accennato da Plutarco (Thes. 24, 3) e dato per certo dalla tarda tradizione (Suda, ecc.). Delle Atenee faceva menzione l’attidografo Istro (FGrHist. 334 F4).

[3] Cfr. 5, 7, 6 sgg.

[4] «Personalmente ritengo…»: con questa espressione Pausania propone una sua cronologia, considerando Licaone contemporaneo di Cecrope I, cioè del secondo re dell’Attica (v. 1, 2, 6 e nota 13), così come Licaone è il secondo re dell’Arcadia. E come nel § precedente assegna a Licaone il primato dell’istituzione delle gare (le Licee) contro la tradizione «canonica» (v. nota 2), qui gli assegna la contemporaneità con Cecrope I nell’istituzione del culto di Zeus (v. § 3), ancora contro la tradizione canonica, cfr. Marmor Parium, 17 (che assegna l’istituzione delle Licee e il sacrificio del bambino all’epoca del re ateniese Pandione, figlio di Cecrope II).

[5] Sull’acropoli di Atene c’era l’altare di Zeus Ipato (v. 1, 26, 5), al quale non si sacrificavano esseri viventi. Questo altare era stato eretto da Cecrope (v. Euseb. Praep. Ev. 10, 9, 15).

[6] Questa è la versione di Pausania e probabilmente degli Arcadi suoi contemporanei. Noi possiamo pensare che questo sacrificio conservi il ricordo di antichi (preistorici) sacrifici di vittime umane per Zeus Liceo, però Pausania non fa cenno a questa origine come non fa cenno, a proposito delle «libazioni» di Cecrope, all’origine agricola del sacrificio incruento. Licaone, al contrario di Cecrope, peccò per mancanza di «saggezza» e, per aver offerto sangue umano al dio, fu punito con la trasformazione in lupo. Le varie versioni del mito diffuse in antico, e tutte respinte da Pausania (v. §§ 5-7), sostenevano invece che i figli di Licaone erano empi e superbi, e Zeus, per sincerarsi della loro empietà, andò a visitarli in veste di povero. I figli di Licaone allora, per istigazione di Menalo, gli offrirono insieme ai sacrifici carne umana. Zeus, disgustato, li fulminò tutti, Licaone e i suoi cinquanta figli, tranne l’ultimo, Nittimo, dopo aver rovesciato la tavola (trapeza) nel luogo ora chiamato Trapezunte (Apollod. 3, 8, 1); oppure: Licaone, volendo distogliere i suoi sudditi dall’ingiustizia, diceva che Zeus gli faceva frequenti visite per osservare il comportamento degli uomini. Ma un giorno i figli di Licaone, per accertarsi che l’ospite del padre fosse realmente un dio, mescolarono carni umane a quelle della vittima sacrificale, e Zeus con fulmini e tempeste li uccise tutti (Niccolò di Damasco, FGrHist. 90 F 38; Hyg. 176; Suda). Il bambino offerto in sacrificio sarebbe stato Nittimo (o Arcade), e Zeus avrebbe tramutato in lupi Licaone e molti altri, o i figli di Licaone (Clem. Alex. Potr. 2, 27; Nonn. 18, 20 sgg.; scol. Licophr. 481, che segue, con dettagli diversi, le due versioni sopra citate), o il solo Licaone, che aveva messo alla prova Zeus con l’offerta delle carni di un bambino (Hyg. Astron. 2, 4; Ovid. Met. 1, 215 sgg., per il quale la vittima umana era un prigioniero molosso; Servio, ad Aen. 1, 731).

[7] Pausania vuole dimostrare qui la verisimiglianza della leggenda di Licaone, nei termini in cui la accetta, ricordando che, in origine, gli uomini vivevano vicini agli dèi (cfr. Od. 5, 35; 7, 201 sgg.: i Feaci sono «vicini agli dèi»; con loro gli dèi siedono a mensa) e perciò dagli dèi ricevevano ricompense, se giusti, o punizioni, se ingiusti, subito e direttamente in un rapporto personale, perché gli dèi vigilavano da vicino sulle azioni umane. Ora questo non avviene più a causa dell’ingiustizia e dell’empietà degli uomini diffuse per tutta la Terra e, perciò, nessun uomo oggi per la sua giustizia diventa un dio (le apoteosi degli imperatori romani sono solo finzioni dovute ad adulazione), come nessuno per la sua ingiustizia viene punito direttamente e subito dagli dèi: la punizione è sempre tardiva e spesso colpisce non il colpevole, ma la sua memoria (considerazione, questa, che dà inizio al dialogo plutarcheo De sera numinum vindicta, M. 548d sgg.). Non sembra il caso, quindi, di vedere un contrasto fra questa e altre affermazioni o narrazioni di Pausania circa l’intervento degli dèi nelle vicende umane in aiuto e difesa degli uomini e delle città o per la loro rovina (v. Habicht, pp. 154 sg.; Heer, pp. 263 e 306 sg.).

[8] Ad Aristeo, figlio di Apollo e di Cirene, per i suoi molteplici benefici resi agli uomini (v. 10, 17, 3 sgg.) non solo i barbari, ma anche i Greci attribuirono onori divini (Diod. 4, 82, 6). Per Britomarti v. 2, 30, 3 e nota 4; per Eracle v. App. VIII, 42-43; per Anfiarao v. 1, 34, 2 sgg. e nota 3; per Castore e Polluce v. 3, 13, 1 e nota 2.

[9] Per Niobe v. 1, 21, 3 e nota 5.

[10] Pausania respinge tutte quelle leggende che sono opera della fantasia dei poeti e dei narratori. Queste menzogne corrompono infatti la genuina semplicità del vero e confondono la gente, che di fronte a tante meravigliose e stupefacenti invenzioni non crede più ai fatti realmente avvenuti. Circa la trasformazione dell’uomo in lupo v. 6, 8, 2 e nota 2 e cfr. Hdt. 4, 105: «Io non credo a queste storie».

[11] Omero, infatti, dice che Niobe è tramutata in roccia, ma non dice che la roccia piange (Il. 24, 617), mentre Ovidio (Met. 6, 311 sg.) afferma che «ancor oggi la pietra emette pianto». I grifoni, mostri favolosi con la testa di uccello (aquila) e corpo di felino, rappresentati già dal IV millennio a.C. nel vicino Oriente, in Egitto, a Creta e quindi in Etruria e a Roma (in aspetti vari a seconda dei luoghi e delle età), erano immaginati per lo più come guardiani (v. 1, 24, 6) e simbolicamente interpretati. È naturale perciò che scrittori e artisti li rappresentassero nelle forme più diverse. Per esempio, Ctesia (storico del V-IV secolo a.C., raccoglitore di curiosità persiane) aveva scritto che i grifoni avevano il collo variegato di piume blu (v. Ael. Nat. Animal. 4, 27, che descrive l’aspetto dei grifoni indiani). Lo stesso dicasi per i Tritoni, divinità marine a figura pisciforme dalla vita in giù. Meravigliosi veicoli per il trasporto di eroi e di dèi sul mare nell’epoca più antica, nel periodo classico ed ellenistico sono considerati personaggi del seguito di Poseidone. Che i Tritoni suonassero e usassero a questo fine conchiglie marine è detto da Virgilio (Aen. 6, 171 sgg.; 10, 209 sg.), Plinio (Nat. Hist. 9, 9), Igino (Astron. 2, 23) e da molti altri scrittori antichi, ed è tema molto diffuso nelle opere d’arte ellenistiche e romane. Pausania presta fede alle leggende originarie riferite da antichi autori (Ariste. v. 1, 24, 6, per i grifoni; Hes. Theog. 930 sgg., per Tritone, figlio di Poseidone e Anfitrite), ma non accetta, anzi respinge decisamente tutte le meravigliose invenzioni che, travisando il primitivo significato di queste figure, ne hanno moltiplicato gli esemplari, guastato la forma e sovvertito la verità.

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Bibliografia ulteriore:

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Ecateo e i sacerdoti egizi (Hdt. II 142-144)

di ERODOTO, Storie, volume primo (libri I-II), a cura di F. CÀSSOLA, A. IZZO D’ACCINI, D. FAUSTI, Milano 2008, pp. 484-487; commento di M. CAVALLI, Introduzione a APOLLONIO, Biblioteca, Milano 1998, p. IV.

Racconta Erodoto che un giorno lo storico Ecateo, durante una dotta discussione con i sapientissimi sacerdoti egiziani di Tebe, si vantò di discendere da un dio nella persona del suo sedicesimo antenato. I sacerdoti si guardarono l’un l’altro sorridendo: credeva dunque, quel Greco ingenuo e spocchioso, che bastassero cinquecento anni o poco più, perché un essere mutasse radicalmente la propria natura? Con la consueta gentilezza, invitarono allora Ecateo a entrare nel tempio, e gli mostrarono una grande meraviglia, trecentoquarantacinque colossi di legno raffiguranti ognuno un sommo sacerdote, la cui carica era da sempre trasmessa di padre in figlio. Neppure uno di essi, gli spiegarono, era mai stato un dio o un eroe: troppo pochi undicimila anni – lontano, davvero lontano e insondabile il tempo in cui l’essere era passibile di trasformazioni, e la materia del mondo e della vita ancora si muoveva verso forme cangianti.

Titolatura in geroglifico del Gran sacerdote di Ptah (wr-ḫrp-ḥmwt, «il più Grande dei Maestri degli Artigiani»).

[142, 1] ἐς μὲν τοσόνδε τοῦ λόγου Αἰγύπτιοί τε καὶ οἱ ἱρέες ἔλεγον, ἀποδεικνύντες ἀπὸ τοῦ πρώτου βασιλέος ἐς τοῦ Ἡφαίστου τὸν ἱρέα τοῦτον τὸν τελευταῖον βασιλεύσαντα μίαν τε καὶ τεσσεράκοντα καὶ τριηκοσίας γενεὰς ἀνθρώπων γενομένας, καὶ ἐν ταύτῃσι ἀρχιερέας καὶ βασιλέας ἑκατέρους τοσούτους γενομένους. [2] καίτοι τριηκόσιαι μὲν ἀνδρῶν γενεαὶ δυνέαται μύρια ἔτεα· γενεαὶ γὰρ τρεῖς ἀνδρῶν ἑκατὸν ἔτεα ἐστί· μιῆς δὲ καὶ τεσσεράκοντα ἔτι τῶν ἐπιλοίπων γενεέων, αἳ ἐπῆσαν τῇσι τριηκοσίῃσι, ἐστὶ τεσσεράκοντα καὶ τριηκόσια καὶ χίλια ἔτεα. [3] οὕτω ἐν μυρίοισί τε ἔτεσι καὶ χιλίοισι καὶ τριηκοσίοισί τε καὶ τεσσεράκοντα ἔλεγον θεὸν ἀνθρωποειδέα οὐδένα γενέσθαι· οὐ μέντοι οὐδὲ πρότερον οὐδὲ ὕστερον ἐν τοῖσι ὑπολοίποισι Αἰγύπτου βασιλεῦσι γενομένοισι ἔλεγον οὐδὲν τοιοῦτο. [4] ἐν τοίνυν τούτῳ τῷ χρόνῳ τετράκις ἔλεγον ἐξ ἠθέων τὸν ἥλιον ἀνατεῖλαι· ἔνθα τε νῦν καταδύεται, ἐνθεῦτεν δὶς ἐπαντεῖλαι, καὶ ἔνθεν νῦν ἀνατέλλει, ἐνθαῦτα δὶς καταδῦναι. καὶ οὐδὲν τῶν κατ᾽ Αἴγυπτον ὑπὸ ταῦτα ἑτεροιωθῆναι, οὔτε τὰ ἐκ τῆς γῆς οὔτε τὰ ἐκ τοῦ ποταμοῦ σφι γινόμενα, οὔτε τὰ ἀμφὶ νούσους οὔτε τὰ κατὰ τοὺς θανάτους.

[142, 1] Fino a questo punto del racconto parlavano Egiziani e sacerdoti, dimostrando che dal primo re a questo sacerdote di Efesto [sc. Setone], che per ultimo regnò, ci furono 341 generazioni di uomini, e durante queste ci furono sommi sacerdoti e re, entrambi in egual numero. [2] Ora, 300 generazioni di uomini comprendono 10.000 anni, perché tre generazioni umane sono 100 anni, e delle 41 generazioni ancora restanti, che furono oltre le 300, gli anni sono 1.340. [3] Così affermavano che in 11.340 anni[1] non ci fu nessun dio in forma umana e che mai era avvenuto fra gli altri Egiziani che divennero re niente di simile. [4] Dicevano che in questo periodo di tempo, per quattro volte, il Sole si spostò dalla sua sede, che da dove ora tramonta sorse due volte, e due volte viceversa. In questo periodo niente in Egitto subì mutamenti, né di ciò che proviene loro dalla terra, né di quel che proviene dal fiume, né per quel che riguarda le malattie e le morti.

Ptah. Bassorilievo, stucco, IV-III sec. a.C. (Periodo Tardo – Periodo tolemaico).

 

[143, 1] πρότερον δὲ Ἑκαταίῳ τῷ λογοποιῷ ἐν Θήβῃσι γενεηλογήσαντί τε ἑωυτὸν καὶ ἀναδήσαντι τὴν πατριὴν ἐς ἑκκαιδέκατον θεὸν ἐποίησαν οἱ ἱρέες τοῦ Διὸς οἷόν τι καὶ ἐμοὶ οὐ γενεηλογήσαντι ἐμεωυτόν· [2] ἐσαγαγόντες ἐς τὸ μέγαρον ἔσω ἐὸν μέγα ἐξηρίθμεον δεικνύντες κολοσσοὺς ξυλίνους τοσούτους ὅσους περ εἶπον· ἀρχιερεὺς γὰρ ἕκαστος αὐτόθι ἱστᾷ ἐπὶ τῆς ἑωυτοῦ ζόης εἰκόνα ἑωυτοῦ· [3] ἀριθμέοντες ὦν καὶ δεικνύντες οἱ ἱρέες ἐμοὶ ἀπεδείκνυσαν παῖδα πατρὸς ἑωυτῶν ἕκαστον ἐόντα, ἐκ τοῦ ἄγχιστα ἀποθανόντος τῆς εἰκόνος διεξιόντες διὰ πασέων, ἕως οὗ ἀπέδεξαν ἁπάσας αὐτάς. [4] Ἑκαταίῳ δὲ γενεηλογήσαντι ἑωυτὸν καὶ ἀναδήσαντι ἐς ἑκκαιδέκατον θεὸν ἀντεγενεηλόγησαν ἐπὶ τῇ ἀριθμήσι, οὐ δεκόμενοι παρ᾽ αὐτοῦ ἀπὸ θεοῦ γενέσθαι ἄνθρωπον· ἀντεγενεηλόγησαν δὲ ὧδε, φάμενοι ἕκαστον τῶν κολοσσῶν πίρωμιν ἐκ πιρώμιος γεγονέναι, ἐς ὃ τοὺς πέντε καὶ τεσσεράκοντα καὶ τριηκοσίους ἀπέδεξαν κολοσσούς πίρωμιν ἐπονομαζόμενον,καὶ οὔτε ἐς θεὸν οὔτε ἐς ἥρωα ἀνέδησαν αὐτούς. πίρωμις δὲ ἐστὶ κατὰ Ἑλλάδα γλῶσσαν καλὸς κἀγαθός.

[143, 1] In precedenza, con Ecateo il logografo che a Tebe esponeva la sua genealogia e ricollegava la sua discendenza paterna a un dio come sedicesimo antenato, i sacerdoti di Zeus agirono nello stesso modo che con me, che pure non avevo esposto la mia genealogia: [2] fattomi entrare all’interno di un tempio[2], mi enumeravano, mostrandomeli, dei colossi di legno, tanti quanti ho detto[3]. In quel luogo ogni sommo sacerdote, durante la vita, colloca la propria statua. [3] Contandoli, dunque, e additandoli, i sacerdoti mi dimostrarono che ciascuno di essi era figlio di un padre compreso fra quelli stessi, a partire da quello morto più recentemente fino al primo, me li mostrarono tutti. [4] Ma a Ecateo, che aveva esposto la propria genealogia e si ricollegava a un dio come sedicesimo antenato, contrapposero le loro genealogie sulla base dei numeri, non accettando che un uomo possa nascere da un dio. Così gli opposero le loro genealogie, affermando che ognuno di quei colossi era un «piromi»[4], nato da un «piromi», fino a che gli ebbero mostrato tutti i 345 colossi, e non li collegavano né a un dio né a un eroe. «Piromi» equivale in greco a «uomo eccellente».

Erodoto. Busto, copia romana del II sec. d.C. da originale greco della prima metà del IV sec. a.C. da Athribis (od. Benha, Basso Egitto). New York, Metropolitan Museum of Art.

 

[144, 1] ἤδη ὦν τῶν αἱ εἰκόνες ἦσαν, τοιούτους ἀπεδείκνυσαν σφέας πάντας ἐόντας, θεῶν δὲ πολλὸν ἀπαλλαγμένους. [2] τὸ δὲ πρότερον τῶν ἀνδρῶν τούτων θεοὺς εἶναι τοὺς ἐν Αἰγύπτῳ ἄρχοντας, οὐκ ἐόντας ἅμα τοῖσι ἀνθρώποισι, καὶ τούτων αἰεὶ ἕνα τὸν κρατέοντα εἶναι· ὕστατον δὲ αὐτῆς βασιλεῦσαι ὦρον τὸν Ὀσίριος παῖδα, τὸν Ἀπόλλωνα Ἕλληνες ὀνομάζουσι· τοῦτον καταπαύσαντα Τυφῶνα βασιλεῦσαι ὕστατον Αἰγύπτου. Ὄσιρις δὲ ἐστὶ Διόνυσος κατὰ Ἑλλάδα γλῶσσαν.

[144, 1] Mi dimostrarono, dunque, che tali erano tutti quelli ai quali appartenevano le immagini, e ben differenti dagli dèi. [2] Ma mi dissero che, prima di questi uomini, quelli che dominavano in Egitto erano dèi, abitavano insieme agli uomini e di essi sempre uno solo aveva il potere. Per ultimo, dopo aver rovesciato Tifone[5], regnò sull’Egitto Oro, figlio di Osiride, che i Greci chiamano Apollo. Osiride, poi, in lingua greca è Dioniso.

 

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Note:

[1] Il totale di 11.340, stando agli stessi dati erodotei non è esatto, poiché sommando 341 generazioni, calcolate ciascuna della durata di 33 anni e ⅓, si ottiene 11.366 e ⅔ anni.

[2] Si tratta del complesso monumentale di Karnak.

[3] Cioè 341 (cap. 142, 1), ma alla fine del cap. 143 si dice che Ecateo, che visitò l’Egitto quattro generazioni dopo Setone, ne vide 345; perciò, Erodoto dovette vedere un numero maggiore di colossi.

[4] Pi-romi vuol dire in egiziano «l’uomo».

[5] Cioè Seth, l’uccisore di Osiride.

Scipione Nasica e il poeta Ennio: una battuta stravagante (Cic. de orat. II 68, 276)

di M. Tullio Cicerone, Dell’oratore, a cura di E. NARDUCCI, Milano 1994, pp. 506-507.

Corego e attori comici. Mosaico, ante 79 d.C. dalla Casa del poeta tragico, Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

ut illud Nasicae, qui cum ad poetam Ennium venisset eique ab ostio quaerenti Ennium ancilla dixisset domi non esse, Nasica sensit illam domini iussu dixisse et illum intus esse; paucis post diebus cum ad Nasicam venisset Ennius et eum ad ianuam quaereret, exclamat Nasica domi non esse, tum Ennius “quid? ego non cognosco vocem” inquit “tuam?” Hic Nasica “homo es impudens: ego cum te quaererem ancillae tuae credidi te domi non esse, tu mihi non credis ipsi?”

[…] Come la battuta di Scipione Nasica, che si era recato a casa del poeta Ennio e aveva chiesto di lui stando alla porta; ma la serva gli aveva detto che Ennio non era in casa. Nasica però aveva capito che la serva aveva eseguito un ordine del padrone e che questi si trovava in casa. Pochi giorni dopo, Ennio si recò da Nasica, e sulla soglia lo chiamò; Nasica gridò di non essere in casa. «Ma come? – esclamò Ennio – vuoi che non riconosca la tua voce?». Al che Nasica: «Sei proprio uno sfacciato! Quando ho chiesto di te, ho creduto alla tua serva che affermava che tu non eri in casa; e tu non credi a me in persona?».

Usi e costumi degli antichi Indiani secondo Erodoto (Hdt. III 98-105)

testo greco tratto da Herodotus, Historiae (ed. A.D. Godley), Cambridge, HUP, 1920; traduzione italiana da L. Annibaletto (Milano 1956), cfr. P. Li Causi – R. Pomelli (2001-2002), e apporti personali.

La delegazione dei tributi proveniente dall’India. Rilievo su pannello (n. XVIII), pietra locale, prima metà del VI sec. a.C., scalinata meridionale. Sala ipostila (Apadāna), Persepolis.

[98]  Τὸν δὲ χρυσὸν τοῦτον τὸν πολλὸν οἱ Ἰνδοί, ἀπ’ οὗ τὸ ψῆγμα τῷ βασιλέϊ τὸ εἰρημένον κομίζουσι, τρόπῳ τοιῷδε κτῶνται. Ἔστι τῆς Ἰνδικῆς χώρης τὸ πρὸς ἥλιον ἀνίσχοντα ψάμμος· τῶν γὰρ ἡμεῖς ἴδμεν, τῶν καὶ πέρι ἀτρεκές τι λέγεται, πρῶτοι πρὸς ἠῶ καὶ ἡλίου ἀνατολὰς οἰκέουσι ἀνθρώπων τῶν ἐν τῇ Ἀσίῃ Ἰνδοί· Ἰνδῶν γὰρ τὸ πρὸς τὴν ἠῶ ἐρημίη ἐστὶ διὰ τὴν ψάμμον.

Ἔστι δὲ πολλὰ ἔθνεα Ἰνδῶν καὶ οὐκ ὁμόφωνα σφίσι, καὶ οἱ μὲν αὐτῶν νομάδες εἰσί, οἱ δὲ οὔ, οἱ δὲ ἐν τοῖσι ἕλεσι οἰκέουσι τοῦ ποταμοῦ καὶ ἰχθῦς σιτέονται ὠμούς, τοὺς αἱρέουσι ἐκ πλοίων καλαμίνων ὁρμώμενοι· καλάμου δὲ ἓν γόνυ πλοῖον ἕκαστον ποιέεται. Οὗτοι μὲν δὴ τῶν Ἰνδῶν φορέουσι ἐσθῆτα φλοΐνην· ἐπεὰν ἐκ τοῦ ποταμοῦ φλοῦν ἀμήσωνται καὶ κόψωσι, τὸ ἐνθεῦτεν φορμοῦ τρόπον καταπλέξαντες [99] ὡς θώρηκα ἐνδύνουσι. Ἄλλοι δὲ τῶν Ἰνδῶν πρὸς ἠῶ οἰκέοντες τούτων νομάδες εἰσί, κρεῶν ἐδεσταὶ ὠμῶν, καλέονται δὲ Παδαῖοι. Νομαίοισι δὲ τοιοισίδε λέγονται χρᾶσθαι. Ὃς ἂν κάμῃ τῶν ἀστῶν, ἤν τε γυνὴ ἤν τε ἀνήρ, τὸν μὲν ἄνδρα ἄνδρες οἱ μάλιστά οἱ ὁμιλέοντες κτείνουσι, φάμενοι αὐτὸν τηκόμενον τῇ νούσῳ τὰ κρέα σφίσι διαφθείρεσθαι· ὁ δὲ ἄπαρνός ἐστι μὴ μὲν νοσέειν, οἱ δὲ οὐ συγγινωσκόμενοι ἀποκτείναντες κατευωχέονται· ἣ δὲ ἂν γυνὴ κάμῃ, ὡσαύτως αἱ ἐπιχρεώμεναι μάλιστα γυναῖκες ταὐτὰ τοῖσι ἀνδράσι ποιεῦσι. Τὸν γὰρ δὴ ἐς γῆρας ἀπικόμενον θύσαντες κατευωχέονται. Ἐς δὲ τούτου λόγον οὐ πολλοί τινες αὐτῶν ἀπικνέονται· πρὸ γὰρ τοῦ τὸν ἐς [100] νοῦσον πίπτοντα πάντα κτείνουσι. Ἑτέρων δέ ἐστι Ἰνδῶν ὅδε ἄλλος τρόπος· οὔτε κτείνουσι οὐδὲν ἔμψυχον οὔτε τι σπείρουσι οὔτε οἰκίας νομίζουσι ἐκτῆσθαι ποιηφαγέουσί τε, καὶ αὐτοῖσι ‹ὄσπριόν τι› ἔστι ὅσον κέγχρος τὸ μέγαθος ἐν κάλυκι, αὐτόματον ἐκ τῆς γῆς γινόμενον, τὸ συλλέγοντες αὐτῇ τῇ κάλυκι ἕψουσί τε καὶ σιτέονται. Ὃς δ’ ἂν ἐς νοῦσον αὐτῶν πέσῃ, ἐλθὼν ἐς τὴν ἔρημον κεῖται· φροντίζει [101] δὲ οὐδεὶς οὔτε ἀποθανόντος οὔτε κάμνοντος. Μίξις δὲ τούτων τῶν Ἰνδῶν τῶν κατέλεξα πάντων ἐμφανής ἐστι κατά περ τῶν προβάτων, καὶ τὸ χρῶμα φορέουσι ὅμοιον πάντες καὶ παραπλήσιον Αἰθίοψι. Ἡ γονὴ δὲ αὐτῶν, τὴν ἀπίενται ἐς τὰς γυναῖκας, οὐ κατά περ τῶν ἄλλων ἀνθρώπων ἐστὶ λευκή, ἀλλὰ μέλαινα κατά περ τὸ χρῶμα· τοιαύτην δὲ καὶ Αἰθίοπες ἀπίενται θορήν. Οὗτοι μὲν τῶν Ἰνδῶν ἑκαστέρω τῶν Περσέων οἰκέουσι καὶ πρὸς νότου ἀνέμου [102] καὶ Δαρείου βασιλέος οὐδαμὰ ὑπήκουσαν. Ἄλλοι δὲ τῶν Ἰνδῶν Κασπατύρῳ τε πόλι καὶ τῇ Πακτυϊκῇ χώρῃ εἰσὶ πρόσοικοι, πρὸς ἄρκτου τε καὶ βορέω ἀνέμου κατοικημένοι τῶν ἄλλων Ἰνδῶν, οἳ Βακτρίοισι παραπλησίην ἔχουσι δίαιταν. Οὗτοι καὶ μαχιμώτατοί εἰσι Ἰνδῶν καὶ οἱ ἐπὶ τὸν χρυσὸν στελλόμενοί εἰσι οὗτοι· κατὰ γὰρ τοῦτό ἐστι ἐρημίη διὰ τὴν ψάμμον.

Ἐν δὴ ὦν τῇ ἐρημίῃ ταύτῃ καὶ τῇ ψάμμῳ γίνονται μύρμηκες μεγάθεα ἔχοντες κυνῶν μὲν ἐλάσσω, ἀλωπέκων δὲ μέζω· εἰσὶ γὰρ αὐτῶν καὶ παρὰ βασιλέϊ τῷ Περσέων ἐνθεῦτεν θηρευθέντες. Οὗτοι ὦν οἱ μύρμηκες ποιεύμενοι οἴκησιν ὑπὸ γῆν ἀναφέρουσι [τὴν] ψάμμον κατά περ οἱ ἐν τοῖσι Ἕλλησι μύρμηκες κατὰ τὸν αὐτὸν τρόπον, εἰσὶ δὲ καὶ τὸ εἶδος ὁμοιότατοι· ἡ δὲ ψάμμος ἡ ἀναφερομένη ἐστὶ χρυσῖτις. Ἐπὶ δὴ ταύτην τὴν ψάμμον στέλλονται ἐς τὴν ἔρημον οἱ Ἰνδοί, ζευξάμενος ἕκαστος καμήλους τρεῖς, σειρηφόρον μὲν ἑκατέρωθεν ἔρσενα παρέλκειν, θήλεαν δὲ ἐς μέσον· ἐπὶ ταύτην δὴ αὐτὸς ἀναβαίνει, ἐπιτηδεύσας ὅκως ἀπὸ τέκνων ὡς νεωτάτων ἀποσπάσας ζεύξει· αἱ γάρ σφι κάμηλοι ἵππων οὐκ ἥσσονες ἐς ταχυτῆτά εἰσι· χωρὶς δὲ [103] ἄχθεα δυνατώτεραι πολλὸν φέρειν. Τὸ μὲν δὴ εἶδος ὁκοῖόν τι ἔχει ἡ κάμηλος, ἐπισταμένοισι τοῖσι Ἕλλησι οὐ συγγράφω· τὸ δὲ μὴ ἐπιστέαται αὐτῆς, τοῦτο φράσω· κάμηλος ἐν τοῖσι ὀπισθίοισι σκέλεσι ἔχει τέσσερας μηροὺς καὶ γούνατα τέσσερα, τά τε αἰδοῖα διὰ τῶν ὀπισθίων σκελέων πρὸς [104] τὴν οὐρὴν τετραμμένα. Οἱ δὲ δὴ Ἰνδοὶ τρόπῳ τοιούτῳ καὶ ζεύξι τοιαύτῃ χρεώμενοι ἐλαύνουσι ἐπὶ τὸν χρυσὸν λελογισμένως ὅκως [ἂν] καυμάτων τῶν θερμοτάτων ἐόντων ἔσονται ἐν τῇ ἁρπαγῇ· ὑπὸ γὰρ τοῦ καύματος οἱ μύρμηκες ἀφανέες γίνονται ὑπὸ γῆν. Θερμότατος δέ ἐστι ὁ ἥλιος τούτοισι τοῖσι ἀνθρώποισι τὸ ἑωθινόν, οὐ κατά περ τοῖσι ἄλλοισι μεσαμβρίης, ἀλλ’ ὑπερτείλας μέχρις οὗ ἀγορῆς διαλύσιος· τοῦτον δὲ τὸν χρόνον καίει πολλῷ μᾶλλον ἢ τῇ μεσαμβρίῃ τὴν Ἑλλάδα, οὕτω ὥστε ἐν ὕδατι λόγος αὐτούς ἐστι βρέχεσθαι τηνικαῦτα· μεσοῦσα δὲ ἡ ἡμέρη σχεδὸν παραπλησίως καίει τούς ‹τε› ἄλλους ἀνθρώπους καὶ τοὺς Ἰνδούς· ἀποκλινομένης δὲ τῆς μεσαμβρίης γίνεταί σφι ὁ ἥλιος κατά περ τοῖσι ἄλλοισι ὁ ἑωθινός· καὶ τὸ ἀπὸ τούτου ἀπιὼν ἐπὶ μᾶλλον ψύχει, ἐς ὃ ἐπὶ δυσμῇσι ἐὼν καὶ τὸ [105] κάρτα ψύχει. Ἐπεὰν δὲ ἔλθωσι ἐς τὸν χῶρον οἱ Ἰνδοὶ ἔχοντες θυλάκια, ἐμπλήσαντες ταῦτα τῆς ψάμμου τὴν ταχίστην ἐλαύνουσι ὀπίσω· αὐτίκα γὰρ οἱ μύρμηκες ὀδμῇ, ὡς δὴ λέγεται ὑπὸ Περσέων, μαθόντες διώκουσι. Εἶναι δὲ ταχυτῆτα οὐδενὶ ἑτέρῳ ὅμοιον, οὕτω ὥστε, εἰ μὴ προλαμβάνειν τοὺς Ἰνδοὺς τῆς ὁδοῦ ἐν ᾧ τοὺς μύρμηκας συλλέγεσθαι, οὐδένα ἄν σφεων ἀποσῴζεσθαι. Τοὺς μέν νυν ἔρσενας τῶν καμήλων, εἶναι γὰρ ἥσσονας θέειν τῶν θηλέων, παραλύεσθαι ἐπελκομένους, οὐκ ὁμοῦ ἀμφοτέρους· τὰς δὲ θηλέας ἀναμιμνησκομένας τῶν ἔλιπον τέκνων ἐνδιδόναι μαλακὸν οὐδέν. Τὸν μὲν δὴ πλέω τοῦ χρυσοῦ οὕτω οἱ Ἰνδοὶ κτῶνται, ὡς Πέρσαι φασί· ἄλλος δὲ σπανιώτερός ἐστι ἐν τῇ χώρῃ ὀρυσσόμενος.

Copenhagen, Kongelige Bibliotek. Gl. kgl. S. 1633 4° (1400-1425 c.), Bestiario di Anne Walshe, f. 29v.

[98] Questa grande quantità d’oro, di cui portano al Re la suddetta polvere, gli Indiani se la procurano nel modo seguente. La parte del territorio indiano rivolta verso il sorgere del Sole è una distesa di sabbia; tra quelli che conosciamo, infatti, di cui si ha qualche notizia sicura, gli Indiani sono i primi che abitano verso l’Aurora e il Sole nascente fra i popoli d’Asia: a Oriente degli Indiani, infatti, c’è un deserto di sabbia.

Esistono molte tribù di Indiani e non parlano la stessa lingua; alcune sono nomadi, altre no; altre ancora vivono nelle paludi del fiume e si nutrono di pesce crudo, che catturano servendosi di barche fatte di giunchi: ogni barchetta è costituita da un tronco di canna fra due nodi. Costoro fra gli Indiani, dunque, portano vestiti intessuti di giunchi: colta una canna dal fiume e battutala a puntino, la intrecciano poi a mo’ di stuoia e lo indossano [99] come fosse una corazza. Altri Indiani, che abitano a Oriente di questi, sono nomadi, si cibano di carne cruda e si chiamano Padei. Si dice che abbiano abitudini di questo genere: quando un cittadino, donna o uomo che sia, cade ammalato, se è un uomo, gli uomini che sono a lui più vicini per parentela lo uccidono, sostenendo che, una volta logorato dalla malattia, le sue carni vadano in putrefazione; quello, dal canto suo, nega di essere ammalato, ma gli altri, non prestandogli ascolto, dopo averlo ucciso, banchettano con le sue carni. Se ad ammalarsi è una donna, allo stesso modo, le donne a lei più prossime le riservano lo stesso trattamento usato sui maschi. Essi banchettano pure con le carni di chiunque abbia raggiunto la vecchiaia, e sono davvero pochi quelli che giungono a contare tanti anni, dal momento che, prima che ciò avvenga, [100] chiunque sia ammalato viene ucciso. Altri Indiani hanno quest’altra usanza: non uccidono alcun essere vivente, non seminano nulla, né sono soliti avere case, ma si nutrono di erbe; hanno un certo legume grosso quanto un grano di miglio, avvolto in un involucro, che cresce spontaneo dalla terra e che essi, dopo averlo raccolto, lo fanno cuocere con l’involucro stesso e se lo mangiano. Chi tra loro si ammala, dopo essersi recato nel deserto, rimane laggiù: nessuno [101] si preoccupa di lui, né dopo che è morto, né prima durante la degenza. I rapporti sessuali di tutti questi Indiani che ho elencato avvengono in pubblico, proprio come le bestie, e hanno tutti lo stesso colore di pelle, molto simile a quello degli Etiopi. Il loro seme, che emettono nelle donne, non è affatto bianco come per gli altri uomini, ma scuro come la loro pelle: tale è anche il seme genitale degli Etiopi. Tra gli Indiani questi sono quelli che abitano più lontano dai Persiani, verso il vento di Noto, [102] e non sono mai stati sudditi di re Dario. Altri Indiani, invece, confinano con la città di Caspatiro e con il territorio dei Pattii; sono stanziati, rispetto agli altri Indiani, verso l’Orsa minore e il vento di Borea, e conducono uno stile di vita simile a quello dei Battriani. Costoro sono i più bellicosi fra gli Indiani e sono questi ad andare alla ricerca dell’oro: in questa regione, infatti, si trova un deserto di sabbia.

Ebbene, in questa solitudine e nella sabbia vivono delle formiche di taglia inferiore a quella dei cani e maggiore di quella delle volpi; di queste ve ne sono anche presso il Re dei Persiani, catturate proprio laggiù. Queste formiche, insomma, scavandosi la propria tana sottoterra, portano in superficie la sabbia proprio come le formiche che si trovano presso i Greci (nello stesso identico modo!) e anche nell’aspetto sono estremamente simili a esse: ma la polvere che sollevano è aurifera. Proprio per impadronirsi di questa sabbia gli Indiani allestiscono delle spedizioni nel deserto, dopo aver aggiogato ciascuno tre cammelli, due maschi ai lati a tirare, legati con una fune, e una femmina in mezzo. Il cammelliere monta sopra quest’ultima, assicurandosi di aggiogarla dopo averla allontanata dai cuccioli quanto più piccoli possibile. I loro cammelli, infatti, quanto a velocità non sono inferiori ai cavalli e, oltre a ciò, [103] sono molto più resistenti nel portare carichi pesanti. Non descrivo l’aspetto del cammello, dal momento che i Greci lo conoscono; dirò invece ciò che i Greci non sanno: il cammello, nelle zampe posteriori, ha quattro ossa femorali e quattro ginocchia; il membro tra le zampe posteriori è rivolto [104] verso la coda.  Gli Indiani, quindi, in questa maniera e avvalendosi di questo modo di aggiogare gli animali, si spingono alla ricerca dell’oro, dopo aver calcolato per farne rapina, quando il caldo è più ardente: a causa del caldo, infatti, le formiche stanno nascoste sottoterra. Per questa gente il Sole più caldo è quello del mattino, non già, come per gli altri, quello di mezzogiorno, ma dal suo sorgere fino allo sgombero del mercato: durante questo lasso di tempo il Sole brucia molto di più che in Grecia a mezzogiorno, tanto che si dice che in quelle ore la gente se ne stia ammollo in acqua; a mezzogiorno, dunque, brucia press’a poco allo stesso modo gli Indiani e gli altri uomini; sul far del pomeriggio, il Sole diventa per loro come per gli altri quello del mattino, e a mano a mano che dal meriggio si allontana concede sempre maggior refrigerio, finché, al tramonto, fa [105] oltremodo freddo. Dopo esser giunti sul luogo con dei sacchi, gli Indiani, non appena li hanno riempiti di sabbia, tornano indietro il più velocemente possibile: infatti, le formiche, avvertendo immediatamente il loro odore, a quanto dicono i Persiani, si lanciano all’inseguimento. Nessun altro essere ha una velocità pari alla loro, sicché, se gli Indiani non prendessero vantaggio nella corsa, mentre le formiche vanno raccogliendosi, nessuno di loro troverebbe scampo. I maschi dei cammelli, vista la loro inferiorità nella corsa, quando iniziano a farsi trascinare, vengono slegati, uno dopo l’altro; mentre le femmine, ricordandosi dei piccoli che hanno abbandonato, non danno segno di fiacchezza. Gli Indiani, dunque, a detta dei Persiani, si procurano in questo modo la maggior parte dell’oro; altro oro, seppure in quantità minore, viene estratto dal sottosuolo.

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Bibliografia di approfondimento:

G.W. Regenos, A Note on Herodotus III 102, CJ 34 (1939), 425-426.

E.S. McCartney, The Gold-Digging Ants, CJ 49 (1954), 234.

K. Karttunen, India in Early Greek Literature, Helsinki 1989, 41-46.

E.M. Murphy – J.P. Mallory, Herodotus, and the Cannibals, Antiquity 72 (2000), 388-394.

P. Li Causi – R. Pomelli, L’India, l’oro, le formiche: storia di una rappresentazione culturale da Erodoto a Dione di Prusa, Hormos 3-4 (2001-2002), 177-246, in part. 181-195.

Strane metamorfosi degli uomini (August. de civ. Dei XVIII 17)

di Agostino, La città di Dio, a cura di L. Alici, Milano 2015, pp. 876-877.

 

Hoc Varro ut astruat, commemorat alia non minus incredibilia de illa maga famosissima Circe, quae socios quoque Vlixis mutauit in bestias, et de Arcadibus, qui sorte ducti tranabant quoddam stagnum atque ibi conuertebantur in lupos et cum similibus feris per illius regionis deserta uiuebant. Si autem carne non uescerentur humana, rursus post nouem annos eodem renatato stagno reformabantur in homines. Denique etiam nominatim expressit quendam Demaenetum gustasse de sacrificio, quod Arcades immolato puero deo suo Lycaeo facere solerent, et in lupum fuisse mutatum et anno decimo in figuram propriam restitutum pugilatum sese exercuisse et Olympiaco uicisse certamine. Nec idem propter aliud arbitratur historicus in Arcadia tale nomen adfictum Pani Lycaeo et Ioui Lycaeo nisi propter hanc in lupos hominum mutationem, quod eam nisi ui diuina fieri non putarent. Lupus enim Graece λύκος dicitur, unde Lycaei nomen apparet inflexum. Romanos etiam Lupercos ex illorum mysteriorum ueluti semine dicit exortos.

 

A riprova di ciò Varrone ricorda altri fatti non meno incredibili intorno alla famosissima maga Circe, la quale trasformò in bestie anche i compagni di Ulisse, e intorno agli Arcadi che, designati a sorte, attraversavano a nuoto uno stagno dove venivano trasformati in lupi e vivevano nei luoghi solitari di quella regione assieme a quelle belve feroci. Se però non mangiavano carne umana, di nuovo dopo nove anni, riattraversando lo stagno, diventavano uomini. Egli infine ricorda espressamente che un certo Demeneto, dopo aver gustato il sacrificio che di solito gli Arcadi offrivano immolando un fanciullo al loro dio Liceo, fu trasformato in lupo e dopo dieci anni, restituitegli le umane sembianze, si esercitò nel pugilato e vinse i giochi olimpici. Lo stesso storico ritiene che in Arcadia quel nome fu attribuito a Pan Liceo e a Giove Liceo, precisamente per questa trasformazione degli uomini in lupi, che ritennero possibile soltanto grazie ad una forza divina. In greco lupo si dice infatti lykos, da cui sembra essere derivato il nome Liceo. Si dice ancora che i Lupercali romani abbiano tratto origine da quei misteri.

 

Sucellos (o Silvanus). Statuetta, bronzo, I-II sec. d.C. ca., da Mours-Saint-Eusèbe. Valence, Musée des Beaux-Arts et d'Archéologie.
Sucellos (o Silvanus). Statuetta, bronzo, I-II sec. d.C. ca., da Mours-Saint-Eusèbe. Valence, Musée des Beaux-Arts et d’Archéologie.