Dopo essersi occupato nel libro precedente dell’allevamento del bestiame, affrontando questioni connesse a cavalli, bovini, ovini, cani e malattie degli animali, Virgilio si rivolge a un tema particolare e per i moderni apparentemente insolito: l’allevamento delle api, argomento al quale dedica una buona parte del IV libro dei Georgica. Di questi insetti il poeta valorizza una serie di caratteristiche e comportamenti, descrivendone la prodigiosa vita sociale: nella loro comunità ogni individuo esiste in funzione della collettività, assolvendo scrupolosamente i compiti che il suo ruolo gli impone. Benché molti di questi aspetti, oggi, non abbiano alcun fondamento scientifico, tuttavia essi contribuiscono a esaltare in chiave poetica la vita delle api, una società ideale nella quale è possibile cogliere un riferimento alla realtà politica del tempo di Virgilio: l’autore auspicava per l’Italia il ritorno a quell’armonia sociale che decenni di guerre civili avevano logorato e che Ottaviano aveva promesso di restaurare.

Nunc age, naturas apibus quas Iuppiter ipse
addidit expediam, pro qua mercede canoros
Curetum sonitus crepitantiaque aera secutae
Dictaeo caeli regem pauere sub antro.
solae communis natos, consortia tecta
urbis habent magnisque agitant sub legibus aeuum,
et patriam solae et certos nouere penatis;
uenturaeque hiemis memores aestate laborem
experiuntur et in medium quaesita reponunt.
namque aliae uictu inuigilant et foedere pacto
exercentur agris; pars intra saepta domorum
narcissi lacrimam et lentum de cortice gluten
prima fauis ponunt fundamina, deinde tenacis
suspendunt ceras; aliae spem gentis adultos
educunt fetus; aliae purissima mella
stipant et liquido distendunt nectare cellas;
sunt quibus ad portas cecidit custodia sorti,
inque uicem speculantur aquas et nubila caeli,
aut onera accipiunt uenientum, aut agmine facto
ignauum fucos pecus a praesepibus arcent:
feruet opus, redolentque thymo fraglantia mella.
ac ueluti lentis Cyclopes fulmina massis
cum properant, alii taurinis follibus auras
accipiunt redduntque, alii stridentia tingunt
aera lacu; gemit impositis incudibus Aetna;
illi inter sese magna ui bracchia tollunt
in numerum, uersantque tenaci forcipe ferrum:
non aliter, si parua licet componere magnis,
Cecropias innatus apes amor urget habendi
munere quamque suo. grandaeuis oppida curae
et munire fauos et daedala fingere tecta.
at fessae multa referunt se nocte minores,
crura thymo plenae; pascuntur et arbuta passim
et glaucas salices casiamque crocumque rubentem
et pinguem tiliam et ferrugineos hyacinthos.
omnibus una quies operum, labor omnibus unus:
mane ruunt portis, nusquam mora; rursus easdem
Vesper ubi e pastu tandem decedere campis
admonuit, tum tecta petunt, tum corpora curant;
fit sonitus, mussantque oras et limina circum.
post, ubi iam thalamis se composuere, siletur
in noctem, fessosque sopor suus occupat artus.
nec uero a stabulis pluuia impendente recedunt
longius, aut credunt caelo aduentantibus Euris,
sed circum tutae sub moenibus urbis aquantur
excursusque breuis temptant, et saepe lapillos,
ut cumbae instabiles fluctu iactante saburram,
tollunt, his sese per inania nubila librant.
Illum adeo placuisse apibus mirabere morem,
quod neque concubitu indulgent, nec corpora segnes
in Venerem soluunt aut fetus nixibus edunt;
uerum ipsae e foliis natos, e suauibus herbis
ore legunt, ipsae regem paruosque Quirites
sufficiunt, aulasque et cerea regna refingunt.
saepe etiam duris errando in cotibus alas
attriuere, ultroque animam sub fasce dedere:
tantus amor florum et generandi gloria mellis.
ergo ipsas quamuis angusti terminus aeui
excipiat (neque enim plus septima ducitur aestas),
at genus immortale manet, multosque per annos
stat fortuna domus, et aui numerantur auorum.
Praeterea regem non sic Aegyptus et ingens
Lydia nec populi Parthorum aut Medus Hydaspes
obseruant. rege incolumi mens omnibus una est;
amisso rupere fidem, constructaque mella
diripuere ipsae et cratis soluere fauorum.
ille operum custos, illum admirantur et omnes
circumstant fremitu denso stipantque frequentes,
et saepe attollunt umeris et corpora bello
obiectant pulchramque petunt per uulnera mortem.
His quidam signis atque haec exempla secuti
esse apibus partem diuinae mentis et haustus
aetherios dixere; deum namque ire per omnis
terrasque tractusque maris caelumque profundum;
hinc pecudes, armenta, uiros, genus omne ferarum,
quemque sibi tenuis nascentem arcessere uitas:
scilicet huc reddi deinde ac resoluta referri
omnia, nec morti esse locum, sed uiua uolare
sideris in numerum atque alto succedere caelo.

Su dunque, ora descriverò quali doti naturali ha dato alle api
Giove in persona, come ricompensa, perché, seguendo i Cureti
sonori e i loro bronzi tintinnanti, vennero a nutrire
il re del cielo sotto l’antro ditteo.
Sole hanno prole in comune e abitazioni congiunte in città,
sole trascorrono l’esistenza secondo leggi grandiose,
sole riconoscono una patria e Penati certi,
e, memori dell’inverno incalzante, faticano in estate
e mettono in comune il frutto del loro lavoro.
Alcune, infatti, provvedono al nutrimento e, secondo un accordo
stabilito, lavorano nei campi; una parte nei recessi delle case
pone la stilla del narciso e il vischioso glutine di corteccia
a fondamenta dei favi, poi vi stende sopra
cere tenaci; altre fanno uscire i figli ormai adulti,
speranza della stirpe; altre ammassano miele purissimo
e gonfiano le celle d’un nettare trasparente.
Ad alcune è toccata in sorte la custodia dei portali
e a turno sorvegliano le piogge e le nubi del cielo
o raccolgono i fardelli di chi arriva o, schierate in colonna,
respingono i fuchi, bestie ignave, dalle mangiatoie.
Ferve il lavoro, profuma di timo il miele fragrante.
E, come quando i Ciclopi approntano in fretta le folgori
dalle masse di duttili metalli, alcuni aspirano e soffiano fuori l’aria
con mantici di pelle taurina, altri immergono in un bacino
i bronzi sfrigolanti – geme al peso delle incudini l’Etna –,
quelli a turno con forza immane sollevano le braccia,
ritmicamente, e rigirano il ferro nella presa delle tenaglie:
non diversamente, se è lecito paragonare il piccolo al grande,
un’innata passione di possedere incalza le api cecropie,
ognuna alla propria mansione. Le anziane badano alle dimore,
a proteggere i favi e a plasmarne i tetti con arte.
Invece, sfiancate tornano a notte fonda le più giovani,
le zampe colme di timo; colgono dovunque il cibo: su corbezzoli
e scuri salici e cassia e croco rossastro
e succoso tiglio e ferrigni giacinti.
Per tutte uno solo è il riposo, una sola è la fatica:
al mattino si riversano dagli accessi; non c’è posa; di nuovo,
quando la sera ordina di abbandonare finalmente il pascolo
nei campi, allora s’avviano a casa, allora si rifocillano;
si leva un ronzio, rumoreggiano intorno alle entrate e alle soglie.
Poi, quando ormai si sono sistemate nelle loro stanze, c’è silenzio
per tutta la notte e il giusto sonno s’impossessa delle stanche membra.
Però, se la pioggia incombe, non s’allontanano troppo dalle loro sedi,
né si fidano del cielo quando giungono gli Euri,
ma raccolgono acqua lì intorno, al sicuro sotto i bastioni della città,
azzardando brevi sortite e spesso portano con sé,
come le barche instabili all’urto dei flutti si zavorrano,
dei sassolini, con i quali si librano in volo tra nubi leggere.
C’è un comportamento, fra le api, che davvero ti stupirà:
non si abbandonano ai congiungimenti né fiaccano con indolenza
i corpi al servizio di Venere né generano i piccoli con il parto:
al contrario, da sole, raccolgono con la bocca i piccoli dalle fronde,
dalle erbe soavi, da sole rimpiazzano il sovrano e i piccoli cittadini
e riplasmano le aule e i reami di cera.
Spesso, inoltre, nel vagabondare spezzano le ali contro duri roccioni
e così rendono l’anima, con libera scelta, sotto il carico;
tanto è l’amore dei fiori, tanta la gloria di produrre il miele!
Dunque, anche se le afferra in breve tempo il limite della vita
– infatti, non sopravvivono alla settima estate –,
la stirpe, però, rimane immortale e per molti anni si regge la fortuna
d’una schiatta e si può risalire agli avi degli avi.
Inoltre, non rispettano altrettanto il loro sovrano
l’Egitto, la vasta Lidia, i popoli dei Parti, i Medi che vivono
sull’Idaspe. Finché il re è incolume, hanno un’anima sola;
quando è morto, subito violano l’obbedienza, saccheggiano
il miele ammassato e distruggono la struttura dei favi.
Il re è il regolatore dei lavori: lo riveriscono e tutte
lo circondano con denso ronzio, gli stanno attorno in gran numero,
lo sollevano sulle spalle e spesso gli fanno scudo con i loro corpi,
e cercano in mezzo alle ferite una morte gloriosa.
Da questi segni e da questi esempi alcuni han detto
che le api hanno parte della mente divina
e afflato dell’etere, che un dio penetra in tutte le cose,
nelle terre, nei tratti di mare, nel cielo profondo.
Di là le greggi, gli armenti, gli uomini, ogni specie animale
attingono, ciascuno nascendo, il soffio vitale;
e là ogni cosa è restituita e ritorna, dissolta;
non c’è spazio alla morte: volano vive le cose
in mezzo agli astri e si ritirano nelle altezze del cielo.

Affascinato dal micromondo delle api, nella sua trattazione Virgilio ha seguito uno schema tipicamente etnografico: dopo aver descritto l’area di maggiore diffusione di questa specie (clima, vegetazione, ecc.), le attività condotte nelle varie stagioni, il loro comportamento in guerra (!), il poeta si sofferma – come farebbe un etnografo – sugli aspetti più insoliti e curiosi: nel caso delle api, una certa capacità divinatoria di cui questi insetti sarebbero dotati (vv. 191 ss.), la castità (vv. 197 ss.), la grande venerazione per il loro rex (cioè l’ape regina, di cui Virgilio, come quasi tutti i trattatisti antichi, ignorava il sesso femminile) e la loro natura spirituale e divina (vv. 220-221).
Il poeta impiega per le api un lessico umanizzante (natos e tecta urbis, vv. 153-154) non solo in forza di un tópos poetico ma anche perché l’esistenza di questi insetti era considerata la trasfigurazione di una società umana ideale. Si dice, infatti, nei versi successivi che le api vivono tutta la vita magnis sub legibus, grazie alle quali riconoscono patriam… et… penates. Poco dopo (v. 158) si fa riferimento al foedere pacto, all’accordo prestabilito, che presiede al lavoro in campagna, ancora una volta assimilando la società della api a quella umana e alle regole che sanciscono la convivenza del gruppo. Da perfetta comunità organizzata quale sono, le api appaiono anche in grado di far fronte al pericolo: esse si schierano in ordine di combattimento (agmine facto, v. 167: può essere curioso notare che anche l’italiano «sciame» deriva da un termine militare, exagmen, propriamente «colonna di soldati schierati») per allontanare i fuchi; difendono gli alveari, indicati con il termine oppida (v. 178), quasi fossero vere e proprie «città fortificate», e difendono i favi (v. 179, munire favos, anche qui un verbo attinto al lessico militare).
Proprio l’organizzazione delle api consente a Virgilio di sviluppare la trasfigurazione tradizionale della società umana ideale. Questi insetti assurgono a modello di convivenza civile, di Stato perfetto, in cui tutti agiscono per il bene comune aggregati attorno a una figura regale, garante dell’ordine e della concordia, e uniti da un forte senso di legalità reciproca: insomma, esattamente il progetto politico vagheggiato da Ottaviano, che negli anni in cui il poeta componeva i Georgica (37-29 a.C.), stava affermando il proprio potere. A fugare ogni dubbio interviene l’inequivocabile locuzione: parvos Quirites (v. 201), «piccoli Quiriti», utilizzata per definire le api. In questo modo l’allegoria che Virgilio va delineando è resa quanto mai esplicita: le api finiscono per rappresentare, a tutti gli effetti, l’immagine stessa della Romana civitas.
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