La società delle api (Verg. G. IV 149-227)

Dopo essersi occupato nel libro precedente dell’allevamento del bestiame, affrontando questioni connesse a cavalli, bovini, ovini, cani e malattie degli animali, Virgilio si rivolge a un tema particolare e per i moderni apparentemente insolito: l’allevamento delle api, argomento al quale dedica una buona parte del IV libro dei Georgica. Di questi insetti il poeta valorizza una serie di caratteristiche e comportamenti, descrivendone la prodigiosa vita sociale: nella loro comunità ogni individuo esiste in funzione della collettività, assolvendo scrupolosamente i compiti che il suo ruolo gli impone. Benché molti di questi aspetti, oggi, non abbiano alcun fondamento scientifico, tuttavia essi contribuiscono a esaltare in chiave poetica la vita delle api, una società ideale nella quale è possibile cogliere un riferimento alla realtà politica del tempo di Virgilio: l’autore auspicava per l’Italia il ritorno a quell’armonia sociale che decenni di guerre civili avevano logorato e che Ottaviano aveva promesso di restaurare.

Aberdeen, University Library. Univ Lib. MS 24 (inizi XIII secolo), Bestiario di Aberdeen, f. 63r. Sciami di api tornano ai favi.

Nunc age, naturas apibus quas Iuppiter ipse    

addidit expediam, pro qua mercede canoros    

Curetum sonitus crepitantiaque aera secutae  

Dictaeo caeli regem pauere sub antro.   

solae communis natos, consortia tecta  

urbis habent magnisque agitant sub legibus aeuum,  

et patriam solae et certos nouere penatis;         

uenturaeque hiemis memores aestate laborem           

experiuntur et in medium quaesita reponunt. 

namque aliae uictu inuigilant et foedere pacto

exercentur agris; pars intra saepta domorum   

narcissi lacrimam et lentum de cortice gluten 

prima fauis ponunt fundamina, deinde tenacis           

suspendunt ceras; aliae spem gentis adultos    

educunt fetus; aliae purissima mella      

stipant et liquido distendunt nectare cellas;    

sunt quibus ad portas cecidit custodia sorti,    

inque uicem speculantur aquas et nubila caeli,           

aut onera accipiunt uenientum, aut agmine facto      

ignauum fucos pecus a praesepibus arcent:      

feruet opus, redolentque thymo fraglantia mella.       

ac ueluti lentis Cyclopes fulmina massis

cum properant, alii taurinis follibus auras        

accipiunt redduntque, alii stridentia tingunt   

aera lacu; gemit impositis incudibus Aetna;     

illi inter sese magna ui bracchia tollunt 

in numerum, uersantque tenaci forcipe ferrum:         

non aliter, si parua licet componere magnis,    

Cecropias innatus apes amor urget habendi    

munere quamque suo. grandaeuis oppida curae         

et munire fauos et daedala fingere tecta.          

at fessae multa referunt se nocte minores,        

crura thymo plenae; pascuntur et arbuta passim        

et glaucas salices casiamque crocumque rubentem    

et pinguem tiliam et ferrugineos hyacinthos.   

omnibus una quies operum, labor omnibus unus:      

mane ruunt portis, nusquam mora; rursus easdem     

Vesper ubi e pastu tandem decedere campis    

admonuit, tum tecta petunt, tum corpora curant;      

fit sonitus, mussantque oras et limina circum. 

post, ubi iam thalamis se composuere, siletur 

in noctem, fessosque sopor suus occupat artus.          

nec uero a stabulis pluuia impendente recedunt        

longius, aut credunt caelo aduentantibus Euris,          

sed circum tutae sub moenibus urbis aquantur           

excursusque breuis temptant, et saepe lapillos,          

ut cumbae instabiles fluctu iactante saburram,

tollunt, his sese per inania nubila librant.         

  Illum adeo placuisse apibus mirabere morem,          

quod neque concubitu indulgent, nec corpora segnes

in Venerem soluunt aut fetus nixibus edunt;    

uerum ipsae e foliis natos, e suauibus herbis    

ore legunt, ipsae regem paruosque Quirites     

sufficiunt, aulasque et cerea regna refingunt.   

saepe etiam duris errando in cotibus alas         

attriuere, ultroque animam sub fasce dedere:  

tantus amor florum et generandi gloria mellis.

ergo ipsas quamuis angusti terminus aeui        

excipiat (neque enim plus septima ducitur aestas),    

at genus immortale manet, multosque per annos       

stat fortuna domus, et aui numerantur auorum.         

  Praeterea regem non sic Aegyptus et ingens

Lydia nec populi Parthorum aut Medus Hydaspes      

obseruant. rege incolumi mens omnibus una est;       

amisso rupere fidem, constructaque mella       

diripuere ipsae et cratis soluere fauorum.         

ille operum custos, illum admirantur et omnes

circumstant fremitu denso stipantque frequentes,      

et saepe attollunt umeris et corpora bello         

obiectant pulchramque petunt per uulnera mortem. 

  His quidam signis atque haec exempla secuti

esse apibus partem diuinae mentis et haustus 

aetherios dixere; deum namque ire per omnis 

terrasque tractusque maris caelumque profundum;   

hinc pecudes, armenta, uiros, genus omne ferarum,   

quemque sibi tenuis nascentem arcessere uitas:         

scilicet huc reddi deinde ac resoluta referri      

omnia, nec morti esse locum, sed uiua uolare  

sideris in numerum atque alto succedere caelo.

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Ms. Vat. lat. 592 (1075 c.), Exultet. Scena di apicoltura.

Su dunque, ora descriverò quali doti naturali ha dato alle api

Giove in persona, come ricompensa, perché, seguendo i Cureti

sonori e i loro bronzi tintinnanti, vennero a nutrire

il re del cielo sotto l’antro ditteo.

Sole hanno prole in comune e abitazioni congiunte in città,

sole trascorrono l’esistenza secondo leggi grandiose,

sole riconoscono una patria e Penati certi,

e, memori dell’inverno incalzante, faticano in estate

e mettono in comune il frutto del loro lavoro.

Alcune, infatti, provvedono al nutrimento e, secondo un accordo

stabilito, lavorano nei campi; una parte nei recessi delle case

pone la stilla del narciso e il vischioso glutine di corteccia

a fondamenta dei favi, poi vi stende sopra

cere tenaci; altre fanno uscire i figli ormai adulti,

speranza della stirpe; altre ammassano miele purissimo

e gonfiano le celle d’un nettare trasparente.

Ad alcune è toccata in sorte la custodia dei portali

e a turno sorvegliano le piogge e le nubi del cielo

o raccolgono i fardelli di chi arriva o, schierate in colonna,

respingono i fuchi, bestie ignave, dalle mangiatoie.

Ferve il lavoro, profuma di timo il miele fragrante.

E, come quando i Ciclopi approntano in fretta le folgori

dalle masse di duttili metalli, alcuni aspirano e soffiano fuori l’aria

con mantici di pelle taurina, altri immergono in un bacino

i bronzi sfrigolanti – geme al peso delle incudini l’Etna –,

quelli a turno con forza immane sollevano le braccia,

ritmicamente, e rigirano il ferro nella presa delle tenaglie:

non diversamente, se è lecito paragonare il piccolo al grande,

un’innata passione di possedere incalza le api cecropie,

ognuna alla propria mansione. Le anziane badano alle dimore,

a proteggere i favi e a plasmarne i tetti con arte.

Invece, sfiancate tornano a notte fonda le più giovani,

le zampe colme di timo; colgono dovunque il cibo: su corbezzoli

e scuri salici e cassia e croco rossastro

e succoso tiglio e ferrigni giacinti.

Per tutte uno solo è il riposo, una sola è la fatica:

al mattino si riversano dagli accessi; non c’è posa; di nuovo,

quando la sera ordina di abbandonare finalmente il pascolo

nei campi, allora s’avviano a casa, allora si rifocillano;

si leva un ronzio, rumoreggiano intorno alle entrate e alle soglie.

Poi, quando ormai si sono sistemate nelle loro stanze, c’è silenzio

per tutta la notte e il giusto sonno s’impossessa delle stanche membra.

Però, se la pioggia incombe, non s’allontanano troppo dalle loro sedi,

né si fidano del cielo quando giungono gli Euri,

ma raccolgono acqua lì intorno, al sicuro sotto i bastioni della città,

azzardando brevi sortite e spesso portano con sé,

come le barche instabili all’urto dei flutti si zavorrano,

dei sassolini, con i quali si librano in volo tra nubi leggere.

C’è un comportamento, fra le api, che davvero ti stupirà:

non si abbandonano ai congiungimenti né fiaccano con indolenza

i corpi al servizio di Venere né generano i piccoli con il parto:

al contrario, da sole, raccolgono con la bocca i piccoli dalle fronde,

dalle erbe soavi, da sole rimpiazzano il sovrano e i piccoli cittadini

e riplasmano le aule e i reami di cera.

Spesso, inoltre, nel vagabondare spezzano le ali contro duri roccioni

e così rendono l’anima, con libera scelta, sotto il carico;

tanto è l’amore dei fiori, tanta la gloria di produrre il miele!

Dunque, anche se le afferra in breve tempo il limite della vita

– infatti, non sopravvivono alla settima estate –,

la stirpe, però, rimane immortale e per molti anni si regge la fortuna

d’una schiatta e si può risalire agli avi degli avi.

Inoltre, non rispettano altrettanto il loro sovrano

l’Egitto, la vasta Lidia, i popoli dei Parti, i Medi che vivono

sull’Idaspe. Finché il re è incolume, hanno un’anima sola;

quando è morto, subito violano l’obbedienza, saccheggiano

il miele ammassato e distruggono la struttura dei favi.

Il re è il regolatore dei lavori: lo riveriscono e tutte

lo circondano con denso ronzio, gli stanno attorno in gran numero,

lo sollevano sulle spalle e spesso gli fanno scudo con i loro corpi,

e cercano in mezzo alle ferite una morte gloriosa.

Da questi segni e da questi esempi alcuni han detto

che le api hanno parte della mente divina

e afflato dell’etere, che un dio penetra in tutte le cose,

nelle terre, nei tratti di mare, nel cielo profondo.

Di là le greggi, gli armenti, gli uomini, ogni specie animale

attingono, ciascuno nascendo, il soffio vitale;

e là ogni cosa è restituita e ritorna, dissolta;

non c’è spazio alla morte: volano vive le cose

in mezzo agli astri e si ritirano nelle altezze del cielo.

London, British Library. Ms Harley 3244 (c. 1236-1250). Peraldo, Summa teologica (con una Summa de vitiis), f. 57v. Favo con sciame di api.

Affascinato dal micromondo delle api, nella sua trattazione Virgilio ha seguito uno schema tipicamente etnografico: dopo aver descritto l’area di maggiore diffusione di questa specie (clima, vegetazione, ecc.), le attività condotte nelle varie stagioni, il loro comportamento in guerra (!), il poeta si sofferma – come farebbe un etnografo – sugli aspetti più insoliti e curiosi: nel caso delle api, una certa capacità divinatoria di cui questi insetti sarebbero dotati (vv. 191 ss.), la castità (vv. 197 ss.), la grande venerazione per il loro rex (cioè l’ape regina, di cui Virgilio, come quasi tutti i trattatisti antichi, ignorava il sesso femminile) e la loro natura spirituale e divina (vv. 220-221).

Il poeta impiega per le api un lessico umanizzante (natos e tecta urbis, vv. 153-154) non solo in forza di un tópos poetico ma anche perché l’esistenza di questi insetti era considerata la trasfigurazione di una società umana ideale. Si dice, infatti, nei versi successivi che le api vivono tutta la vita magnis sub legibus, grazie alle quali riconoscono patriam… et… penates. Poco dopo (v. 158) si fa riferimento al foedere pacto, all’accordo prestabilito, che presiede al lavoro in campagna, ancora una volta assimilando la società della api a quella umana e alle regole che sanciscono la convivenza del gruppo. Da perfetta comunità organizzata quale sono, le api appaiono anche in grado di far fronte al pericolo: esse si schierano in ordine di combattimento (agmine facto, v. 167: può essere curioso notare che anche l’italiano «sciame» deriva da un termine militare, exagmen, propriamente «colonna di soldati schierati») per allontanare i fuchi; difendono gli alveari, indicati con il termine oppida (v. 178), quasi fossero vere e proprie «città fortificate», e difendono i favi (v. 179, munire favos, anche qui un verbo attinto al lessico militare).

Proprio l’organizzazione delle api consente a Virgilio di sviluppare la trasfigurazione tradizionale della società umana ideale. Questi insetti assurgono a modello di convivenza civile, di Stato perfetto, in cui tutti agiscono per il bene comune aggregati attorno a una figura regale, garante dell’ordine e della concordia, e uniti da un forte senso di legalità reciproca: insomma, esattamente il progetto politico vagheggiato da Ottaviano, che negli anni in cui il poeta componeva i Georgica (37-29 a.C.), stava affermando il proprio potere. A fugare ogni dubbio interviene l’inequivocabile locuzione: parvos Quirites (v. 201), «piccoli Quiriti», utilizzata per definire le api. In questo modo l’allegoria che Virgilio va delineando è resa quanto mai esplicita: le api finiscono per rappresentare, a tutti gli effetti, l’immagine stessa della Romana civitas.

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Scienza e tecnica nella prima età imperiale

di G.B. CONTE, Erudizione e discipline tecniche, in Letteratura latina. Manuale storico dalle origini alla fine dell’Impero romano, Milano 2011, pp. 324-330.

Alla scienza, nell’antichità, non era attribuito un valore autonomo. Infatti, era considerata un momento dell’indagine filosofica. La ricerca scientifica era un mero supporto alla visione generale del mondo prospettata dal filosofo e lo studio della natura serviva per liberare l’uomo da paure e superstizioni, come dimostrano le Naturales quaestiones di Seneca, un’opera nella quale la connessione stretta tra scienza e filosofia è particolarmente evidente. A maggior ragione non godeva di grande apprezzamento la ricerca tecnologica, in quanto sia la scienza applicata sia tutto ciò che aveva attinenza con il lavoro manuale era di competenza delle classi subalterne, dei «meccanici», che non potevano aspirare in alcun modo a raggiungere il prestigio riservato ai ceti dominanti.

Tuttavia, nella letteratura latina esiste una solida, ancorché esigua, tradizione di opere scientifiche, concepite con intento didascalico, in forma enciclopedica e rivolte a un pubblico di media cultura. Lo scopo di questi manuali era quello di fornire un’informazione il più possibile ampia, puntuale, precisa su tutti gli argomenti che il buon pater familias avrebbe dovuto conoscere. In generale, il prestigio della retorica impediva la nascita di una prosa che – sul modello di quella filosofica di Aristotele – rinunciasse agli ornamenti e puntasse alla definizione di una terminologia precisa e al rigore dell’argomentazione. D’altra parte, a che una vera e propria prosa scientifica non si formasse, contribuiva anche la forte tradizione del poema didascalico, cui aveva già fatto ricorso, per esempio, Lucrezio.

Saturnia Tellus. Bassorilievo, marmo, 9 a.C., dall’Ara Pacis. Roma, Museo dell’Ara Pacis.

Tra il 27 e il 23 a.C. Marco Vitruvio Pollione, che era stato ufficiale del genio sotto Cesare e addetto alla costruzione di macchine da guerra e che in tempo di pace aveva svolto la professione di architetto (egli stesso ricorda di aver progettato e costruito la basilica nel foro di Fano), pubblicò un trattato De architectura in dieci libri, dedicato ad Augusto, il quale gli aveva garantito una pensione, permettendogli così di mettere a frutto la sua cultura e la sua esperienza tecnica, componendo l’opera con cui voleva guadagnarsi la fama presso i posteri. Probabilmente non a caso il trattato comparve negli stessi anni in cui il princeps si era proposto un vasto programma di rinnovamento dell’edilizia pubblica sia a Roma sia nel resto dell’impero. Il I libro tratta dei luoghi adatti alle costruzioni, il II dei materiali da impiegare, il III e il IV degli edifici sacri, il V degli edifici amministrativi e pubblici in genere, il VI e il VII delle abitazioni private, l’VIII dell’idraulica, il IX degli orologi solari e il X di meccanica (cioè della costruzione di gru, ordigni idraulici e bellici). La tradizione ha privato, però, l’opera di Vitruvio dei disegni che – per sua stessa dichiarazione – la corredavano.

Nella concezione dell’autore, l’architettura era vista, in senso quasi aristotelico, come imitazione dell’ordine provvidenziale della natura. Perciò, Vitruvio richiedeva al suo architetto ideale il possesso di una cultura ricca e varia, quasi del tipo di quella che già Cicerone esigeva per l’oratore (il paragone non è peregrino, perché il modello del De oratore è effettivamente presente al pensiero vitruviano). Specialmente nei proemi, di grande interesse per la comprensione dello statuto delle discipline tecniche a Roma, Vitruvio insisteva sul fatto che l’architetto non dovesse essere solo uno specialista, ma doveva possedere una vasta cultura generale: la conoscenza dell’acustica era richiesta per la costruzione dei teatri, quella dell’ottica per l’illuminazione degli edifici, quella della medicina per l’igiene delle aree edificabili. Ma la preparazione enciclopedica che Vitruvio auspicava per l’architetto ideale, che gli avrebbe consentito di risolvere brillantemente qualsivoglia problema tecnico, faceva perno sostanzialmente sulla filosofia. Appare evidente, dai proemi di Vitruvio, l’esigenza di conferire all’architetto il prestigio sociale e culturale che gli antichi di solito negavano ai rappresentanti delle discipline tecniche e la giustificazione dell’architettura di fronte al pubblico è ricercata attraverso una connessione costante alla filosofia, che si risolve, però, in una subordinazione (almeno sul piano programmatico). L’ossequio alla filosofia, che Vitruvio proclama nei proemi, incide, in realtà, piuttosto scarsamente sulla trattazione vera e propria, dove la concreta esperienza dell’architetto è ovviamente predominante. La differenza tra le parti proemiali e quelle didascaliche dell’opera vitruviana si rispecchia anche nello stile: le prime fanno uso piuttosto abbondante di ornamenti retorici, mentre nelle seconde il periodare è asciutto e disadorno, e la lingua non si perita ad ammettere volgarismi e tecnicismi di origine greca.

Giacomo Grigolli, Ritratto di Vitruvio. Busto, marmo, 1878. Verona, Protomoteca della Biblioteca Civica.

Un diverso modo di conferire dignità alle discipline tecniche era quello di collocarle all’interno di una complessiva enciclopedia dedicata alle artes, come aveva fatto Varrone nei suoi Disciplinarum libri IX. Fu la strada scelta da Aulo Cornelio Celso, vissuto in età tiberiana, il quale fu autore di un vasto manuale enciclopedico, che trattava di ben sei artes: agronomia, medicina, arte militare, retorica, filosofia e giurisprudenza. Dell’opera sopravvivono solo gli otto libri relativi alla medicina (i libri VI-XIII dell’opera completa). La trattazione di Celso è estremamente chiara ed efficace, tanto da aver fatto supporre ad autorevoli studiosi della medicina antica che egli fosse un medico di professione; la questione, molto dibattuta, non ha ancora trovato una soluzione: Celso si serve sicuramente di fonti greche, ma la sua disquisizione presenta molte caratteristiche tipicamente romane, che inducono a credere che egli non fosse un semplice compilatore.

Rivelando notevoli doti di equilibrio e di spirito critico, l’autore evita infatti di addentrarsi nelle controversie dogmatiche delle scuole mediche greche e cerca di mantenere una posizione equidistante fra quelli che, utilizzando categorie moderne, si potrebbero definire «empiristi» e «razionalisti»: si trattava dei due opposti indirizzi che ancora al suo tempo si affrontavano alacremente, gli uni volti a indagare le «cause occulte» delle malattie e quindi propensi all’anatomia e alla vivisezione, gli altri limitantisi alla considerazione delle cause evidenti, sotto la guida dell’esperienza, e rivolti a curare più che a comprendere. Le doti di sobrietà e di equilibrio, unitamente a quelle, molto notevoli, dello stile (Quintiliano, in seguito, avrebbe giudicato Celso scrittore di discreta eleganza, e la tradizione umanistica lo avrebbe collocato fra i migliori prosatori latini) hanno contribuito a fare, nei secoli, la fortuna dei De medicina.

Medico che visita un giovane paziente. Rilievo, marmo. Getty Museum.

Di poco posteriore a Celso fu un altro scrittore, Scribonio Largo, il quale si occupò, a differenza di lui, esclusivamente di medicina. Si sa che visse al tempo di Claudio. Di lui rimane solo un libro di ricette (Compositiones), scritto senza pretese letterarie, unicamente per fini pratici. Invece, sotto il nome di Antonio Musa, medico di Augusto e di Orazio, rimane uno scritto intitolato De herba vettonica (ma si tratta di un’opera di età più tarda).

Fra le discipline tecnico-scientifiche, l’agronomia occupava una posizione di privilegio: data la tradizione di proprietari terrieri degli aristocratici romani, membri illustri della classe senatoria, come Catone e Varrone, non avevano disdegnato di scrivere di questo argomento. D’altra parte, infatti, quello romano era un popolo originariamente agricolo e la terra aveva da sempre rappresentato un elemento di sicurezza economica per chi l’avesse posseduta, garantendo profitti più elevati e ritenuti più sicuri rispetto a quelli derivanti da altre attività.

Un trattato ancora più impegnativo (De re rustica) fu pubblicato da Lucio Giunio Moderato Columella, contemporaneo di Seneca e originario di Gades in Hispania. Poco si sa, tuttavia, del suo ambiente sociale di provenienza, ma un’iscrizione di Taranto (CIL IX, 235 = ILS 2923 = AE 2000, 357) lo presenta come tribuno della legio VI Ferrata, di stanza in Syria: il tribunato nelle legioni costituiva spesso per l’aristocrazia provinciale il modo migliore di iniziare la carriera militare, politica o civile al di fuori della propria patria. Preso domicilio a Roma, o nei dintorni, Columella si dedicò prevalentemente alla pratica e allo studio dell’agricoltura.

Contadino intento alla mietitura. Bassorilievo, marmo, da Buzenol (Belgio).

Il suo trattato, dunque, ebbe due redazioni: della prima rimane solo il libro De arboribus, mentre si possiede interamente la seconda, molto più vasta, in dodici libri. Columella tratta successivamente della coltivazione dei campi, degli alberi, della vite, dell’allevamento degli animali di grossa taglia e di quelli da cortile, dell’allevamento delle api, della coltivazione degli orti e del mantenimento dei giardini, dei doveri del fattore e della fattoressa. Il libro X (De cultu hortorum) è in esametri: ciò rappresenta un omaggio dell’autore alla tradizione delle Georgiche virgiliane, e insieme il tentativo di colmare un vuoto lasciato consapevolmente da Virgilio che, nel VI libro del suo poema didascalico, dopo aver accennato brevemente ai giardini, lamentando la mancanza di spazio, aveva lasciato ad altri il compito di trattarne in maniera più accurata.

Columella scrive in una prosa limpida e scorrevole, e anche i suoi versi sono di fattura discreta; le fonti sono quelle consuete: gli scrittori di agricoltura greci e latini, da Senofonte a Catone e a Varrone, mentre è spesso presente, anche nelle parti in prosa, il ricordo di Virgilio. Ma predominante è l’esperienza personale dell’autore. L’opera di Columella si apre con il riconoscimento di una vasta crisi dell’agricoltura italica, le cui cause sono da ricercarsi nel disinteresse dei proprietari, nell’inadeguato sfruttamento dei vastissimi latifondi, nella mancanza di una seria preparazione scientifica in materia. Ciò ha determinato una deficienza ormai strutturale dell’agricoltura in Italia, portando alla supremazia di alcune province nell’esportazione di prodotti d’eccellenza, come vino e olio.

Mercato ortofrutticolo e seminatura dei campi. Rilievo, dal Belgio. Luxembourg, Musée Luxembourgeois

Nelle pagine introduttive, l’autore critica il fatto che non vi siano scuole e maestri per agricoltori, a differenza di quanto avviene per le altre arti e professioni, pur essendo l’agricoltura la più bella e la più nobile delle attività. Ma la formazione dell’agricoltore perfetto pare un compito impossibile, tanto vaste e varie sono le competenze necessarie. A soluzione del problema, Columella sembra affacciare l’ideale di una cultura enciclopedica quale quella che Cicerone aveva prospettato per l’oratore (non a caso i trattati ciceroniani sono frequentemente richiamati da Columella) o quella che Vitruvio richiedeva per il suo architetto. Il diffondersi, nelle varie discipline, di questo ideale enciclopedico è prova della persistente necessità della loro subordinazione alla filosofia, che sembra la via obbligata attraverso la quale esse devono passare per acquisire dignità e, paradossalmente, statuto autonomo.

Il richiamo, frequente nelle pagine di Columella, alle figure idealizzate degli antichi proprietari terrieri, che dividevano la propria vita fra la cura dei campi e l’attività politica, può far credere che la preferenza dell’autore vada al piccolo podere, il cui proprietario possa facilmente e direttamente controllare; una conferma di ciò sembrerebbe potersi trovare nella frequente critica all’assenteismo dei proprietari latifondisti. In realtà, anche se Columella non dà indicazioni esplicite sulle dimensioni del suo podere ideale, dal complesso dell’opera si evince che i suoi precetti sono per la massima parte rivolti a proprietà di grande estensione. Ciò risulta chiaro, per esempio, dalla sezione I 6 dedicata all’estensione della villa e delle sue parti, in cui vengono descritti sia i locali destinati ai servi e alla lavorazione e alla conversazione dei prodotti, sia quelli, rigorosamente distinti, destinati alla residenza del proprietario; a tal proposito viene elencata tutta una serie di commoda che avrebbe fatto gridare allo scandalo i Romani di antico stampo, di cui pure Columella tesse l’elogio. Il richiamo alla prisca moralità non è, probabilmente, solo di maniera: una contraddizione non dissimile da quella che si riscontra in Columella affiorava, forse con maggiore consapevolezza da parte dell’autore, anche in Vitruvio, che, mentre continuava a privilegiare l’antico modello del cittadino parsimonioso, forniva indicazioni per la costruzione delle sontuose dimore dei ricchi romani. Columella si rivela realisticamente consapevole del fatto che per richiamare in campagna i proprietari inurbati – il mezzo migliore di incrementare la produzione era, infatti, individuato nel sottoporla alla sorveglianza diretta del dominus, che avrebbe dovuto effettuare frequenti soggiorni nei propri poderi – non sarebbe bastata l’esortazione moralistica, ma sarebbe stato più opportuno provvedere le villae agricole di tutte le comodità offerte da un palazzo cittadino.

Vita rurale. Mosaico, III sec. d.C. Oudna, Villa dei Laberii. Tunis, Musée du Bardo.

Columella era fautore di una tendenza che proponeva la massima intensificazione e realizzazione dell’attività agricola, indipendentemente dalle dimensioni dell’azienda; perciò, sincera appare, nell’opera, una certa ostilità verso il latifondo, abbandonato e trascurato dai ricchi proprietari, e sempre più improduttivo. Al contrario, si rivelano acute le sue proposte di organizzazione del lavoro dei servi, sottoposti al ferreo controllo che avrebbe dovuto essere esercitato dal villicus. Tuttavia, il rimedio proposto dall’autore era largamente utopistico: più realisticamente Plinio il Vecchio si sarebbe reso conto del fatto che, finché fosse perdurato il predominio della manodopera servile, sarebbe stata impossibile ogni effettiva razionalizzazione della produzione agricola; i servi, privi d’iniziativa e disinteressati al lavoro, non avrebbero mai lavorato al massimo delle proprie energie.

Si capisce come, nel momento in cui il dominio di Roma andava estendendosi fino ad abbracciare gran parte del mondo conosciuto, e anche terre fino ad allora ignote, la geografia acquistasse sempre più importanza, sia per fini pratici sia per intenti celebrativi: infatti, proprio a partire dall’età augustea, si assiste a un fiorire di testi assai vasti, complessi, quasi monumentali, che trattavano degli argomenti più disparati, offrendo una vera e propria sintesi del sapere dell’epoca. Il benessere diffuso, inoltre, consentiva a intellettuali, eruditi e tecnici di attendere ai propri interessi culturali e scientifici, con l’assenso del princeps cui le opere erano dedicate. Dal canto suo, l’imperatore vedeva nella letteratura tecnico-scientifica un ulteriore strumento di propaganda del buon governo. Quanto alla geografia, se ne era già occupato Varrone, il quale vi aveva dedicato pure opere specifiche, come fa pensare, per esempio, il titolo De ora maritima citato da Servio. Dai pochi frammenti che si conservano è possibile supporre che nei libri di geografia Varrone fondesse il taglio erudito e antiquario, a lui consueto, con l’attenzione ad aspetti più pratici, come, per esempio, le distanze fra i vari luoghi.

Anche di Cornelio Nepote sono tramandate notizie di carattere geografico, ma della sua opera in questo ambito, si sa molto poco.

M. Vipsanio Agrippa. Testa, bronzo, fine I sec. a.C.

Si occupò della materia uno dei personaggi politici più importanti dell’età augustea, Marco Vipsanio Agrippa, nientemeno che comandante supremo dell’esercito di Ottaviano, suo genero (ne sposò la figlia Giulia) e suo coetaneo (essendo nato, come lui, nel 63 a.C.). Agrippa, mosso certamente anche da finalità egemoniche, compose una gigantesca carta geografica del mondo allora conosciuto. Questa carta era accompagnata da commentarii – non è chiaro se fossero pubblicati a parte o anche riportati in calce alla carta stessa – i quali fornivano dati sull’estensione dei diversi territori, sulle distanze tra i luoghi, ecc. Quando, nel 12 a.C., Agrippa scomparve, Augusto in persona si premurò che l’opera del genero fosse portata a compimento e sistemata in una porticus, appositamente costruita nel Campo Marzio. Plinio il Vecchio, nella sezione della Naturalis historia dedicata alla geografia (altra testimonianza di quanto fosse importante questa scienza), cita con sommo rispetto Varrone e Agrippa.

Una generazione prima di Plinio, sotto il principato di Caligola o di Claudio, si colloca il primo autore latino che si possa definire, per quel che si sa, un geografo “puro”, e la cui opera sia interamente pervenuta. Si tratta di Pomponio Mela, spagnolo di Tingentera, del quale si possiede una Chorogràphia («Descrizione dei luoghi») in tre libri.

Rimini sulla Tabula Peutingeriana, esemplare del XII-XIII secolo di una carta delle principali vie dell’Impero romano.

Nella premessa alla sua Chorogràphia l’autore si lamenta che gli argomenti di cui si accinge a parlare non lascino spazio a uno stile elevato e al dispiegarsi dell’eloquenza. Questo «complesso d’inferiorità» sembra comune a molta parte della prosa tecnica latina, la quale si caratterizza proprio per la ricerca costante di uno stile più alto e spesso ricco di arcaismi, in contrasto con la prosaicità del contenuto. Lo stile di Mela, per esempio, si ispira principalmente a quello di Sallustio, e abbonda in arcaismi e ricercatezze linguistiche.

Sul piano contenutistico, la Chorogràphia descrive la terra prendendo come punto di riferimento-base il Mediterraneo, che segue in senso antiorario partendo dalle Colonne d’Ercole (lo stretto di Gibilterra), dove fa ritorno alla fine della descrizione.

L’autore non sembra affatto interessato agli aspetti più specificamente “tecnici” della sua disciplina: in lui, infatti, mancano cifre e dati, nonostante si riveli ottimo conoscitore delle fonti greche e latine. Mela è mosso piuttosto da interessi etnografici, e la sua facundia si dispiega soprattutto quando si trova a parlare di regioni lontane o poco conosciute; in quel caso, si lascia anche spesso trasportare dal gusto per i dettagli fiabeschi e meravigliosi.

Justus Perthes, Orbis Terrarum secundum Pomponium Melam, in W.H. Schoff, The Periplus of the Erythraean Sea. Travel and Trade in the Indian Ocean, London-Bombay-Calcutta 1912, p. 100

A Marco Gavio Apicio, contemporaneo di Tiberio, i manoscritti assegnano un corpus di ricette culinarie diviso in dieci libri – in realtà, formatosi con l’apporto di varie stratificazioni successive al IV secolo – che prende il titolo di De re coquinaria. Il nucleo apiciano di questa raccolta, derivato probabilmente, a sua volta, da due diverse opere (una sulle salse e una sull’elaborazione completa di alcuni piatti) non è facilmente ricavabile dalla massa composita di ricette che è pervenuta, dovuta a un maldestro compilatore tardoantico che dimostra di conoscere assai poco la terminologia tecnica e, in generale, la materia culinaria.

Alla base del De re coquinaria stanno opere di carattere medico (spesso, infatti, le ricette sono fornite in funzione delle loro proprietà dietetiche o come medicinali per disfunzioni dell’apparato digerente) e trattati di culinaria greca. Lo stile espositivo è privo di qualsiasi eleganza retorica e formale, gli ingredienti sono indicati con puntigliosa essenzialità in una lingua spesso pedestre; ma dietro questa totale semplicità si scorge pur sempre l’attenzione rivolta alla creatività e all’elaborazione scenografica dei piatti, la cui punta estrema può essere riassunta con la stessa paradossale conclusione dell’autore: «A tavola nessuno riconoscerà ciò che mangia».

Gatto che azzanna un anatra. Uccelli, pesci e conchiglie. Mosaico, ante 79 d.C. Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Lesbia, il passerotto e Catullo (Catull. Carm. II)

di CONTE G.B. – PIANEZZOLA E., Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 1. L’età arcaica e repubblicana, Milano 2010, pp. 651-653.

Il poeta osserva o ricorda i giochi del passer e della donna amata e li schizza in pochi versi. La composizione slitta dalla descrizione vivace a un livello più intimo di riflessione: Lesbia trova in questo modo un qualche sollievo al tormento d’amore, mentre Catullo sa che le proprie graues curae non possono placarsi neppure per poco tramite un passatempo così lieve.

 

Passer, deliciae meae puellae,

quicum ludere, quem in sinu tenere,

cui primum digitum dare adpetenti

et acris solet incitare morsus,

5   cum desiderio meo nitenti

carum nescio quid libet iocari

et solaciolum sui doloris,

credo, ut tum grauis adquiescat ardor,

tecum ludere sicut ipsa possem

10 et tristis animi leuare curas!

 

Passero, gioia della mia ragazza,

che gioca con te, che ti tiene in grembo,

a te che balzelli porge la punta del dito,

ed è solita provocare le tue dure beccate,

5   quando al mio fulgido desiderio

piace fare un non so che caro gioco,

e un piccolo sollievo al suo dolore,

io credo, perché allora si plachi il tormento della passione:

potessi anch’io giocare, come lei, con te,

10 e alleviare i tristi affanni del cuore!

 

Edward Poynter, Lesbia e il suo passero. Olio su tela, 1907.

Dietro l’impressione di immediatezza espressiva, il carme mostra una struttura calibrata: l’esclamazione conclusiva, dove tecum (v. 9) si ricollega a Passer (v. 1), chiudendo circolarmente la composizione, si innesta su un lungo e ininterrotto periodo, sviluppato per otto versi divisi in due gruppi di quattro.

I vv. 1-4, infatti, presentano il passer e la sua stretta relazione con la puella: all’apostrofe (v. 1) segue la descrizione dei giochi in una serie di tre proposizioni relative di ampiezza crescente (tricolon ascendente), messa in rilievo dall’anafora del pronome variato dal poliptoto (quicum…, quem…, cui…, vv. 2-3), a sua volta seguita da una quarta frase relativa più sciolta, con pronome sottinteso (v. 4). Nei vv. 5-8 il lieve bozzetto digrada verso un tono più intimo e personale: l’accento si sposta dall’uccellino (vv. 1-4) alla donna (vv. 5-8). Al v. 6 iocari riprende ludere del v. 2: un elemento di circolarità che chiude la scena del gioco, in opposizione al ludere impossibile del v. 9. Dal gioco si passa nei vv. 7-8 alla sua funzione di sollievo dalle curae d’amore; entra in scena esplicitamente il punto di vista del poeta con credo (v. 8), che attribuisce alle schermaglie leggere fra la donna e il passer un significato profondo: la puella con quel passatempo cerca di lenire la sua pena d’amore (dolor, grauisardor).

Così, la sezione centrale su Lesbia fa da tramite tra i momenti leggeri del passer e le tristis curae dell’uomo: il poeta conclude con una nota di rimpianto per una dimensione della passione più superficiale, più facile da controllare e placare, come è appunto quella di Lesbia, mentre il suo tormento d’amore non è riconducibile a un gioco leggero, reale o letterario.

Il legame affettivo della puella con il passer è sottolineato con evidenza al v. 1 attraverso il triplice omoteleuto deliciae meae puellae. Il diminutivo solaciolum (v. 7) appartiene alla lingua d’uso e ricorre soltanto qui nel latino classico: l’uso dei diminutivi, del resto, è un tratto tipico della poesia neoterica. Qui il diminutivo affettivo connota sia il rapporto di intimità fra passer e padroncina sia lo sguardo affettuoso e deliziato del poeta che ritrae la scena.

Il sentimento di Lesbia è designato al v. 7 con dolor, termine generico, impiegato da Catullo in contesto erotico soltanto in questo passo, dove è specificato al verso seguente da grauis… ardor, che invece appartiene proprio al lessico erotico: ardor, infatti, da ardeo («bruciare») rimanda alla tradizionale metafora della fiamma d’amore (in particolare, Catullo predilige il verbo uror, «bruciare»). Anche il termine curae (v. 10), con cui il poeta definisce il proprio sentimento, è proprio del lessico erotico.

Giardino con fontana e passero fra le fronde (dettaglio). Affresco, 14-37 d.C. c. dalla Casa del Bracciale d’oro, Insula occidentalis 42, Pompei.

Al v. 5 la puella è indicata con la metonimia desiderium (secondo un uso corrispondente a quello del greco πόθος), che appartiene alla lingua degli affetti. Cicerone, per esempio, chiama così la moglie Terenzia: mea lux, meum desiderium, ad fam. XIV 2, 2. Ma desiderium si utilizza, in genere, per designare «la persona di cui si sente la mancanza»: nella scelta di questo termine, così come nell’uso del generico dolor (v. 7), si è voluta riconoscere la spia di un distacco forzato dei due amanti.

In base a questi riferimenti lessicali, dunque, il carme è stato collocato in un momento di separazione degli amanti, messi a dura prova dalla lontananza: sembra, però, preferibile non ricostruire in base a pochi e generici indizi una tappa altrimenti sconosciuta del “romanzo” d’amore catulliano. Nel carmen 2, infatti, il poeta si limita a osservare con quanta facilità e aggraziata compostezza Lesbia trovi distrazione e sollievo dalla passione – che per lui, invece, è un tormento incessante.

Alcuni interpreti, però, si spingono oltre e individuano uno scarto ironico tra il sentimento profondo che anima il poeta e il più superficiale coinvolgimento della donna. Al distacco fisico si sommerebbe, dunque, una diversità di sentire, un distacco spirituale: ma i presunti segnali dell’ironia (carum nescium quid, credo, solacium) risultano troppo velati (si è troppo lontani dai toni con cui Catullo esprime delusione e distacco da Lesbia). Anzi, l’autocontrollo mostrato dalla ragazza, condito con la leggerezza e la grazia della situazione, non fa che accrescere agli occhi del poeta il fascino irresistibile dell’amata.

Apprezzato dagli antichi come animale da compagnia, il passer non è il comune passerotto, ma il cosiddetto “passero solitario”, dal canto melodioso e più facile da addomesticare. Poiché il passero era animale caro ad Afrodite/Venere (nel fr. 1 Voigt di Saffo, la famosa preghiera alla dea, il cocchio con cui ella scende sulla Terra è appunto trainato da questi uccellini), è stato ipotizzato che si trattasse di un dono da innamorati e, in questo caso, di Catullo a Lesbia.

 

La morte del passerotto (Catull. Carm. III)

di A. BALESTRA et al., In partes tres. v. 1. Dalle origini all’età di Cesare, Bologna 2016, pp. 338-340.

Questo carme si presenta come un epicedio, ovvero come un lamento funebre per la morte del passer di Lesbia, animaletto cui la puella era sinceramente affezionata. Pur seguendo lo schema tipico degli epigrammi funebri ellenistici, tra i quali figurano già epicedi per animali domestici, Catullo introduce alcuni elementi di novità, a partire dall’effetto di ironia, determinato dalla sproporzione tra l’effettiva entità dell’evento rievocato e il registro per lo più altisonante e solenne adottato nel corso del componimento (non mancano, però, significative inserzioni dalla lingua d’uso). L’effetto finale è quello di una velata parodia dei lamenti funebri; ancora una volta, campeggia la figura di Lesbia, rappresentata in un atteggiamento quasi materno nei confronti del passer, la cui morte provoca in lei tristezza e pianto.

 

Lugete, o Veneres Cupidinesque[1]

et quantum est hominum uenustiorum!

passer mortuus est meae puellae,

passer, deliciae meae puellae,

5   quem plus illa oculis suis amabat[2];

nam mellitus erat, suamque norat

ipsa tam bene quam puella matrem,

nec sese a gremio illius mouebat,

sed circumsiliens modo huc modo illuc

10 ad solam dominam usque pipiabat.

qui nunc it per iter tenebricosum[3]

illuc unde negant redire quemquam.

at uobis male sit, malae tenebrae

Orci[4], quae omnia bella deuoratis;

15 tam bellum mihi passerem abstulistis.

o factum male! o miselle passer!

tua nunc opera meae puellae

flendo turgiduli rubent ocelli.

 

Piangete Veneri e voi Amorini,

e quanti sono disposti all’amore.

è morto il passero della mia ragazza,

il passero, gioia della mia ragazza,

5   che lei amava più dei propri occhi,

perché era dolce come il miele e la riconosceva

così come una bimbetta la propria mamma;

mai che si scostasse dal suo grembo

e, saltellando intorno qua e là,

10 cinguettava sempre, solo rivolto alla sua padrona.

Ora, procede per una strada oscura,

là donde si dice che nessuno torni.

Maledizione a voi, maledette tenebre infernali,

che inghiottite ogni cosa graziosa!

15 un passerotto così carino voi me lo avete rapito.

Che brutta azione! Che passerotto infelice!

Ora, per colpa tua, gonfi di pianto, sono arrossati

gli occhi soavi della mia ragazza.

Fanciulla con passero. Statua, marmo, IV-III sec. a.C.

 

L’epicedio per il passer. | Il componimento, come si è detto, presenta lo schema tipico dei lamenti funebri: si apre con un invito al lutto (vv. 1-2), prosegue con l’identificazione del defunto (v. 3) e l’elogio delle sue virtù (vv. 4-10), presenta quindi la comploratio, ovvero il compianto per la sorte del passero (vv. 11-12), a cui fa seguito la maledizione rivolta alle divinità dell’oltretomba (vv. 13-15) e la commossa partecipazione alla sofferenza dei sopravvissuti (vv. 16-18). Componimenti che piangono la morte di un animale domestico sono ampiamente presenti nella poesia ellenistica: in particolare, nel VII libro dell’Anthologia Palatina si trova un’intera sezione di epigrammi dedicati a tale argomento (189-216).

L’originalità di Catullo. | Tuttavia, in questo componimento il tema è affrontato in una chiave originale: sotto il velo dell’ironia, che si origina dalla sproporzione tra l’evento cantato, ovvero la morte del passerotto, e i toni elegiaci e patetici cui il poeta fa ricorso, traspare la figura di Lesbia, la puella amata. Grazie anche a una serie di artifici retorici, è lei la presenza dominante e la vera protagonista della lirica, sebbene di lei si parli espressamente solo nella chiusa. Quello che in apparenza poteva sembrare un carmen di morte di un animaletto domestico, in linea con una tradizione già ben consolidata nella poesia ellenistica, si rivela dunque un canto d’amore per Lesbia: ai vv. 3-4 la ripetizione enfatica dell’espressione passer… meae puellae («il passero… della mia ragazza») sembra già anticipare che il tema principale del carme non è tanto la morte del passerotto, quanto l’effetto di questo evento sulla donna amata. L’espressione meae puellae ritorna per la terza volta nella chiusa del testo (v. 17), dove la sorte dell’animale risulta chiaramente relegata in secondo piano e a dominare è l’immagine degli occhi della puella gonfi di lacrime e arrossati dal pianto.

Come in molti dei suoi componimenti più riusciti, anche in questo Catullo è stato in grado di dare uno sviluppo originale a un tema non nuovo, trasformando il lamento funebre per un animaletto domestico in un’occasione per rappresentare il proprio universo affettivo con accenti del tutto personali.

***

Note:

[1] Veneres allude forse alla molteplicità degli aspetti e dei caratteri di Venere, oppure all’insieme delle divinità femminili che formavano il corteo della dea. Cupidinesque, invece, designa gli Amorini, che nella poesia ellenistica facevano parte del seguito di Afrodite. La medesima espressione Veneres Cupidinesque ricorre anche nel c. 13, là dove il poeta intende sottolineare il pregio estremo dell’unguentum che si appresta a donare all’amico Fabullo, e a tale scopo dichiara di averlo ricevuto come regalo proprio dalle divinità dell’amore per tramite della sua puella.

[2] Questa espressione è certamente iperbolica, tipica della lingua d’uso: è qui utilizzata per esprimere la profondità dell’affetto che legava Lesbia al suo passerotto.

[3] Secondo una credenza popolare, anche gli animali scendevano nel regno dei morti. Qui, però, l’espressione ha un’intonazione ironica.

[4] Orcus è uno dei nomi con cui era invocato Plutone; qui indica per metonimia gli Inferi, di cui il dio era il sovrano.