Tito Manlio in duello con un Gallo (Liv. VII 9, 8-10)

Tum eximia corporis magnitudine in uacuum pontem Gallus processit et quantum maxima uoce potuit «Quem nunc» inquit «Roma uirum fortissimum habet, procedat agedum ad pugnam, ut noster duorum euentus ostendat utra gens bello sit melior».

Diu inter primores iuuenum Romanorum silentium fuit, cum et abnuere certamen uererentur et praecipuam sortem periculi petere nollent; tum T. Manlius L. filius, qui patrem a uexatione tribunicia uindicauerat, ex statione ad dictatorem pergit; «Iniussu tuo» inquit, «imperator, extra ordinem nunquam pugnauerim, non si certam uictoriam ui deam: si tu permittis, uolo ego illi beluae ostendere, quando adeo ferox praesultat hostium signis, me ex ea familia ortum quae Gallorum agmen ex rupe Tarpeia deiecit». Tum dictator «Macte uirtute» inquit «ac pietate in patrem patriamque, T. Manli, esto. Perge et nomen Romanum inuictum iuuantibus dis praesta». Armant inde iuuenem aequales; pedestre scutum capit, Hispano cingitur gladio ad propiorem habili pugnam. Armatum adornatumque aduersus Gallum stolide laetum et – quoniam id quoque memoria dignum antiquis uisum est – linguam etiam ab inrisu exserentem producunt. Recipiunt inde se ad stationem; et duo in medio armati spectaculi magis more quam lege belli destituuntur, nequaquam uisu ac specie aestimantibus pares. Corpus alteri magnitudine eximium, uersicolori ueste pictisque et auro caelatis refulgens armis; media in altero militaris statura modicaque in armis habilibus magis quam decoris species; non cantus, non exsultatio armorumque agitatio uana sed pectus animorum iraeque tacitae plenum; omnem ferociam in discrimen ipsum certaminis distulerat. Ubi constitere inter duas acies tot circa mortalium animis spe metuque pendentibus, Gallus uelut moles superne imminens proiecto laeua scuto in aduenientis arma hostis uanum caesim cum ingenti sonitu ensem deiecit; Romanus mucrone subrecto, cum scuto scutum imum perculisset totoque corpore interior periculo uolneris factus insinuasset se inter corpus armaque, uno alteroque subinde ictu uentrem atque inguina hausit et in spatium ingens ruentem porrexit hostem. Iacentis inde corpus ab omni alia uexatione intactum uno torque spoliauit, quem respersum cruore collo circumdedit suo. Defixerat pauor cum admiratione Gallos: Romani alacres ab statione obuiam militi suo progressi, gratulantes laudantesque ad dictatorem perducunt. Inter carminum prope modo incondita quaedam militariter ioculantes Torquati cognomen auditum; celebratum deinde posteris etiam familiae honori fuit. Dictator coronam auream addidit donum mirisque pro contione eam pugnam laudibus tulit.

Divinità con torques e pugnale. Statua, pietra locale, I secolo a.C. da Bozouls. Rodez, Musée Fenaille.

Allora un Gallo di statura gigantesca s’avanzò sul ponte deserto e urlò con quanta voce aveva in gola: «Si faccia avanti a combattere il guerriero più forte che c’è adesso a Roma, così che l’esito del nostro duello stabilisca quale dei due popoli è superiore in guerra!».

Tra i giovani romani più ragguardevoli ci fu un lungo silenzio, poiché da un lato si vergognavano di rifiutare il combattimento, dall’altro non volevano affrontare una sorte particolarmente rischiosa: allora Tito Manlio, figlio di Lucio, quegli che aveva liberato il padre dalle accuse del tribuno, lasciò la sua posizione e si avviò dal dittatore: «Senza un tuo ordine, comandante», disse «non combatterei mai fuori dai ranghi, neppure se vedessi certa la vittoria: ma se tu lo permetti, a quella bestiaccia che ora fa tanto lo spavaldo davanti alle insegne nemiche io vorrei dare la prova di discendere da quella stirpe che precipitò già dalla rupe Tarpea le schiere dei Galli». Allora il dittatore gli rispose: «Onore e gloria al tuo coraggio e alla tua devozione per il padre e la patria, o Tito Manlio! Va’ e con l’aiuto degli dèi da’ prova che il nome di Roma è invincibile!». Poi i compagni lo aiutarono ad armarsi: egli prese uno scudo da fante e si cinse in vita con una spada ispanica, più adatta per lo sconto corpo a corpo. Dopo averlo armato di tutto punto, lo accompagnarono verso il guerriero gallico che stava stolidamente esultando e che (particolare anche questo ritenuto degno di menzione da parte degli antichi) in segno di scherno tirava fuori la lingua. Quindi rientrarono al loro posto, mentre i due uomini armati restarono soli in mezzo al ponte, più come si usa negli spettacoli che secondo le norme di guerra, punto pari di forze a giudicarli dall’aspetto esteriore: l’uno aveva un fisico di straordinaria corporatura, sgargiante nelle vesti variopinte e per le armi dipinte e cesellate in oro; l’altro nella statura media di un soldato e d’aspetto modesto le sue armi, più maneggevoli che appariscenti; non canti, non esultanza né vana esibizione delle proprie armi, ma un petto fremente di palpiti di coraggio e tacita ira; tutta la sua fierezza egli aveva riservata per il momento decisivo del duello. Quand’ebbero preso posizione tra i due eserciti, con tanti uomini intorno dagli animi sospesi tra la speranza e la paura, il Gallo, come una rupe che sovrasta dall’alto, preteso con la sinistra lo scudo, calò con grande fragore sulle armi dell’avversario che si avvicinava un fendente che andò a vuoto. Il Romano, sollevata la spada, colpì con il proprio scudo la parte inferiore di quello del nemico; poi, insinuatosi tra il corpo e le armi di quest’ultimo in modo tale da evitare di essere ferito, con due colpi sferrati uno dopo l’altro gli trapassò il ventre e l’inguine, facendolo stramazzare a terra, disteso in tutta la sua mole. Quindi, risparmiando ogni altro scempio al corpo del caduto, si limitò a spogliarlo del solo torque, che egli si mise al collo intriso di sangue com’era. La paura insieme con lo stupore aveva agghiacciato il sangue ai Galli: i Romani, usciti prontamente dagli avamposti incontro al loro commilitone, rivolgendogli congratulazioni e lodi, lo condussero dal dittatore. Fra le rozze battute che i soldati quasi con ritmica cadenza si scambiavano nei loro cori, fu udito il soprannome di Torquatus; esso, in seguito, fu usato spesso anche dai suoi discendenti e tornò d’onore alla sua famiglia. Il dittatore aggiunse in dono una corona d’oro e di fronte alle truppe adunate celebrò con le lodi più alte quel combattimento.

Un soldato romano preda il torques a un guerriero gallico abbattuto. Illustrazione di R. Oltean.

Durante la guerra gallica del 361 a.C., della cui conduzione era stato incaricato il dittatore Tito Quinzio Penno Capitolino, un armato celta, presentato da Livio in tutta la sua possanza, sfida i Romani e invita «il guerriero più forte» tra i Romani a farsi avanti e ad affrontarlo in duello. Mentre gli altri giovani sono paralizzati dal terrore, Tito Manlio lascia il proprio posto, si presenta davanti al dittatore e gli chiede il permesso di offrirsi volontario per combattere contro il Gallo. Livio drammatizza l’episodio con dialoghi in discorso diretto fra il Celta e la schiera dei Romani e fra Tito Manlio e il suo comandante, conferendo alla narrazione un pathos e un’intensità che sembrano sfiorare toni prettamente epici, funzionali alla sua concezione altamente idealizzata della Storia esemplare di Roma.

La descrizione della vestizione del guerriero e del duello che segue riprendono moduli tipicamente epici. Livio dipinge la scena dello scontro in maniera così vivida che i due antagonisti, armati di tutto punto, sembrano quasi materializzarsi di fronte al lettore: l’uno, il Celta, tracotante nella sua possanza e nel suo sfoggio di armi cesellate d’oro, l’altro, Manlio, di corporatura più ordinaria e armato alla leggera, ma dotato di straordinario ardore, coraggio e voglia di sconfiggere l’avversario. I due si affrontano come i famosi eroi dell’epica, Enea e Turno, Ettore e Achille; grazie alla sua superiore tecnica militare il Romano ha la meglio, abbatte l’avversario e prende come trofeo della vittoria la collana del nemico (torques), dalla quale gli deriverà il cognomen di Torquato.

Tito Manlio e il Gallo.

Il duello fra Manlio e il Gallo è uno dei pochi episodi per i quali è possibile stabilire un confronto fra l’opera di Livio e la fonte annalistica da lui utilizzata, Claudio Quadrigario, un autore di età sillana: questo confronto è possibile grazie ad Aulo Gellio, che nelle Noctes Atticae (IX 13) ha conservato per intero il corrispondente passo di Quadrigario. È lo stesso Livio a dichiarare in qualche modo l’impiego della fonte, nell’accenno un po’ polemico nell’inciso in VII 10, 5 (quoniam id quoque memoria dignum antiquis uisum est): il particolare incriminato, del gesto del Gallo con la lingua, trova infatti un parallelo esattissimo in Quadrigario (Gallus inridere coepit atque linguam exertare). Le differenze fra i due racconti una lettura in parallelo dei due testi di Livio e Quadrigario può mostrare la distanza che separa le due narrazioni: distanza non tanto nella trama generale del racconto, che in linea di massima resta la stessa, quanto nella sua impostazione e interpretazione, oltre che nella resa stilistica.

Un frammento di Quadrigario (fr. 10b Peter) conserva due brani relativi alla presentazione del Celta e – dopo la sfida da lui lanciata ai Romani e accolta da Manlio – allo svolgimento del duello: «Intanto si fece avanti un Gallo, senza armatura, solo con uno scudo e due spade, ornato di collana e braccialetti, un Gallo che superava tutti per la forza e la statura e insieme per la giovane età e per il valore. […] Il duello si svolse proprio sul ponte, sotto gli occhi dei due eserciti, in un clima di grande paura. Così, come ho detto, si piantarono l’uno di fronte all’altro: il Gallo, secondo la sua tecnica, con lo scudo in avanti, teso nella guardia; Manlio, fidando più nel coraggio che nella tecnica, colpì con lo scudo lo scudo del Gallo e gli fece perdere l’equilibrio. Mentre il Gallo cercava di riprendere la posizione iniziale, Manlio di nuovo colpì con lo scudo lo scudo dell’avversario, e di nuovo lo fece spostare dal suo assetto. In tal modo, riuscì a infilarsi sotto la spada del Gallo e con la propria spada gli trafisse il petto; poi, di seguito, con un secondo identico assalto, lo ferì alla spalla destra e non si ritrasse finché non l’ebbe fatto cadere, in modo che il Gallo non avesse la forza di colpire a sua volta. Quando l’ebbe abbattuto, gli troncò la testa, gli strappò la collana e se la mise al collo, ancora sanguinolenta».

Il «Galata morente»: dettaglio della testa. Statua, marmo, copia romana da originale di bronzo dello scultore Epigono di Pergamo, 230-220 a.C. ca., dal Donario di Attalo I. Roma, Musei Capitolini.

Da Quadrigario il guerriero celta è presentato nelle sue caratteristiche barbariche: l’abbigliamento, la forza impressionante, la statura (poco oltre egli parla della sua «taglia enorme» e del suo «spaventoso aspetto»), la volgarità degli atteggiamenti e dei gesti; ma ha anche tratti che lo qualificano come un forte e valoroso avversario (Quadrigario sottolinea, fra l’altro la sua virtus, un termine che Livio riserva esclusivamente ai Romani). Al barbaro l’annalista non nega nemmeno il possesso di una certa tecnica militare; è piuttosto Manlio che confida più nel coraggio che nella tecnica, e che poi, una volta vincitore, esercita una barbarica violenza, mozzando il capo al vinto per togliergli la collana. L’opposta caratterizzazione dei duellanti in Livio. Tra il modello annalistico e il testo liviano è avvenuto come uno scambio nella caratterizzazione dei duellanti: la tecnica militare del Gallo di Quadrigario è, nella rielaborazione di Livio, solo in Manlio, mentre la ferocia di Manlio viene trasferita nel Gallo e trasformata in stolida tracotanza (10, 5, Gallum stolide laetum) e in rozza brutalità (illa belua, «quella bestiaccia» dice di lui Manlio in 10, 3).

Livio libera anche Manlio dalla macchia della truculenta azione conclusiva, negando esplicitamente, in palese polemica con l’annalista, che il Romano abbia infierito sul cadavere dell’avversario (10,11). La riscrittura di Livio tende soprattutto a modificare ideologicamente il senso dell’intero episodio; se analogo è nei due autori l’orgoglioso spirito della superiorità romana, Livio vuole da parte sua sottolineare la distanza di civiltà fra il Gallo e il Romano. È questo uno dei tanti esempi, in cui Livio manipola i dati della tradizione per non oscurare l’immagine di una Roma portatrice di civiltà e di moderazione.

Le fonti sulle guerre sannitiche

di E.T. SALMON, Il Sannio e i Sanniti, trad. it. B. McLEOD, Torino 1995, 5-12.

Di tutte le tribù e i popoli con cui i Romani si trovarono a dover contendere la supremazia sull’Italia nessuno fu più minaccioso dei Sanniti del Sannio. Forti e valenti, essi possedevano un territorio più ampio e un temperamento più risoluto di qualunque altra popolazione della Penisola. Erano abbastanza numerosi e abbastanza coraggiosi da rifiutare di sottomettersi docilmente a Roma, e la resistenza militare e politica che le opposero fu delle più strenue[1]. È un luogo comune dire che essi, ed essi soli, rivaleggiarono in modo veramente temibile con Roma per assicurarsi l’egemonia sull’Italia peninsulare, avvicinandosi considerevolmente al successo. Per mezzo secolo e più, dal 343 al 290, impegnarono i Romani nei tre successivi conflitti noti come “guerre sannitiche”, e riaccesero la lotta contro di essi ogni volta che se ne offrì l’occasione nel corso dei due secoli seguenti: la guerra che prese nome da Pirro, re dell’Epiro, potrebbe altrettanto a buon diritto essere chiamata “quarta guerra sannitica”, come infatti Livio suggerisce e Orosio afferma esplicitamente[2]. Anche Annibale trovò aiuto e appoggio fra le tribù sannitiche e, nel I secolo, in occasione dell’ultima grande insurrezione degli Italici contro il dispotismo romano, i Sanniti presero ancora una volta le armi, mostrando secondo il solito maggiore tenacia e più risoluta volontà di resistenza di tutti gli altri insorti.

L’Italia centrale nei secoli IV-I [Salmon 1995].

Se si considera l’importanza del ruolo svolto da questo popolo, è sorprendente che esso abbia suscitato un così scarso interesse. Nessuna versione della storia romana può fare a meno di dedicare loro abbondante spazio, ma ciò avviene invariabilmente nel quadro delle vicende di Roma e non facendone l’oggetto di una ricerca indipendente, benché essi meritino certamente attenzione di per se stessi. La stessa esiguità del confine fra vittoria e sconfitta è nel loro caso uno stimolante argomento d’indagine. Eppure, raramente è stata prestata loro un’accurata e approfondita attenzione. Nessuna monografia estesa ed esauriente è mai stata dedicata ai Sanniti[3], e ciò è particolarmente notevole poiché essi, per quanto remoti, non furono esseri puramente leggendari, ma uomini vivi, attivi in un’epoca intensamente studiata. È una vicenda densa e compatta, che ha inizio con la loro improvvisa apparizione come alleati di Roma nel 354 e termina con il massacro di Porta Collina nell’82, e per quanto non sia pienamente nella luce della storia, le sue linee principali sono nette e molti dei particolari sicuri[4]. Vi furono scrittori greci del IV secolo bene informati riguardo ai Sanniti e che probabilmente scrissero parecchio su di loro, ma di tali scritti non restano che frammenti sparsi[5]. Le narrazioni della storia dell’Italia del IV secolo pervenuteci, quando non trattano degli stessi Greci italioti, parlano per lo più dei Romani. I popoli sconfitti da Roma sono solo incidentalmente oggetto d’interesse: essi vengono menzionati solo quando li si considera importanti ai fini della storia di Roma. Münzer ha richiamato l’attenzione sulla limitatezza di tali esposizioni: «Le cose vengono viste esclusivamente sotto un determinato aspetto. Sul problema dei rapporti fra Roma e il mondo esterno tutte le prospettive eccetto quella romana vengono soppresse…»[6].

Dionigi di Alicarnasso, è vero, è scrittore dalla visione ampia, ed egli inserisce nella sua narrazione dissertazioni erudite sui vari popoli italici che vennero a contatto con i Romani[7], ma della parte delle Antichità romane a proposito del periodo in cui l’Urbe e i Sanniti ebbero contatti (libri XV-XX) non restano che scarsi frammenti[8].

La storia stessa della Roma arcaica veniva narrata nella forma di una tradizione stabile e inalterata, parte della quale era già nota a scrittori greci del IV secolo o anteriori[9], e la cui struttura fissa fu eretta a canone da Fabio Pittore nel III secolo. Derivava originariamente dalle nude e disadorne cronache dei pontefici romani (tabulae pontificum)[10] che vennero raccolte e ampliate nel II secolo fino a formare la collezione nota con il nome di Annales maximi, e i singoli storici si sentirono in dovere di non distaccarsi da questo percorso già tracciato, quanto piuttosto di dar vita al suo interno a una creazione letteraria[11], senza impegnarsi nel compito di una laboriosa ricerca tesa a confermare o modificare radicalmente la versione accettata[12]. Uno dei risultati di tale atteggiamento è che le apparizioni dei Sanniti sono, nella letteratura antica, casuali e sporadiche. L’unico caso in cui essi vengono fatti oggetto almeno di una parvenza di trattazione sistematica è in occasione delle loro guerre contro Roma, ma anche queste sono descritte esclusivamente del punto di vista dei vincitori. E ciò non è accidentale. Fabio Pittore si pose esplicitamente il compito di giustificare il comportamento dei Romani verso le altre genti, sforzandosi di sostituire a ogni e qualsivoglia visione della storia d’Italia diffusa dagli scrittori greci una versione decisamente favorevole a Roma[13]. Fra questi, Duride di Samo, Geronimo di Cardia, Filisto e Callia di Siracusa, Lico di Reggio e Timeo di Tauromenio avrebbero potuto dire non poco, e non tutto a sfavore, sui Sanniti, al tempo stesso lasciando per lo più in disparte i Romani[14]. Fabio Pittore rimediò fin troppo bene a questo stato di cose.

Sarebbe esagerato dire che ciò abbia significato la completa scomparsa di quanto i Greci scrissero allora sulle montuose zone interne dell’Italia meridionale e sui loro vigorosi abitanti, che in effetti gli Italioti avevano tutti i motivi di conoscere, con poco piacere, fin troppo bene: qualche informazione sui popoli sabellici è filtrata attraverso i pregiudizi e l’indifferenza dei Romani ed è sopravvissuta. Ma ciò è avvenuto attraverso una sorta di “filtro romano”, e la nostra immagine dei Sanniti è essenzialmente determinata dalla prospettiva e dalla selettività di Fabio Pittore e dai suoi successori.

I libri VII-X di Livio sono la fonte principale sulle tre guerre sannitiche ed è opinione comune che la descrizione che contengono riposi su una solida base fattuale. Il fulcro della sua narrazione, certo derivata originariamente da archivi sacerdotali[15], è costituito dagli elenchi dei consoli romani che sembrano ragionevolmente attendibili.

Guerriero sannita. Illustrazione di P. Connolly.

Va detto che gli annalisti anteriori a Livio erano fin troppo inclini a dar credito a quelle descrizioni e documentazioni di carriere di cui, secondo Plinio, erano pieni gli archivi delle grandi casate romane e che, secondo Cicerone, Livio e Plutarco, traboccavano di esagerazioni e distorsioni, quando non addirittura di sfacciate menzogne[16]. I generali che avevano partecipato alle battaglie scrivevano talvolta le loro memorie, e non c’è ragione per credere che nel farlo essi fossero modesti o scrupolosi[17]. Né si dimentichi che statisti e generali romani avevano talvolta i propri poeti e panegiristi personali che cantavano le loro imprese[18]. Ancora più numerosi, eloquenti e convincenti erano poi i discendenti di una gens decisi a vantarne le glorie. I Flavii avevano evidentemente degli archivi propri, i Carvilii avevano uno storico. Se i Postumii ebbero Aulo Postumio Albino che ne esaltò il nome, i Valerii ebbero Valerio Anziate[19]. I Cornelii, da cui provenivano non meno di sei dei ventitré pontefices maximi repubblicani di cui siamo a conoscenza[20], erano nella posizione ideale per alterare i documenti sacerdotali, così come i Papirii, che furono evidentemente fra i primi redattori degli Annales maximi[21].

Ne nacque così un accavallarsi di rivendicazioni contrastanti, mentre le varie gentes si davano a fabbricare imprese totalmente immaginarie e cercavano di attribuirsi il merito di gesta non loro o di sminuire le affermazioni altrui. Ben nota è la rivalità fra Fabii e Cornelii Scipiones: inoltre, i Fabii erano anche invidiosi nei confronti dei Carvilii e i Cornelii Scipiones dei Fulvii[22]. I Claudii e i Postumii erano chiaramente il bersaglio della denigrazione di altre casate aristocratiche e, stando a ciò che sostiene Livio, anche i Volumnii avevano il favore di alcuni annalisti e lo sfavore di altri[23]. Era sempre possibile per uno storico tentare di dar lustro al proprio clan gentilizio semplicemente inventando una promagistratura o qualche altro ufficio speciale in cui si potesse sostenere che un membro della famiglia si era particolarmente distinto[24].

Fortunatamente, sembra fosse molto meno facile inventare dei consolati e, quindi, le liste dei consoli e quelle dei trionfi non sembrano aver subito contraffazioni altrettanto estese[25]. È vero che esse spesso non rivelano quale dei due consoli avesse compiuto una determinata azione ed era quindi facile per un annalista tendenzioso inventare o sfruttare la malattia di un console per attribuire onori all’altro[26]. In tali circostanze, si può capire perché Catone si rifiutasse di menzionare alcun condottiero per nome[27], come pure è comprensibile l’onesta incertezza di Livio su quale comandante dovesse ricevere il merito di una data vittoria[28]. Ciononostante, i Fasti consulares e triumphales sono una fonte relativamente pura e incontaminata e si può attribuire loro ampia credibilità[29].

Un’altra fonte d’informazioni ragionevolmente degna di fede è costituita dalla documentazione riguardante la fondazione di coloniae e la consacrazione di templa da parte dei Romani. In generale, tali documenti appaiono accurati e ciò riveste una certa importanza, poiché viene così fornito un metro per misurare i progressi militari di Roma, in quanto spesso venivano consacrati templi e fondate colonie in conseguenza di vittorie romane.

È quindi evidente che Livio ha tramandato numerosi dati storicamente certi. Al tempo stesso, però, vi ha anche mescolato una certa quantità di invenzioni. A parte la sua inclinazione a ricamare sulla vicenda, trasformando ciò che avrebbe potuto essere un racconto sobrio in una saga eroica[30], egli ha ripetuto molti sfrenati voli di fantasia dei suoi predecessori. Gli storici romani non seppero mai resistere alla tentazione di magnificare le imprese della loro nazione o della loro famiglia, o di entrambe, e ciò vale per i più antichi come per i più tardi, per Fabio Pittore come per Valerio Anziate[31].

L’umiliazione delle Forche Caudine. Illustrazione di S. Ó Brógáin.

C’erano però delle differenze di grado. Più antico era lo scrittore, più è probabile che si mantenesse entro certi limiti e ponesse qualche freno all’immaginazione “patriottica”. Fabio Pittore e altri a lui vicini nel tempo, pur essendo tutt’altro che fedeli ai fatti, sembrano aver descritto episodi definiti ed essersi mossi in un ambito relativamente ristretto, che non lasciava loro molto spazio per invenzioni su vasta scala: erano non exornatores sed tantummodo narratores[32]. È chiaro che il grado di alterazione nei loro testi doveva essere inferiore a quello dei resoconti annuali dei cosiddetti “Vecchi Annalisti”, come Calpurnio Pisone e Cassio Emina, dell’età dei Gracchi[33]. Eppure, anche questi furono modelli di sobrietà in confronto agli scrittori dell’età di Silla, una o due generazioni più tardi, quei famigerati “Nuovi Annalisti”, come Valerio Anziate e Claudio Quadrigario[34]. Alcuni di essi scrissero così copiosamente da avere spazio illimitato per esagerare o inventare quasi a piacimento singoli episodi da attribuire ai loro personaggi favoriti (ma va detto che, al tempo di Cicerone, le eccessive esagerazioni non erano più di moda!). Quanto Livio si sia servito dei “Nuovi Annalisti” e quanto da essi dipendesse sono dati così universalmente noti da non aver bisogno di dimostrazione[35] ed è opportuno esaminare le conseguenze per ciò che riguarda la sua narrazione delle guerre sannitiche.

Gli scrittori dell’età di Silla scrivevano al tempo della guerra sociale e di quella civile, a essa immediatamente successiva, ed erano così vicini a tali cruciali conflitti che le loro posizioni non possono non essere state influenzate. Fu proprio in quegli anni che i Sanniti imposero la pace alle loro condizioni nella guerra sociale e arrivarono a un passo dalla vittoria nella guerra civile, a Porta Collina. Era quindi inevitabile che essi vedessero le guerre sannitiche di più di due secoli prima alla luce di tali importanti eventi e che fossero certi che tanto i Romani quanto i Sanniti si fossero resi conto fin dal momento del loro primo scontro dal fatto che la posta in palio era il dominio sull’Italia e che, dunque, la lotta in cui erano coinvolti fosse di titaniche dimensioni[36]. Viste le circostanze, era inevitabile che i “Nuovi Annalisti” descrivessero le guerre sannitiche come una grande epica romana, per la quale non mancavano certo i modelli, sia greci sia latini: Nec id tamen ex illa erudita Graecorum copia sed ex librariolis Latinis[37]. Se non sentirono la necessità di alterare la struttura tradizionale, poterono però, all’interno di essa, dar libero corso al loro genio inventivo o alla loro inclinazione imitativa riguardo ai singoli dettagli[38]. Inventare o moltiplicare le vittorie dei Romani[39] e sopprimere o attenuare le sconfitte era per loro pratica sistematica, automaticamente applicata. Essi ravvivavano i loro racconti arricchendo la maggior parte degli avvenimenti, veri o inventati, di particolari pittoreschi, prolissi o assurdi. Il fatto che il periodo che descrivevano fosse remoto e il tenace conservativismo della nomenclatura dell’aristocrazia romana aiutavano e incoraggiavano ampiamente tali sconfinamenti nel mondo della fantasia.

I “Nuovi Annalisti” non si limitavano a dar libero corso all’immaginazione riguardo ai loro connazionali: erano anche inclini ad applicare la stessa tecnica, per così dire all’inverso, ai loro fortuiti e superficiali commenti sui popoli che Roma andava ininterrottamente sconfiggendo.

Se l’uso dello stesso nome ripetuto per generazioni in una famiglia romana rendeva possibile far risalire a uno dei suoi antichi membri imprese che più esattamente si sarebbero dovute attribuire a uno dei suoi discendenti, poteva sembrare del tutto giustificato adottare lo stesso procedimento riguardo ai Sanniti. Se le imprese sannitiche nella guerra sociale e in quella civile hanno influenzato l’interpretazione delle prime guerre sannitiche data dai “Nuovi Annalisti”, viene da chiedersi se anche la loro descrizione di particolari di queste ultime non sia stata adornata con episodi e personaggi tratti dalle prime. Per esempio, è stato spesso sottolineato che importanti figure sannitiche del IV secolo e degli inizi del III avevano nomi notevolmente simili a quelli dei condottieri del I secolo e alcuni studiosi sostengono addirittura che il primo gruppo altro non sia che un’anticipazione fantastica del secondo[40]. Simili metodi possono certamente venire spinti all’eccesso: per esempio, negare l’esistenza di Gavio Ponzio nel 321 solo perché un Ponzio Telesino fu al comando delle forze sannitiche nell’82[41] significa spingere lo scetticismo troppo lontano[42]. Il Churchill del XVIII secolo non è meno reale perché un Churchill governò l’Inghilterra nel XX[43].

Romani e Sanniti sanciscono la pace con cerimonia solenne. Illustrazione di R. Hook.

Comunque, è fin troppo probabile che i “Nuovi Annalisti”, quando parlavano sia dei Romani sia dei Sanniti del IV e III secolo, non fossero attendibili e sfortunatamente molto di ciò che essi scrissero è echeggiato nelle pagine di Livio. Benché cosciente della loro inattendibilità, egli attinse abbondantemente dai loro scritti, forse perché convinto, al pari di Plinio il Vecchio, che nessun libro sia così cattivo da non valere nulla[44]. Su alcuni punti, egli stesso apporta le necessarie modifiche, come nel caso della pace caudina del 321-316 o della sconfitta romana a Lautulae nel 315. In effetti, un’accurata lettura di Livio è tutt’altro che infruttuosa: spesso, dalle informazioni che egli fornisce è possibile ricostruire un racconto convincente e coerente.

Oltre a lui, vi sono alcuni scrittori che forniscono informazioni sulle tre guerre sannitiche, ma per servirsene è necessario impiegare la stessa cautela e prudenza da usarsi con Livio. In effetti, alcuni di essi, come Eutropio e Orosio, si limitano a riassumerne l’opera, mentre almeno uno, Floro, ne rappresenta un abbellimento, in quanto la sua narrazione, pur se essenzialmente liviana, si avvale di vari espedienti retorici per raggiungere risultati ancor più sensazionali[45]. I magri frammenti di informazioni sparsi nelle pagine di Dionigi di Alicarnasso, Cassio Dione e Appiano, gli isolati episodi menzionati da Plinio il Vecchio, Frontino e l’autore del De viris illustribus, e il materiale occasionalmente rintracciabile in alcune delle Vite di Plutarco, hanno caratteristiche simili a ciò che si può trovare in Livio ed è fin troppo probabile che abbiano avuto origine dalle opere dei “Nuovi Annalisti”.

E ciò vale probabilmente anche nel caso delle scarne notizie contenute in Diodoro, malgrado la diffusa opinione che esse proverrebbero da una fonte più antica. Diodoro ignora completamente la prima guerra sannitica e i primi otto anni della seconda, ma ciò non prova che egli non sapesse nulla in proposito[46]: nella sua scelta degli argomenti da menzionare egli è sempre piuttosto volubile, anche quando narra la storia della sua terra natale, la Sicilia[47]. Inoltre, la parte relativa alla terza guerra sannitica non ci è pervenuta, quindi possiamo realmente servirci di lui solo per ciò che concerne gli ultimi quattordici anni della seconda guerra sannitica. Riguardo a dodici di essi, egli fornisce succinte notizie sulle operazioni belliche, spesso diverse o complementari rispetto a quelle riportate da Livio, e vario è il grado d’importanza che è stato loro attribuito. L’estrema concisione della cronaca di Diodoro ha spinto molti studiosi a ritenere che egli si sia rifatto a una versione degli Annalisti di epoca graccana o dei saltuari storici di rango senatorio che li precedettero[48]: Niebuhr e Mommsen sostengono addirittura che la sua fonte fu lo stesso Fabio Pittore[49]. Perciò, Diodoro è spesso considerato più attendibile di tutti gli altri scrittori antichi per ciò che riguarda le guerre sannitiche.

Il fondamento di questa opinione non è evidente né convincente. Il fatto che il sistema cronologico di Diodoro fosse diverso da quello di Livio (sistema che, a sua volta, non era lo stesso di Varrone) non dimostra che esso fosse migliore o più antico[50], e il fatto che le sue affermazioni sul conto dei Romani fossero così trite non garantisce che derivassero da una fonte unica o particolarmente antica[51]. In effetti, Diodoro stesso rivela di essersi servito di una varietà di autorità antiche, e latine per giunta[52]. Sembra certo che fra esse ci sia stato almeno uno dei “Vecchi Annalisti” (Calpurnio Pisone)[53], ma è lecito ritenere che vi fossero anche alcuni “Nuovi Annalisti”[54].

Guerrieri sanniti. Affresco, IV secolo a.C. da una tomba a Nola. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Sulle sporadiche apparizioni dei Sanniti dopo le tre guerre sannitiche, possediamo frammenti d’informazioni provenienti da varie fonti. Il ruolo da essi svolto nella guerra contro Pirro può venir ricostruito mettendo insieme le rare notizie che troviamo in varie epitomi di Livio o Dione, o le allusioni disseminate nelle pagine di Plutarco, che costituiscono una fonte preziosa poiché egli ricalca originariamente Timeo, personaggio contemporaneo e interessato a quegli eventi. Qualche accenno al comportamento dei Sanniti durante la seconda guerra punica si può trarre dalle pagine di Polibio e di Livio: ma Polibio, come sempre, non sembra disposto a sprecare simpatia per un popolo non romano e i riferimenti di Livio sono nella migliore delle ipotesi incidentali rispetto al filone principale del suo racconto. Egli è confuso e approssimativo quando accenna al contributo dato dai Sanniti alla sconfitta di Annibale, prevenuto e impreciso quando parla dell’aiuto e sostegno dato da costoro al nemico punico. Silio Italico è, almeno fino a Canne, molto più generoso nei loro confronti, ma sarebbe azzardato considerare le sue invenzioni poetiche come vera storia.

Dopo il 200 le vicende dei Sanniti vengono praticamente ignorate per più di un secolo. Essi riappaiono poi improvvisamente e svolgono un ruolo di primaria importanza nella guerra sociale e in quella civile, all’inizio del I secolo. Sfortunatamente, su queste due fondamentali lotte le fonti antiche sono frammentarie e scarse. La cronaca della guerra marsica, composta in greco da Lucullo, che vi aveva preso parte attivamente, non ci è pervenuta; stessa sorte è toccata all’opera del suo molto apprezzato contemporaneo, Sisenna. Il più esteso resoconto pervenutoci è in Appiano, ma è molto diseguale. Malgrado ciò, è importante e lo sarebbe ancor di più se si potesse provare che esso si basa su di un autore italico. Un recente tentativo in questo senso non ha però incontrato consensi[55], e la maggior parte degli studiosi ammette che neanche da Appiano si possano ricavare informazioni attendibili sui Sanniti, proporzionate all’importanza del ruolo da essi svolto nella seconda decade del I secolo. Probabilmente ciò dipende dal fatto che la tradizione riguardante tale periodo si basa in buona sostanza sulle menzognere memorie di Silla, che non era certo uomo da rendere giustizia ai Sanniti.

Dopo l’82 i Sanniti spariscono totalmente dalla scena della storia e la loro uscita è tanto improvvisa quanto lo era stata la loro apparizione quasi tre secoli prima.


[1] Anche dopo che i Romani ebbero celebrato ventiquattro trionfi su di essi (Floro I 11, 8), i Sanniti erano ancora pronti a rinnovare la loro resistenza ogni volta che ne avessero l’occasione.

[2] Livio XXIII 42, 2; Orosio III 8, 1; III 22, 12.

[3] Le Untersuchungen zur Geschichte der Samniten di B. Kaiser (Pforta 1907) non sono andate oltre il vol. I.

[4] Proprio nel periodo delle guerre sannitiche la storia romana acquista un aspetto di vitale realtà. Certamente Roma deve aver avuto una qualche forma di documentazione fin dal IV secolo: gli scrittori greci del tempo non avrebbero definito «città ellenica» una società illetterata (Eraclide Pontico in Plutarco, Vita di Camillo 22, 2; Demetrio Poliorcete in Strabone V 3, 5, p. 232).

[5] Per esempio, Filisto in Stefano di Bisanzio, s.v. Mystia, Tyrseta; Pseudo-Scilace, Periplo 15.

[6] Römische Adelsfamilien, p. 46; cfr. p. 66; si vedano anche passi come Livio XXXIII 20, 13; XLI 25, 8.

[7] Anche Strabone si sofferma più di una volta sui popoli non romani, ma principalmente come geografo. Si vedano, inoltre, le osservazioni di E. Bickerman sulle origines gentium, in CPh 67 (1952), pp. 65-81.

[8] Egli era verboso e retorico e ci si chiede quanto attendibili sarebbero state le sue informazioni, se ne fossero rimaste in maggior quantità. La cifra da lui menzionata di 15.000 Romani caduti a Eraclea non ispira certo fiducia: egli doveva sapere che, secondo Geronimo di Cardia, vivente al tempo della battaglia, i morti erano stati 7000 (Plutarco, Vita di Pirro 17, 4).

[9] Antioco di Siracusa, contemporaneo di Tucidide, faceva riferimento a Roma (Dionigi di Alicarnasso I 73, 4); Aristotele alludeva al sacco della città da parte dei Celti (Plutarco, Vita di Camillo 22, 3); e Teopompo se non altro menzionava Roma (fr. 317 Jacoby). Cfr. inoltre Dionigi di Alicarnasso I 72 ed E. Wikén, Die Kunde der Hellenen, passim.

[10] Sembra che ogni collegio sacerdotale conservasse i suoi fasti (CIL I 1976-2010). Quelli dei pontefici erano molto antichi (Dionigi di Alicarnasso III 36; cfr. V 1) e alcuni sopravvissero al sacco dei Galli, come si desume da Livio (VI 1, 10, VI 1, 2). Una famosa emendazione del De legibus I 2, 6, vorrebbe che Cicerone definisse «scarne» queste cronache dei pontefici; egli, tuttavia, si riferisce allo stile più che al contenuto. In realtà, le tabulae contenevano una grande quantità di informazioni: menzionavano carestie di grano ed eclissi di sole e di luna, secondo Catone (Aulo Gellio II 28, 6; cfr. Dionigi di Alicarnasso I 74) e probabilmente molto di più, se la lunghezza degli Annales maximi è significativa. Gli Annales erano in 80 libri: in altre parole, più estesi dell’opera di Livio (si veda Cicerone, De oratore II 52; Festo, p. 113 Lindsay; Macrobio III 2, 17; Servio, Ad Aeneidem I 373; cfr. Livio I 31, 32, 60, e, in particolare, Sempronio Asellione, fr. 2 Peter). Presumibilmente, le tabulae pontificum compilate durante le guerre sannitiche (vale a dire, dopo il sacco di Roma da parte dei Galli) si conservarono intatte fino ai tempi in cui si cominciò a scrivere storia e almeno dalla guerra di Pirro in poi furono redatte secondo un preciso ordine cronologico (Plinio il Vecchio, Naturalis historia XI 186). Il materiale contenuto nelle cronache dei sacerdoti poteva essere integrato con quello fornito da ballate popolari ed elementi di folclore, cui fanno allusione numerosi scrittori antichi (Varrone in Nonio, p. 77; Livio II 61, 9; Orazio, Carmina IV 15, 29-32; Dionigi di Alicarnasso I 79, 10; VIII 62, 3; Valerio Massimo II 1, 10; Plutarco, Vita di Numa 5, 3).

[11] Gli Annales maximi erano tutt’altro che succinti (si veda la nota precedente). Dovevano essere infarciti di abbondante materiale inventato. Dei due particolari che si sa per certo che vi erano riferiti, uno è un’evidente falsificazione (è un verso di poesia presentato come un verso popolare latino, ma, in realtà, semplicemente una traduzione da Esiodo: Aulo Gellio IV 5, 6). L’altro è probabilmente autentico: si tratta di un’eclissi di sole (5 giugno, circa 350 A.U.C.) menzionata da Ennio, che l’aveva trovata nelle cronache dei pontefici (Cicerone, De re publica I 25). Ennio, tuttavia, al pari di Catone (fr. 77 Peter) si servì delle cronache dei pontefici prima che venissero rielaborate, e contaminate, come Annales maximi. Non è facile identificare le aggiunte fittizie degli Annales maximi, ma la saga di Camillo, certamente più tarda di Fabio Pittore, è quasi di sicuro una di esse (M. Sordi, I rapporti romano-ceriti, p. 46).

[12] La versione tradizionale sembra confermata dagli scarsi frammenti di scrittori greci che ci sono pervenuti.

[13] Cfr. in particolare M. Gelzer in Hermes 68 (1933), pp. 129-166.

[14] Non avrebbero certo potuto passare sotto silenzio i Sanniti quando descrivevano le attività dei vari condottieri mercenari di Taranto (Plinio il Vecchio, Naturalis historia III 98; Plutarco, Agesilao 3; Lico, fr. 1, 2, in Müller, FHG II, p. 371). Sappiamo che Teopompo mostrò scarso interesse per i Romani (Plinio il Vecchio, Naturalis historia III 57). Geronimo, invece, non li trascurava (Dionigi di Alicarnasso I 6, 1).

[15] È per lo più impossibile, tuttavia, stabilire quali elementi risalgano alle tabulae pontificum e quali siano raccolti da archivi familiari o da altre fonti. Tiberio Corucanio, console nel 280, era certamente uno degli eroi che comparivano nelle cronache sacerdotali (Cicerone, Brutus 14, 55). Non abbiamo notizie precise sui Libri magistratuum di Gaio Tuditano (Macrobio I 13, 21) né sui Libri lintei a cui attinse Licinio Macro (Livio IV 1, 2; IV 20, 8; IV 23, 2; cfr. Dionigi di Alicarnasso XI 62, 3; R.M. Ogilvie in JRS 48 [1958], pp. 40-56).

[16] Plinio il Vecchio, Naturalis historia XXXV 7; Cicerone, Brutus 16, 62; Livio VIII 40; Plutarco, Vita di Numa 1 (dove cita un certo Clodio). Viene da chiedersi se le grandi famiglie plebee, una volta ottenuta l’uguaglianza politica, non si siano date a fabbricare archivi per gareggiare con i loro rivali patrizi.

[17] Appio Claudio Cieco, il famoso censore del 312, era, secondo Cicerone (Tusculanae disputationes IV 1, 4), un uomo di lettere ed evidentemente narrò i suoi successi nella guerra sannitica: in quella circostanza egli dedicò un tempio a Bellona (Livio X 19, 17), che sappiamo era adornato da scudi che esaltavano le imprese dei Claudii (Plinio il Vecchio, Naturalis historia XXXV 12; deve riferirsi all’anno 312 e non al 495). Generali di epoche successive che descrissero le proprie operazioni (in lettere, dobbiamo riconoscere) furono Scipione Africano (a Nova Carthago: Polibio X 9, 3) e Scipione Nasica (a Pydna: Plutarco, Vita di Emilio Paolo 15, 3).

[18] Viene subito in mente il caso di Fulvio Nobiliore e di Ennio.

[19] Livio VIII 22, 2; VIII 37, 8; Valerio Massimo VIII 1, 7; Plutarco, Quaestiones Romanae 54, 59; Polibio XXXIX 1, 4; Plinio il Vecchio, Naturalis historia XI 186; R.M. Ogilvie, Commentary on Livy, Books I-V, Oxford 1965, pp. 12-16.

[20] Cfr. T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, New York 1951, per gli anni 431, 332, 304, 221, 150, 141.

[21] Cfr. Dionigi di Alicarnasso III 36, 4; A. Schwegler, Römische Geschichte, I, pp. 24 s.; F. Münzer, RE XVIII (1949), s.v. Papirius, nn. 1-5, coll. 1005-1006.

[22] Livio X 17, 11-12 (= 296); X 22, 1-2 (= 295); XXIII 22, 8 (= 216); XXVIII 45, 2 (= 205). Tre Fabii furono consecutivamente pontifices maximi, coprendo un arco di tempo pari quasi all’intero periodo delle guerre sannitiche: essi furono quindi in una posizione ideale per falsificare la documentazione.

[23] Cfr., per esempio, Livio IX 42, 3; X 15, 2; X 18, 7; X 19, 2-3; X 23, 4; X 30, 7; e cfr. CIL I², Elogia X, p. 192. Il fatto che i Postumii fossero sfortunatamente coinvolti più tardi, durante l’età repubblicana, in alcune disfatte romane, per esempio nella silva Litana (Polibio III 118, 6; Livio XXIII 24, 6; Frontino I 6, 4), nella guerra giugurtina (Sallustio, De bello Iugurthino 38) e nella guerra sociale (Livio, Periochae 72, 75), rafforzò l’immagine negativa creata dal disastro delle Forche Caudine.

[24] Per il periodo della prima e della seconda guerra sannitica, nei Fasti triumphali sono registrate solo tre dittature, mentre Livio ne menziona quasi trenta (F. Cornelius, Untersuchungen, p. 36).

[25] Nel periodo delle guerre sannitiche, per esempio, i consolati ripetuti di solito sono divisi da un intervallo di tempo ragionevole, e sembrano plausibili (prima del 343 si succedevano spesso a intervalli molto brevi: il che, però, era forse inevitabile, quando i consoli provenivano soltanto dalle poche famiglie patrizie).

[26] Fra i consoli che si ammalarono, citiamo Lucio Furio Camillo nel 325 (Livio VIII 29, 8), Publio Decio Mure nel 312 (Livio IX 29, 3), Tito Manlio Torquato nel 299 (egli morì: Livio X 11, 1) e Lucio Postumio Megello nel 294 (Livio X 32, 3).

[27] Plinio il Vecchio, Naturalis historia VIII 11. Viene però da chiedersi se Catone non sia stato il principale autore di molte delle leggende che si andarono creando attorno a grandi eroi plebei, quali Manio Curio Dentato e Gaio Fabrizio Luscino, che egli ammirava molto (Cicerone, Cato maior 15, 15; De re publica III 28, 40; Plutarco, Vita di Catone il Vecchio 2).

[28] Talvolta il dilemma di Livio riflette probabilmente, più che le rivalità fra famiglie, la lotta fra gli ordini: secondo le preferenze dell’annalista, la stessa vittoria veniva attribuita al console patrizio o a quello plebeo.

[29] I “Nuovi Annalisti” non conoscevano i Fasti nella loro forma attuale, che sembra in buona parte il frutto delle ricerche di Varrone. La loro narrazione sarebbe stata probabilmente più sobria, se fossero stati a conoscenza della sua ricostruzione.

[30] L’atteggiamento di Livio si può dedurre dalle sue stesse parole (X 31, 15): Quinam sit ille quem pigeat longinquitatis bellorum scribendo legendoque quae gerentes non fatigaverint? Per alleviare la noia si poteva ricorrere all’aggiunta di particolari pittoreschi, tanto più che quello delle guerre sannitiche fu comunque il vero periodo di grandezza della storia romana: Illa aetate quae nulla virtutum feracior fuit (IX 16, 19).

[31] Si vedano le osservazioni di A. Alföldi, Early Rome and the Latins, pp. 123-175.

[32] Si veda Cicerone, De oratore II 54. Livio menziona Fabio Pittore (VIII 30, 9; X 37, 14), ma ciò non prova che egli se ne sia servito direttamente.

[33] Fabio Pittore non viene di solito incluso fra i “Vecchi Annalisti”, benché non sia certo che egli non abbia impiegato il metodo annalistico. Livio non fa menzione di Cassio Emina, ma cita Calpurnio Pisone (IX 44, 3; X 9, 12). Di quest’ultimo si servì anche Diodoro, a giudicare dal fatto che egli non registra nessun evento per l’anno 307 della cronologia varroniana (tale anno fu omesso da Pisone: Livio IX 44, 3). Almeno uno dei “Vecchi Annalisti”, Gneo Gellio, sembra aver scritto in modo trascurato e prolisso (Dionigi di Alicarnasso VI 11, 2; VII 1, 4).

[34] Gli Annales di Calpurnio Pisone erano «scritti in stile arido» (exiliter scriptos): Cicerone, Brutus 27, 106.

[35] Non che egli li nomini di frequente nella sua narrazione delle guerre sannitiche: Elio Tuberone (X 9, 10), Claudio Quadrigario (VIII 19, 3; IX 5, 2; X 37, 13), Licinio Macro (VII 9, 4; IX 38, 16; IX 46, 4; X 9, 10); ma cita spesso quidam auctores, espressione con cui si ritiene venga indicato di solito Valerio Anziate. E, inoltre, sembra che anche Tuberone si sia servito di quest’ultimo. Cfr. A. Klotz, Livius und seine Vorgänger, pp. 201-297; R.M. Ogilvie, Commentary on Livy, p. 5.

[36] Le guerre sannitiche sono viste in questa luce da Cicerone (De officiis I 38), Livio (VIII 23, 9; X 16, 7), Diodoro (XIX 101, 7; XX 80, 3), Dionigi di Alicarnasso (XVII-XVIII 3) e Appiano (Storia sannitica IV 1, 5).

[37] Cicerone, De legibus I 2, 7 (a proposito di Licinio Macro).

[38] Concessum est rhetoribus ementiri in historiciis ut aliquid dicere possint argutius (Cicerone, Brutus 11, 42, forse, però, detto ironicamente). Gli storici ellenistici potevano fornire il materiale con cui gli scrittori romani del tardo I secolo abbellirono le loro narrazioni delle guerre sannitiche: per esempio, il paragone tra Fabrizio e Aristide (Cicerone, De officiis III 87), la morte di Aulio Cerretano (Livio IX 22, 7-10; cfr. Diodoro XVII 20, 21, 34), la dissertazione sui Romani che potevano rivaleggiare con Alessandro Magno (Livio IX 17-18).

[39] Si noti l’allusione a falsi triumphi in Cicerone, Brutus 16, 62.

[40] Il Papio Brutulo del 323 (VIII 39, 12) deve senz’altro essere stato inventato sul modello del Papio Mutilo, famoso durante la guerra sociale.

[41] Ponzio Telesino, generale della guerra civile nell’82, si vantava di discendere dall’eroe della seconda guerra sannitica, Gavio Ponzio (Scholia Bernensia a Lucano II 137, p. 59). I Pontii vivevano certamente a Telesia (ILS 6510) e alcuni scrittori antichi attribuiscono effettivamente a Gavio Ponzio il cognomen Telesino (Eutropio X 17, 2; Ampelio 20, 10; 28, 2; De viris illustribus 30, 1).

[42] La disfatta romana alle Forche Caudine non era un’invenzione. A parte il fatto che è molto improbabile che gli storici romani inventassero una tale storia (o la diffondessero), la rovina politica che travolse le famiglie dei consoli implicati basta a garantire l’autenticità dell’evento (dopo il 321 i plebei Veturi Calvini non ricompaiono più nei Fasti consulares, mentre bisogna arrivare al 242 per vedervi riapparire un Postumio Albino). Naturalmente questo non prova che Ponzio fosse il generale sannita vittorioso, ma è significativo che egli fosse un Sannita delle cui personalità i Romani avevano un concetto molto chiaro (cfr., per esempio, Cicerone, De officiis II 75).

[43] Sulle genealogie familiari, cfr. Cicerone, Orator 34, 120; Cornelio Nepote, Vita di Attico 19, 1-2.

[44] Plinio il Giovane, Epistulae III 5, 10.

[45] Cfr. P. Zancan, Floro e Livio, passim.

[46] Egli doveva ovviamente essere a conoscenza degli eventi occorsi nei primi otto anni della seconda guerra sannitica, che includevano il non certo trascurabile episodio delle Forche Caudine (XIX 10, 1).

[47] Presumibilmente egli scelse degli avvenimenti che riteneva potessero interessare di più i lettori greci.

[48] Cfr., per esempio, A. Schwegler, Römische Geschichte, II, pp. 22-23.

[49] B.G. Niebuhr, Römische Geschichte, II, p. 192; T. Mommsen, Römische Chronologie, Berlin 1859², pp. 125-126, e Römische Forschungen, II, pp. 221-296; la fonte di Diodoro avrebbe compreso i cosiddetti “anni dittatoriali”: A. Klotz in RhM 86 (1937), p. 207.

[50] Cfr. G. Costa in A&R 12 (1909), pp. 185-189, e, più recente e più sobrio, G. Perl, Diodors römische Jahrzählung, p. 161.

[51] Può darsi, ovviamente, che egli si sia servito di materiale tratto dai primi storici romani, ma, del resto, Livio fece altrettanto.

[52] Diodoro I 4, 4; cfr. anche XI 53, 6. È senz’altro possibile che la sua abitudine di chiamare l’Italia sudorientale Apulia (XIX 65, 7) oltre che Iapygia (XIV 117, 1; XX 35, 2; XX 80, 1) derivi dal fatto che egli si serviva di più di una fonte. Il nome che egli utilizza per i Sanniti, Σαμνίτες (XVI 45, 8; XIX 10, 1; XIX 65, 7, ecc.), rimanda anch’esso a una fonte latina.

[53] Calpurnio Pisone tralasciava l’anno 307 della cronologia varroniana (Livio IX 44, 3); Diodoro (XX 45, 1) non registra nessun evento della storia romana per quell’anno.

[54] La sua errata descrizione del comportamento di Fregellae durante la seconda guerra sannitica (XIX 101, 15) si spiega con gli eventi verificatisi in quella città nel 125.

[55] E. Gabba, Appiano e la Storia delle guerre civili, Firenze 1956. Ma non c’è dubbio che la fonte di Appiano si interessasse della questione italica e fosse ben informata in proposito.

Le 𝑂𝑟𝑖𝑔𝑖𝑛𝑒𝑠 di Catone, la prima opera storica in latino

cfr. G.B. Cᴏɴᴛᴇ, E. Pɪᴀɴᴇᴢᴢᴏʟᴀ, 𝐿𝑒𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑑𝑖 𝑙𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟𝑎𝑡𝑢𝑟𝑎 𝑙𝑎𝑡𝑖𝑛𝑎. 1. 𝐿’𝑒𝑡𝑎̀ 𝑎𝑟𝑐𝑎𝑖𝑐𝑎 𝑒 𝑟𝑒𝑝𝑢𝑏𝑏𝑙𝑖𝑐𝑎𝑛𝑎, Milano 2010, 139-140; F. Pɪᴀᴢᴢɪ, A. Gɪᴏʀᴅᴀɴᴏ Rᴀᴍᴘɪᴏɴɪ, 𝑀𝑢𝑙𝑡𝑎 𝑝𝑒𝑟 𝑎𝑒𝑞𝑢𝑜𝑟𝑎. 𝐿𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟𝑎𝑡𝑢𝑟𝑎, 𝑎𝑛𝑡𝑜𝑙𝑜𝑔𝑖𝑎 𝑒 𝑎𝑢𝑡𝑜𝑟𝑖 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑙𝑖𝑛𝑔𝑢𝑎 𝑙𝑎𝑡𝑖𝑛𝑎. 1. 𝐷𝑎𝑙𝑙’𝑒𝑡𝑎̀ 𝑎𝑟𝑐𝑎𝑖𝑐𝑎 𝑎𝑙𝑙’𝑒𝑡𝑎̀ 𝑑𝑖 𝐶𝑒𝑠𝑎𝑟𝑒, Bologna 2004, 283-285.

 

La prima grande opera storica romana è scritta da un protagonista importante della Repubblica, Catone il Censore, tradizionalmente noto per il rigido conservatorismo etico e per la fiera opposizione alla politica degli Scipiones. Dopo i primi tentativi compiuti dalla storiografia senatoria, di tradizione annalistica ma in lingua greca, le Origines di Catone ritornano, polemicamente, al latino degli annales pontificum, le registrazioni ufficiali, affidate alla casta religiosa, dei fatti memorabili per la civitas romana. L’opera del Censore, dunque, supera sia le ricostruzioni dei poeti, sia le annotazioni annalistiche, sia le narrazioni di Fabio Pittore e Cincio Alimento. Costoro, in particolare, avevano scelto di adottare il greco, allora lingua “internazionale”, con l’intento di propagandare l’emergente potenza romana in Oriente e procurarle le simpatie dei regni ellenistici. Ma ciò non era più necessario da quando, concluse le guerre contro Antioco III di Siria, i Romani erano ormai padroni del Mediterraneo.

Delle Origines rimane il riassunto che ne fa Cornelio Nepote nella Vita di Catone e un centinaio di frammenti. Secondo Nepote, Catone avrebbe intrapreso la scrittura dell’opera dopo i sessant’anni (senex historias scribere instituit), quindi dopo il 174, ed è probabile che attendesse alla composizione dell’ultimo libro poco prima della morte; infatti, Cicerone, nel dialogo Cato maior de senectute che si immagina ambientato nel 150, fa dire all’anziano senatore: Septimus mihi liber Originum est in manibus (Cato 38). Secondo Nepote, l’opera abbracciava in sette libri il periodo dalle origini di Roma (libro I) e delle altre città italiche (II-III) alle guerre puniche (IV-V), fino alla praetura di Sulpicio Galba, vincitore dei Lusitani nel 151 (VI-VII). Il maggiore spazio è accordato agli avvenimenti più recenti e contemporanei all’autore ed è posto in rilievo, dall’homo novus e sabino Catone, il contributo alla potenza di Roma dato dalle città italiche, per la prima volta considerate importanti come l’Urbe.

Ritratto virile di patrizio romano. Busto, marmo, fine I sec. a.C. ca. Firenze, P.zzo Medici-Riccardi.

Le Origines, che dovevano essere intese anche a diffondere i principi dell’azione politica dell’autore, erano dunque la prima opera storica in latino: Catone vi ostentava derisione e disprezzo per l’annalistica romana in greco; la sua ironia, lungi dall’essere frutto di un ottuso provincialismo, era sintomatica di una nuova epoca: ormai vincitrice incontrastata, divenuta prima potenza del Mediterraneo, Roma poteva orgogliosamente reclamare l’uso della propria lingua, anche di fronte alle nazioni straniere.

La prima storiografia romana era stata elaborata da uomini politici appartenenti all’élite senatoria, ma mai di primo piano. Il caso di Catone, invece, era quello di un personaggio politico tra i più eminenti, che decideva di dedicarsi anche alla composizione di opere storiche; un caso, appunto, destinato a rimanere isolato nella cultura latina. Con Catone, quindi, alla nascente storiografia latina viene conferito soprattutto un vigoroso impegno politico: nelle Origines avevano largo spazio le preoccupazioni dello statista per la dilagante corruzione dei costumi e la rievocazione delle battaglie che lui stessi aveva condotto in nome della saldezza della res publica, contro l’emergere di singoli personaggi di prestigio e del culto sfrontato delle personalità. Catone non si limitava a lasciar filtrare nell’opera echi delle proprie polemiche, ma vi riportava addirittura alcune delle sue orazioni tenute in Senato. Inoltre, privilegiava la storia contemporanea, alla quale dedicava tre libri su sette – una quota notevole di un’opera che pretendeva di rifarsi molto indietro, alle origini stesse della Città. Senza contare che la trattazione si faceva più dettagliata ma mano che ci si avvicinava all’epoca dell’estensore: gli ultimi due libri abbracciavano, appunto, meno di un cinquantennio di eventi della politica contemporanea.

A ogni modo, le Origines esprimevano in modo particolare la categoria antropologica squisitamente romana della superiorità del passato, confermata anche dall’opposizione lessicale maiores/minores che designava gli antenati e gli epigoni. In tale struttura mentale è appunto implicita la convinzione che, per conoscere un popolo, sia necessario risalire alle sue “origini”, ovvero che nel passato stia ogni spiegazione del presente e che le regole per comportarsi di conseguenza vadano cercate nella tradizione.

Anche per opporsi al nascente culto carismatico delle grandi personalità che emergevano sulla scena politica, Catone elaborò una concezione originale della storia di Roma, che insisteva soprattutto sulla lenta formazione della res publica e delle sue istituzioni attraverso i secoli e le generazioni; la creazione dello Stato era vista come l’opera collettiva del populus Romanus stretto intorno alla classe dirigente senatoria; allo stesso modo anche le vittorie militari erano presentate come il risultato di un anonimo sforzo corale. Mentre la storiografia aristocratica doveva contenere spunti celebrativi, nominando le gestae dei singoli generali, che appartenevano perlopiù alle gentes, Catone non faceva i nomi dei condottieri romani e neppure di quelli stranieri: neppure lo stesso Annibale era nominato, ma designato con il titolo generico di dictator Carthaginensium. Era, insomma, una concezione diametralmente opposta a quella prosopografica cara ai filelleni, che giudicavano la storia come prodotto delle azioni di grandi personalità. Talora, per opposizione, Catone sceglieva di portare in luce le azioni, e forse anche i nomi, di personaggi oscurissimi: soldati semplici o ufficiali di truppa, che però rappresentavano la virtù collettiva dello Stato romano.

Soldato romano con clipeus e hastae. Rilievo su base di colonna, marmo, I sec. d.C. da Mogontiacum. Mainz, Landesmuseum.

Un chiaro intento dell’opera, dunque, era quello di dimostrare la pari dignità, se non la superiorità, dei comandanti romani rispetto a quelli greci. In un passo riportato integralmente da Aulo Gellio, un tribuno militare che consente con il sacrificio della propria vita di salvare il grosso dell’esercito era paragonato a Leonida alle Termopili: Leonides Laco, qui simile apud Thermopylas fecit, propter eius uirtutes omnis Graecia gloriam atque gratiam praecipuam claritudinis inclitissimae decorauere monumentis: signis, statuis, elogiis, historiis aliisque rebus gratissimum id eius factum habuere; at tribuno militum parua laus pro factis relicta, qui idem fecerat atque rem seruauerat («La Grecia tutta onorò per il suo valore lo spartano Leonida, che alle Termopili compì un atto simile, con busti, statue, epigrafi elogiative, opere storiografiche e menzioni di altro genere; invece, al tribuno militare che pure aveva compiuto un’identica impresa e aveva salvato la situazione, è stata assegnata una lode modesta in rapporto all’atto compiuto», Noct. Att. III 7).

Per altri versi, le Origines mostravano una notevole apertura di orizzonti: Catone si interessava vivamente alla storia delle popolazioni italiche, altrimenti negletta dalla storiografia ufficiale, e metteva in rilievo il loro contributo alla grandezza del dominio romano e alla costruzione di modello di vita basato su rigore e austerità di costumi. Inoltre, l’autore dimostrava interesse per i popoli stranieri e per le loro usanze e soprattutto, per certi costumi delle popolazioni africane e iberiche, i particolari che forniva dovevano risalire a una personale osservazione diretta, perché Catone era stato a contatto con quei popoli durante la sua esperienza militare. Tale interesse etnografico lo avvicina in parte ad alcuni storici greci, come Eforo e Timeo: Pleraque Gallia duas res industriosissime persequitur, rem militarem et argute loqui («Nella maggior parte della Gallia, due sono le attività che riscuotono il massimo interesse: l’arte militare e il parlar bene», fr. 34 Peter); Dotes filiabus suis non dant («Non danno dote alle loro figlie», fr. 94 Peter). In particolare, il secondo frammento attesterebbe una sensibilità antropologica più interessata alle differenze che alle somiglianze, già influenzata dalla letteratura paradossografica greca dei mirabilia, cioè delle stranezze, dell’inusitato, dei comportamenti incomprensibili all’orizzonte culturale dell’autore e perciò affascinanti. Un altro frammento allude al carattere mendace dei Liguri, un altro ai maiali allevati dai Galli, così grossi da non riuscire più a muoversi. Il primo dei frammenti che segue descrive il metodo singolare per trasportare l’acqua seguito dai Libui, gente gallica dell’Italia alpina; il secondo parla di miniere inesauribili e di un vento insostenibile:

 

Libui, qui aquatum ut lignatum uidentur ire, securim atque lorum ferunt, gelum crassum excidunt, eum loro conligatum auferunt.

 

Pare che i Libui vadano a prender l’acqua come si fa con la legna: portano sul posto una scure e una corda, tagliano un blocco di ghiaccio e se lo portano via legato alla corda (fr. 33 Peter).

 

Sed in his regionibus ferrareae, argentifodinae pulcherrimae, mons ex sale mero magnus: quantum demas, tantum adcrescit. Ventus Cercius, cum loquare, buccam implet, armatum hominem plaustrum oneratum percellit.

 

Ma in queste regioni vi sono miniere di ferro e d’argento eccezionali, c’è un gran monte di sale puro: tanto ne estrai, altrettanto ne ricresce. Il vento Cercio, mentre parli, ti riempie la bocca ed è in grado di travolgere un uomo con tanto di corazza e un carro a pieno carico (fr. 93 Peter).

 

Sempre dalla storiografia greca dipendono l’uso di inserire intere orazioni nel corpo della narrazione, come l’Oratio pro Rhodiensibus, pronunciata nel 167 per impedire la guerra contro Rodi, e l’interesse per le ktíseis, le “fondazioni di città” (di qui forse anche il titolo Origines). A questo proposito, si è ipotizzato che i primi tre libri dell’opera catoniana fossero un adattamento nella letteratura latina delle storie di fondazione; anche Fabio Pittore, all’inizio della sua opera, aveva posto una ktísis dell’Urbe. Si è pensato, allora, che le fonti di Catone riguardassero fondazioni di città italiche e che un modello possibile fosse Timeo di Tauromenio. In effetti, si riscontrano nei frammenti delle Origines punti di contatto con le leggende di fondazione: nel fr. I 18 Chass. Servio descrive, riferendosi all’autorità di Catone, un rito di fondazione secondo il modello etrusco. La procedura, nota anche da altre fonti, prevedeva che si aggiogassero all’aratro un toro e una vacca, che si tracciasse un solco in corrispondenza del tracciato delle future mura, sollevando l’aratro in corrispondenza delle porte. Il frammento citato da Servio senza riferimento a un libro preciso delle Origines è di solito attribuito alla fondazione di Roma. In ogni caso, il passo testimonia l’attenzione dell’autore per la descrizione degli adempimenti religiosi legati a tali procedure.

Rito di fondazione della città. Rilievo, calcare locale. Aquileia, Museo Archeologico Nazionale.

Lo stile della prosa storica di Catone è ben diverso dal fluido latino di Cicerone e degli storici successivi. La specificità della prosa catoniana si misura non solo nella presenza di arcaismi lessicali e morfologici, ma soprattutto a livello sintattico, nella netta prevalenza della paratassi, cioè nella giustapposizione di proposizioni coordinate, laddove la prosa classica – ciceroniana – avrebbe poi preferito la rigorosa struttura ipotattica del periodo, che rende espliciti i rapporti logici (di prima-dopo, di causa-effetto, di premessa-conseguenza, ecc.) tra le sue parti. Con il Censore la prosa latina non aveva ancora trovato la propria misura “classica”, come dimostrano certi anacoluti e asimmetrie nella costruzione del periodo, la ripetizione di parole a breve distanza, la densità dei pronomi (soprattutto is, ille). Si tratta, insomma, di caratteristiche tipiche della prosa tecnica: brevità, gravità arcaica, paratassi, parallelismi, anafore, allitterazioni, neologismi, ecc.). Tuttavia, lo stile è più elaborato, più attento ai dettami di quella retorica greca alla quale – come Catone consiglia di fare al figlio – non bisogna conformarsi ciecamente, ma conviene pur sempre darci un’occhiata: Eorum litteras inspicere, non perdiscere («Buttare un occhio sulla loro letteratura, non impararla fino in fondo», fr. 1 Jordan). Di qui l’uso di tutti quegli espedienti retorici tipici (sillogismo, exempla ficta, artifici argomentativi, ecc.) che avrebbero indotto Sallustio a proclamare Catone Romani generis dissertissimus e a farne un modello da imitare.

***

Bibliografia

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Cʜᴀssɪɢɴᴇᴛ M. (ed.), Caton, Les Origines (Fragments), Paris 1986 [lesbelleslettres.com].

Dᴇʟʟᴀ Cᴏʀᴛᴇ F., Catone censore: la vita e la fortuna, Firenze 1969².

Mᴀʀᴍᴏʀᴀʟᴇ E.V., Cato maior, Bari 1949.

Pᴇᴛᴇʀ H. (ed.), Historicorum romanorum reliquiae. Iteratis curis disposuit recensuit praefatus est, Lipsiae 1914² [archive.org].

 

Ovidio, i Fabii e la battaglia del Cremera

di A. Fraschetti, in MEFRA 110 (1998), p. 737-752.

 

 

1.

 

Un puntuale confronto tra i Fasti di Ovidio e i calendari epigrafici sia precedenti (p. es., i FAM) sia contemporanei (p. es., i Fasti Praenestini: e in tal caso il confronto appare tanto più importante poiché i Fasti Praenestini furono redatti da Verrio Flacco fra il 6 e il 9 d.C. dunque contemporaneamente a Ovidio che interruppe la redazione dei suoi nel 8 d.C.) documenta l’estrema precisione dei Fasti dello stesso Ovidio per quanto riguarda i giorni delle singole ricorrenze anniversarie. È una precisione del resto che non deve assolutamente stupire appena si pensi ad alcune esplicite dichiarazioni del poeta che si avrebbe torto a non prendere alla lettera: «quod tamen ex ipsis licuit mihi discere fastis…» (I 289), a proposito del dies natalis alle calende di gennaio del tempio di Esculapio e di Vediovis in insula; «ter quater evolvi signantes tempora fastos…» (I 657), a proposito delle Sementivae feriae, in quanto mobili evidentemente assenti dai calendari (I 659-660: «Cum mihi (sensit enim) ‘lux haec indicitut’, inquit / Musa, ‘quid a fastis non stata sacra petis?’»). Si tratta di una vera e propria acribia che induce talvolta Ovidio a consultare anche calendari di altre città («Quod si forte vacas, peregrinos inspice fastos»: III 87, quanto a marzo primo mese dell’anno a Roma prima della riforma di Numa, con persistenze invece – come dobbiamo intendere – in altri centri del Lazio); a proposito di giugno consacrato a Giunone non solo a Roma, ma anche ad Aricia, presso i Laurentes e a Lanuvium (VI 59-60: «Inspice quos habeat nemoralis Aricia fastos / et populus Laurens Lanuviumque meum»)[1].

Per quanto riguarda la più generale esattezza della registrazione dei giorni nell’ambito dei Fasti, va soprattutto messo in rilievo come Ovidio non solo dia conto di giorni che la maggior parte dei calendari epigrafici in qualche modo trascurano, ma come sempre Ovidio riporti giorni che gli altri calendari semplicemente omettono. Nel primo caso ciò avviene al 13 giugno, giorno dei Matralia (VI 475 s.), a proposito del dies natalis del tempio di Fortuna al Foro Boario (VI 569 s.: «lux eadem, Fortuna, tua est auctorque locusque…»), dove il dies natalis di Fortuna segue nella registrazione calendariale quello del tempio di Mater Matuta, confrontandosi da questo punto di vista solo con i FAM e confermando – nella misura in cui il dies natalis di Fortuna segue quello di Mater Matuta – la priorità del tempio di Mater Matuta rispetto a quello di Fortuna[2].

 

Calendario rurale (Fasti PraenestiniCIL I2 1, p. = I.It. XIII, 2, 17 = AE 1898, 14 = 1922, 96 = 1953, 236 = 1993, 144 = 2002, 181 = 2007, 312). Marmo, ante 22 d.C. Roma, Museo Nazionale Romano.

 

2.

 

Le registrazioni completamente assenti dagli altri calendari sono relativamente numerose. Mi limito ad elencarle, con l’avvertenza che esse sembrano addensarsi nel mese di giugno:

 

1-9 giugno (VI 461-466): corrispondenza tra il giorno della vittoria di D. Iunius Brutus Callaicus (cos. 138 a.C.: MRR I, p. 487) sui Callaici nel 137 a.C. e giorno della sconfitta di Crasso a Carrhae[3]:

 

Tum sibi Callaico Brutus cognomen ab hoste

fecit et Hispaniam sanguine tinxit humum.

Scilicet interdum miscentur tristia laetis

nec populum toto pectore festa iuuant:

Crassus ad Euphratem aquilani natumque suosque

perdidit et leto est ultimus ipse datus.

 

2-18 giugno (VI 721-724): giorno del trionfo del dittatore A. Postumius Tubertus (MRR I, p. 63) su Equi e Volsci nel 431 a.C. (cfr. Liv. IV 29, 4 e I.It. XIII 1, p. 95 con p. 393):

 

Sicilicet hic olim Volscos Aequosque fugatos

viderat in campis, Algida terra, tuis;

Unde suburbano clarus, Tuberte, triumpho

vertus es in niveis, Postume, victor equis.

 

3-21 giugno (VI 763-766) : giorno della sconfitta al Trasimeno del console C. Flaminius nel 217 a.C. (MRR I, p. 242)[4]:

 

Non ego te, quamvis properabis vincere, Caesar,

si vetet auspicium, signa movere velim.

Sint tibi Flaminius Trasimenaque litora testes,

per volucres aequos multa monere deos.

 

4-22 giugno (VI 769): giorno della sconfìtta di Siface ad opera di P. Cornelius Scipio (MRR I, p. 312 per la promagistratura) e di Massinissa nel 203 a.C.:

 

Postera lux melior: superat Massinissa Siphacem.

 

Cn. Cornelio Blasio. Denarius, Roma 112-111 a.C. Ar. Recto: [Cn(aeus)] Blasio Cn(aei) f(ilius). Testa elmata di Scipione Africano, voltata a destra.
 

5-22 giugno (VI 770): sconfìtta e morte di Asdrubale al Metauro nel 207 a.C. (cfr. Liv. XVII 49):

 

et cecidit telis Hasdrubal ipse suis.

 

6-27 giugno (VI 792-794): dies natalis del tempio di Giove Statore votato da Romolo. A proposito di quest’ultimo, si osservi che Ovidio non è necessariamente in contrasto con l’indicazione dei FAM (I.It. XIII 2, p. 18), dove il dies natalis di uno dei templi di Giove Statore era posto al 5 settembre. Ovidio in effetti accenna solo alla fondazione romulea e sembra ignorare, ο almeno non accenna né alla costruzione vera e propria da parte di M. Atilius Regulus (cos. 294 a.C.: MRR I, p. 179) del tempio di Giove Statore nel Foro né a quella del tempio omonimo in circo Flaminio da parte di M. Caecilius Metellus Macedonicus (MRR I, p. 461) dopo il suo trionfo. In simili condizioni è molto probabile che il giorno 27 giugno indichi nei Fasti appunto il giorno della fondazione romulea, e non il dies natalis di uno dei due templi di epoca storica, dies natalis che doveva cadere appunto al 25 settembre, come indicano i FAM[5]:

 

Tempus idem Stator aedis habet, quam Romulus olim

ante Palatini condidit ora iugi.

Tot restant de mense dies quot nomina Parcis,

cum data sunt trabeae templa, Quirine, tuae.

 

7-30 giugno (VI 800-810): dies natalis del tempio di Hercules Musarum, dedicato da M. Fulvius Nobilior dopo la presa di Ambracia e il suo trionfo nel 187 a.C. (MRR I, p. 187), restaurato quindi da L. Marcius Philippus (cos. 56 a.C.: MRR II, p. 207) nel 29 a.C. Poiché Ovidio si diffonde a lungo sulla casta Marcia, matertera Caesaris, e poiché Marcia, figlia di L. Marcius Philippus e di Atia Minore, aveva sposato Paullus Fabius Maximus, amico e protettore del poeta, dal momento che il 30 giugno non compare in nessun altro calendario in rapporto al tempio di Hercules Musarum, ne dedurremo che quel giorno deve intendersi come il dies in cui L. Marcius Philippus aveva provveduto a una nuova dedica del tempio dopo la ricostruzione da lui intrapresa, con l’avvertenza che (se ce ne fosse stato bisogno) l’indicazione del giorno poteva essere fornita a Ovidio dalla stessa Marcia ο da suoi gentiles[6]:

 

Sic ego, sic Clio: «Clara monimenta Philippi

aspicis, unde trahit Marcia casta genus:

Marcia, sacrifico deduetum nomen ab Anco,

in qua par facies nobilitate sua est;

par animo quoque forma suo respondet in illa

et genus et facies ingeniumque simul;

nec quod laudamus formant, tu turpe putaris:

Laudamus magnas hac quoque parte deas.

Nupta fuit quondam matertera Cesaris illi:

ο decus, ο sacra f emina digna domo!».

 

Q. Pomponio Musa. Denarius, Roma 56 a.C. Ar. Verso: Hercules Musarum. Ercole Musagetes (‘conduttore delle Muse’), stante verso destra, vestito di leontea e suonante la lyra.

 

3.

 

È evidentemente impossibile precisare come Ovidio potesse giungere al 27 giugno come dies natalis della fondazione del tempio di Giove Statore. Da parte nostra basti mettere in rilievo che la registrazione del giorno poteva essere contenuta all’interno di tradizioni da ricondursi ad ambito genericamente pontificale. La puntuale registrazione di altri giorni poteva invece essere tramandata all’interno di singole tradizioni gentilizie: quelle dei Cornelii, dei Iunii, dei Postumii, relativamente ai loro esponenti P. Cornelius Scipio, D. Iunius Brutus Callaicus, A. Postumius Tubertus. Trattandosi di giorni di vittoria e in un caso di trionfo, evidentemente non stupisce che i rispettivi gentiles li avessero registrati puntigliosamente e continuassero a con servarne memoria. Molto diverso è il caso del disgraziatissimo 21 giugno, relativo alla sconfitta del Trasimeno. A questo proposito infatti la tradizione annalistica non si era premurata di registrare con esattezza il giorno, limitandosi ad annoverare quella disfatta inter paucas memoratas populi Romani clades (Liv. XXI 7, 1-5). Ovidio invece la registra con uno scopo – come egli stesso dichiara – eminentemente pratico: dissuadere Cesare (evidentemente, Cesare figlio) da signa movere in quel giorno si vetat auspicium: infatti proprio in quel giorno, poiché il console aveva trascurato gli auspicia che gli dei avevano inviato («per volucres aequos multa movere deos»), l’esercito condotto da C. Flaminius era stato distrutto (Fasti VI 763-766). Dedurremo dunque da questa notazione che Ovidio comprendeva almeno di fatto anche il dies del Trasimeno nel novero dei dies da cui bisognava in qualche modo guardarsi, benché esso non venisse esplicitamente registrato come tale nella parallela e documentata tradizione «antiquaria» pervenuta attraverso Verrio Flacco, Gellio e Macrobio in rapporto anche alla categoria dei dies proeliares[7].

Torneremo subito sulla categoria dei dies religiosi (per quanto riguarda naturalmente soprattutto l’Alliensis e il Cremerensis). Va però sottolineato in questo contesto come sempre Ovidio sia il solo a fornire il giorno esatto della morte (11 giugno) nel 90 a.C. del console P. Rutilius Lupus mentre combatteva contro i Marsi al fiume Tolenus. Pertanto, accanto all’uso di notizie tramandate da gentes quali quelle degli Scipiones, dei Iunii e dei Postumii, aggiungeremo nel caso specifico anche quelle attive presso i Rutilii. Con un’avvertenza ulteriore: nel caso dei primi si trattava di giorni tramandati a gloria delle famiglie di appartenenza; nel caso dei Rutilii Lupi a scopo non solo di esaltazione della stirpe (un cui membro era morto per la patria), ma anche per la celebrazione ogni anno – appunto l’11 giugno – di una parentatio in suo onore: quelle parentationes «private» che rientravano a pieno titolo nell’ambito dei gentilicia sacra e alle quali faceva cenno significativamente il pontefice Q. Fabius Maximus Servilianus (cos. 142 a.C.: MRR I, p. 474), negando che si potesse «atro die parentare, quia turn quoque Ianum Iovemque praefari necesse est, quos nominari atro die non oportet»[8].

L’uso documentato di parentationes annuali nell’ambito della nobilitas romana presuppone evidentemente l’esistenza di elenchi a uso interno del le gentes dove venivano registrati i giorni che comportavano, nell’ambito dei gentilicia sacra, parentationes in onore dei gentiles defunti[9]. Evidentemente solo così si spiega come la notizia dell’11 giugno quale giorno della morte di P. Rutilius Lupus, assente dalla tradizione annalistica, potesse giungere comunque fino a Ovidio, in modo analogo del resto alla precisazione del giorno della battaglia del Trasimeno, giorno anche della morte del console C. Flaminius. Pertanto – ed è un punto che è necessario sottolineare – tra le fonti di Ovidio – veri e propri calendari, le opere di carattere più propriamente storico (nel caso specifico soprattutto Livio) ο di natura che potremmo definire «antiquaria» (nel caso specifico soprattutto Varrone)[10] – debbono essere annoverate anche le tradizioni gentilizie, cui Ovidio poteva avere accesso sia direttamente per via orale (come, per quanto riguardava i Fabii e i Marcii Philippi, grazie a Paullus Fabius Maximus e a Marcia) sia anche ricorrendo (p. es., nel caso dei Rutilii Lupi) ad archivi di famiglia ο piuttosto, per evitare equivoci all’evenienza modernizzanti, a «carte di famiglia», fossero esse più ο meno ordinate e strutturate in veri e propri archivi[11].

 

Cavaliere romano. Bassorilievo, marmo, I sec. a.C. Particolare dalla tomba del prefetto Tib. Flavio Micalo. Istanbul, Museo Archeologico.

 

4.

 

A questo punto limitiamoci a una semplice constatazione. In presenza di tanta esattezza e di tanta puntualità nella registrazione dei giorni, la collocazione al 13 febbraio del dies Cremerensis risulterebbe non solo l’unico errore nell’indicazione di un giorno nell’ambito dei Fasti, ma anche un errore, come vedremo, assai singolare[12]. Di fatto per spiegare questo presunto «errore» sono state avanzate le ipotesi più diverse, a partire da quelle di Barthold Georg Niebuhr e di Theodor Mommsen, i quali pensarono che Ovidio avesse confuso la data della clades (18 luglio) con il giorno della partenza dei Fabii da Roma (13 febbraio), fino a quella, più recente, di Eckard Lefèvre, che da parte sua ritiene quello di Ovidio un errore dettato dalla necessità di rinvenire a tutti i costi, lontano da Roma, a Tomi, «con il coraggio della disperazione» («mit der Mute der Verzweiflung») il giorno della strage del Cremera, non potendo più ricorrere, mentre componeva in esilio questo settore dei Fasti, alla competenza «gentilizia» di Paullus Fabius Maximus, ma volendo comunque rendere omaggio al suo patrono potentissimo[13].

In simili condizioni, e nell’ambito di una discussione evidentemente ancora aperta, appare più proficuo riprendere in esame suggestioni già avanzate a proposito di tradizioni gentilizie fabie nella scelta ovidiana del giorno[14], benché sviluppandole qui in senso diverso.

È merito di Santo Mazzarino aver dimostrato la connessione indissolubile tra dies Cremerensis e dies Alliensis: tra quel disgraziatissimo 18 luglio 478 a.C. che aveva visto il sacrificio dei Fabii per Roma al fiume Cremera e il 18 luglio 390 a.C. giorno addirittura più disgraziato, poiché quanto avvenne appunto in quel giorno non aveva coinvolto una sola gens, ma la città nel suo complesso. Fu il giorno in cui – conseguentemente al comportamento dei legati Fabii che a Chiusi avevano violato il ius fetiale – la sconfitta al fiume Allia aprì ai Galli un 18 di luglio la strada per Roma. In tal modo, all’accusa di un loro rovinoso filo-etruschismo, i Fabii avrebbero contrapposto in seguito lo sterminio (quasi totale) della propria gens sempre un 18 di luglio per difendere in passato, appunto contro gli Etruschi, la ripa Veientana (non solo evidentemente a protezione della città, ma anche dei territori della propria tribù, quelli che si estendevano in corrispondenza appunto della tribù che recava il loro gentilizio)[15].

A rafforzare queste considerazioni possono eventualmente aggiungersi elementi ulteriori. P. es., che nel racconto dell’episodio ritenuto da Dionisio d’Alicarnasso il più credibile (ó δ’ έτερος, öv άληθέστερον είναι νομίζω περί τε της απώλειας των ανδρών…) lo scontro finale contro i Veienti non si svolgesse in un solo giorno, ma in due. In tal caso il dies Cremerensis dovrebbe essere quello – il secondo – che vide la sortita dei Fabii dal phrourion a soccorso dei compagni e poi lo sterminio finale dei Fabii asserragliatisi nuovamente nel phrourion e usciti di nuovo incontro ai nemici. Va comunque messo in rilievo come in entrambi i racconti di Dionisio (anche nel primo confrontabile evidentemente più da vicino con quello riportato da Livio e ritenuto sempre da Dionisio quello meno degno di fede), si faccia cenno a un fiume solo all’inizio: fiume da cui avrebbe avuto nome il «fortilizio» chiamato esso stesso Cremera[16]. In effetti, nella misura in cui Dionisio dichiarava di privilegiare il racconto a suo avviso più veritiero, evidentemente non poteva non ritenere più verosimile la tradizione che voleva i Fabii attestati su un’altura, piuttosto che lungo un fiume e di conseguenza in un luogo pianeggiante. Diversamente, la tradizione liviana faceva sempre esclusivo riferimento al fiume: è dal loro accampamento presso il fiume che i Fabii muoverebbero per compiere scorrerie nei tenitori circostanti, raccogliendosi su un’altura solo per lo scontro finale, quello in cui furono sterminati[17].

Quanto al giorno dello sterminio e alle sue eventuali, anche se leggere, oscillazioni, si noti del resto che anche chi, come l’annalista Cn. Gellius e Cassio Emina, stabiliva una corrispondenza tra dies Cremerensis e dies Alliensis poteva comunque collocare questa stessa corrispondenza non al 18 (a.d. XV kal. Sextiles) ma al 16 luglio (postridie idus Quintiles). Il giorno 16 luglio è un giorno peraltro da considerarsi evidentemente molto accreditato se esso poté essere indicato in senato dall’aruspice L. Aquinius non solo come quello della ricorrenza delle sconfitte dell’Allia e del Cremera, ma anche come esempio di combattimenti avvenuti in passato con esito nefasto «in molti altri tempi e luoghi» dopo sacrifici celebrati appunto in un giorno successivo alle idi[18].

Poiché l’unico calendario (dipinto) di epoca repubblicana a noi pervenuto è quello di Anzio e poiché questo calendario è relativamente tardo datandosi tra l’88 e il 55 a.C., non è escluso, ma anzi è estremamente probabile che calendari precedenti (anch’essi dipinti e appunto per questo irrimediabilmente perduti) registrassero il dies Alliensis non al 18 ma al 16 luglio (postridie idus Quintiles e non a.d. XV kal. Sextiles); che in altri termini alcuni calendari potessero dunque collocare il giorno dell’Allia e quello del Cremera nel giorno che era stato accolto in ambito annalistico da Cn. Gellius e Cassio Emina[19], diversamente dalla tradizione confluita più tardi in Livio e ben presto egemone in epoca augustea. Basti pensare al cenotafio di Pisa in onore di Gaio Cesare, il nipote e filius di Augusto morto nel 4 a.C. dove si proclamava come il giorno della scomparsa del giovane principe dovesse essere «tramandato a lugubre memoria» come appunto quello d’Allia, registrato al 18 luglio non solo – come abbiamo visto – nei FAM, ma più tardi anche nel calendario di Amiterno, databile poco dopo il 20 d.C.[20]

 

Guerriero etrusco. Bronzo, statua, V sec. a.C. dal Monte Falterona. London, British Museum.

 

5.

 

A partire dalla lieve oscillazione relativa al dies Alliensis (postridie idus Quintiles e non a.d. XV kal. Sextiles), il presunto «errore» ο la presunta «svista» di Ovidio (dies Cremerensis al 13 febbraio), collocando in quel giorno la strage dei Fabii, induce a riprendere in esame le stesse nutazioni calendariali relative al dies dell’Allia. Se quest’ultimo compare con una simile dicitura nel calendario dipinto di Anzio e in quello di Amiterno (redatto dopo il 20 d.C.) nel calendario marmoreo di Anzio – approntato nell’ambito della familia Caesaris attiva ad Anzio negli ultimi anni di Tiberio e nel primo anno di Caligola – poteva leggersi la singolare notazione dies Alliae et Fab(iorum). Con un’avvertenza, dal nostro punto di vista, rilevante: il calendario marmoreo di Anzio è un calendario molto preciso non solo a proposito delle feriae introdotte a partire da Augusto in onore del principe e della sua famiglia, ma anche per quanto riguarda le registrazioni delle antiche ricorrenze anniversarie della città repubblicana[21]. Ne dedurremo per tanto che il calendario marmoreo di Anzio da un lato faceva coincidere dies Alliensis e dies Cremerensis; d’altro lato che, definendo quel giorno «giorno dei Fabii», enfatizzava all’interno di un calendario, in uso presso la familia Caesaris di Anzio, una tradizione propria di una gens che – ne dedurremo – ancora in quel periodo aveva interesse a diffonderla e il cui esponente più importante in epoca augustea era stato il marito di Atia, matertera Caesaris: ancora una volta Paullus Fabius Maximus, morto – com’è ben noto – nel 14 d.C.[22]

Se evidentemente è molto difficile datare i diversi «strati» di redazione dei Fasti (prima e dopo l’esilio) con la nuova dedica a Germanico e gli inevitabili ritocchi che ne sono conseguiti, tuttavia ritenere l’episodio del Cremera composto lontano da Roma, e dunque per questo registrato con data inesatta, non è tanto segno della «disperazione» di Ovidio alla ricerca comunque di una data quanto piuttosto della «disperazione» di alcuni esegeti moderni alla ricerca comunque di una spiegazione (anche la meno verosimile). Benché sia molto probabile che Ovidio avesse composto almeno in stesura provvisoria i dodici libri dei Fasti prima di partire per l’esilio e che dunque avesse già trattato del dies Cremerensis all’interno del mese di febbraio prima di essere costretto a lasciare Roma nell’8 d.C.[23], per quanto riguarda nel caso specifico il giorno dell’Allia – che in epoca augustea veniva fatto corrispondere a quello del Cremera – possiamo ritenere sicuro che la sua ricorrenza anniversaria era ricordata con esattezza anche a Tomi, così da eliminare ogni ipotesi su una sua eventuale dimenticanza.

La circostanza, finora mai osservata in un simile contesto, si ricava da in Ibim 217-220 (un poemetto scritto quando il poeta era ormai lontano da Roma):

 

Lux quoque natalis, ne quid nisi trite videres,

turpis et inductis nubibus atra fuit:

haec est in fastis cui dot gravis Allia nomen:

quaeque dies Ibin, publica damna tulit.

 

Dunque, il giorno della nascita del nemico di Ovidio fu un giorno turpis e «nero» (ater) di nubi: significativamente era lo stesso giorno (dies religiosus, ma definibile all’evenienza anche ater) cui dava nome nei calendari (in fastis) il gravis Allia[24]. Ovidio naturalmente allude qui al 18 luglio, di cui aveva scritto nel settore perduto dei Fasti (nel caso specifico nel libro settimo), e come poteva avergli ricordato (se mai ce ne fosse stato bisogno) anche Paullus Fabius Maximus. Era un giorno peraltro che, vedendo la nascita di Ibis, aveva recato publica damna (danni all’intera città), appunto come aveva fatto il lugubre dies Alliensis, quando dopo la sconfitta i Galli si erano abbattuti su Roma. Se, come abbiamo visto, non può essere messa in discussione la specifica competenza di Ovidio in ambito calendariale, tanto meno questa competenza può essere messa in discussione in un caso come questo, relativo a un avvenimento di storia urbana non solo epocale, ma anche eminentemente infelice, di cui lo stesso Ovidio aveva già trattato.

 

Ricostruzione grafica dei Fasti Antiates, un calendario pre-giuliano. Frammenti da un affresco dalle rovine della villa di Nerone ad Anzio.

 

6.

 

A questo punto ci limiteremo da parte nostra a una semplice constatazione: Ovidio poneva il dies Cremerensis e il dies Alliensis in due giorni diversi e distinti: rispettivamente al 13 febbraio e al 18 luglio. Poiché non ci è pervenuta la parte dei Fasti relativa al dies Alliensis, è impossibile specificare le linee, anche generalissime, di quello che doveva esserne il racconto. È tuttavia molto probabile (o forse quasi sicuro) che fosse tenuto presente il racconto di quella sconfitta dato da Livio, in modo analogo del resto a quanto avviene – questa volta sicuramente – per l’episodio dei Fabii al Cremera[25]. La sostanziale dipendenza di Ovidio da Livio a proposito dello svolgimento del dies Cremerensis ripropone con forza il problema della differenza del giorno, che Livio collocava notoriamente al 18 luglio, mentre su questo punto specifico Ovidio – ponendolo al 13 febbraio – se ne allontanava: ed è un allontanamento tanto più da sottolineare poiché il giorno 18 luglio – successivo di due a quello indicato da Cn. Gellius e Cassio Emina – in epoca augustea era ormai evidentemente invalso.

Tra le molte spiegazioni che sono state avanzate nel tentativo di chiarire perché Ovidio «anticipasse» non di qualche giorno ma di circa cinque mesi l’episodio del Cremera, non poteva non essere evocato con forza il ruolo svolto da Paullus Fabius Maximus e dunque l’esistenza di una tradizione fabia che, muovendo da Paullus Fabius Maximus, sarebbe pervenuta a Ovidio: tradizione in cui il dies Cremerensis veniva collocato appunto in quel giorno. Sebbene mai discussa in dettaglio, così come è stata formulata, questa ipotesi non ha avuto molta fortuna per una semplice obiezione: l’obiezione che i Fabii – sia quelli dei decenni successivi alla catastrofe dell’Allia sia per tradizione gentilizia i Fabii dei secoli seguenti (compreso Paullus Fabius Maximus) – avrebbero avuto ogni interesse a non mettere in discussione, ma anzi a mantenere (e, se possibile, a rafforzare) quella corrispondenza, tanto più se si trattava – come ha riaffermato di recente anche Jean-Claude Richard – di una corrispondenza fittizia, stabilita in origine per riscattare i Fabii da una «colpa»[26].

Si osservi però che il 13 febbraio in riferimento alla strage del Cremera, per giungere comunque fino a Ovidio e superare all’evenienza il filtro di Paullus Fabius Maximus, doveva essere una ricorrenza accreditata presso gli stessi Fabii. Poiché, in caso contrario, Paullus Fabius Maximus non avrebbe mai permesso che Ovidio commettesse quell’«errore» ο in ogni caso avrebbe indotto il suo protetto a correggerlo. All’inizio, a proposito dei giorni riportati solo da Ovidio e assenti negli altri calendari in relazione a vittorie, a un trionfo, in una circostanza alla morte di esponenti della nobilitas, abbiamo fatto riferimento a tradizioni gentilizie dove quei giorni dovevano essere accuratamente registrati. Nel caso di P. Rutilius Lupus la registrazione del giorno (11 giugno) era tradita nell’ambito della sua gens non solo come motivo di orgoglio (in quanto, ripetiamo, P. Rutilius Lupus nel 90 a.C. era morto pro patria), ma anche poiché quella registrazione era necessaria allo scopo di compiere annualmente le doverose parentationes ai suoi Mani. Era doveroso e obbligatorio infatti da parte dei gentiles compiere parentationes annuali per i Manes dei propri defunti. E poiché queste parentationes rientravano a pieno titolo nel novero dei gentilicia sacra[27], possiamo ritenere sicuro che i Rutilii avessero registrato e quindi trasmesso con lo scrupolo più grande il giorno della morte del loro antenato. Di fatto, solo così si spiega come la notizia di questo giorno potesse giungere (ignoriamo per quali vie) fino a Ovidio. È opportuno comunque sottolineare che spesso poteva trattarsi di tradizioni orali relative alle varie famiglie romane, come quelle acquisite da Pomponio Attico in seguito alle indagini svolte grazie a Servilia a proposito dei Iunii e appunto dei Servili[28]. Quanto ai Fabii e al patrimonio di tradizioni attivo all’interno della loro gens, Paullus Fabius Maximus appare inevitabilmente l’informatore privilegiato di Ovidio: un informatore che certo non avrebbe mai permesso allo stesso Ovidio di sostituire invano un famosissimo 18 luglio con un «qualunque» 13 febbraio.

 

Scena di sacrificio. Bassorilievo, marmo, ante 79 d.C., dal Vespasianeum di Pompei.

 

7.

 

A Roma, però, il 13 febbraio non era un giorno qualunque, dal momento che esso vedeva da un lato l’apertura dei Parentalia (la novena in onore dei divi Parentes), d’altro lato la corsa scatenata dei Luperci. A partire dall’ora sesta, quando virgo Vestal(is) parentat (ed essa evidentemente non può che compiere parentationes a nome di tutta la città)[29], mentre le singole famiglie onorano i propri morti, la religiosa civitas, la città dei magistrati e dei sacerdoti appare in qualche modo ritrarsi, adottando apparati e dispositivi simbolici caratteristici per un periodo di nove giorni durante i quali i magistrati abbandonano le loro insegne di statuto, non si celebrano sacrifici e i templi degli dei sono chiusi[30]. In un simile contesto e in rapporto al problema da cui si sono prese le mosse, è necessario riportare l’annotazione di Polemio Silvio relativa a questo giorno: parentatio tumulorum inc[ipit], quo die Roma liberata est de obsidione Gallorum. Dunque, per Polemio Silvio che su questo punto specifico può confrontarsi con Plutarco[31], le idi di febbraio – che in Ovidio avevano visto la strage dei Fabii al Cremera – molti decenni dopo videro anche i Galli allontanarsi da Roma: una Roma che era stata occupata in seguito alla disfatta dell’Allia ma che aveva anche assistito al sacrificio gentilizio compiuto sul Quirinale a rischio della vita da C. Fabius Dorsuo. C. Fabius Dorsuo, un iuvenis, cinto secondo il rito gabino e con i sacra in mano, era disceso allora dal Campidoglio, dove si era asserragliato insieme ad altri iuvenes, aveva raggiunto il Quirinale attraversando gli avamposti nemici e sul Quirinale – come era necessario – aveva compiuto il sacrificium… statum… Fabiae gentis[32].

Destino dunque che sembra consueto all’interno della gens Fabia: compiere sacrifici gentilizi a evidente vantaggio di tutta la città. Infatti, secondo la tradizione non ritenuta credibile da Dionisio di Alicarnasso, il motivo che aveva spinto i trecento Fabii a muovere nel 478 a.C. dal loro avamposto presso Veio per recarsi a Roma, era stato appunto l’esecuzione di un sacrificio tradizionale (θυσίας… πατρίου) che la loro gens era incaricata di compiere (ην έδει το Φαβίων έπιτελέσαι γένος)[33]. Così nel 478 a.C. gli stessi Fabii si sarebbero sobbarcati al rischio di un viaggio di ritorno attraverso il territorio nemico per compiere quei riti a beneficio di tutta la città come più tardi nel 390 a.C. avrebbe fatto il loro gentilis C. Fabius Dorsuo per eseguire il suo sacrificio sul Quirinale: anch’esso, com’è chiaro, un sacrificio che doveva essere necessariamente compiuto da un membro dei Fabii.

Torniamo infine a Ovidio e al suo 13 febbraio come giorno della strage del Cremera. Contro ogni tentativo «normalizzatore» volto a ritenere semplicemente erroneo lo spostamento del giorno, è preferibile attenersi agli elementi in nostro possesso, costatando la circostanza che Ovidio poneva il dies Cremerensis al 13 febbraio e il dies Alliensis al 18 luglio. Poiché Ovidio è precisissimo – come abbiamo visto – nella registrazione dei giorni e poiché il vigile patronato di Paullus Fabius Maximus doveva impedirgli ogni eventuale inesattezza a proposito di episodi – soprattutto di episodi celebri – che avevano coinvolto la gens Fabia, dalla combinazione di questi elementi è necessario dedurre una conseguenza, anche se potrebbe apparire a prima vista abbastanza paradossale: la conseguenza che entrambi i giorni ricorrevano come giorni del dies Cremerensis all’interno della stessa gens Fabia.

Il primo era naturalmente il 18 luglio (almeno in ambito annalistico a partire da Fabio Pittore): giorno che, coincidendo con quello dell’Allia, era volto a sminuire la «colpa» dei Fabii nella conquista di Roma da parte dei Galli. Per il 13 febbraio, sebbene con ogni cautela, proporrei da parte mia un tentativo di spiegazione che non mortifichi le competenze di Ovidio: né in ambito di ricorrenze anniversarie né in ambito di tradizioni fabie.

Se il 18 luglio per la strage del Cremerà era un giorno esito di un’elaborazione posteriore così da farlo coincidere con la disfatta dell’Allia, il 13 febbraio poteva essere quello in cui i gentiles Fabii dei secoli successivi compivano parentationes per i Mani dei trecento Fabii sterminati dai Veienti nel 478 a.C. così come l’11 giugno i Rutilii compivano parentationes per i Mani di P. Rutilius Lupus morto al fiume Tolenus nel 90 a.C. Accanto a un giorno fatto corrispondere artificiosamente (il famoso ο addirittura famigerato 18 luglio), si sarebbe dunque conservata all’interno della gens Fabia, nel contesto delle cadenze annuali imposte dai gentilicia sacra, la memoria di un giorno diverso per le pratiche rituali che in esso dovevano compiersi. Così il 13 febbraio, quando la virgo Vestal(is) compiva parentationes per tutta la città, i Fabii a loro volta avrebbero compiuto quello stesso giorno parentationes peculiari alla loro stirpe. Nell’intreccio sottile che caratterizza i compiti cultuali (e non solo cultuali) dei Fabii, sempre in qualche modo in bilico tra pubblico e privato (quanto ai compiti cultuali basti pensare sempre il 13 febbraio nei riti al Lupercal alla presenza dei luperci Fabiani)[34], evidentemente non sorprende che gli stessi Fabii potessero compiere quel giorno parentationes per i loro trecento gentiles: di queste parentationes Paullus Fabius Maximus doveva essere sicuramente a conoscenza e anzi partecipe, così che la notizia potesse agevolmente giungere fino a Ovidio.

 

Lupercale. Altare votivo in onore di Marte e Venere. Bassorilievo, marmo, metà II sec. d.C. da Ostia. Museo Nazionale Romano di P.zzo Massimo alle Terme.

 

***

Note:

[1] Sui calendari delle città latine, in particolare di Lavinio, ved. da ultimo C. Ampolo, in CR, 38, 1988, p. 119; Id., L’organizzazione politica dei Latini ed il problema degli «Albenses», in A. Pasqualini (a cura di), Alba Longa. Mito, storia, archeologia, Roma, 1996, p. 135. Su marzo primo mese dell’anno U.W. Scholz, Studien zum altitalischen und altrömischen Marskult und Marsmythos, Heidelberg, 1970, p. 16-17.

[2] Vd. FAM in I.It. XIII 2, p. 12; sulla cronologia dei due templi F. Coarelli, Il Foro Boario dalle origini alla fine della Repubblica, Roma, 1988, p. 208 s., con critica alle precedenti ipotesi di Riemann, in GGA, 223, 1971, p. 81-82 e R. Thompsen, King Servius Tullius. A Historical Synthesis, Copenaghen, 1981, p. 275-276; cfr. ultimamente A. Ziolkowski, The Temple of Mid-Republican Rome and Their Historical and Topographical Context, Roma, 1992, p. 104 s.

[3] Vd., p. es., Β.A. Marshall, Crassus. A Political Biography, Amsterdam, 1977, p. 157 s. con p. 168 n. 86, con ulteriore bibl.

[4] Cfr. Liv. XXII 7,1-5, con la notazione inter paucas memorata populi Romani clades; quanto a C. Flaminius consul… inauspicatus e dunque implicitamente colpevole di quella disfatta Liv. XXI 63,7; Val. Max. I 6,6. Sul giorno della sconfìtta del Trasimeno vd. anche sotto, p. 742 con n. 9.

[5] Per l’indicazione dei FAM vd. I.It. XIII 2, p. 18. Cfr. in precedenza E. Aust, De aedibus sacris populi Romani inde a primis rei publicae temporibus usque ad Augusti imperatoris aetatem Romae conditis, Diss. Marburg, 1889, p. 12; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, 2^ ed., Monaco di Β., 1912, p. 123 n. 1; Α. Ziolkowski, The Sacra Via and the Temple of Iuppiter Stator, in OpRom, 17, 1989, p. 225 s.; Id., The Temples of Mid-Republican Rome cit., p. 88. Si discute naturalmente a quale dei due templi di epoca storica debba essere attribuita l’indicazione dei FAM: vd. in proposito A. Degrassi, in I.It., XIII 2, p. 508, che la attribuisce alla dedica di Q. Caecilus Metellus Macedonicus; cfr. tuttavia anche S.B. Platner e T. Ashby, A Topographical Dictionary of Ancient Rome, Oxford, 1929, p. 304. Sul tempio in genere ultimamente F. Coarelli, in E. M. Steinby (a cura di), Lexicon topographicum Urbis Romae [LTUR], III, Roma, 1996, p. 155 s.

[6] Su Paullus Fabius Maximus (cos. 11 a.C.: PIR III, p. 103-105 n. 47) soprattutto R. Syme, History in Ovid, Oxford, 1978, p. 135 s. anche per i frequenti richiami a Marcia sia nei Fasti sia nelle opere dell’esilio); inoltre Id., The Augustan Aristocracy, Oxford, 1986, p. 403 s. (trad, it., L’aristocrazia augustea, Milano, 1993, p. 598 s.). Sulle fasi del tempio ultimamente F. Coarelli, in E.M. Steinby (a cura di), LTUR, III, Roma, 1996, p. 17 s.

[7] Sui dies proeliares ved. Paolo-Festo, p. 253: «proeliares dies appellabantur, quibus fas est hostem bello lacessere. Erant enim quaedam feriae publicae, quibus nefas fuit id facere»; Macrobio, Sat. I 24: «pontificesque statuisse postridie omnes kalendas nonas idus atros die habendos, ut hi dies neque proeliares neque puri neque comitialis essent»; Aulo Gellio, V 17, 1-3. Il tentativo di negare fede alla testimonianza di Ovidio da parte di P. Desy, Il grano dell’Apulia e la data della battaglia del Trasimeno, in PdP, 44, 1989, p. 102 s., è vanificato dal fatto che, trattandosi di date civili pregiuliane, esse possono non coincidere evidentemente con i normali cicli delle stagioni; ved. In effetti P. Brind’Amour, Le calendrier romain. Recherches chronologiques, Ottawa 1983, passim.

[8] Vd. Q. Fabius Maximus Servilianus, fr. 4 HRF Peter.

[9] Vd. a questo proposito F. Bömer, Ahnenkult und Ahnenglaube im alten Rom, Lipsia-Berlino, 1943, passim; quindi soprattutto J. Scheid, «Contraria facere»: renversements et déplacements dans les rites funéraires, in AION (Arch), 6, 1984, p. 132 s.

[10] Per il sapere «antiquario» e calendariale confluito nei Fasti di Ovidio basti il rinvio ai «Varronianae Verrianaeque doctrinae fragmenta» raccolti da G. B. Pighi nella sua ed. di P. Ovidii Naasonis Fastorum libri, «Annotationes» II, Torino, 1973. p. 79 s.; cfr. ultimamente M. Salvatore, La storia riscritta, in Res publica litterarum, 16, 1993 (Studies in Classical Tradition. Studies in Memory of Sesto Prete), p. 23 s. Per Livio basti ancora il rinvio soprattutto a E. Sofer, Livius als Quelle von Ovids Fasten, Vienna, 1906.

[11] La presenza di archivi gentilizi nel mondo etrusco è stata rivelata per Tarquinia dagli «archivi degli Spurinnae», su cui M. Torelli, «Elogia Tarquiniensia», Firenze 1975, in particolare p. 93 s. a proposito degli archivi gentilizi delle famiglie della nobilitas romana; vd. in precedenza E. Gabba, Un documento censorio in Dionigi d’Alicarnasso 1.74.5, in «Synteleia» Arangio-Ruiz, I, Napoli, 1964, p. 486 s.   Cfr. anche ultimamente La mémoire perdue. À la recherche des archives oubliées, publiques et privées, de la Rome ancienne, Parigi, 1994.

[12] Vd. in questo senso p. es. D. Porte, L’étiologie religieuse dans les Fastes d’Ovide, Parigi, 1985, p. 375, che pensa – con ipotesi tanto ingegnosa quanto improbabile appena si considerino le competenze calendariali di Ovidio – a una confusioneda parte dello stesso Ovidio tra dies atri e dies religiosi, a partire da Verrio Flacco (cit. sopra, n. 24) che invece considerava il dies Alliensis non compreso tra i dies atri.

[13] E. Lefèvre, Die Schlacht am Cremerà in Ovid Fasten 2, 195-342, in RhM, 13, 1980, p. 152 s. Cfr. in precedenza, per l’equivoco tra giorno della strage e giorno della partenza, B. G. Niebuhr, Römische Geschichte, II, 2a ed., Berlino, 1830, p. 222 n. 441; T. Mommsen, Römische Chronologie bis auf Caesar, Berlino, 1859, p. 90 n. 128; inoltre, in seguito J. Frazer, in Publius Ovidius Naso, Fastorum libri sex, II, ed. Id., Londra, 1929, p. 323.

[14] Vd. in questo senso F. Bömer, Interpretationen zu den Fasti des Ovid, in Gymnasium, 64, 1957, p. 114-115; R.M. Ogilvie, A Commentary on Livy Books 1-5, Oxford, 1965, p. 360; H. Le Bonniec, P. Ovidius Naso, Fastorum liber secundus, Parigi, 1969, p. 36-37; cfr. J.-C. Richard, Historiographie et histoire: l’expédition des Fabii à la Crémère, in Latomus, 47, 1988, p. 543; più diffusamente Id., Ovide et le «dies Cremerensis», in RPh, 62, 1988, p. 217 s.

[15] S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, II-1, Bari, 1968, p. 246 s.; quindi soprattutto J.-C. Richard, L’affaire du Crémère: recherches sur l’évolution de la tradition, in Latomus, 48, 1989, p. 312 s. Cfr. anche A. Fraschetti, Annalistica, mitologia e studi storico-religiosi, in DdA, 9-10, 1976-77, p. 602-630, in discussione con E. Montanari, Nomen Fabium, Roma, 1973.

[16] Sull’importanza di questo «fortilizio» ha richiamato l’attenzione J.-C. Richard, Trois remarques sur l’épisode du Crémère, in Gerión, 7, 1989, p. 67-68. Sui «fortilizi» romani in Etruria vd. anche A. Fraschetti, I Ceriti e il «castello ceretano» in Diodoro (XIV 117,7 e XX 44,9), in AION (Arch), 2, 1980, p. 147 s.

[17] Livio II 50, 10: «duxit via in editum leniter collem. Inde primo resistere; mox, ut respirandi superior locus spatium dedit recipiendique a pavore tanto animum, pepulere etiam subeuntes, vincebatque auxilio loci paucitas, ni iugo circummissus Veiens in verticem collis evasisset…».

[18] Macrobio, Sat. 1 16,22-23: «et ex praecepto patrum L. Aquinium haruspicem in senatum venire iussum religionum requirendam causant dixisset: Q. Sulpicium tribunum militum ad Alliam adversum Gallos pugnatum rem divinam dimicandi gratia fecisse postridie idus Quintiles; item apud Cremeram multisque aliis temporibus et locis post sacrifìcium die postero celebratum male cessisse conflictum».

[19] Vd. Gn. Gellio, fr. 25 HRF Peter; Cassio Emina, fr. 20 HRF Peter = 24 Santini (= C. Santini, I frammenti di Cassio Emina. Introduzione, testo, traduzione e commento, Pisa, 1995). Sul caso di Licinio Macro più in particolare J.-C. Richard, Licinius Macer (Hist. 7) et l’épisode du Crémère, in RPh, 63, 1989, p. 75 s.

[20] ILS 140, 11. 25-26: «di[em]que eum, quo die C. Caesar obit, qui dies est a.d. VIIII k. Martias, pro Alliensi / lu[gub]rem memoriae prodi…», con le osservazioni ultimamente di J. Scheid, Les décrets de Pise et le culte des morts, in La commemorazione di Germanico nelle testimonianze epigrafiche : «Tabula Hebana» e «Tabula siarensis» [Convegno internazionale di studi, Cassino 21-24 ott. 1991] (in corso di stampa). Per il calendario di Amiterno, vd. I.It. XIII 2, p. 189.

[21] I.It. XIII 2, p. 209. Sulla datazione del calendario marmoreo di Anzio, vd. M.A. Cavallaro, Spese e spettacoli. Aspetti economici-strutturali degli spettacoli nella Roma giulio-claudia, Bonn, 1984, p. 220 s. Sulla registrazione delle nuove feste, che talvolta possono anche «cancellare» le antiche, mi sia lecito il rinvio ad A. Fraschetti, Roma e il principe, Roma-Bari, 1990, p. 17 s.

[22] Sulla morte di Paullus Fabius Maximus, che veniva messa in rapporto alla visita di Augusto ad Agrippa Postumo accompagnato appunto da Paullus Fabius Maximus (Tacito, Ann. I 5), ultimamente p. es. R. Syme, The Augustan Aristocracy cit., p. 414 (trad, it., L’aristocrazia augustea cit., p. 611).

[23] Vd. H. Frankel, Ovid. A Poet Beetween Two Worlds, Berkeley-Los Angeles, 1945, p. 101 s.; quindi F. Boemer, P. Ovidius Naso, Die Fasten I, Heidelberg, 1957, p. 15; R. Syme, History in Ovid cit., p. 21 s.; Ovide, Les Fastes. Livres I-III, éd. R. Schilling, Parigi, 1993 (Collection des universités de France), p. viii-ix; cfr. ultimamente A. Barchiesi, Il poeta e il principe. Ovidio e il discorso augusteo, Roma-Bari, 1994, p. 274 s.

[24] Vd. soprattutto la formulazione di Festo, p. 348 Lindsay: «Reliogiosus est non modico deorum sanctitatem magni aestimans, sed etiam officiosus adversus homines. Dies autem religiosi, quibus nisi quod necesse est, nefas habetur facere: quales sunt sex et triginta atri qui appellantur, et Alliensis, atque hi, quibus mundus patet». A supplemento dei materiali raccolti da A. Degrassi, in Ut. XIII 2, p. 360-362, è ora necessario anche il rinvio per ulteriore documentazione alla tesi discussa da C. Grosso, Contributi alla storia dei «Fasti Praenestini»: il mese di gennaio, in Fac. lettere. Univ. Roma «La Sapienza», ann. acc. 1995/96, p. 60 s. Vd., in precedenza, naturalmente A.K. Michels, The Calendar of Roman Republic, Princeton, 1967, p. 62 s.

[25] Cfr. ultimamente Ovide, Les Fastes, ed. R. Schilling, cit., I, p. 123, per la «précision presque littéralement conforme à la version de Tite-Live» a proposito della porta Carmentalis; ved. già A. Elter, Cremera und Porta Carmentalis, in Programm zu Feier des Geburtstags Seiner Majestät des Kaisers und Königs am 27. Januar 1910, Bonn, 1910; in seguito p. es F. Boemer, Interpretationen zu den Fasti cit., p. 112 s. con Id., P. Ovidius Naso, Die Fasten II, Heidelberg, 1958, p. 96.

[26] Vd. J. Richard, L’affaire du Crémère cit., p. 312 s.; cfr. più in generale Id., L’expédition des Fabii à la Crémère : grandeur et décadence de l’organisation gentilice, in Crise et transformation des sociétés archaïques de l’Italie antique, Roma, 1990, p. 248 s.

[27] Vd. da ultimo J. Scheid, Die Parentalien für die verstorbenen Caesaren als Modell für den römischen Totenkult, in Klio, 75, 1993, p. 188 s. (con letteratura ivi cit.).

[28] Sulle ricerche di Pomponio Attico vd. soprattutto F. Münzer, Atticus als Geschichtschreiber, in Hermes, 40, 1905, p. 93 s.; cfr. da ultimo R. Syme, The Augustan Aristocracy cit., p. 199 (trad, it., L’aristocrazia augustea cit. p. 598).

[29] Per il calendario di Filocalo I.It. XIII 2, p. 241; cfr. anche le annotazioni del menologium Collotianum e del menologium Vallense (ibid., rispettivamente p. 287 e p. 293).

[30] Sui Parentalia F. Boemer, Ahnenkult und Ahnenglaube cit., p. 29 s.; H.H. Scullard, Festivals and Ceremonies of the Roman Republic, Londra, 1981, p. 74 s.

[31] I.It. XIII 2, p. 265 con Plutarco, Cam. 30,1.

[32] Vd. Liv., V 46, 2: «sacrificium erat statum in Quirinali colle genti Fabiae. Ad id faciendum C. Fabio Dorsuo gabino cinctus sacra manibus gerens cum de Capitolio descendisset, per médias hostium stationes egressus nihil ad vocem cuisquam terroremve motus in Quirinalem collem pervertit; ibique omnibus sollemniter peractis, eadem revertens similiter constanti voltu graduque, satis sperans propitios esse deos quorum cultum ne mortis quidem metu prohibitus deseruisset, in Capitolium ad suos rediit…». La documentazione parallela è ora raccolta da C. Santini, I frammenti di Cassio Emina cit., p. 171 s. Naturalmente la circostanza che forse già Cassio Emina (fr. 19 Peter = 23 Santini) e sicuramente Floro I 7,16, possano attribuire a C. Fabius Dorsuo la caratteristica di pontifex non oscura la caratteristica gentilizia del suo sacrificio sottolineata da Livio e ripresa negli stessi termini da Valerio Massimo, I 1,11.

[33] Dionisio d’Alicarnasso, IX 19,1.

[34] Sulle due «confraternite» di Luperci Fabiani e Quintilii vd. in particolare M. Corsaro, «Sodalité» et gentilité dans l’ensemble lupercal, in RHR, 91, 1977, p. 137 s. (con letteratura ivi cit.).

 

 

Marco Minucio e l’imperium aequatum

di F. Cerato, su Classicult.it, 24 gennaio 2019 (ribloggato).

 

L’articolo che segue mostra come dallo studio di una fonte epigrafica si possa confermare o negare informazioni che la tradizione storiografica pone come controverse.

L’iscrizione in questione (96 × 70 × 69 cm) proviene da un grande altare di pietra dei Colli Albani, sicuramente peperino, ritrovato nel 1862 a Roma, in via Tiburtina, presso la Basilica di S. Lorenzo fuori le Mura, e oggi conservato nel Museo del Palazzo dei Conservatori (Musei Capitolini) di Roma[1].

 

Hercolei / sacrom / M(arcus) Minuci(us) C(ai) f(ilius) / dictator vov(it).

 

«Marco Minucio, figlio di Gaio, dittatore, votò [questo] sacro [donario] a Ercole».

Ercole Marco Minucio
Dedica votiva a Ercole da parte di M. Minucio (CIL VI, 284 (p. 3004, 3756) = CIL I, 607 (p. 918) = ILS 11 = ILLRP 118 (p. 319) = AE 1991, 211a). Base di donario, pietra peperino, ultimo quarto del III sec. a.C. Roma, Musei Capitolini. Foto di Marie-Lan Nguyen (User:Jastrow) 2009, CC BY 2.5

 

Come lascia intendere il titulus, l’altare doveva costituire un donario votato ad Ercole, divinità tutelare a cui molti generali romani, tra il III e il II secolo a.C., si rivolgevano per la buona riuscita delle proprie imprese all’estero.

Il nome della divinità (Hercoles) è posto enfaticamente all’inizio dell’iscrizione, in alto. Alcuni tratti notevoli del ductus del documento sono la r, che presenta l’occhiello non chiuso, e la l, che mostra l’asta orizzontale con un grado inferiore a 90° rispetto a quella verticale; quanto alla forma della m, essa risente dell’influenza etrusca.

L’uscita in –om, anziché in –um, dell’accusativo singolare dei nomi della seconda declinazione e degli aggettivi di prima classe, equivale a quella dell’accusativo greco in -ον e segnala che, nella seconda metà del III secolo a.C., il fenomeno fonetico e grafico dell’oscuramento non si era ancora verificato.

Alla r.3 compare la sequenza onomastica del dedicatario: M(arcus) Minuci(us) C(ai) f(ilius).

Nel commento alla scheda dell’ILLRP, Degrassi ha osservato che «in latere sinistro extat nota l i xxvi»[2]. Si tratterebbe di una marca: nei giacimenti di pietra (lapicedinae), infatti, era consuetudine presso i Romani contrassegnare il materiale estratto con un numero di serie relativo alla squadra di operai (brachium), preposta allo scavo, e al settore del fronte di taglio al quale gli operai erano stati assegnati. Il primo ad interessarsi a questo genere di marcature fu Bruzza: questi, in un contributo del 1870, affermò che Ritschl aveva inteso la sigla in esame come l(egiones) I (et) XXVI, ipotizzando che il reperto provenisse proprio da una cava assegnata a due reparti militari – cosa probabile! – e che fosse stato estratto dai soldati stessi dopo il congedo (ma ciò non è attestato!)[3]. Theodor Mommsen, invece, ritenne trattarsi della stima effettiva del donativo votato a Ercole dai soldati per tramite del dittatore, e, pertanto, sciolse l’abbreviazione in l(oricae) i(nlatae) XXVI. Più verosimile appare l’ipotesi avanzata da Henzen, il quale, intervenuto sul testo, interpretò la sigla come l(oco) i‹n(numero)› XXVI: la marca, a suo dire, indicava il numero di comparto da cui la lastra era stata estratta[4]. Più recente è stata la congettura dell’archeologo italiano La Regina, secondo il quale la sigla andrebbe interpretata come (in) l(ibro) I (loco) XXVI, cioè come numero del catalogo di opere d’arte esposte[5].

Quanto al nome gentilizio del dedicante, Kaimio ha mostrato che l’abbreviazione in Minuci del nominativo si spiega grazie al concorso combinato di ragioni di spazio, di ordine fonologico e di influssi etruschi[6].

Da un confronto con le fonti storiografiche, il personaggio in questione sarebbe Marco Minucio (Rufo), uomo politico romano vissuto verso la fine del III secolo a.C., che, malgrado le origini plebee, nel 221 divenne console e nel 216 morì combattendo a Canne[7].

Un aspetto poco chiaro della carriera politica di Marco Minucio è costituito dal titolo di dictator con cui egli si fregia nel titulus preso in esame. A questo proposito, Polibio è molto esplicito: egli informa che, nel 217, siccome i senatori accusavano e biasimavano Q. Fabio Massimo per la sua eccessiva prudenza nel gestire l’invasione annibalica, «avvenne allora quello che mai era accaduto: a Marco Minucio assegnarono i pieni poteri (αὐτοκράτορα γὰρ κἀκεῖνον κατέστησαν), convinti che avrebbe rapidamente condotto le cose a buon fine; in due, dunque, erano diventati i dittatori per le stesse operazioni, cosa che presso i Romani non era mai accaduta prima» (III 103, 4)[8].

Vale la pena di soffermarsi sul fatto che la testimonianza polibiana costituisca il tipico caso in cui un autore greco del II secolo a.C. trovasse difficoltà nel tradurre dal latino il nome di un’istituzione o di una carica pubblica romana. D’altronde, il dictator latino non aveva corrispondenza nel mondo greco, ma il termine che Polibio adottò, comunque, implicava l’idea di un individuo dotato di un potere esercitato per sé e da sé, senza essere eletto né nominato da un’assemblea, né tantomeno senza la consultazione di altri. È vero anche che la notizia riportata dallo storico megalopolita segnala un’alterazione: la dittatura romana, infatti, non era una magistratura collegiale, ma poteva essere affiancata, nel suo esercizio, da una figura subalterna, il magister equitum; colui che era chiamato ad assumere il mandato non era certamente eletto da un’assemblea popolare, ma veniva investito (dictus) dal console in carica. Si trattava, infine, di una magistratura straordinaria, necessaria solamente in casi di eccezionale gravita, quali la presenza sul territorio di un nemico, l’urgenza di sedare rivolte o rivoluzioni, e altre calamità politico-istituzionali che impedissero la regolare gestione della cosa pubblica. Il mandato durava normalmente sei mesi, tempo limite entro il quale il dictator doveva portare a termine tutti i provvedimenti e le soluzioni per i quali era stato indicato; in quel lasso di tempo, il prescelto deteneva il summum imperium e concentrava nelle proprie mani le prerogative di entrambi i consoli.

Il caso di Marco Minucio, stando dunque alla testimonianza polibiana, fu davvero eccezionale, un fatto senza precedenti: la gravità della situazione (Annibale era alle porte!) era tale da indurre ad alterare un’istituzione tanto rigida come la dictatura. Gli altri autori a disposizione per ricostruire la vicenda, tuttavia, non sono così espliciti, ma anzi sembrano, in un certo senso, contraddire quanto riportato da Polibio.

Ad esempio, Livio – o sarebbe meglio dire la sua fonte annalistica per il periodo, Fabio Pittore, il quale mostra di nutrire poca simpatia nei confronti di Marco Minucio Rufo –, riferisce che, in piena guerra annibalica, il comandante romano, mentre si trovava ad operare nel Sannio in qualità di magister equitum di Fabio Massimo, decise di assalire una parte dell’esercito punico intento a foraggiare. Ad un certo punto, il racconto liviano – o meglio la sua fonte annalistica – riferisce che, a seguito del confronto armato nei pressi di Gereonium, si contarono sex milia hostium caesa, quinque admodum Romanorum: per Minucio si trattò di una vittoria ottenuta al prezzo di numerose perdite, a ben guardare. Eppure – continua la fonte –, famam egregiae uictoriae cum uanioribus litteris magistri equitum Romam perlatam («il magister equitum in un suo dispaccio mendace fece pervenire a Roma la notizia millantatrice di una spettacolare vittoria»)[9]. Per mettere a tacere discussioni, critiche e voci dubbie sulla vicenda, Livio riproduce il discorso pubblico tenuto da uno dei tribuni della plebe, certo Marco Metilio, il quale, siccome Gaio Flaminio era caduto in combattimento al lago Trasimeno, l’altro console, Gneo Servilio Gemino era stato incaricato di fiaccare la flotta punica nel Tirreno e i due pretori erano occupati a presidiare Sicilia e Sardegna, avanzò la proposta de aequando magistri equitum et dictatoris iure: il conferimento di un aequatum imperium avrebbe comportato la piena parità di poteri fra Fabio Massimo e Marco Minucio[10]. Con buona pace della fonte liviana, che chiaramente parteggia per Massimo, nella figura di Metilio si potrebbe ravvisare la posizione condivisa fra quanti, all’interno del Senato, non gradissero la politica prudente del Cunctator. La testimonianza annalistica, alla fine, riversa tutto il proprio astio nei confronti di Minucio, stigmatizzando la sua arroganza (Livio connota l’atteggiamento del personaggio con le seguenti espressioni: grauitas animi, cum inuicto…animo, utique immodice immodesteque…gloriari), non appena quello fu raggiunto dalla lettera del Senato che lo informava dell’equiparazione dei comandi[11]. Ad ogni modo, considerando la versione liviana (o fabiana) a confronto con quella polibiana, l’autore patavino non nomina mai Minucio in qualità di dictator – anzi sembra quasi si astenga coscientemente dal farlo.

Una testimonianza simile, benché molto più audace, appare in Appiano, il quale riporta che il Senato, durante la guerra annibalica, diede disposizioni affinché il magister equitum, Minucio, detenesse un’autorità equiparata in tutto e per tutto a quella del dictator (ἴσον ἰσχύειν αὐτῷ τὸν ἵππαρχον)[12].

Contrariamente alla superiorità numerica delle fonti antiche che formano la tradizione secondo cui Minucio non sarebbe stato incaricato formalmente della dictatura (Nepote, Valerio Massimo, Cassio Dione, Zonara, e l’anonimo de viris illustribus), Dorey si è detto convinto che le prove materiali sembrano, tuttavia, confermare la testimonianza di Polibio: la dedica a Ercole, a suo dire, costituirebbe «a conclusive proof that Minucius was formally and officially appointed Dictator by the plebiscite of Metilius»[13]. Lo studioso, addirittura, ha ipotizzato che il documento in questione facesse riferimento a una possibile dittatura anteriore al 217[14].

La questione, però, si complica ulteriormente, confrontando la testimonianza di Plutarco (Vita Marcelli) e quella di Valerio Massimo, a proposito della dittatura del 220 a.C. Plutarco, infatti, racconta che il dittatore, Minucio, al momento di nominare il proprio magister equitum, Gaio Flaminio, si udì un topolino squittire: la folla dei cittadini interpretò tale coincidenza come un presagio ostile e costrinse i magistrati ad abbandonare le proprie cariche, perché fossero sostituiti da altri. L’episodio è esattamente ripreso da Valerio Massimo, ma con l’unica grande differenza che, al posto di Minucio, compare nientemeno che il Temporeggiatore[15].

L’indicazione offerta da Valerio Massimo, in effetti, trova conferma in Livio e nel cosiddetto Elogium Fabii, testimonianze che provano che Quinto Fabio Massimo sia stato dittatore prima del 217 a.C.[16]

Per Dorey, comunque, Marco Minucio fu nominato dictator comitiorum habendorum causa, per venire a capo del conflitto d’interesse fra i consoli per regolare la convocazione dei comitia, in vista delle elezioni dei magistrati per l’anno successivo. Jahn, al contrario, si è detto convinto che Minucio fosse stato realmente dittatore sia nel 220 sia nel 217 a.C.[17]

Càssola e Meyer sembrano avere colto meglio nel segno, inserendo tutta la vicenda di Minucio nel più ampio rapporto conflittuale fra il Senato e Fabio Massimo[18].

Quanto all’Elogium Fabii, esso testimonia che Q. Fabio Massimo fu davvero dittatore nell’anno 220 a.C. e si scelse C. Flaminio in qualità di subalterno. Tre anni dopo, però, allorché si presentò una nuova situazione d’emergenza, il Senato, per evitare che lo stesso Fabio potesse scegliersi come vice un altro fra gli outsider politici legati al proprio clan gentilizio, approvò l’aberrante rogatio elettiva del magister equitum. Tra l’altro, siccome l’unico console in vita, Gneo Servilio, conduceva le operazioni belliche sul mare e a causa di ciò non poteva essere in patria in quel momento per nominare un dictator, a Fabio Massimo fu conferito un imperium pro dictatore.

 

Elogium Fabii Quinto Fabio Massimo
Elogium Fabii (CIL XI 1828 = CIL I, p. 193 = ILS 56 = Inscr. It. XIII 3, 80 = AE 2003, +267 = AE 2011, +361). Tabula onoraria, marmo, 2 a.C. – 14 d.C., da Arezzo. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. Foto di SailkoCC BY 2.5

 

La statua di Quinto Fabio Massimo nei giardini del Palazzo di Schönbrunn a Vienna. Monumento sottoposto a tutela col numero 114069 in Austria. Foto di Herzi PinkiCC BY-SA 4.0

 

Plutarco (Vita Fabii) riprende sostanzialmente la versione degli eventi fornita da Livio, riportando che il tribuno Metilio avanzò la proposta di equiparare i poteri di Minucio e di Fabio, perché in tal modo essi potessero condividere con pari diritto e pari dignità la conduzione della guerra annibalica[19]. Una conferma della promulgazione della rogatio deriva dallo stesso Elogium Fabii: alle rr. 9-12, infatti, si dice che magistro/ equitum Minucio quoius popu-/lus imperium cum dictatoris / imperio aequauerat.

Meyer, però, non nascondeva la propria perplessità circa la bontà della dedica a Ercole, ma si chiedeva se, in qualche modo, Minucio avesse voluto autorappresentarsi in maniera del tutto differente rispetto a quanto le fonti letterarie tramandano. Tuttavia, la posizione dello studioso appare infondata, perché è vero che, tendenzialmente, le fonti epigrafiche non contrastano con la fattualità del contesto storico che le ha prodotte. Al limite, forse, si potrebbe pensare che, a quei tempi, chiunque leggesse quella dedica sorridesse maliziosamente di fronte all’arrogante pretesa di Minucio nel fregiarsi di un titolo che non doveva affatto appartenergli[20].

Come, infine, ha puntualizzato Degrassi nella nota di commento all’iscrizione, Marco Minucio fu eletto collega di Fabio Massimo secondo le indicazioni della lex Metilia del 217 a.C. Quanto ai Fasti Capitolini, invece, non risulta alcuna menzione di una simile co-dittatura[21].

 

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Note:

[1] Si tratta di una roccia magmatica (trachite o tefrite) caratterizzata da una colorazione grigia e macchiettata da piccoli granuli di biotite (mica), simili a grani di pepe, dai quali deriva il nome. L’indicazione del litotipo permettono di ricostruire la provenienza del materiale, il suo ruolo e la sua importanza a livello commerciale, la sua area di diffusione e la sua presenza sul mercato nell’antichità.

[2] Degrassi A., Inscriptiones Latinae liberae rei publicae (ILLRP), I, Firenze 19652, 90.

[3] Bruzza L., Iscrizioni dei marmi grezzi, Annali dell’Istituto di Corrispondenza Archeologica 42, 1870, 114 (= Ritschl cit., IX).

[4] Cfr. ibid.

[5] La Regina A., Tabulae signorum urbis Romae, in Di Mino R.M. (ed.), Rotunda Diocletiani. Sculture decorative delle terme nel Museo Nazionale Romano, Roma 1991, 5, n.1: secondo lo studioso, il reperto, come altri, dovette godere almeno in età imperiale di una qualche forma di musealizzazione. L’ipotesi di per sé non è peregrina, dato il fatto che nel corso del II sec. d.C. in tutto il mondo romano si diffusero le scuole di retorica ispirate alla corrente della Seconda Sofistica, i cui metodi d’insegnamento e di apprendimento consistevano proprio nel cimentarsi in descrizioni di opere d’arte.

[6] Kaimio J., The nominative singular in -i of latin gentilicia, Arctos 6 (1969), 23-42.

[7] Münzer F., s.v. Minucius52, RE XV, 2 (1932), 1957-1962.

[8] Pol. III 103, 4.

[9] Liv. XXII 24, 1114, in part. 14.

[10] Liv. XXII 25, 10.

[11] Liv. XXII 26, 56; 27, 12.

[12] App. Hann. III 12.

[13] Dorey T.A., The Dictatorship of Minucius, JRS 45 (1955), 92.

[14] Ibid.

[15] Cfr. Plut., Marcel. 5, 4, con Val. Max., I 1, 5. Dorey T.A., ibid., che riferisce che Scullard, convenendo con Münzer, ha sostenuto che il Μινουκίου di Plutarco si trattava di un errore della tradizione manoscritta e che si doveva emendare in Μαξίμου.

[16] Cfr. Liv. XXII 9, 7, e CIL XI 1828 = CIL I, p. 193 = ILS 56 = Inscr. It. XIII 3, 80 = AE 2003, +267 = AE 2011, +361.

[17] Jahn J., Interregnum und Wahldiktatur, Kallmuenz 1970, 113-115.

[18] Si vd. Càssola F., I gruppi politici romani nel III secolo a.C., Trieste 1962, 261-268, e Meyer E., Römische Annalistik im Lichte der Urkunden, ANRW I.2 (1972), 975-978.

[19] Plut., Fab. 10, 1.

[20] Per Meyer E., Römische Annalistik…, cit., tutte le fonti concordano nel descrivere Marco Minucio come un uomo particolarmente spavaldo e arrogante.

[21] L’assunto di Degrassi ha ispirato Meyer a ritenere che Minucio non fosse mai stato riconosciuto ufficialmente come dictator.