L’eroismo di Q. Cedicio

Gell., Noct. Att. III 7 (= Cato, Orig. fr. 76 [= Jordan IV F7, Peter F83, Chassignet IV F7, Cugusi F88])

Historia ex Annalibus sumpta de Q. Caedicio tribuno militum; verbaque ex Originibus M. Catonis apposita, quibus Caedici virtutem cum Spartano Leonida aequiperat.

Pulcrum, dii boni, facinus Graecarumque facundiarum magniloquentia condignum M. Cato libris Originum de Q. Caedicio tribuno militum scriptum reliquit.

Id profecto est ad hanc ferme sententiam: imperator Poenus in terra Sicilia, bello Carthaginiensi primo, obviam Romano exercitu progreditur, colles locosque idoneos prior occupat. Milites Romani, uti res nata est, in locum insinuant fraudi et perniciei obnoxium. Tribunus ad consulem venit, ostendit exitium de loci importunitate et hostium circumstantia maturum. «Censeo – inquit – si rem servare vis, faciundum ut quadringentos aliquos milites ad verrucam illam» (sic enim Cato locum editum asperumque appellat) «ire iubeas, eamque uti occupent imperes horterisque; hostes profecto ubi id viderint, fortissimus quisque et promptissimus ad occursandum pugnandumque in eos praevertentur unoque illo negotio sese alligabunt atque illi omnes quadringenti procul dubio obtruncabuntur. Tunc interea, occupatis in ea caede hostibus, tempus exercitus ex hoc loco educendi habebis. Alia nisi haec salutis via nulla est». Consul tribuno respondit, consilium quidem istud aeque providens sibi viderier; «Sed istos – inquit – milites quadringentos ad eum locum in hostium cuneos quisnam erit qui ducat?». «Si alium – inquit tribunus – neminem reperis, me licet ad hoc periculum utare; ego hanc tibi et reipublicae animam do». Consul tribuno gratias laudesque agit. Tribunus et quadringenti ad moriendum proficiscuntur. Hostes eorum audaciam demirantur, quorsum ire pergant in expectando sunt. Sed ubi apparuit ad eam  verrucam occupandam iter intendere, mittit adversum illos imperator Carthaginiensis peditatum equitatumque quos in exercitu viros habuit strenuissimos. Romani milites circumveniuntur, circumventi repugnant; fit proelium diu anceps. Tandem superat multitudo. Quadringenti omnes cum tribuno perfossi gladiis aut missilibus operti cadunt. Consul interim, dum ibi pugnatur, se in locos tutos atque editos subducit. Sed quod illi tribuno, duci militum quadringentorum, divinitus in eo proelio usus venit, non iam nostris, sed ipsius Catonis verbis subiecimus: «Dii inmortales tribuno militum fortunam ex virtute eius dedere. Nam ita evenit: cum saucius multifariam ibi factus esset, tamen vulnus capiti nullum evenit, eumque inter mortuos, defetigatum vulneribus atque quod sanguen eius defluxerat, cognovere. Eum sustulere, isque convaluit, saepeque post illa operam reipublicae fortem atque strenuam perhibuit illoque facto, quod illos milites subduxit, exercitum ceterum servavit. Sed idem benefactum quo in loco ponas, nimium interest. Leonides Laco, qui simile apud Thermopylas fecit, propter eius virtutes omnis Graecia gloriam atque gratiam praecipuam claritudinis inclitissimae decoravere monumentis: signis, statuis, elogiis, historiis aliisque rebus gratissimum id eius factum habuere; at tribuno militum parva laus pro factis relicta, qui idem fecerat atque rem servaverat». Hanc Q. Caedici tribuni virtutem M. Cato tali suo testimonio decoravit. Claudius autem Quadrigarius Annalis tertio non Caedicio nomen fuisse ait, sed Laberio.

Scontro fra Romani e Cartaginesi. Illustrazione di Igor Dzis.
Scontro fra Romani e Cartaginesi. Illustrazione di Igor Dzis.

Una storia tratta dagli Annali concernente il tribuno militare Q. Cedicio, con l’aggiunta di alcune parole dalle Origini di M. Catone, nelle quali paragona il valore di Cedicio a quello di Leonida di Sparta. Per gli dèi! Un episodio glorioso e del tutto ammirevole dei grandi soggetti dell’eloquenza greca che M. Catone riporta nelle sue Origini, relativo al tribuno militare Q. Cedicio! Il racconto scorre nella maniera seguente: durante la prima guerra punica il generale cartaginese che comandava in Sicilia si mosse incontro all’esercito romano e per primo aveva preso posizione su alcune alture e luoghi particolarmente favorevoli. I soldati romani, come la situazione lo imponeva, pertanto, si attestarono in un luogo esposto a imboscate e a gravi pericoli. Il tribuno si presentò al console e gli spiegò che il disastro incombeva su di loro a causa della posizione poco favorevole e a causa del fatto che fossero circondati dai nemici. «Suggerisco – fece lui – che, se vuoi salvare la situazione, tu debba ordinare a quattrocento uomini di muoversi verso quella “verruca” (così, infatti, Catone è solito chiamare un luogo elevato e scosceso), ordini loro e li esorti a occuparla; i nemici, non appena si saranno accorti di ciò, ci manderanno contro i più forti e i più decisi a conquistare l’altura e combattere contro i nostri; si concentreranno soltanto su questo, e certamente tutti quei quattrocento saranno sopraffatti. Ma allora, essendo i nemici impegnati in quel massacro, avrai il tempo necessario per ritirare l’esercito da questa posizione. Non c’è altra via di salvezza se non questa». Il console rispose al tribuno che questo consiglio gli sembrava il più saggio; «Ma chi – chiese – si incaricherà di guidare i quattrocento in quella posizione, incuneata fra le linee nemiche?». «Se non troverai nessun altro – esclamò il tribuno – puoi contare su di me per affrontare questo pericolo; offro la mia vita per te e per la Repubblica!». Il console mostrò gratitudine ed elogiò il tribuno. Costui e i quattrocento si misero in marcia verso la morte. I nemici, sopraffatti da cotanta audacia, stettero ad osservare dove essi stessero andando; ma non appena fu chiaro che fossero diretti verso quella collina, il generale cartaginese inviò contro di loro i fanti e i cavalieri tra i più valorosi del suo esercito. I Romani si trovarono circondati e, messi alle strette, si batterono: lo scontro fu a lungo incerto. Alla fine, il numero ebbe ragione: tutti e quattrocento, tribuno compreso, caddero trafitti da colpi di spada o tempestati da armi da lancio. Nel frattempo, il console, mentre quelli erano impegnati nella zuffa, poté ritirare le proprie forze su posizioni elevate e sicure. Ma facciamo sì che non siano le nostre parole, ma quelle dello stesso Catone a narrare ciò che per volere degli dèi accadde in quella battaglia al tribuno, al comando dei quattrocento: «Gli dèi immortali diedero al tribuno una sorte degna del suo valore. Infatti, accadde questo: ferito in molte parti del corpo, non aveva ricevuto tuttavia colpi alla testa e fu trovato fra i caduti, sfinito per le ferite e dissanguato. Venne raccolto e guarì; e più volte, dopo quell’episodio, diede alla Repubblica altre prove di valore e coraggio e, con quell’azione, in cui condusse a morte quattrocento uomini, salvò il resto dell’esercito. Ma purtroppo la gloria di un’azione dipende molto dal luogo in cui si è svolta: il lacedemone Leonida, che compì un’impresa simile alle Termopili, per il suo valore conobbe una gloria incomparabile, la gratitudine di tutti i Greci, e fu onorato con monumenti della maggior distinzione, con pitture, statue, iscrizioni, menzioni nelle storie e in altri modi i concittadini mostrarono la loro riconoscenza per la sua condotta. Invece, al nostro tribuno militare ben modesta fu la gloria tributata per un’azione uguale a quella di Leonida e per aver salvato un esercito». Con quest’altra testimonianza M. Catone onorò il valore del tribuno Q. Cedicio. Claudio Quadrigario nel III libro degli Annali dice però che il suo nome non fosse Cedicio, ma Laberio.

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Bibliografia:

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Chassignet M., L’annalistique romaine. L’annalistique récente. L’autobiographie politique, III, Paris 2004, p. 28, n. 41.

Cornell T.J. (ed.), The Fragments of the Roman Historians: Introduction, 1, Oxford 2013, pp. 202-204.

Krebs C., Leonidas Laco quidem simile apud Thermopylas fecit: Cato and Herodotus, BICS 49 (2006), pp. 93-103.

Münzer F., s.v. Laberius (1), in RE XII, 1, 1924, col. 246.

Münzer F., s.v. Q. Caedicius (7), RE III 1, 1942, col. 1246.

Peter H.W.G., Historicorum Romanorum reliquiae, vol. I2, Leipzig 1914, fr. 83, pp. 78-81.

Rolfe J.C. (ed.), The Attic Nights of Aulus Gellius, Cambridge 1927.

Russo F., Le Termopili come ‘luogo ideologico’ nella propaganda romana, Studi Classici e Orientali 56 (2010), pp. 31-56.

Il Dictator clavi figendi causa

in A. MOMIGLIANO, Quarto contributo alla Storia degli Studi Classici e del Mondo Antico, parte III. Istituzioni e leggende di Roma arcaicaRicerche sulle magistrature romane, Roma 1969, pp. 273-283.

 

Denario, Roma 207 a.C. Ar. 4.36 gr. Obverso: Roma. I Dioscuri a cavallo al galoppo verso destra.

L’origine della dittatura continua a permanere, secondo l’opinione dei più tra gli storici, una specie di enigma che va risolto passando dalla storia alla preistoria romana e immaginando uno stato di cose che condizioni e spieghi ciò che, sempre secondo gli storici di tale opinione, sarebbe nella Roma repubblicana una incomprensibile stranezza costituzionale, un ritorno alla monarchia, che interromperebbe in momenti eccezionali la validità degli ordinamenti abituali. Perché, in fondo, ciò che è implicito nella teoria, che in questi ultimi tempi è stata ripresa da storici insigni[1], è appunto il carattere monarchico della dittatura, che non si potrebbe spiegare se non pensando a un periodo dello sviluppo statale romano, in cui la dittatura fosse l’ordinaria magistratura suprema annuale di Roma, come la troviamo in altre città latine[2]. Ma questa teoria – sia detto con il massimo rispetto per coloro che l’hanno sostenuta – non spiega nulla. È un’ipotesi, a cui nessun documento offre la benché minima conferma, la quale è inutile ed imbarazzante, perché non serve affatto a comprendere l’istituzione, per cui è stata formulata. È evidente che, ammessa pure l’esistenza di una dittatura annuale in Roma, sarebbe ugualmente incomprensibile il suo ritorno, dopo l’abolizione, nella forma di una magistratura straordinaria. O questa magistratura straordinaria si spiega per ragioni intrinseche, inerenti all’attività politica di Roma, e allora è errato supporre che essa costituisca un reliquato di un periodo preistorico; o questa magistratura non si spiega nella forma in cui noi la conosciamo, e allora costituisce soltanto una difficoltà di più il pensare che essa, dopo essere stata abolita, sia tornata in forma diversa. La vera caratteristica della dittatura romana è la straordinarietà: è veramente curioso volerla spiegare supponendo una magistratura ordinaria, che la preceda.

Tanto meno può soddisfare un’altra teoria[3], anche questa di rispettabile età, ma ripresa, di recente, sotto la forma di una lotta tra la tendenza sabina alla magistratura collegiale e la tendenza etrusca alla magistratura unica, la quale si esprimerebbe nell’alternanza di consoli e dittatori. L’errore di questa concezione sta nella sua possibilità, che non si traduce nella forma precisa e determinata assunta dalla dittatura in Roma e non spiega, quindi, perché coesista con la magistratura consolare (compromesso tra le due tendenze?), perché non possa durare che sei mesi (vittoria etrusca a scadenza fissa?), perché abbia funzione essenzialmente militare ecc.

È notevole che questi tentativi, non riusciti, di risolvere il problema dell’origine della dittatura siano stati formulati senza nemmeno tener conto della… soluzione, che effettivamente era già stata scoperta nei suoi elementi principali di G. De Sanctis[4], il quale trovò la magistratura, che costituiva il presupposto e il precedente della dittatura romana, cioè la dittatura latina, documentata nella famosa dedica fatta nel bosco di Nemi dal dittatore latino Egerio Levio di Tuscolo (Catone, fr. 58). La dittatura federale latina, che non poteva non essere temporanea e straordinaria, ha un’evidente analogia con la dittatura romana. Ora se si mantengono fermi il significato e la data del foedus Cassianum, che sancì l’alleanza tra Roma e la Lega latina a parità di condizioni[5], deve essere senz’altro chiaro che il documento riferito da Catone, non contenendo il nome di Roma, che avrebbe dovuto a pieno diritto partecipare alle cerimonie religiose federali, è anteriore al foedus Cassianum, cioè all’inizio del V secolo a.C., ed è quindi anche anteriore ai primi dittatori romani. Credo che, a prescindere dalle argomentazioni numerose apportate dal De Sanctis, basti questa prova a convincerci dell’anteriorità della dittatura latina. Dopo il foedus Cassianum, Roma, prima partecipa a condizioni uguali, poi con sempre più accentuata egemonia alla vita federale, tanto che più tardi le cerimonie sacrali della Lega saranno esercitate dai magistrati romani: il non vedere il nome di Roma in un documento della Lega latina, non sospetto per alcuna ragione plausibile di falsità, è la dimostrazione del tempo antichissimo a cui deve risalire.

Ma, ammessa l’anteriorità della dittatura latina, accettate le evidenti analogie con la dittatura romana, non può certo soddisfare la teoria del De Sanctis nei termini precisi in cui essa fu proposta. Per il De Sanctis, Roma avrebbe imitato l’istituzione confederale, perché l’esperienza le avrebbe dimostrato la sua utilità nei momenti più gravi. Si può obiettare che un popolo imita gli istituti altrui, quando si libera dai propri, ma difficilmente sovrappone alle sue magistrature un’altra di carattere così disforme, che implicava mutamenti radicali nella costituzione. Nel complesso questo principio dell’imitazione è ancora troppo astratto e non ci permette di scendere a un preciso momento della politica romana. La dittatura temporanea e straordinaria della Lega latina è il naturale organo direttivo di un gruppo, che si raccoglie solo quando la necessità lo costringe o quando una comune tradizione religiosa lo richiama. Perché Roma accolse questa magistratura, che non aveva nulla a che fare con la sua tradizione politica?

Il problema che io formulo in questo modo è stato discusso più volte nelle esercitazioni della scuola di G. De Sanctis ed ha avuto una soluzione, come è inevitabile in ogni dibattito, collettiva. Primo un mio compagno dell’Università, Emanuele Testa, intuì, senza addurre una vera dimostrazione, che la dittatura romana non è altro che la dittatura latina trasferita a Roma. Credo d’aver apportato a questa acutissima teoria la prova della contemporaneità del foedus Cassianum e dei primi dittatori; ed è per chiarire questo punto che io sono costretto a riprendere un concetto non mio. Mia è quindi la responsabilità di tutta la dimostrazione e di tutte le conseguenze che ne traggo, non già il merito della prima intuizione. D’altra parte non potrei accostarmi al tema specifico di questo mio articolo, la Dittatura clavi figendi causa, senza aver prima determinato con esattezza la funzione originaria del Dittatore.

Quando Roma, in seguito al foedus Cassianum, venne a trovarsi a parità di condizioni con le città latine, dovette evidentemente cooperare nel comando supremo delle guerre. E poiché il magistrato supremo era uno solo, è credibile che Roma in un primo tempo si alternasse nel comando con le città latine. In altre parole, Roma doveva eleggere anch’essa un dittatore, quando il turno la designava. La dittatura si introduceva così in Roma non già come magistratura civica, ma come magistratura federale. Questo faceva sì che la dittatura venisse considerata quale una misura straordinaria, che si prendeva soltanto nei momenti più gravi, quando o Roma aveva bisogno delle città latine o le città latine di Roma. E anche poi con il progressivo predominio di Roma, per cui essa fu considerata come l’effettiva signora della Lega e nominò da sola i magistrati, ci dovette essere un periodo in cui si distingueva tra impresa militare della Lega, con un dittatore a capo, e impresa militare della città, con i consoli.

Dissoltasi a poco a poco, più che la Lega, la coscienza dell’esistenza della Lega stessa, la dittatura apparve interamente romana e fu ritenuta un mezzo eccezionale di difesa. Ma appunto perché diventò romana, essa sparì presto; perché i Romani, quando perdettero coscienza della sua funzione primitiva, se la sentirono estranea e l’accolsero sempre di più come una misura da sopportarsi a stento per le esigenze supreme dello Stato. Perciò si deve affermare, senza ombra di paradosso, che la dittatura fu considerata come ripugnante alla costituzione romana, quando apparve come romana. L’ultimo dittatore rei gerundae causa fu, come si sa, eletto nel 216 a.C. e l’ultimo comitiorum habendorum causa nel 202 a.C., cioè precisamente in quel periodo in cui, cominciandosi a formare l’impero di Roma ed essendo ogni giorno di più necessario che i comandanti dell’esercito andassero lontano dall’Urbe, il dittatore poteva essere considerato il magistrato più adatto per queste incombenze. Invece i Romani si sforzarono di evitare questa magistratura rendendo le magistrature ordinarie atte a sostituirla. Questa è una delle ragioni principali per cui la collegialità dei magistrati con imperio andò in disuso in questo tempo: un solo pretore ebbe ciascuna provincia e soprattutto un solo console, di regola, guidò le campagne fuori d’Italia con poteri, si può dire, dittatoriali. È vero che la creazione dei pretori quali governatori delle province era una conseguenza del moltiplicarsi di queste; ma per i consoli il principio della collegialità poteva essere conservato, pur che si conservassero i dittatori. E invece si giunse in questo periodo fino alla nomina di privati cum imperio, abuso costituzionale iniziato probabilmente con P. Cornelio Scipione, che attesta la volontà di evitare il dittatore. Non è dunque il cadere in disuso della collegialità che fa sparire la dittatura, come vuole il De Sanctis[6]; ma è la tendenza ad evitare la dittatura che contribuisce in misura grandissima a far sparire la collegialità.

Come dicevo, l’identità della dittatura romana con la latina è comprovata dal fatto che il foedus Cassianum è contemporaneo all’apparizione dei dittatori a Roma. È ben noto che la tradizione annalistica (Liv., II 33, 4; Dionys., VI 95; Cic., pro Balbo, 23, 53) mette concordemente il trattato nel secondo dei consolati di Spurio Cassio (502, 493, 486 a.C.). Questa data sembrerebbe contraddire alla nostra asserzione, perché la dittatura appare qualche anno prima, nel 501, secondo Livio (II 18), nel 498, secondo Dionigi (V 71, 73). Ma la stessa incertezza delle date ci informa a posteriori ciò che è ovvio a priori, che la data del primo dittatore non si conosceva esattamente.  La tradizione doveva certamente aver conservato ricordo dei primi dittatori, ma la loro lista non fu redatta che più tardi e quindi solo più tardi poté essere costituito il parallelismo con le liste consolari. La data o meglio le date che noi abbiamo sono congetture molto trasparenti. Secondo la tradizione più comune, il primo dittatore fu T. Larcio e il primo magister equitum Sp. Cassio: la tradizione che pone M. Valerio come primo dittatore (Fest., pag. 216 L.; Liv., II 18, che la ripudia) è evidentemente una delle solite falsificazioni della vanità aristocratica. T. Larcio era di famiglia divenuta poi oscura e forse spentasi: ciò che da una parte è garanzia della sua autenticità e dall’altra spiega la falsificazione intorno al nome di M. Valerio. Ebbene T. Larcio appare come console nelle liste dei fasti appunto negli anni 501 e 498 a.C. in cui le due diverse tradizioni ponevano la sua dittatura. Possiamo constatare qui il medesimo processo di fabbricazione della cronologia dittatoriale, che si ritrova per la seconda coppia di A. Postumio dittatore e T. Ebuzio magister equitum. Livio (II 21) segue la tradizione che preferisce l’anno 499, perché vi appariva tra i consoli T. Ebuzio; mentre Dionigi (VI 2, 3) aderisce all’altra versione che stabiliva la data nel 496, perché vi appariva console A. Postumio. Le date precise vanno dunque ripudiate, ma il periodo approssimativo di tempo ci è assolutamente oscurato dai nomi di T. Larcio e Sp. Cassio. E non è senza significato, mi pare, che l’artefice del foedus tra Latini e Romani appaia come il primo magister equitum. Che se poi si volessero anche ripudiare questi primi nomi di dittatori – ciò che non credo debba farsi – resterebbe sempre fermo che la dittatura fa la sua comparsa in Roma (l’anno preciso non conta) al tempo in cui fu redatto il foedus.

A questo modo si risolve anche, senz’altro, il problema delle origini del magister equitum, diventato un grosso indovinello, da quando il Rosenberg[7] constatò che l’istituzione non aveva esatto riscontro nelle magistrature italiche e cercò di metterla in relazione all’italico magister iuventutis o simili: ciò che è sempre possibile, data la nostra ignoranza sulle reali funzioni di questi magistrati, ma non è né dimostrabile, né probabile, perché, al solito, il problema si accentra attorno alla straordinarietà della magistratura romana. La soluzione più semplice è invece che il magister equitum fosse una creazione della Lega latina, resasi necessaria per l’introduzione dei cavalli nell’esercito e per la conseguente formazione di un corpo semi-autonomo, giacché è evidente, e fu già notato[8], che il divieto (codificazione certo di un antico uso) fatto al dittatore ἵππῳ χρῆσθαι παρὰ τάς στρατείας (Plut., Fab., 4, 1) presuppone che la dittatura sia sorta quando i cavalli non erano ancora adoperati in guerra. S’intende che, come il dittatore latino è certo in relazione con le dittature locali, così anche il magister equitum è in una relazione, sia pure meno precisa, con i vari magistri italici; ma la spiegazione della sua originalità e irriducibilità ai modelli italici si ha nella stessa originalità della Lega latina.

Credo sia ormai chiaro che, per intendere la storia della dittatura romana, bisogna riportarsi a quelle esigenze che furono imposte a Roma dalla partecipazione prima e dall’egemonia poi che essa venne ad assumere nella Lega latina. Il foedus Cassianum segnò un rivolgimento nella politica romana, al quale essa cercò di adeguarsi in uno sforzo di adattamento e di trasformazione che si può osservare non solo nella dittatura, ma anche altrove. Su questo argomento, l’importanza che il compito di egemone sulla Lega latina ebbe nella storia interna di Roma, spero di poter ritornare.

La dittatura, aggiuntasi alle altre istituzioni romane, per i motivi che cercammo di chiarire, aveva questa duplice caratteristica: in quanto magistratura originariamente federale, portava le tracce delle varie funzioni a cui serviva in una Lega, non solo militare, ma anche sacrale; in quanto magistratura introdotta in Roma non era vincolata qui da una tradizione giuridica, che ne determinasse le funzioni in modo rigoroso. Queste due caratteristiche convergevano nell’unica conseguenza che la dittatura in Roma venne ad avere una struttura priva d’impacci che, congiunta con la straordinarietà e l’imperio supremo, poteva permetterle di intervenire nei casi più disparati e risolvere le difficoltà procedurali più varie. Così si spiega il moltiplicarsi delle dittature per singoli scopi, così si spiega anche il dictator clavi figendi causa. L’origine federale faceva sì che per la nomina del dittatore non occorresse la convocazione dei comizi, giacché non si trattava di eleggere un magistrato romano; inoltre permetteva che tutte le ordinarie magistrature, consoli compresi, rimanessero in carica, siano pure subordinate al comando supremo; infine concedeva l’imperium non solo militae, ma anche domi, in quanto Roma era parificata a tutto il territorio della Lega, per la quale l’esclusione dell’imperium sarebbe stata un assurdo in caso di guerra. S’intende che anche l’assenza della provocatio e dell’intercessio aveva il medesimo fondamento. Ora, trascurando quella dittatura seditionis sedandae et rei gerundae causa di P. Manlio Capitolino (368 a.C.), che ha troppi palmari elementi sospetti, si capisce che, in tali condizioni, divenissero agevoli dittature comitiorum habendorum o feriarum consituendarum causa. Il primo tipo di dittatura permetteva, senza la convocazione dei comizi, di creare un magistrato che tali comizi potesse convocare: veniva risolta in tale modo una non lieve difficoltà giuridica. Il secondo tipo permetteva, quando i consoli erano assenti, di fare compiere determinate cerimonie che competessero ai consoli da un magistrato, che, essendo superiore ai consoli, poteva assumerne le funzioni. Tanto più agevole era questo trapasso, quanto più fresco doveva essere nei primi tempi il ricordo delle funzioni sacrali del dittatore latino.

Non altrimenti che uno dei parecchi dittatori nominati per una speciale cerimonia va considerato il dictator clavi figendi causa. Noi sappiamo soprattutto da Festo (De Sign. verb., pag. 49, Lindsay) dell’uso di figgere un chiodo (clavus annalis) in parietibus sacrarum aedium per annos singulos, ut per eos numerus colligeretur annorum. Anche a prescindere da una tanto celebre quanto confusa testimonianza di Livio (VII 3, 5), che analizzeremo tosto, è ovvio pensare che la cerimonia dell’infissione del chiodo fosse compiuta dal supremo magistrato: se ora troviamo che negli anni 363, 331, 313 e 263 a.C. fu nominato un dittatore clavi figendi causa[9], ne dedurremo che in quegli anni i consoli non avevano potuto per una ragione qualsiasi presiedere alla cerimonia ed erano stati sostituiti da un apposito dittatore, precisamente come avveniva nelle dittature comitiorum habendorum o feriarum constituendarum causa. A questa soluzione, molto semplice, di quella complicata rete di questioni che si è ormai addensata intorno a questa dittatura si opporrà il passo di Livio. Rileggiamolo dunque: Lex vetusta est, priscis litteris verbisque scripta, ut qui praetor maximus sit idibus Septembribus clavum pangat; fixa fuit dextro lateri aedis Iovis optimi maximi, ex qua parte Minervae templum est… a consulibus postea ad dictatores, quia maius imperium erat, sollemne clavi figendi translatum est. Intermisso deinde more, digna etiam per se visa res propter quam dictator crearetur (VII 3, 5-9). Come si vede dal contesto, Livio si valeva di notizie raccolte da Cincio: non c’è da dubitare che questi avesse davvero vista la legge nei suoi caratteri arcaici. In sé la legge non fa nessuna difficoltà; attesta semplicemente che il console doveva piantare il chiodo alle Idi di settembre. Si potrà dubitare che praetor maximus significhi realmente console; ma in primo luogo Livio e probabilmente Cincio lo hanno preso in questo senso; poi il titolo di praetor, sia pure maximus, non è mai altrove testimoniato per il dittatore; infine – e questa è la ragione fondamentale – στρατηγός ὕπατος è la evidente traduzione di praetor maximus e ne attesta, insieme con l’antichità, l’autenticità.

Ricostruzione grafica dei Fasti Antiates, un calendario pre-giuliano. Frammenti da un affresco dalle rovine della villa di Nerone ad Anzio.

Ciò che invece è assurdo è la costruzione che Livio ha aggiunto alla notizia intorno alla lex vetusta. E dico Livio e non Cincio perché si può dimostrare, e gli elementi essenziali sono già stati visti da H. Peter[10], che Cincio non ha fornito a Livio che la notizia della lex. Mentre nel passo in discussione Livio riconnette evidentemente il dictator clavi figendi causa con il clavus annalis, poche linee sopra lo collegava con una funzione purificativa: repetitum ex seniorum memoria dicitur pestilentiam quondam clavo ab dictatore fixo sedatam. Ea religione adductus senatus dictatorem clavi figendi causa dici iussit (VII 3, 3). La stessa affermazione è ripetuta in un altro caso: itaque memoria ex annalibus repetita in secessionibus quondam plebis clavum ab dictatore fixum alienatas discordia mentes hominum eo piaculo compotes sui fecisse, dictatorem clavi figendi causa creari placuit (VIII 18, 12)[11]. Come è facilmente constatabile, Livio accoglie nella sua opera due tradizioni toto coelo differenti, di cui egli stesso ha cura di indicarci la provenienza: la tradizione annalistica parla di un clavus piantato in condizioni particolari a scopo di purificazione da un dittatore; la tradizione accolta da Cincio e documentata in una legge sa del clavus annalis confitto dal console. Livio ricorse evidentemente a Cincio per completare le sue informazioni sul clavus e trovò nozioni del tutto diverse da quelle annalistiche in proposito e allora elaborò quella spiegazione artificiosissima, secondo cui dal console si sarebbe passato al dittatore e poi a una dittatura speciale. C’è appena bisogno di dire che la spiegazione, fatta apposta per intendere il preteso passaggio dal console a un dittatore speciale, presuppone un anello intermedio, il dittatore che può assumersi annualmente l’incarico del clavus, che è un non senso nel modo più rigoroso.

Ma è agevole riconoscere donde tragga la sua origine la tradizione annalistica. Essa si trovava di fronte a pochissimi casi di una dittatura speciale. Il legame con il clavus annalis, cerimonia annua e abitudinaria, non era facile a vedersi, anche se il suo uso permaneva ancora, quando gli annalisti consultati da Livio raccolsero le loro notizie. Ciò che non è sicuro, perché noi abbiamo l’ultima testimonianza con l’ultima dittatura clavi figendi causa (263 a.C.), che non dovrebbe essere troppo anteriore al venir meno di questo uso. In caso contrario nel III secolo a.C. dovremmo vedere moltiplicate queste dittature speciali, essendo i consoli spesso lontani da Roma. Queste dittature non s’incontrano, probabilmente, perché tale costume arcaico e ormai inutile, cadde allora in disuso. Certo, quando Augusto volle rimettere in vigore l’antica cerimonia, essa era già sparita da molto tempo, ché altrimenti non si spiegherebbe come egli la potesse attribuire al censore invece che al console e la trasferisse dal tempio di Giove a quello di Marte Ultore (Dion., 55, 10, 4). La tradizione si era già da tempo spezzata, e si poteva privare il consolato e un tempio di uno dei loro privilegi, senza nemmeno forse aver coscienza di farlo. Non può costituire un argomento in contrario la nota frase di Cicerone: Laodiceam veni pridie Kal. Sext. Ex hoc die clavum anni movebis (ad Att., V 15). Cicerone non allude già a una cerimonia attuale: ripete un modo di dire, che poteva essere sopravvissuto all’uso cui si riferiva. Comunque ad ogni modo si voglia giudicare intorno all’uso del clavus annalis, è certo che gli annalisti, trovatisi di fronte a quelle poche dittature veramente singolari, non seppero metterle in relazione con il clavus annalis stesso e pensarono a una funzione apotropaica. Non è da escludere, anzi è probabile, che questa congettura fosse suggerita da qualche pratica superstizione romana, come quella ricordata da Plinio (Nat. Hist., XXVIII 6, 63): clavum ferreum defigere in quo loco primum caput fixerit corruens morbo comtiali, absolutorium eius mali dicitur. Ma non ci può essere dubbio, credo, che gli annalisti commisero un arbitrio, riferendo queste pratiche alla dittatura clavi figendi causa e creando tutta una costruzione leggendaria là dove le notizie autentiche certo non abbondavano.

Le incertezze e le confusioni che i Romani stessi avevano sull’argomento sono provate anche dalle doppie versioni che si hanno per due dei dittatori clavi figendi causa. G. Favaro[12] ha visto assai bene come in Livio (VII 3) si confondono due tradizioni, di cui una faceva L. Manlio dictator rei gerundae causa, l’altra clavi figendi causa. Lo stesso fatto è ben noto per la dittatura di C. Petelio, che, per testimonianze di Livio stesso (IX 28), era ritenuto solo da alcuni (fra questi dal compilatore dei fasti capitolini) dictator rei gerundae causa. Tanto nell’un caso quanto nell’altro vale la norma della lectio difficilior: fuor di metafora, è spiegabile che un dittatore clavi figendi causa fosse creduto del tipo solito. Perciò ritengo sia eccessivo il pessimismo del Beloch[13], che finisce con il negar fede a queste due dittature. E specialmente per la prima di esse, quella di L. Manlio, va anche osservato che ha torto K.J. Beloch stesso a credere che nel IV secolo fossero indicati solo i nomi dei dittatori e non le competenze speciali. Non si vede la ragione per cui un semplice dittatore, cioè un dictator rei gerundae causa, avrebbe dovuto essere trasformato in dictator clavi figendi causa, molto meno importante e conosciuto. Non può ugualmente convincere ciò che il Beloch oppone contro l’autenticità del dittatore del 331 a.C.: «auch der Dictator von 423/331 scheint nicht in allen Annalen gestanden zu haben (Liv., VIII 18, 2 nec omnes autores sunt, vgl…)», (pag. 37). Il nec omnes autores sunt di Livio si riferisce non alla dittatura, confermata anche dai fasti, ma ai particolari della pestilenza di quell’anno: Illud pervelim – nec omnes auctores sunt – proditum falso esse venenis absumptos quorum mors infamen annum pestilentia fecerit (VIII, 18, 2). Del resto, il Beloch, dopo aver eliminato tre dittatori, è stato costretto ad ammettere l’autenticità del quarto (263 a.C.), perché troppo in età storica; e questa è la migliore conferma dell’impossibilità di poter infirmare totalmente il valore delle testimonianze più antiche.

In tutto ciò che precede è senz’altro implicita la confutazione della vecchia teoria del Mommsen[14], che, prestando fede solo alle due dittature del 363 e del 263 a.C., riteneva secolare la cerimonia dell’infissione del chiodo: per le medesime ragioni non dovrà accogliersi la recentissima teoria del Favaro, che, seguendo inconsapevolmente gli annalisti antichi, ha cercato con molto acume di scindere la dittatura clavi figendi causa dal clavus annalis.

Quando si valutino le conoscenze positive, su cui si potevano fondare gli annalisti, si potrà difficilmente dubitare che il clavus del dittatore non sia il clavus annalis. Perciò la dittatura clavi figendi causa non solo è storica, ma rientra senza difficoltà nella storia costituzionale di Roma e in particolare nella storia della dittatura quale è qui prospettata.

 

***

[1] E. Kornemann, Klio 14, 1914, pp. 190 sgg; K.J. Beloch, Röm. Gesch., pp. 63 sgg. Il materiale concernente la Dittatura è raccolto con diligenza da F. Bandel, Die Römischen Diktaturen, Inaug. Diss., Breslau 1910.

[2] A. Rosenberg, Der Staat der alten Italiker, pp. 71 sgg.

[3] P. De Francisci, Storia del diritto romano, I, pp. 168 sgg.

[4] Storia dei Romani, I, pp. 421 sgg.

[5] Id., II, pp. 96 sgg.; Id., «Sul foedus Cassianum» in Atti del 1° Congresso Nazionale di Studi Romani, I, pp. 231 sgg.

[6] Storia dei Romani, IV, 1, pp. 501 sgg.

[7] Op. cit., pp. 89 sgg.

[8] Storia dei Romani, I, 422, n. 3 [V. oltre il saggio Procum Patricium].

[9] Per il 363 a.C., Liv. VII 3, 3 e CIL I, 1, 20; per il 331, Liv. VIII 18, 12 e N. d. Scavi, 1899, p. 384 (cfr. C. Huelsen, Klio 2, 1902, pp. 248 sgg; Th. Mommsen, Hermes 38, 1903, pp. 116 sgg.); per il 313, Liv., IX 28, 6; per il 263, CIL I, 1, 22.

[10] Hist. roman. Reliquiae, CVIIII sgg. Non entro nella questione sulla personalità di Cincio [J. Heurgon, Atheneum 42, 1964, p. 432].

[11] Seguo l’ed. oxoniense di C.F. Walters e R.S. Conway.

[12] Il «Clavus annalis» e il «Dictator clavi figendi causa» in Atti del 1° Congresso Nazionale di Studi Romani, II, pp. 223 sgg.

[13] Röm. Gesch., pp. 36 sgg.

[14] Römische Chronologie, pp. 175 sgg.

Le secessioni della plebe

di G. POMA, Le secessioni della plebe (in particolare quella del 494-493 a.C.) nella storiografia, in Diritto@Storia: Rivista Internazionale di Scienze giuridiche e Tradizione romana, N. 7 – 2008 – Memorie.

1. Considerazioni preliminari

Una premessa è d’obbligo, perché il tema è troppo vasto per poter essere racchiuso in una comunicazione, per cui toccherò solo alcuni dei tanti aspetti del problema “secessioni della plebe”, con particolare riferimento alla storiografia più recente, preferibilmente storica più che giuridica. Se tentiamo un bilancio critico della riflessione moderna su quel grumo di questioni che si addensano attorno alle secessioni, dobbiamo fronteggiare una serie impressionante di ipotesi, che spesso variamente si incrociano, e di questioni ancora aperte, come è ben noto a tutti. E in tutto questo, storici e giuristi colloquiano poco, con reciproco danno, io credo. Nella storiografia moderna, con le dovute eccezioni che vedremo, si sono venuti attenuando i dubbi sulla realtà storica di una o più secessioni della plebe, a partire da quella del 494 a.C.
Si è dissolta l’ipercritica di un Beloch[1] e di un Pais[2], e gli studiosi hanno assunto una posizione di relativa “confidenza” nei dati offerti dalla tradizione annalistica, ma certamente permangono intatte le difficoltà di uno studio di storia romana arcaica, terreno affascinante ma infido, che rende estremamente cauto il passo dello studioso moderno e che prevede scelte metodologiche precise.
Ad esemplificare, cito J.-Cl. Richard[3], che nella sua recensione al volume curato dal Serrao, Legge e società nella repubblica romana del 1981, scriveva: «La vulgata relativa alle lotte della plebe quale l’hanno fissata Tito Livio e Dionigi d’Alicarnasso, a partire dai dati dell’annalistica, è per il V e IV secolo degna di fede» e questa fiducia nella tradizione è alla base anche dei tanti contributi di Tim Cornell[4] o dei lavori del Tondo[5], dell’Amirante[6] o del Serrao stesso[7]. Ma negli stessi anni ‘80 (1985) D. Gutherlet[8] esprimeva già nel titolo di un suo saggio una tesi opposta: la prima decade di Livio è fonte essenziale per l’analisi dell’età graccana e sillana, riaffermando la totale anti-storicità della narrazione dei primi secoli della repubblica, costruiti per così dire a calco anticipatorio dei decenni graccani e sillani. È una tesi estrema, nella sua negatività, così come è estrema la tesi di chi accetta in toto il dato della tradizione.
Sappiamo bene che le nostre fonti su questi problemi sono storici romani e greci che scrivono in momenti e contesti molto diversi da quelli in cui si sono svolti gli avvenimenti e che aprono un colloquio con lettori contemporanei che misurano quanto leggono in rapporto ai tempi in cui si trovano a vivere, e questo, a maggior ragione, vale per il lettore moderno, che porta con sé il bagaglio delle proprie idee, dei propri interessi e anche, talora, delle proprie ferite. E però una cosa, a mio parere, va pur detta. Vanno bene tutte le cautele e tutte le consapevolezze della distanza tra l’annalistica e i tempi della prima repubblica e dei suoi forti legami con impostazioni ora ideologiche ora gentilizie, ma pensare che, in ogni modo, un romano colto dell’età graccana o sillana o della fine della repubblica, che viveva in una città e in un ambiente familiare ricco di tradizioni e di segni – i Romani, si sa, sono formidabili allestitori della memoria – non fosse in grado di orientarsi, come noi, tra plebe del V secolo a.C. e plebe della sportula, mi pare, quanto meno, un po’ presuntuoso. La memoria, si sa, può essere truccata, ma non è detto che non possano restare intatti i fatti strutturali.
E allora, considerato che, in linea generale, i tentativi di interpretazione della tradizione sulle secessioni, come del resto su ogni altra vicenda arcaica, tendono a salvare questo o quell’altro aspetto, in un difficile gioco d’equilibrio tra elementi ritenuti anacronistici ed elementi ritenuti autentici, è evidente che il risultato, nel tempo, è stato tutto un intrecciarsi di ipotesi dentro cui è facile smarrirsi.
La prima impressione che si ricava, scorrendo i lavori più o meno recenti, è una certa qual “marginalità” dell’interesse per le secessioni. Mi spiego. Nella intensa secolare riflessione sulla Roma della prima età repubblicana, la secessione non è assente, ma ha una scarsa evidenza in sé e per sé. Ciò che soprattutto interessa chiarire sono i suoi esiti (il tribunato, la caduta del decemvirato e le leges Valeriae e Horatiae, il conubium, la parificazione tra plebisciti e leggi), e, oltre a ciò, necessariamente, la fisionomia della plebe, la natura della sua lotta, lo spazio che si conquista dentro la civitas[9].
Tant’è che, pur nell’ampia bibliografia su questo periodo storico, non mi pare ci sia uno studio monografico dedicato alle secessioni, pochi sono i saggi che ne toccano qualche aspetto, e rarefatti gli accenni, soprattutto nelle più recenti Storie di Roma, per non dire che la monumentale opera del Richard[10] sull’origine del dualismo patrizio e plebeo termina là dove iniziano le secessioni, che appena sono sfiorate.

 

B. Barloccini, La secessio plebis al Mons Sacer (494-93 a.C.). Incisione, 1849.
B. Barloccini, La secessio plebis al Mons Sacer (494-93 a.C.). Incisione, 1849.

 

 

2. La tradizione annalistica

La tradizione antica ricorda alcune secessioni attuate (quattro nel quadro complessivo offerto da Floro e da Ampelio), altre minacciate, accanto ad un evento, quello del 342 a.C., che ondeggia tra seditio e secessio (paene secessio fuit, scrive Livio, VII 42, 4; 7)[11]. Ma anche sulla terza, del 445 a.C., (che sarebbe avvenuta in connessione coi contrasti provocati dalla richiesta del tribuno Canuleio di eliminazione del divieto di conubium) e sulla quarta, del 367 a.C., (a sostegno delle rogationes Liciniae-Sextiae) secessioni testimoniate unicamente da Floro (Epitome I 23, 26) e da Ampelio (Liber memorialis XL 25, 1) gravano le medesime incertezze. La tradizione liviana parla per questi anni solo di accesi contrasti (per il 445 a.C., di una indignatio plebis e di finis contentionumAb Urbe condita IV 6, 3-4 – per il 337 a.C., più esplicitamente Livio accenna ad una domi seditio e, più avanti, ad una prope secessionem plebis, Ab Urbe condita VI 42, 9-10).
La secessione del 287 a.C. appartiene ad un periodo di più sicura storicità (e non a caso per il Beloch è l’unica degna di fede[12]), viene registrata dalla Periocha liviana[13] come conclusione di gravi e lunghe sedizioni motivate dal risorgente problema dei debiti, e alla stessa tradizione si rifà anche Plinio (Naturalis Historia XVI 15, 37).
È l’ultimo atto di lotta della plebe e come tale è assunto anche dalla storiografia moderna, con le debite eccezioni: di un Mitchell[14], ad esempio, che affermando l’invenzione tutta moderna della lotta degli ordini, denuncia l’artificiosità anche di questa data finale.
Ma c’è subito da sottolineare che gli autori antichi, anche se più di una volta la plebe sembra aver fatto ricorso alle secessioni, fanno riferimento, quando richiamano le lotte plebee, solo alla prima o, più raramente, alle prime due, che, quindi assumono il valore di secessioni per eccellenza. È illuminante Sallustio: maiores vestri … bis per secessionem armati Aventinum occupavere (Bellum Iugurthinum, 31), e così pure autori tra loro assai lontani, come Cicerone (De re publica, II 58, 63) Plinio (Naturalis Historia XIX 19, 56) e Orosio (II 5, 5), ricordano come essenziali solo le prime. La storiografia moderna non ha avuto problemi ad individuarne la ragione nel fatto che entrambe si collegano al tribunato della plebe, avvertito, specie in età graccana e sillana, come il momento più significativo e gravido di conseguenze delle vittorie plebee.
Quanto alla storicità delle secessioni, se andiamo ad esaminare gli orientamenti storiografici, vediamo emergere due tendenze, più o meno articolate al loro interno, quella che fa capo al Beloch e ancor prima al Meyer[15], che considera le prime due come reduplicazioni di quella unica storica del 287 a.C., in forza della convinzione che l’esercito del V secolo a.C. altro non fosse che la cavalleria patrizia, per cui mai la plebe avrebbe potuto osare una rivolta, e la seconda, maggioritaria, che accetta la data del 494 a.C. per la prima secessione e nel 449 a.C. per la seconda (in cui pone la restaurazione del tribunato, Mommsen[16], Binder[17], Niccolini[18] ed altri).
Tutto nasce, secondo il solito, da una tradizione annalistica che accoglie diverse memorie, al punto che non ci indica neppure con chiarezza i luoghi della secessione[19], e che non colloquia con la tradizione erudito-antiquaria, in questo caso, di Varrone.
Tra le varie opzioni presentate dalle fonti, Monte Sacro-Aventino-Crustumerio, i moderni o non hanno scelto (come il Ridley[20]), o hanno scelto l’una o l’altra, preferibilmente il Monte Sacro per la liviana frequentior fama, ma anche l’Aventino per la sua vocazione plebea (Guarino[21]) o hanno supposto due concomitanti secessioni (Fabbrini)[22].

3. La secessione: un problema di definizione

Che cosa è una secessione? Livio e Dionigi, come è naturale, descrivono, raccontando tutta una serie di avvenimenti messi in rapporto con vari esiti; non definiscono, e del resto non c’è bisogno di definizione, il significato è perspicuo: una separazione (se-cedo).
Il Fluss[23], nella voce della Pauly Wissowa, la definisce Abtrenung (“separazione”) e subito la storicizza: «si intende con questo la triplice sovversiva partenza della plebe da Roma»; l’Oxford Latin Dictionary[24] segnala un primo valore, diciamo cesariano, di «appartarsi» e un secondo che qui ci interessa di ritiro (with drawal) in una posizione separata, «che implica una non partecipazione alla comunità», per cui “secessione”.
Nella sua Storia di Roma, il Mommsen interpreta la secessione come un abbandono della città da parte dell’esercito in rivolta e un’occupazione di un colle nella contrada di Crustumerio, dove – egli scrive – si accinse a fondare una nuova città di plebei[25]. E questa valutazione dei fini della secessione ritorna in De Martino[26], per cui la lotta scelta dalla plebe sembra essere stata quella della rottura dell’unità cittadina e della minaccia di costituire una nuova città autonoma, la «città impossibile» di Giulia Piccaluga[27].
Non mi pare sia questa la prospettiva in cui si colloca in genere la storiografia moderna. I moderni si innamorano subito, ed è un innamoramento che risale alla rivoluzione francese, dell’idea di secessione come sciopero[28], ed è un’assimilazione che, il Catalano insegna[29], molto è servita nella discussione sulla configurazione giuridica dello sciopero generale. In questa assimilazione senz’altro ha pesato l’apologo di Menenio Agrippa, col suo richiamo al ritorno alla collaborazione, dopo il rifiuto delle membra di portare cibo allo stomaco, e la successiva e ripetuta opposizione dei tribuni alla leva militare, presentata dalle fonti come strumento abituale e forte della lotta plebea.
Quest’immagine, che ritorna anche nei più recenti saggi (Mitchell[30], Eder[31], Cornell,[32] ecc.) rischia di ridurre lo spettro contenutistico di quest’antico concetto, mettendo in ombra l’elemento anche etimologicamente caratterizzante, che è quello della separazione, dell’allontanamento. In altre parole, se il valutare il fenomeno della secessione attraverso la categoria contemporanea dello sciopero valorizza il momento dinamico delle mobilitazioni, rischia però di attenuare il senso forte della secessione. Andiamo alle fonti.
Nella tradizione liviana sulla prima secessione[33], l’accento cade sul timore patrizio che questa moltitudine possa muoversi ostilmente contro la città. Nella elaborazione più ampia di Dionigi, invece, affiora il progetto di una apóstasis apò tōn patrikíōn e della ricerca di una nuova patria, quale che sia, nella quale poter godere della libertà. A ciò vien fatto corrispondere, da parte patrizia, il disegno di colmare i vuoti con altri apporti di popolazione straniera, una migrazione, che di per sé, per Roma e il Lazio, non è fatto insolito (Dionigi ha buon gioco a richiamare Enea, Romolo; ed era appena giunto Attus Clausus con i suoi, Ab Urbe condita VI 73, 2; 79, 1; VI 80, 1). C’è enfasi retorica, senza dubbio, nella pagina di Dionigi, ma forse c’è anche un frammento di verità, nel momento in cui indica come la sua fonte interpretasse l’azione della plebe.
Una secessione, che può tradursi in un migrare che rende definitiva la separazione, è l’alternativa che Dionigi ci presenta, ma poiché è la via che non viene imboccata, in nessuno dei momenti in cui si fece ricorso alla secessione, il valore di separazione si attenua e sparisce. Ma resta nella memoria (annalistica), se è vero che anche dopo la conquista di Veio la plebe minaccia un trasferimento in massa nella città conquistata (Ab Urbe condita V 24, 5).
La secessione è un’innovazione nel quadro politico romano della prima repubblica, è un esito della seditio che insistente lacera la città dopo la morte di Tarquinio, e da quel primo episodio permane, attiva o latente, fino al 287 a.C.
Nell’interpretazione storiografica contemporanea, non mancano gli accenni a questa capacità innovativa della plebe, soprattutto sulla scia del Momigliano[34] che vede le secessioni, al pari delle creazioni dei tribuni e delle assemblee proprie, come i tratti caratterizzanti un’organizzazione estremamente efficiente di una plebe che guarderebbe ai modelli greci (e su questo punto riflettono soprattutto i giuristi, in riferimento alle leggi delle XII Tabulae, e gli storici delle religioni per il culto di Cerere). In genere, però, si opera una sorta di presa d’atto del ricorso alla secessione, al più, sociologicamente, ci si chiede che cosa essa rappresenti e, con l’Ellul[35], si può rispondere che una secessione è in sé un segno di debolezza, un ripiegarsi su se stessi. Che è una bella debolezza, visti gli esiti sempre positivi.
Stupisce che l’elemento della continuità nel ricorso ad una forma di lotta tanto forte che spesso basta che venga minacciata perché si ottenga un risultato favorevole, non abbia ottenuto una sufficiente attenzione in chi è convinto della storicità delle secessioni; fa eccezione il Lobrano[36], che vede nella capacità della plebe «di continuare a prospettare una scissione duratura di sé stessa» dal resto delle strutture organizzative del populus romanus, la prova del perdurare di una «autonoma struttura sociale» della plebe, di una sua omogeneità interna, cui corrisponderebbe una formale condizione “giuridica” di plebità.
A parte la tesi di fondo, che si può condividere o non condividere, la posizione del Lobrano è significativa, nel momento in cui individua nel ricorso alle secessioni il segno della peculiarità della plebe arcaica, ben diversa dalla plebe degli ultimi secoli della repubblica. A raffronto, colpisce come il Raaflaub[37], in una visione del conflitto tra gli ordini che si spezza in più fasi, di diverso carattere e complessità, sia totalmente indifferente di fronte al ripetersi delle secessioni come strumento di lotta, sia che esse vadano considerate o no un fatto autentico.
Al Raaflaub poco interessa lo strumento, interessa che, o con una massiccia rivolta o dopo una graduale evoluzione, i plebei siano emersi con la loro separata organizzazione e coi loro leader. Al contrario, il problema non è minimale, poiché non si può scindere la specificità del metodo politico della secessione dall’altrettanta specificità del tribunato della plebe, istituto che dalla secessione nasce. Lo ha ben chiaro Livio, quando ripetutamente pone sui colli della secessione l’inizio della libertà per la plebe e nella potestas sacrosancta del tribunato l’auxilium libertatis (Ab Urbe condita III 54, 8; III 61, 5; IV 44, 5).

Il cosiddetto «Arringatore». Statua, bronzo, fine II-inizi I sec. a.C., da Perugia. Firenze, Museo Archeologico Nazionale.

 

4. I protagonisti della prima secessione

La riflessione moderna non ha dedicato molto interesse ai protagonisti di parte plebea e di parte patrizia, salvo che per Menenio Agrippa in virtù del suo apologo. Sul liviano Sicinio quodam auctore, l’anonimo Caio di Dione Cassio, il comandante del campo e presidente dell’assemblea della plebe secessionista in Dionigi, poco è stato detto e forse poco si può dire[38], eppure si tratta per la tradizione liviana dell’autore della secessione, colui che esce dalla massa e si pone alla testa del movimento collettivo.
È figura fantastica per il Pais[39], che vi vede l’anticipazione forse del tribuno del 76 a.C., C. Sicinio che aveva reclamato ed ottenuto la «restituzione al tribunato della pienezza della sua potestà imminuta da Silla» (e forse anche uno pseudo-antenato di quel tribuno T. Sicinio che al tempo di Camillo nel 395 con la sua proposta di migrazione di una parte dei cives a Veio (Ab Urbe condita V 24,7; Plutarco, Vita di Camillo, 7) aveva non poco agitato le acque in Roma).
Altri hanno supposto una confusione con la figura di Siccio Dentato, l’Achille romano, che divenuto tribuno citò in giudizio il console Romilio, storia minutamente raccontata da Dionigi (Antichità romane X 36-50) e mancante in Livio, ipotesi decisamente debole.
E il Richard[40], che riprende queste posizioni, ha pochi dubbi: Sicinio promotore della prima secessione e primo tribuno è figura priva di storicità, in quanto è il frutto di una manipolazione dei fasti tribunizi più antichi, favorita dal ricordo di più di un tribuno Sicinio storico. Che poi, se anche fosse al limite esistito, per il Richard resta irrecuperabile nella sua identità storica. E così Sicinio è spazzato via[41].
Sicinio muto in Livio, di poche parole in Dionigi, fa fatica, però, ad entrare anche nei fasti del primo tribunato, e questo è stato messo bene in luce già dalle ricerche del Niccolini[42] e in tempi più recenti ancora dal Richard[43]. Come sappiamo, la tradizione è tutt’altro che univoca sul numero dei primi tribuni, due o cinque. I nomi, per dirla con l’Ogilvie[44], sono fluidi e quello di Sicinio compare solo tra i cooptati in Livio; in Dionigi, invece, affianca Bruto, ai primi due posti[45].
Il testo di Dionigi presenta aspetti altrettanto problematici[46], quando, appunto, pone a fianco di Sicinio come capo della rivolta un L. Giunio Bruto, omonimo, specifica Dionigi, del Bruto liberatore del popolo dai Tarquini.
Su questa figura i moderni hanno assunto le più varie posizioni: Bruto è un patrizio in forza della gens Iunia patrizia (Mommsen[47], Ménager[48]), Bruto è plebeo[49], non è personaggio storico, ma “apocrifo”[50]. Per Mastrocinque[51], che ha dedicato notevoli sforzi a mettere ordine in tale controversa questione, Bruto è una sorta di doppio, il Bruto che in Dionigi guida i plebei alla prima secessione e tiene infuocati discorsi è la faccia plebea del Bruto fondatore della libertas repubblicana, patrizio[52].
La maggior parte degli studiosi moderni, quelli almeno che ne affermano la storicità, respinge invece la plebità di Bruto, che Mastrocinque salva, rimproverando ai moderni di essere caduti nella trappola delle falsificazioni annalistiche di fine II e inizi I secolo a.C., che avrebbe prodotto una sorta di epurazione delle presenze plebee. Una coincidenza di primo consolato e di primo tribunato nella stessa figura lascia però perplessi: salviamo il console e cancelliamo il tribuno?
A me pare che il problema dal piano storico vada passato al piano storiografico antico e possa essere letto in riferimento al tema ideologico della libertas: quella del popolo recuperata con la cacciata dei re, quella della plebe conquistata con la prima secessione. In entrambe le situazioni, per certi filoni di tradizione, che Dionigi accoglie, Bruto è presente.
Gli attori di parte patrizia occupano gran parte del campo nella vicenda della prima secessione, perché la tradizione sulle secessioni è stata gestita da chi plebeo non era.
E quindi giganteggia la figura di Menenio Agrippa[53], come risolutore della crisi, il vero eroe della secessione, il perpetuo exemplum della capacità di conciliazione, mentre un altro filone di tradizione, epigrafica e letteraria, pone in quel ruolo M. Valerio, il dittatore e l’augure. Gli studiosi moderni hanno dedicato il maggiore interesse alla figura di Menenio, intrigante per il suo essere oriundus dalla plebe, e, soprattutto, autore dell’apologo[54].
Gli studi del Ranouil[55] ripresi dal Richard[56] hanno cercato di chiarire l’appartenenza dei Menenii: per il Ranouil, sono una gens patrizia di origine etrusca, e i tribuni plebei potrebbero essere loro antichi clienti; per il Richard, Menenio Agrippa è un patrizio moderato, interpretato e sentito in quanto tale, da una certa parte della tradizione, come plebeo.
La storiografia antica ci presenta due chiavi interpretative delle secessioni, fides e concordia, e l’aver chiarito questo è uno dei risultati più interessanti, e direi anche più utili, della ricerca moderna. La fides, osserva il Bayet[57], indica una reciprocità totale e da essa dipendevano l’ordine e la stabilità della città. È il valore cardine dello Stato.

Ritratto virile di patrizio romano. Testa, marmo, metà I sec. a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani

Tutto il racconto della prima secessione e della sua ricomposizione ruota attorno ad un rompersi e rinsaldarsi dei rapporti di fides. La colpa dei plebei, è una giusta osservazione della Piccaluga[58], è una colpa di perfidia: l’insolvenza dei plebei è un’infrazione della fides negoziale, cui corrisponde l’inadempiuta promessa dei patrizi dello scioglimento dei debiti. La rottura dell’equilibrio della fides spezza la comunità «in due metà ugualmente inservibili». Il superamento può avvenire solo attraverso il recupero della concordia.
Lo hanno messo bene in luce, in particolare, coloro (Nestle[59], Momigliano[60], Bertelli[61], Peppe[62]) che, analizzando l’apologo di Menenio Agrippa, hanno ricercato la genesi del criterio storiografico della concordia, individuando le ragioni del rimodellamento della narrazione della prima secessione, il Momigliano nell’esigenza di affermare l’ideale aristocratico in cui le diverse parti dello Stato sono subordinate ad un ordine superiore che garantisce l’equilibrio, il Bertelli, nelle tensioni ideologiche dell’età graccana che portano allo slogan politico della concordia ordinum, il Peppe nel formarsi di una più ampia concezione dello Stato e della convivenza civile. In Livio, la riscrittura in termini di concordia della prima secessione, coerentemente dalle battute iniziali con l’abdicazione del dittatore Valerio (Non placeo … concordiae auctor,  II 31, 9) alla conclusione (agi de concordia coeptum II 33, 1), porta ad edulcorare il fatto in sé, cancellando quegli aspetti di violenza[63] che poi trapelano sporadicamente (ad es. i campi saccheggiati di contro al rispetto per i raccolti[64]), al punto che Livio, recuperando dall’antica memoria degli annali il rito dittatoriale dell’infissione del chiodo, definisce le secessioni frutto di menti alienate dall’ira, che possono essere riportate a saggezza da un rito piaculatorio[65].
Nelle pagine di Dionigi[66] lo spazio di mediazione è condiviso da Manio Valerio, figura presente anche in Livio[67], ma limitatamente ai fatti che precedono la secessione, come dittatore filoplebeo, che abdica per protesta contro il rifiuto del Senato di deliberare de nexis. Da questo momento nelle pagine di Tito Livio sparisce; permane invece in quelle di Dionigi, come uno dei dieci ambasciatori inviati a mediare, anzi il più anziano e il più popolare, colui che torna a Roma a sancire l’accordo.
L’Elogium aretino di età augustea[68] (Inscr. Ital. 13, 78) lo indica come dittatore ed augure e lo celebra come colui che plebem de sacro monte deduxit / gratiam cum patribus reconciliavit / faenore gravi populum … liberavit.
Pesa su Manio Valerio una posizione molto diffusa nella storiografia contemporanea, quella di leggere i dati relativi ai Valerii nella tradizione annalistica come frutto di un intervento di rielaborazione operato da Valerio Anziate[69], così come la tradizione claudia, che ad essa si oppone, sarebbe debitrice a Claudio Quadrigario[70]. E nel caso di questo dittatore del V secolo a.C., nel suo ruolo di conciliatore, più di uno ha richiamato la preoccupante somiglianza con l’identico ruolo del dittatore Valerio per la sedizione/secessione del 342 a.C. Le quiete acque di un sostanziale disinteresse per questa figura sono state con buoni argomenti agitate da Vallocchia[71].
Ora il Vallocchia si rende conto benissimo della difficoltà che presenta questa associazione dittatura-augure (anche perché esiste un omonimo augure, ma le fonti lo pongono ben lontano dal tempo della secessione, nel 463 a.C.), ma ha senz’altro ragione di richiamare l’importanza degli atti che la plebe compie nel campo religioso (la consecratio del mons, l’erezione dell’ara a Iuppiter) e nell’insistere sulla figura di Valerio come garante della legalità e della regolarità delle procedure. Nella sua funzione di augure, egli avrebbe consentito «di porre le condizioni giuridico-religiose necessarie perché la plebe non violi la religio» e «possa lasciare il mons della secessione senza aver turbato la pax deorum»[72].

5. Le procedure di conciliazione. Aspetti giuridici rituali religiosi

Fin dall’inizio della riflessione storiografica moderna, si è posto il problema della verisimiglianza storica e giuridica del foedus che, a stare a Dionigi[73], e più velatamente a Livio[74], avrebbe sancito, per mezzo dei feziali, l’accordo finale della prima secessione.
E la questione è stata molto dibattuta[75] tra storici e giuristi, con varie argomentazioni ed anche con una ricerca di ipotesi conciliatorie tra le opposte posizioni[76] (poiché il problema che ne è al centro, ossia se uno strumento come il foedus che opera nei rapporti di carattere internazionale potesse essere stato legittimamente impiegato a regolare i rapporti tra patrizi e plebei, è problema che investe la natura della collettività plebea e il fondamento del tribunato della plebe[77]). Se la plebe costituiva una parte della cittadinanza e non una comunità autonoma[78], argomenta il De Martino[79], questo basta per impedire la conclusione del foedus e ancor di più l’ipotesi del foedus diventa insostenibile se si considera il carattere delle leggi sacrate, tipiche di un ordinamento in cui non vi erano sanzioni giuridiche riconosciute da una comunità come obbligatorie per tutti. Il trattato e le leggi sacrate costituirebbero categorie giuridiche incompatibili. La questione, direi, potrebbe dichiararsi chiarita dopo le ricerche del Catalano[80] sul cosiddetto “sistema sovrannazionale” romano, che hanno lucidamente mostrato come non sia corretto utilizzare le categorie moderne di diritto internazionale e diritto statuale rispetto alla nozione di foedus. Meglio ricondursi allo ius fetiale, uno ius percepito dai Romani come universale, che individua come suoi potenziali soggetti comunità che non corrispondono all’idea moderna di Stato. E su questa linea il Tondo[81] ritiene che l’accordo reso solenne dall’intervento dei feziali dovette consentire l’utilizzo, con qualche adattamento, del tipo di ius iurandum in uso per i trattati, quale strumento particolarmente idoneo a vincolare, nella maniera più efficace, l’intera comunità civica. Del tutto diversa la conclusione della secessione del 449 a.C. Piuttosto strano, così lo definisce il Bayet[82], lo schema che Livio propone del ritorno alla libera res publica dopo l’abdicazione dei decemviri, nient’altro avviene che la decisione senatoria di creare nuovi tribuni sotto la presidenza del pontefice massimo e di concedere l’amnistia per la secessione dei soldati e della plebe. Non c’è traccia di foedus, tutto avviene in comitiis e col recupero di quelle cerimonie sacrificali, di sapore magico per il Piganiol[83], che già avevano chiuso la prima secessione e che erano mirate a restituire ai tribuni quella sacrosanctitas il cui ricordo ormai era quasi svanito. Questo diverso andamento indica con chiarezza come già il movimento secessionistico del 449 a.C. avvenga in un contesto politico tanto mutato da portare ad una conclusione giuridicamente diversa, col riconoscimento del tribunato. Le secessioni, uguali nella dinamica, non possono essere considerate unitariamente quanto a motivazioni e conclusioni. Nella storiografia contemporanea, non trova molto spazio l’analisi degli aspetti rituali delle secessioni e delle ripercussioni che dovettero avere sul piano sacrale[84], anche se tutti sono consapevoli che, in una società come quella romana, politica e religione sono indissociabili, sono due facce della stessa realtà[85]. L’interesse si è facilmente focalizzato sull’istituzione del culto di Cerere, sia per quanto può testimoniare sulla situazione agraria del tempo, sia per il suo ruolo come centro degli tesori e degli archivi plebei, sia per l’incertezza della sua derivazione (greca per il Momigliano[86]) e, in particolare, per il suo supposto rappresentare, con la triade aventinese, un contraltare alla triade capitolina.
Sono restati in ombra quei risvolti religiosi della secessione, che ora in parte il Vallocchia recupera, cercando di chiarire la fondatezza o meno della qualificazione di augure che l’elogio epigrafico associa (ed è un unicum) alla dittatura di Manio Valerio. Dando il giusto rilievo agli atti rituali della plebe, giunge alla conclusione che la secessione non determina alcuna rottura sul piano religioso, anzi i plebei si pongono esplicitamente sotto la protezione degli dei della città e non affermano proprie scelte religiose. È anche la tesi del de Cazanove[87], che rilegge il modo con cui l’esercito si organizza al campo al tempo della prima secessione. I soldati, egli osserva, portano con sé le insegne militari, il cui valore sul piano religioso è ben colto da Dionigi, che le definisce statue divine, ídrymata theōn (VI 45, 2). Non praticano alcuna rottura in materia religiosa, anzi richiedono la presenza fisica degli dei di Roma; e soprattutto si pongono sotto la protezione di Iuppiter, facendo dell’altare votato sul Monte Sacro una replica di quello capitolino, solo che si tratta di Iuppiter Territor, a rammentare a tutti quale tremenda minaccia significhi una secessione.
Coerentemente con questa impostazione, il de Cazanove vede nel culto di Cerere non culto plebeo che si contrappone al culto capitolino, ma un culto integrato nel quadro dei culti civici. Solo attraverso un processo complesso il tempio di Cerere sarebbe divenuto il luogo privilegiato in cui si cristallizzano le istituzioni plebee, una sorta di contraltare rispetto al polo capitolino, non nel senso di una opposizione alla triade, ma piuttosto come complemento ad essa, poiché Iuppiter è garante della fides che regge il contratto sociale, ma quando la fides non basta più, ci vogliono anche gli archivi per conservare gli scritti che non mentono. Che cosa rappresenta la secessione nella storia della plebe del V secolo? Una suggestiva risposta è quella del Richard[88]: «Con la secessione la plebe entra nella storia», risposta che è giustificata dalla tesi che solo con le secessioni la plebe uscì da una condizione virtuale, divenendo forza politica.
Per la scuola che si rifà al Mommsen[89], la plebe entra con la secessione in uno stato di rivoluzione permanente. Di fronte allo stato di diritto, ossia alla res publica patrizia, la plebe incarna la forza illegale, che per due secoli resta ai margini della città, finché il tribunato e i concilia plebis furono assimilati al populus. Al Mommsen si ricollega espressamente il De Martino[90], che qualifica la plebe società rivoluzionaria dentro il comune. Ancora più deciso il Guarino[91], che intitola il suo saggio del 1975 alla rivoluzione della plebe, definita «grandiosa e fin oggi per più versi misteriosa, forse misconosciuta, l’unica sola vera rivoluzione registrata nella storia di Roma» (il saggio del Syme era già uscito da decenni). In realtà, nella storiografia moderna, la valutazione di rivoluzione/rivoluzionario ricorre frequentemente, ed è principalmente diretta a qualificare la natura del tribunato della plebe, spesso definito come tale, almeno nella sua genesi, e/o l’intero processo di formazione dello Stato patrizio-plebeo. Che sia dubbia la correttezza, per comprendere la realtà romana, dell’uso di concetti che appartengono ad esperienze moderne, ed anche ad ideologie ben precise, lo dimostrò quella riflessione importante condotta, da storici e giuristi, nell’incontro preparatorio del seminario cagliaritano del 1971, su “Stato e istituzioni rivoluzionarie in Roma antica”, in cui si fronteggiarono visioni opposte[92]. Le conclusioni di tale dibattito sono quelle enunciate, in particolare, dal Catalano[93]: «L’uso del concetto rivoluzione… è probabilmente utile per commisurarsi sul dato storico… ma non è certo sufficiente per afferrarlo nella sua interezza, …l’importante è cercare nell’esperienza e nei concetti antichi ciò che può essere utile al rinnovamento del pensiero e della società contemporanei», e su questo si può concordare.

 

 


[1] J. Beloch, Römische Geschichte bis zum Beginn der punischen Krieg, Berlin 1926, 283.

[2] E. Pais, Storia critica di Roma durante i primi cinque secoli, 1, Roma 1913, 492 ss.

[3] J.-Cl. Richard, rec. a F. Serrao (ed.), Legge e società nella repubblica romana, I, Napoli 1981, REL, 60, 1982, 438.

[4] T.J. Cornell, The Failure of the Plebs, in Tria Corda. Scritti in onore di A. Momigliano, Como 1983, 101-120; The Value of the Literary Tradition concerning Early Rome, in Social Struggles in Archaic Rome, Berkeley 1986, 52-76; The Beginnings of Rome, Italy and Rome from the Bronze Age to the Punic Wars (c. 1000-264 BC), London 1995.

[5] S. Tondo, Profilo di storia costituzionale romana, Milano 1981.

[6] L. Amirante, Una storia giuridica di Roma, I, Napoli 1985.

[7] F. Serrao (ed.), Legge e società nella repubblica romana, I, Napoli 1981.

[8] D. Gutberlet, Die erste Dekade des Livius als Quelle zur gracchischen und sullanischen Zeit, Hildesheim-Zürich 1985.

[9] Ancora aperto e dibattuto il tema dell’origine della distinzione tra patriziato e plebe. Rilevava il Momigliano, in un ben noto articolo del 1967 dedicato all’Ascesa della plebe nella storia arcaica di Roma (in RSI, 79, 1967, 297-312, ora in Quarto Contributo, 437-454), quel che definisce una stranezza, ossia il disinteresse che aveva colpito, negli ultimi 30 anni, uno dei temi classici, fin dall’800, della storiografia su Roma arcaica, quello delle lotte tra patrizi e plebei. Il Momigliano scriveva nel 1967 e l’unico lavoro originale che cita del trentennio è la Lex sacrata di F. Altheim (Amsterdam 1940). Ne attribuisce la causa non tanto e non solo al prevalente interesse per la ricerca archeologica che aveva visto la ripresa degli scavi a Roma Lavinio a Pyrgi a Veio e alle scoperte clamorose conseguenti, quanto soprattutto all’ingessatura che aveva subito la visione dei rapporti sociali arcaici, indotta dagli studi del Dumézil (ad es. Métiers et classes fonctionnelles chez diverses peuples indo-européennes, in AESC, 13, 1958, 716-724) sulla società indoeuropea (per cui Roma è erede del sistema tripartito delle caste indo-europee) e di Andreas Alföldi, con i suoi richiami alla comunanza tra Iranici e Latini o Latini Turchi (Der frührömische Reiteradel und seine Ehrenabzeichen, Baden-Baden 1952, Early Rome and the Latins, Ann Arbor s.d. (1965). In realtà l’insieme del lavori dedicati, tra le due guerre mondiali, alla plebe romana aveva visto il progressivo attenuarsi dell’interesse sul problema dell’origine (che tanto aveva appassionato dalla fine dell’800 e gli inizi del ‘900) e il prevalente concentrarsi dell’attenzione di storici e di giuristi sull’organizzazione che la plebe si era data dopo la prima secessione. Il lavoro dell’Altheim viene quasi a conclusione di un decennio assai fertile: basti pensare alle ricerche del Momigliano stesso sull’origine delle magistrature romane (il tribunato, 1932; l’edilità, 1933) e sugli ordinamenti centuriati (1938) o, sugli stessi temi, di G. De Sanctis sull’edilità plebea del 1932; sulle origini dell’ordinamento centuriato del 1933), del Niccolini (Il tribunato della plebe, 1932) del Siber (sulle magistrature plebee fino alla legge Ortensia del 1936), dell’Hoffman (sulla plebe, 1938), del Cornelius (sulla storia romana arcaica, 1940). In altre parole, non si ricerca più ciò che differenzia la plebe dai patrizi a partire da un passato più o meno lontano e quasi mitico, ma il problema della genesi della plebe diventa il problema della genesi degli istituti in cui si è venuta esprimendo la differenza tra patrizi e plebei. A questa svolta metodologica, alla metà degli anni ‘40 si aggiunge col lavoro del Last sulla riforma serviana (The Servian Reforms, in JRS, 35, 1945, 30-48) una forte svolta anche nei contenuti, con la decisa affermazione che la distinzione tra patrizi e plebei si sviluppò dopo la fine della monarchia, per effetto della sopraffazione politica di un gruppo di potenti famiglie che si chiusero in casta, tesi che sviluppava precedenti osservazioni del Soltau, Jordan, Meyer, Hulsen e che spazzava via (o tentava di farlo) il postulato niebhuriano praticato a lungo del privilegio patrizio di appartenenza alla cittadinanza (cfr. su ciò J.-Cl. Richard, Les origines cit., 76 s.).

Si riaccende un dibattito che è tuttora lontano dall’essersi concluso su quando e come si siano formati i privilegi patrizi (con le teorie sull’origine repubblicana del Last (op. cit.), del Magdelain (Auspicia ad patres redeunt, in Hommages à J. Bayet, Bruxelles 1964, 427-473), del Ranouil (Recherches sur le patriciat (509-366 avant J.-C.), Paris 1975), del Palmer (The archaic community of the Romans, Cambridge 1970), sul rapporto tra plebe e organizzazione centuriata (che vede contrapporsi la tesi del Momigliano – Osservazioni sulla distinzione fra patrizi e plebei, in Les origines de la République romaine, Gèneve 1966, 199-221, ripubblicato nel Quarto contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, 419-436 – di un’esclusione della plebe dalla classis, alle opinioni di chi vede proprio nella presenza della plebe nell’ordinamento oplitico la ragione della forza delle secessioni e accetta il dato della tradizione che ci presenta il rifiuto delle leve come uno degli strumenti della lotta plebea), sui contenuti delle tante opposizioni patres/conscripti, adsidui/proletari, maiores/minores gentes (dibattito sollecitato dal Momigliano, e che investe in pieno la problematica relativa alla fisionomia sociale del V secolo a.C.), sulla proprietà delle terre e la attendibilità della tradizione quando pone una questione agraria in tali tempi (attendibilità fortemente negata dal Gabba – ad es. in Problemi di metodo per la storia di Roma antica, in Bilancio critico su Roma arcaica fra monarchia e repubblica, Atti dei Convegni Licei, Roma 1993, 12-24 –, ma da altri sostenuta). Una forte esigenza fu espressa dal Richard alla fine degli anni ‘70 (Les origines cit.), quella di mettersi decisamente alle spalle il problema più o meno inafferrabile dei primordia del dualismo patrizio-plebeo, sostituendo, sulla scia del Pallottino, il concetto di formazione, anzi di creazione continua, a quello di origine. Seguendo l’indicazione della tradizione annalistica, che colloca l’inizio del conflitto all’indomani della morte di Tarquinio, il Richard va a verificare le condizioni politiche e sociali che portano la plebe a diventare gruppo di pressione e forza politica. È evidente che se l’origine del conflitto si sposta all’inizio dell’età repubblicana, la prima secessione viene ad assumere un rilievo fondamentale, rappresentando il momento di genesi di un’organizzazione binaria, al punto che in abbastanza fresco manuale (Storia di Roma, Milano 2000) di Adam Ziolkowski si legge che «in realtà questo dualismo fu il risultato di un’espansione di un’organizzazione nata nel 494 a.C., di carattere affine ad un sindacato o a un partito moderno», visione attualizzante che si giustifica con l’enfasi che lo Ziolkowski pone sulla solidarietà di gruppo dei plebei. In questi ultimi decenni, un’altra svolta si è avuta nella ricerca di nuove prospettive per analizzare e comprendere la lotta tra gli ordini, con i contributi del Raaflaub (Politics and Society in Fifth Century Rome, in Bilancio critico su Roma arcaica fra monarchia e repubblica, Atti dei Convegni Lincei, Roma 1993, 129-157) e di Eder (The Political Significance of the Codification of Law in Archaic Societies: an unconventional hypothesis, in K. Raaflaub (ed.), Social Struggles in Archaic Rome: new perspectives on the Conflict of the Orders, Berkeley 1986, 262-300), che hanno portato al centro del dibattito l’utilità di un’analisi comparativa tra le póleis greche arcaiche e Roma. Il Raaflaub cerca nel mondo greco modelli interpretativi utili e applicabili alla realtà economica e sociale romana, così come l’Eder propone interessanti analisi comparative sulle codificazioni aristocratiche, che portano alla non di poco innovativa ipotesi di vedere in esse l’esito di propositi auto-regolamentatori dei gruppi aristocratici. Tante ricerche, tante ipotesi, tanti diversi modelli interpretativi del conflitto, che lungi dall’aver trovato un ubi consistam abbastanza concorde, mi pare però abbiano portato a significative conclusioni: la conferma della centralità del ruolo delle secessioni come punto di genesi dell’organizzazione plebea, e una concezione meno rigida, più duttile, sia della fisionomia della plebe, intesa non più come corpo omogeneo e monolitico di tutti poveri, ma come un gruppo che presenta al proprio interno differenziazioni economiche e sociali, e quindi aspirazioni diverse, sia della natura e dell’articolazione del conflitto, che non resta immutato per quasi due secoli, ma si snoda in più momenti, di diverso carattere e complessità (cfr. i contributi in due importanti volumi, W. Eder (ed.), Staat und Staatlichkeit in der frühen römischen Republik, Stuttgart 1990; K. Raaflaub (ed.), Social Struggles, cit.; nonché Crise et transformation des sociétés archaïques de l’Italie antique au Ve siècle av. J.C., Rome 1990; Bilancio critico su Roma arcaica fra monarchia e repubblica, Atti dei Convegni Lincei, Roma 1993).

[10] J.-Cl. Richard, Les origines cit., 541 ss.

[11] Vedi G. Poma, Considerazioni sul processo di formazione della tradizione annalistica: Il caso della sedizione militare del 342 a.C., in W. Eder (ed.), Staat und Staatlichkeit cit., 139 ss.

[12] J. Beloch, Römische Geschichte cit., 283.

[13] Vd. n. 11.

[14] R.E. Mitchell, Patricians and Plebeians. The Origin of the Roman State, Ithaca 1990, 131 ss.

[15] Ed. Meyer, Der Ursprung des Tribunats und die Gemeinde der vier Tribus -Anhang: Die Secessionen von 494 und 449, in Hermes, XXX, 1895, 1-24, ora in Kleine Schriften, Halle 1924, 331-379.

[16] Th. Mommsen, Römische Staatsrecht, 2, 3a ed., 273-374, cfr. anche Storia di Roma antica, I, 1, Torino 1925 (a cura di E. Pais), 253 s.

[17] J. Binder, Die Plebs. Studien zur römischen Rechtsgeschichte, Leipzig 1909, 378.

[18] G. Niccolini, Il tribunato della plebe, Milano 1934, 30-31.

[19] Per la prima secessione, la descrizione liviana (II 32, 2) ci presenta una seditio che matura entro l’esercito reduce e vittorioso che, chiamato artatamente ad un nuovo impegno militare, prima medita l’uccisione dei consoli per sciogliersi dal giuramento; poi su iniziativa di un tal Sicinio iniussu consulum si ritira, e qui sta pacificamente, in un campo munito sul Monte Sacro o sull’Aventino (che è versione più antica, risalendo a Pisone fr. 22 (Peter 1, 129), mentre quella relativa al Monte Sacro per l’Ogilvie (A commentary on Livy, books 1-5, Oxford 1965, 311) sembrerebbe risalire a Sempronio Tuditano). Per Cicerone, invece, va sul Monte Sacro e sull’Aventino (De re publica II 58 e 63), per Dionigi (Antichità romane VI 45, 2; X 35, 1) sul solo Monte Sacro, mentre Dione Cassio parla genericamente e prudentemente solo di un colle (fr. 17. 9). Più complessa è la dinamica della seconda secessione, che si collega alla caduta dei decemviri. Per Livio (Ab Urbe condita III 50-54), che si abbandona ad un ampio racconto, lo sviluppo è complesso: due sono gli eserciti negli accampamenti, uno era in monte Vecilio e spinto da Virginio occupa in armi l’Aventino, l’altro in Sabinis, da dove per iniziativa di Icilio e Numitore si ricongiunge ad esso; a questo movimento degli armati verso Roma si aggiunge la plebs urbana, mogli e figli insieme si spostano sul Monte Sacro, abbandonando la città, poi di nuovo, fatto l’accordo, sull’Aventino. Per Cicerone gli armati vanno (De re publica II 63) prima sul Monte Sacro e poi sull’Aventino, parlano del solo Aventino Sallustio (Bellum Iugurthinum XXXI 17), Dionigi (IX 43), Diodoro (Antichità romane XII 24, 5) e altri ancora. Intanto, queste complicate manovre sono, per l’Ogilvie (op. cit., loc. cit.), il frutto dell’incrocio di due tradizioni che collocano la secessione su due colli diversi (en passant, la mancanza di chiarezza è in Livio stesso che a distanza di poche righe definisce l’Aventino come il locus felix dove ebbe inizio la libertà della plebe (Ab Urbe condita III 54, 9) e il Monte Sacro come il colle in cui fu eletto il primo tribuno della plebe). Resta isolata la testimonianza di Varrone (De lingua latina V 81, 52 Collart): in secessione Crustumerina, che però non può essere trascurata, data la bontà del suo lavoro antiquario. E poiché la citazione di Varrone è relativa alla derivazione del nome dei tribuni dai tribuni militum, può essere intesa in più modi, riferita alla prima secessione (in tal caso potrebbe indicare un terzo luogo o identificare in altro modo ancora il Monte Sacro, così il Niccolini e i più) o riferita alla seconda, e collocante la prima elezione dei tribuni nel 449 a.C. Il Mazzarino (Note sul tribunato della plebe nella storiografia romana, in Index, 3, 1972, 174-191) tra questi, che dà grande rilievo al fatto che per Varrone i tribuni della plebe sono ex tribunis militum primum … facti, per cui vi vede una conferma, non solo della natura originaria militare e rivoluzionaria del tribunato, ma anche del fatto che si tratti della seconda secessione scoppiata nell’esercito arroccato a difesa inter Fidenas Crustumeriamque, e poi passato in agrum sabinum (Ab Urbe condita III 43) – e non nella Sabina o sull’Algido, come è più diffusa tradizione – e che da questa secessione abbia avuto inizio il tribunato.

[20] R.T. Ridley, Notes on the Establishment of the Tribunate of the Plebs, in Latomus, 27, 1968, 535-554.

[21] A. Guarino, La rivoluzione della plebe, Napoli 1975.

[22] F. Fabbrini, v. Tribuni plebis, in NNDI, 1969, 778-822.

[23] Fluss, v. secessio, in PWRE, 2, A, 1, 1921, coll. 974-976.

[24] Oxford Latin Dictionary, v. secessio 2, ed. P.G.W. Glare, 1982, 17161; A. Forcellini, Lexicon totius latinitatis, t. IV, 1965 (ed. an.), 2711.

[25] Th. Mommsen, Storia di Roma antica cit., 242.

[26] F. De Martino, Storia della costituzione romana, I, Napoli 1972 (2a ed.), 260 ss.

[27] G. Piccaluga, La colpa di ‘perfidia’ sullo sfondo della prima secessione della plebe, in Le délit religieux dans la cité antique, Rome 1981, 21-25.

[28] Vedi P. Catalano, Tribunato e resistenza, Torino 1971, 21 ss. Si deve a G. Grosso la proposizione del rapporto tra il moderno diritto di sciopero e l’azione della plebe (Il diritto di sciopero e l’intercessio dei tribuni della plebe, in RISG, 89, 1952-1953, 397-401).

[29] P. Catalano, Tribunato e resistenza cit., 25.

[30] R.E. Mitchell, Patricians and Plebeians cit., 13.

[31] W. Eder, Zwischen Monarchie und Republik: das Volkstribunat in der Frühen Römischen Republik, in Bilancio critico su Roma arcaica fra monarchia e repubblica, Atti dei Convegni Lincei, Roma 1993, 97 s.

[32] T. Cornell, The Beginnings of Rome cit., 256 s.

[33] Ab Urbe condita II 32, 5.

[34] A. Momigliano, L’ascesa della plebe cit., 297 ss.

[35] J. Ellul, Réflexions sur la révolution, la plèbe et le tribunat de la plèbe, in Index, 3, 1972, 155-167.

[36] G. Lobrano, Il potere dei tribuni della plebe, Milano 1983, 199.

[37] K. Raaflaub, Politics and Society in Fifth Century Rome, in Bilancio critico su Roma arcaica fra monarchia e repubblica, Atti dei Convegni Lincei, Roma 1993, 129-157, 151.

[38] F. Münzer, v. Sicinius (4), in PWRE 2, A, 2, coll. 2195-2199. Nel 487 a.C. un T. Sicinio (o Siccio, per Dionigi), che forse ha il cognomen Sabinus, infatti, parrebbe essere console nel 487 a.C., trionfatore sui Volsci (Ab Urbe condita II 40,14). In realtà i Sicinii, insieme con i Cassii, i Cominii, i Tullii, i Minucii rappresentano uno dei problemi più ostici da affrontare, quello annoso dei nomi plebei nelle liste consolari in età anteriore all’istituzione del tribunato consolare. La storiografia moderna ha tentato varie vie d’uscita, a cui è sottesa l’accettazione o meno dell’assunto liviano (Ab Urbe condita IV 4, 1) che il consolato dalla sua nascita sia stato ricoperto solo da patrizi: nomi frutto di tarde interpolazioni plebee, nomi in età arcaica portati da patrizi poi decaduti, nomi di coscripti, nomi autenticamente plebei che attestano come in età arcaica il consolato non fosse monopolio patrizio, coesistenza in una medesima gens di due stirpes, una patrizia, una plebea. Per un punto su tale dibattito, cfr. J.-Cl. Richard, Les origines cit., 529; A. Mastrocinque, Lucio Giunio Bruto. Ricerche di storia, religione e diritto sulle origini della repubblica romana, Trento 1988, 96 ss.

[39] E. Pais, Storia critica di Roma cit., 126.

[40] J.-Cl. Richard, Les origines cit., 527.

[41] L. Sicinius Vellutus o Bellutus, destinato a diventare tribuno nel 493, edile della plebe nel 492 e forse ancora tribuno nel 491 a.C. dà l’avvio ad una serie di Sicinii presenti nei fasti dei tribuni e degli edili, che si intrecciano e confondono con i Siccii, e che si interrompono dopo il 387, quando un L. Sicinius è autore di una rogatio de agro Pomptino (Ab Urbe condita VI 6, 1), lasciano il passo ai Licinii e ai Sestii, per poi ricomparire appunto nel 76 a.C. con un Cn. Sicinius. Una gens debolissima, non presente in incarichi di rilievo dopo il IV secolo a.C., in cui, a quanto pare, ebbe a cuore la questione agraria. Cfr. G. Niccolini, I Fasti cit., 1 ss. Difficile pensare che questo ruolo di capofila di una dinastia di tribuni non sia una diretta conseguenza dell’altro ruolo di promotore della secessione che almeno Livio gli riconosce e altrettanto difficile pensare che non sia un plebeo. Semmai si potrebbe riflettere sul cognomen Sabinus che la tarda tradizione sembra attribuirgli e considerare che è appena avvenuta in Roma la migrazione di Attus Clausus con i suoi dalla Sabina.

[42] G. Niccolini, Il tribunato della plebe cit., 40.

[43] J.-Cl. Richard, Les origines cit., 563 ss.

[44] R.M. Ogilvie, A commentary cit., 311.

[45] Tutti i ragionamenti fatti hanno portato alla conclusione che si intrecciano e fiancheggiano due filoni di tradizione: una rappresentata da Pisone, Attico, Cicerone, Asconio, che Livio conosce, e una seconda rappresentata da Dionigi di un collegio a 5, che Livio accoglie attraverso l’escamotage della cooptazione. Vedi per le fonti in merito, G. Niccolini, I Fasti cit., 1 ss. C’è un certo accordo sulle posizioni dell’Ogilvie, che raccoglie gli esiti di una ricerca che parte dal Mommsen (Römische Staatsrecht cit., 2, 272-330) e dal Meyer (Der Ursprung cit., 353-373), nel ritenere che in origine i tribuni dovessero essere due, che la lista sia ristretta sia allargata sia stato campo di bene identificabili irruzioni gentilizie o politiche a favore dei Licinii, degli Icilii e forse degli Iunii (A Commentary cit., 311 ss.). C’è una certa probabilità che la coppia originaria possa essere stata costituita in effetti da Sicinius e da L. Albinus o Albinius, illustri ignoti, per il Richard, invece, accanto a L. Albinus o Albinius va collocato uno dei cinque di Dionigi, il C. Visellus o Viscellius Ruga (Les origines cit., 568 ss.).

[46] Tra l’altro, il fatto che sottolinea, per il tribunato della plebe del 456 a.C., che L. Icilius era figlio di quell’Icilius che era stato il primo tribuno della plebe, quando gli Icilii i loro titoli di nobiltà se li acquistano all’epoca della seconda secessione.

[47] Th. Mommsen, Römische Forschungen cit., I, 111.

[48] L.R. Ménager, Nature et mobiles de l’opposition entre la plèbe et le patriciat, in RIDA, ser. 3, 19, 1972, 367-97.

[49] Per il Niebhur, Römische Geschichte cit., I, 552, Bruto era il simbolo dell’accesso della plebe al potere.

[50] E. Pais, Storia di Roma, I, Torino 1988, 364, ampiamente seguito.

[51] A. Mastrocinque, Lucio Giunio Bruto cit., 107 ss., 142 ss.

[52] A. Mastrocinque, Lucio Giunio Bruto cit., 107 ss.

[53] Ab Urbe condita II 32, 8-12; Antichità Romane, VI 83-86; Cassio Dione fr. 17, 10; Zonaras 7, 14.

[54] Sul processo di formazione della tradizione su Menenio Agrippa, cfr. J.-Cl. Richard, Les origines cit., 542, nt. 344.

[55] P.C. Ranouil, Recherches cit., 209.

[56]  J.-CL. Richard, Les origines cit., 522 ss. e nt. 279.

[57]  J. Bayet, L’organisation plébéienne cit., 145 s.

[58] Piccaluga, La colpa di “perfidia” cit., 21-25.

[59] W. Nestle, Die Fabel des Menenius Agrippa, in Klio, 21, 1927, 350-360.

[60] A. Momigliano, Camillus and Concord, in CQ, 36, 1942, 111-120 (ripubblicato nel Secondo contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma 1960, 99-104).

[61] L. Bertelli, L’apologo di Menenio Agrippa: incunabolo della “Homonoia” a Roma?, in Index, 3, 1972, 224-234. A suo parere, l’episodio potrebbe appartenere allo strato più antico delle secessioni della plebe, che poneva al centro il problema del nexum, conservata dalla tradizione gentilizia dei Menenii, sempre legati ai temi economici. Tradizione poi rimaneggiata alla fine del IV secolo a.C., con l’inserimento del motivo della concordia civium, quando al problema originario della soggezione economica della plebe si sarebbe sostituito il motivo ideologico. Nel liviano interpreti arbitroque concordiae civium/ legato patruum ad plebem reductori plebis romanae in urbem il Bertelli vede la spia di questo processo: i primi due termini sarebbero il frutto dell’attualizzazione, gli altri due si dovrebbero rifare al nucleo originario.

[62] L. Peppe, Studi sull’esecuzione personale. I. Debiti e debitori nei primi due secoli della repubblica romana, Milano 1981.

[63] Livio sottolinea il diverso comportamento della plebe di Ardea rispetto a quella romana: pulsa plebs, nihil Romanae plebi similis, …in agros optumatium cum ferro ignique excusiones facit (Ab Urbe condita IV 9, 8).

[64] Ab Urbe condita II 4, 1.

[65] Ab Urbe condita VII 3, 8. Mai, in ogni modo, i secessionisti subirono rappresaglie. Sul tema dell’amnistia, richiesta dai plebei, vedi da ultimo, M. Raimondi, L’amnistia tra patrizi e plebei nelle Antichità Romane di Dionigi di Alicarnasso, in Amnistia, perdono e vendetta nel mondo antico (a cura di M. Sordi), Milano 1997, 99-111.

[66] Antichità romane VI 69, 3.

[67] Ab Urbe condita II 31, 9-10.

[68] Sull’iscrizione aretina, vedi da ultimo, F. Vallocchia, Manio Valerio Massimo, dittatore e augure, in Index, 35, 2007, 27-39 (che riporta anche le altre fonti sul ruolo del dittatore).

[69] Cf. H. Volkmann, v. Valerius Antias, in PWRE, 8, A, 2, 1948, coll. 2312 ss.

[70]  S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, 2, Roma-Bari 1983, 281 ss.

[71] F. Vallocchia, Manio Valerio Massimo cit.

[72] F. Vallocchia, Manio Valerio Massimo cit., 36. Giustamente l’autore richiama il ruolo che, al termine della seconda secessione, avrà il pontefice massimo.

[73] Antichità romane VI 89, 1; 84, 3.

[74] Ab Urbe condita II 33, 1: agi deinde de concordia coeptum, concessumque in condiciones…, un accenno incidentale in IV 6, 7: foedere icto cum plebe.

[75] L’ipotesi del foedus è proposta dal Niebhur (Römische Geschichte, I, Berlin 1811), ma fortemente combattuta dal Mommsen (Römisches Staatsrecht cit.).

[76] Sulle varie posizioni su questa tradizione, cf. J.-Cl. Richard, Les origines cit., 551, nt. 370.

[77] Vedi, a proposito, G. Lobrano, Il potere dei tribuni cit., 27 ss.; e dello stesso, Fondamento e natura del potere tribunizio nella storiografia giuridica contemporanea, in Index, 3, 1972, 235-262.

[78] L’argomentazione in tal senso è sviluppata da G. De Sanctis, Storia dei Romani, 2, cit., 28 ss.

[79] F. De Martino, Storia della costituzione I, cit., 340 s., con riferimenti al dibattito in merito a ntt. 25 e 26.

[80] Sulla possibilità tecnica di un foedus tra i due ordini, P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, Torino 1965, 189, nt. 99, 195 ss.

[81] S. Tondo, Storia costituzionale cit., 166.

[82] J. Bayet, L’organisation plébéienne cit., 145-153.

[83] A. Piganiol, Les attributions militaires et les attributions religieuses du tribunat de la plèbe, in JS, 1919, 237-248 (= Scripta varia, 2, Bruxelles 1973, 261-271).

[84] Considerazioni interessanti in D. Sabbatucci, Patrizi e plebei nello sviluppo della religione romana, in SMSR, 24-25, 1953-54, 76-92.

[85] J. Scheid, Religion et piétè à Rome, Paris 1985.

[86] A. Momigliano, L’ascesa della plebe cit., 239-256; sul culto in generale, H. Le Bonniec, Le culte de Cérès à Rome, Paris 1958.

[87] O. de Cazenove, Le sanctuaire de Cérès jusqu’à la deuxième sécession de la plèbe, in Crise et transformation, Roma 1980, 373-399.

[88] J.-Cl. Richard, Les origines cit., 541.

[89] Conosciamo tutti la posizione del Mommsen, se il populus ist der Staat ci fu forzatamente un’epoca in cui la plebe non era altra cosa che la rivoluzione in permanenza, posizione come è noto, che era debitrice ad una concezione statualistica del diritto; per il Mommsen, la plebe è «Gemeinde in der Gemeinde». Sul concetto di stato in Mommsen, e il dibattito successivo, vedi, tra gli altri, G. Lobrano, Fondamento e natura cit., 240 ss.

[90] F. De Martino, Storia della costituzione, I, cit., 338 s.

[91] A. Guarino, La rivoluzione della plebe cit., 15.

[92] I cui interventi sono in Index, 3, 1972. Si fronteggiarono visioni, almeno in apparenza, opposte: il Sabattucci (La censura: istituzione rivoluzionaria dell’antica Roma, 192 s.) che affermava che l’invenzione dei romani, rivoluzionaria rispetto all’ordinamento gentilizio, fu lo Stato, inteso quindi come il prodotto di una rivoluzione culturale, l’Ellul (Rèflexions sur la révolution cit., 55 ss.) per cui il movimento plebeo tendeva a trovare e affermare un proprio ruolo autonomo dentro una civitas dualistica in via di costruzione, in cui il tribunato non agiva in forma rivoluzionaria perché restava nel quadro della civitas («la creazione di uno Stato di tensione bipolare tra due gruppi della comunità»), il Sereni (Considerazioni di metodo su Stato, rivoluzione e schiavitù in Roma antica, 203 ss.), tutt’altro che propenso ad usare, anzi abusare del termine rivoluzione «più giornalistico che storiografico», e per il quale, in ogni modo, la rivoluzione è da intendersi fondamentalmente sul piano sociale; in sintonia con l’Ellul, il Sereni è disposto ad accettare un processo rivoluzionario, ma mai delle istituzioni rivoluzionarie. Gli storici, in tale dibattito, mi pare siano restati abbastanza defilati; basti pensare al Mazzarino, che nel 1966, in Pensiero storico classico, II, 2, 183, aveva a ragione sostenuta la non appartenenza del concetto di rivoluzione (revolutio) al mondo classico: «A indicare la nostra idea di rivoluzione Greci e Romani non scomodarono mai grandi concetti cosmici», e aveva precisato che per essi l’idea di rivoluzione non si allontanò mai dal campo strettamente politico: «…nel pensiero antico un fatto rivoluzionario ha sempre rapporto con una determinata situazione concreta contro la quale si è posto». Ricorda inoltre come i Romani definissero un fatto di tal genere: seditio,tumultus etc., non secessio. Per cui il Mazzarino (Note sul tribunato della plebe, cit., 174 ss.), in questo seminario, indaga sul momento graccano come momento in cui il tribunato riacquista «quel carattere rivoluzionario che il trapasso del tribunato a magistratura dello Stato aveva almeno per certi aspetti, attenuato» e sulla rielaborazione storiografica della tarda repubblica sul V secolo a.C.; in particolare per le secessioni, tende a rivalutare la posizione varroniana che afferma l’origine militare e rivoluzionaria del tribunato. Ne consegue che la secessione è un fatto rivoluzionario, ma non quella dei reduci del 494 a.C., quanto piuttosto quella varroniana, dei tribuni che derivano ex tribunis militum, e che il Mazzarino colloca nel 449 a.C. Sul tema, vedi anche Inchiesta: La rivoluzione romana, in Labeo, 26, 1980, 192-247; Stato e istituzioni rivoluzionarie in Roma antica, in Index, 7, 1977, 3-224.

[93] P. Catalano, A proposito dei concetti di ‘rivoluzione’ nella dottrina romanistica contemporanea (tra rivoluzione della plebe e dittature rivoluzionarie), in SDHJ, 43, 1977, 440-445.

Storiografia greca e imperialismo romano (III-I secolo a.C.)

di E. GABBA, in Rivista Storica Italiana, 86 (1974), 625-642.

Roma domina il mondo politico e culturale greco dalla fine del III secolo a.C. Si può dire che da questo momento ogni manifestazione letteraria greca sia collegata direttamente o indirettamente con quel complesso di eventi e di situazioni che siamo soliti chiamare imperialismo romano[1].

Il Mediterraneo intorno al 218 a.C. ca.
Il Mediterraneo intorno al 218 a.C. ca.

Soprattutto la storiografia è occupata da questo problema. Naturalmente un discorso sulla storiografia greca dell’imperialismo romano non può non cominciare con Polibio: tuttavia è importante indicare come il problema dell’espansione romana sia stato visto anche da altri storici greci, minori rispetto a Polibio ma non meno significativi. Nella lunga galleria dei molti storici greci dal III al I secolo a.C. si potrà per ora fermare l’attenzione soltanto su alcuni: la selezione avrà inevitabilmente carattere personale. Nell’opera storica di Polibio la discussione critica con storici suoi predecessori o suoi contemporanei ha una parte notevole[2].

Questa polemica non ha, però, carattere univoco e può, anzi, essere distinta in almeno quattro tipi fondamentali. Il caso più semplice si ha quando Polibio, consapevole degli strumenti tecnici e delle conoscenze specifiche di cui dispone, può colpire gli errori e l’incompetenza di altri autori. Più complesso è il caso della polemica propriamente politica, anche se questo fondamento è talora mascherato sotto obiezioni sul modo di presentare i fatti storici e sulla finalità stessa della storia. Si pensi ai capitoli del libro II contro Filarco. In altri casi la polemica ha carattere quasi personale. Per esempio Polibio scrive contro Timeo con lo scopo di denigrare un concorrente pericoloso che aveva, come lui ma prima di lui, avvertito il nuovo ruolo di Roma nella storia mondiale. Egli mette in rilievo presunti o veri errori di Timeo, ma al fondo vi è la gelosia di mestiere e la concorrenza.

Polibio (?) raffigurato in un bassorilievo su una lastra di marmo di un monumento perduto. Museo Nazionale della Civiltà Romana, Roma.
Polibio (?) raffigurato in un bassorilievo su una lastra di marmo di un monumento perduto. Museo Nazionale della Civiltà Romana, Roma.

Forse ancora più importante è il quarto tipo di discussione polemica, che è di vero e proprio metodo storico e che è rivolta contro opere in contrasto con l’interpretazione storica polibiana. Polibio ha la precisa volontà, spesso e volentieri ripetuta, di scrivere storia universale. Egli è consapevole di vivere in un momento storico eccezionale, caratterizzato dall’emergere di Roma a potenza egemonica universale. L’egemonia romana rappresentava in un grado mai prima raggiunto, l’unità del mondo conosciuto; essa forniva, al tempo stesso, il centro per una nuova visione unitaria della storia mondiale (I 2, 1). Ma non basta l’unità dell’argomento a dare unitarietà all’opera storiografica: si richiede nello storico unità di pensiero e di idee, capacità di abbracciare con ambio sguardo l’unità del periodo storico soprattutto nella concatenazione delle cause degli avvenimenti (V 32, 45). Come si sa il concetto dell’unità, o dell’intreccio (symplokḗ), degli avvenimenti mondiali è legato in Polibio in primo luogo all’esito della guerra annibalica. La battaglia di Zama è vista come la decisione su chi doveva essere il dominatore del mondo (XV 9, 2; V 33, 4; VIII 1, 3). Questo concetto, prima di diventare canone storiografico con Polibio, era stato argomento politico acutamente percepito dall’etolo Agelao già nel 217 a.C. (V 104, 3)[3]. Poco prima della vittoria romana di Cinoscefale l’autore di un oracolo riferito da Plutarco (de Pyth. Orac. 11; Just. XXX 4, 1-4) ripeteva ancora l’idea che la vittoria dei Troiani sui Fenici suonava come l’avviso della guerra contro la Grecia e l’Asia.

La concezione universalistica della storia mondiale, centrata su Roma, è strettamente collegata in Polibio all’idea di una precisa volontà imperialistica dei Romani, sia pure in accordo con i piani nascosti della Tyche. Questa volontà finisce per essere il vero elemento unificante della storia dei cinquantatré anni dalla guerra di Annibale a Pidna (I 3, 6; VIII 1, 3). In questo modo Polibio si inserisce consapevolmente nella generale interpretazione della storia greca, intesa come un succedersi di egemonie (I 2, 25). Questa concezione si era venuta ampliando, in seguito, su di un piano mondiale: tutta la storia universale si presentava come una successione di grandi imperi egemonici[4].

L’elemento nuovo, offerto dalla supremazia romana, consisteva nell’ampiezza del fenomeno, mai raggiunta prima, e che faceva sì che il fenomeno stesso dovesse essere indagato nelle sue cause. Da questa concezione della storia universale trae origine la polemica polibiana contro le storie parziali, e contro le epitomi che danno una falsa immagine di universalità, solo perché accostano, senza un’idea che li unifichi, fatti della storia dei Greci e dei barbari, come nelle annotazioni cronografiche scritte sui muri per ordine pubblico (V 33, 5 e in generale 1-7)[5].

La polemica contro le storie parziali è quella che a noi interessa. Essa importava molto anche a Polibio, che frequentemente torna a ripetere la sua critica (VIII 12; III 32). Nelle storie parziali, dedicate ad un singolo pur grande avvenimento, si perde necessariamente la visione d’insieme e il concatenamento dei fatti. È impossibile osservare la storia mondiale da un punto di vista limitato: soltanto Roma e il suo impianto istituzionale e militare possono rappresentare il centro della storia, qualunque sia il giudizio che si dia su di essi. Fra le storie parziali sono comprese anche le storie locali, come si vede dalla polemica polibiana contro gli storici di Rodi (XVI 14, 1). Tenendo presente questa concezione universalistica della storia con al centro Roma, si comprende bene il ragionamento di Polibio nel libro IX, probabilmente all’inizio (12). Qui lo storico in due capitoli sostiene la superiorità della storia pragmatica, in quanto storia contemporanea di fatti politici e militari concernenti popoli, città, re, sopra altri due generi storiografici, quello genealogico-mitico e quello interessato alla storia delle colonie, delle fondazioni, delle parentele (perì tàs apoikías, éti dè syngeneías kaì ktíseis).

La Battaglia di Pidna. Illustrazione di P. Connolly.
La Battaglia di Pidna. Illustrazione di P. Connolly.

Polibio non nega la legittimità di questi altri due generi storiografici, che si rivolgono, fra l’altro, a categorie di lettori diverse dagli uomini politici interessati alla storiografia pragmatica. Tuttavia in essi, pur ampiamente trattati da molti storici, è impossibile dire cose nuove, e si corre anzi il rischio di copiare dai predecessori, che hanno narrato accuratamente i fatti antichi. La storia pragmatica, in quanto storia contemporanea, può offrire una narrazione arricchita dai nuovi dati del progresso tecnico e, quindi, utile ai lettori, che sono messi in grado di poter agire quasi scientificamente secondo le circostanze. La storia non contemporanea, e specialmente quella delle origini, è così svalutata da Polibio in nome della concezione utilitaristica della storia. Di colonie, fondazioni e parentele avevano parlato tanto Eforo quanto Timeo (XII 26 d 2). Tuttavia, qui Polibio si riferisce piuttosto ad un genere specifico di storie ben vivo al suo tempo. La sua svalutazione colpisce ancora una volta la storiografia locale, già condannata come storiografia parziale. Eppure, è ben possibile dimostrare come anche questa storiografia locale non fosse affatto distaccata dall’attualità dei problemi politici e come, per esempio, l’emergere di Roma condizionasse, e in sensi opposti, anche la sua indagine. È proprio la concezione pragmatica della storia che impedisce a Polibio di comprendere e valutare appieno gli aspetti politici, attuali e impegnati di tipi di storiografie diversi dal suo.

D’altro canto, bisogna facilmente ammettere la verità dell’orgogliosa consapevolezza di Polibio per aver trovato nell’emergere di Roma e nel suo dominio il nuovo motivo unificante della storia mondiale. Questa sua concezione deve essere vista nel quadro più generale della storiografia greca dei secoli III e II a.C. Dopo Geronimo di Cardia gli stati monarchici greci non rappresentano più motivi ispiratori per una visione unitaria della storia greca, quale si era avuta nel IV secolo con Eforo e Teopompo. L’equilibrio politico degli Stati ellenistici non assurge a canone interpretativo della storia greca[6].

Spostare il baricentro storico e porre la grecità e i popoli dell’Occidente a nuovo momento centrale della storia, come fece Timeo, era nel III secolo un atto troppo ardito, o troppo intelligente, che doveva trovare la sua verifica soltanto un secolo dopo[7].

La storiografia delle monarchie ellenistiche si indirizza in due direzioni. Si hanno da un lato trattazioni monografiche di storia politica, che hanno il loro centro nei singoli re, e biografie. La fortuna del genere biografico per capi di stato, re e generali in questo periodo è stata ben dimostrata dal Momigliano[8].

Dall’altro lato le nuove entità statali ellenistiche, per legittimare la propria continuità con il passato, hanno interesse a valorizzare le tradizioni pregreche delle regioni ora da poco sottoposte al loro dominio. Manetone e Berosso sono gli esempi più insigni di questa tendenza sostenuta dallo stesso potere statale. Questo interesse si combina con la curiosità per paesi e popoli nuovi suscitata nel mondo greco dalla conquista dell’Oriente. Nasce una nuova fase della ricerca etnografica, che acquistò scientificità dell’apporto della riflessione filosofica ed antropologica. Ecateo di Abdera, Megastene e poi Agatarchide, sul quale ritorneremo, sono fra i nomi più significativi[9].

Le storie dedicate ai singoli Stati greci tradizionali perdono significato. Come già aveva notato acutamente Wilamowitz, l’attidografia finisce alla metà del III secolo a.C. con la fine della libertà politica di Atene dopo la guerra cremonidea[10]. L’opera di Filarco, che concentrava il suo principale interesse su Sparta, era al servizio dell’ideologia licurgica di Cleomene III e non poteva avere svolgimento dopo la fine di quel sogno. Polibio contribuì con la sua critica cattiva a svalutare ingiustamente Filarco, nemico di Arato. È in questo contesto che si nota dal III secolo a.C. un curioso ed imponente risorgere della storiografia locale. Le radici del fenomeno non possono essere trovate soltanto nel prevalere in questa età degli interessi eruditi, antiquari e documentari. Questi interessi forniscono i materiali per la ricerca erudita che caratterizza questa storiografia, anche come conseguenza dell’indirizzo di studi della scuola peripatetica, ma le sue motivazioni sono più complesse. Di nuovo Wilamowitz aveva osservato che dove sopravvive una qualche libertà politica, come a Rodi e ad Eraclea Pontica, la storiografia locale dura sino alla fine dell’età ellenistica, e si collega anche alla grande politica[11].

Busto di stratega greco ignoto. Marmo, copia romana di età adrianea da originale del 400 a.C. ca. Museo Pio Clementino (Musei Vaticani).
Busto di stratega greco ignoto. Marmo, copia romana di età adrianea da originale del 400 a.C. ca. Museo Pio Clementino (Musei Vaticani).

La teoria di Wilamowitz può essere ampliata. La storiografia locale greca del III e II secolo a.C. è in generale caratterizzata da patriottismo locale e l’indagine sul passato, sulle origini mitiche e protostoriche, vuole valorizzare il periodo aureo delle città, quello del loro libero sorgere e della loro autonomia. Per le città d’Asia minore si risale talora anche alla grande età preellenica[12].

Il fondamento di questa ricerca sul passato è semplicemente politico, di contrapposizione al presente. Le póleis, politicamente esautorate e sommerse nell’ambito delle grandi formazioni statali ellenistiche, riaffermano così la loro individualità storica risalendo alle loro origini eroiche e alle fasi della loro vita libera[13]. È dunque basilare anche in questi casi un’esigenza di libertà, idealizzata nel passato, poiché essa è politamente perduta nel presente. È una reazione, ad un tempo, alla storiografia biografica dei sovrani, e alle tendenze culturali cosmopolitiche favorite dai poteri monarchici. Le vere o false parentele delle città con altre città, che tanta parte hanno in questa storiografia locale, non sono altro che un riflesso storiografico di quelle connessioni di consanguineità invocate nelle iscrizioni con tanta frequenza dal III secolo a.C. come argomento e motivazione di atti politici[14].

Esse avranno anche nel nostro caso lo stesso significato: vantare parentela con Atene o con Sparta, con l’ambiente ionico o con quello dorico, ricollegarsi a grandi personaggi mitici significava spesso per le città tentare di sollevarsi dalla compagine etnica e statale nella quale erano immerse. L’artificiosità del procedimento non fa che accrescere il suo valore politico, come è evidentissimo nel caso delle parentele di città greche con Roma. Si ricordi che tale sistema fu adottato dalla storiografia romana fin dal suo inizio con Fabio Pittore. Catone nei libri II e III delle Origines insisteva sulle origini greche di molte città italiche. Varrone collegherà poi la storia arcaica di Roma alla storia greca. Dionigi di Alicarnasso sfrutterà un amplissimo materiale di questo tipo nella sua problematica sulle origini greche di Roma.

Certamente questo carattere politico della storiografia locale poteva difficilmente essere apprezzato da Polibio, attento ai fatti politici e militari contemporanei e orgoglioso della sua visione universalistica. Ma val la pena di mostrare, con esempi tolti proprio da opere storiche locali di età polibiana, quale fosse l’impegno attuale che animava questa storiografia minore.
Il commento di Demetrio di Scepsi al «Catalogo dei Troiani» nell’Iliade (30 libri per soli sessanta versi!) era opera di grande erudizione e di largo impegno. Esso venne scritto nella prima metà del II secolo a.C.; servì da modello al «Catalogo delle navi» di Apollodoro di Atene e fu ampiamente usato da Strabone[15].

Enea fugge da Troia. Rilievo, marmo locale, I sec. d.C., dal Sebasteion di Afrodisia.
Enea fugge da Troia. Rilievo, marmo locale, I sec. d.C., dal Sebasteion di Afrodisia.

L’opera era resa vivace dalla partecipazione dell’autore, dal suo patriottismo locale, dalla diretta conoscenza dei luoghi. Egli interpretava il testo omerico nel senso di rappresentare il regno di Priamo come un ampio stato territoriale, che si estendeva da Cizico fino al golfo di Adramitto, ed era articolato in otto o nove principati sottoposti alla signoria di Troia. Demetrio, tuttavia, negava che la Ilio dei suoi tempi rappresentasse la continuazione della Ilio di Priamo. Ironizzava sulle ambiziose pretese degli Iliensi e descriveva la loro cittadina come un misero villaggio. Demetrio dichiarava di essere stato ad Ilio al momento dello sbarco dei Romani in Asia nel 190 a.C. e probabilmente sarà stato presente alle solenni cerimonie con le quali il console L. Cornelio Scipione aveva sacrificato al tempio di Atena, mentre Iliensi e Romani riconfermavano la loro parentela (Liv. XXXVII 27, 1-3). Altrettanto significativa era la teoria di Demetrio circa la città di Scepsi. La città era stata la reggia di Enea, il quale non sarebbe sopravvissuto alla guerra di Troia. Discendenti di Ettore e di Enea, Scamandrio e Ascanio, avrebbero regnato, dopo la caduta di Ilio, a Scepsi, spostata però più in basso rispetto alla sede più antica. Una dinastia, dunque, troiana sarebbe sopravvissuta nella Troade, ma non ad Ilio (che era stata distrutta), come avevano pensato Ellanico ed Acusilao. Demetrio polemizzava anche contro le teorie che non fosse perito nella guerra troiana e avesse lasciato la Troade per vagabondare nell’Occidente e arrivare in Italia. Anche Dionigi di Alicarnasso ci ha conservato l’eco di queste discussioni polemiche sul destino di Enea (I 53, 45).

La presa di posizione di Demetrio non può essere dovuta solamente a patriottismo locale. Lo stesso contrasto intuito fra Scepsi e la città di Ilio dei suoi tempi va oltre una pur comprensibile polemica campanilistica. Negare l’emigrazione di Enea o dei Troiani in Italia significativa togliere la base alla teoria – già da tempo diffusa e all’inizio del II secolo a.C. ben sfruttata – dell’origine troiana di Roma. Ironizzare sulle pretese di Ilio di rappresentare la continuità con la città di Priamo acquistava significato polemico in un momento in cui i Romani intendevano sfruttare la parentela con Ilio per presentarsi nell’Oriente grecizzato come gli eredi dei Troiani (Just. XXXI 8, 1-4).

L’opera di Demetrio, dunque, non era soltanto di erudizione e di filologia, ma affrontava problemi di storia arcaica ricchi di implicazioni politiche estremamente attuali. La sua trattazione sulla Troade si inseriva direttamente nella problematica dell’espansionismo romano nel mondo greco. La sua teoria su Enea si contrapponeva consapevolmente ad almeno altri tre autori originari della Troade contemporanei di Demetrio: Egesianatte di Alessandria Troade, Polemone di Ilio, Agatocle di Cizico. Egesianatte, uomo politico, «amico» di Antioco III e ambasciatore del re presso Flaminino nel 196 e a Roma nel 193 a.C., aveva scritto dei «Trōikà», che Demetrio conosceva, sotto il nome di Cefalio di Gergizio, «autore molto antico»[16].

Egli probabilmente voleva così acquistare pregio alla sua opera e forse anche ricollegarla alla tradizione della Sibilla di Marpesso nel territorio di Gergizio. Egesianatte faceva morire Enea in Tracia, ma faceva venire in Italia alcuni dei suoi figli. Romolo e Romo avrebbero fondato Capua, il suolo Romo anche Roma. Egli era piuttosto favorevole ai Romani, dei quali riconosceva in questo modo l’origine troiana. La critica di Demetrio alle teorie dell’emigrazione di Enea, ripetuta da Strabone, si rivolgeva molto probabilmente ad Egesianatte ed anche a Polemone di Ilio, il maggior antiquario della Troade, che faceva arrivare Enea in Italia dopo un passaggio in Arcadia[17].

A Egesianatte o a Polemone deve risalire la valorizzazione in senso filo-romano della Sibilla Troiana, o di Marpesso o di Gergizio, e del suo vaticinio per il viaggio di Enea in Occidente. Il collegamento della Sibilla con Enea appartiene allo stesso ambito nel quale si poteva interpretare il famoso verso di Il. XX 307, con la profezia di dominio della Troade assegnato ai discendenti di Enea, come una promessa del dominio universale dei Romani e addirittura modificare il testo omerico con una «congettura politica»: anche di questo parlava Demetrio.

T. Quinzio Flaminino. Testa colossale, marmo, II secolo a.C. ca. Delfi, Museo Archeologico Nazionale.
T. Quinzio Flaminino. Testa colossale, marmo, II secolo a.C. ca. Delfi, Museo Archeologico Nazionale.

Il caso di Agatocle di Cizico è altrettanto indicativo. Questo storico che, seguendo Wilamowitz, Perret e Alföldi, penso sia da datare agli inizi del II secolo a.C., offriva un quadro più complesso[18]. Egli faceva venire Enea in Italia con seguaci Frigi e con una nipote, Rhome, figlia di Ascanio (che invece rimaneva in Asia). Rhome avrebbe consacrato sul Palatium, dove poi sarebbe sorta la città di Roma, un tempio alla Fides. Agatocle doveva trovar modo di parlare di Roma discutendo dell’area cizicena prima della fondazione della colonia milesia. Egli riconduceva la preistoria della sua città all’ambiente troiano; sfruttava i collegamenti, già in Omero, di Enea con la Frigia e identificava senz’altro Frigi e Troiani (un’identificazione che è pure ricordata da Dionig. I 29, 1). Egli faceva infine conquistare il Lazio stesso dai Frigi. Noi sappiamo che i rapporti fra Roma e la Frigia avevano acquistato un nuovo significato dopo il 204 a.C. con l’introduzione del culto della Magna Mater in Roma. Come conclusione finale vi era il collegamento di Roma con Fides. Proprio all’inizio del II secolo a.C. il motivo della Fides giocava un ruolo notevole nella politica estera romana, nel quadro delle teorizzazioni sul bellum iustum e la difesa degli alleati. La Fides è il tema centrale nel peana dei Calcidesi in onore di Flaminino (Plut. Flam. XVI 7)[19].

Orbene, Demetrio respingeva, implicitamente o esplicitamente, tutte queste ricostruzioni storiche interessate e faceva restare Enea in Asia. È bene ricordare che Demetrio conosceva Diocle di Pepareto, lo storico locale che aveva fornito a Fabio Pittore la narrazione sulle origini di Roma. Lo stesso Diocle avrà avuto occasione di toccare l’argomento di Roma in qualche connessione con la storia arcaica della sua isola[20].

Ad ogni modo la polemica di Demetrio doveva aver avuto una notevole efficacia, se, come sembra, Polibio rifiutava l’origine troiana dei Romani, mentre forse ammetteva la venuta in Italia degli Arcadi con Evandro[21].

Il rifiuto delle origini troiane di Roma poteva avere conseguenze gravi: avvalorava la teoria dell’origine barbara di Roma, rendeva problematica la possibilità di indicare una data abbastanza precisa per la stessa fondazione di Roma. Quando Dionigi cita per combatterle le opinioni di autori che facevano dei più antichi Romani una massa di sbandati senza casa, di vagabondi e di barbari (I 4, 2) egli allude a storici anti-romani che indulgevano con compiacimento sulle origini misere ed oscure della città[22]. Noi comprendiamo bene a questo punto quale gravissimo significato polemico avesse il fatto che nei «Chronikà» di Apollodoro (pubblicati nei tre libri verso il 144-143 a.C., cui se ne aggiunse un quarto dopo il 120-119) non fosse indicato l’anno della fondazione di Roma: perché non si può stabilire quando un’accozzaglia di vagabondi si sia riunita e congregata[23].

La fondazione di una città per i Greci era un atto serio, preciso e responsabile. Tali non dovevano essere considerate le origini di Roma. Che l’omissione di una data di fondazione fosse già in Eratostene non diminuisce la gravità della constatazione in un cronografo della fine del II secolo a.C. L’omissione di Apollodoro era senza dubbio intenzionale: egli conosceva bene per esempio Timeo e quindi la sua datazione di Roma. Ma nei «Chronikà» la storia di Roma prima del II secolo a.C. era trascurata e soltanto gli eventi recenti erano ricordati con una certa ampiezza. Quando noi leggiamo in Dionig. I 74-74 una lunga serie di ragionamenti appoggiati alle discrepanti testimonianze di autori greci e latini circa l’anno di fondazione di Roma, non ci deve sfuggire il valore ideologico dello sforzo dello storico che vuol reagire anche con la precisione cronologica ai denigratori della città dominatrice del mondo.
La storiografia locale non era soltanto interessata a problemi di storia delle origini. Le vicende delle città erano narrate, di regola, fino alle età più recenti. Si avevano, quindi, connessioni con problemi di politica più generale. Quando la città aveva conservato una certa importanza, l’interpretazione locale degli eventi politici generali è, malgrado l’opinione contraria di Polibio, di grande interesse. Questo è, per esempio, il caso dell’opera storica di Memnone di Eraclea Pontica, che è l’erede di una catena di notevoli storici locali, Nymphis, Promathidas, Domitius Kallistratos[24].

T. Quinzio Flaminino. Denario, Roma 126 a.C. Ar. 3,85 gr. Dritto: Testa di Roma elmata verso destra.
T. Quinzio Flaminino. Denario, Roma 126 a.C. Ar. 3,85 gr. Dritto: Testa di Roma elmata verso destra.

Il riassunto di Fozio consente di vedere come e quando la storia di Eraclea venisse ad intrecciarsi con quella dell’espansione romana in Asia. Al momento dell’esposizione della guerra contro Antioco lo storico dava un excursus (Jacoby, FGrHist, 434, par. 18) di storia romana, nel quale si trattava anche dell’origine del popolo, del suo insediamento in Italia, della fondazione di Roma. Purtroppo non sappiamo quali fossero le idee dello storico su questi argomenti. Sebbene egli desse rilievo alla conquista della città ad opera dei Galli e all’invio di una corona d’oro ad Alessandro, che aveva scritto ai Romani di prendere il comando, se ne erano capaci, o di cedere ai più forti, il tono generale verso la politica romana in Asia è nel complesso favorevole.

Diverso si presenta il caso dell’opera di Antistene, storico rodio, che Polibio unisce a Zenone nella polemica già accennata, nella quale, tuttavia, di Antistene non si parla se non per dire che anch’egli era troppo disposto a favorire la propria patria. D’altro canto Polibio ha stima grande dei due storici rodii, in quanto anch’essi erano uomini politici dedicatisi alla storiografia per nobili motivi. Il silenzio di Polibio su Antistene è però imbarazzante. Flegonte di Tralles ci ha conservato un grosso frammento attribuito ad un Antistene, filosofo peripatetico, che dallo Zeller in poi è generalmente identificato, e penso a ragione, con lo storico rodio[25].

La narrazione di Antistene è molto strana. Un generale romano, Publio, improvvisamente divenuto pazzo, si mette a pronunciare vaticini ed oracoli ai suoi soldati. Egli profetizza le prossime vittorie romane in Asia su Antioco e i Galati, ma anche una terribile invasione dell’Asia contro l’Europa, l’Italia e Roma, guidata da un re e apportatrice di lutti e distruzione. A conferma di queste sue previsioni il generale romano prevede la propria morte ad opera di una belva. Il che avviene puntualmente: la rossa bestia infernale divora Publio, con l’eccezione della testa che continua a profetizzare sventure.

L. Livineio Regolo. Aureo, Roma, 42 a.C. Au 8, 26 gr. Rovescio: L(ucius) Regulus IIIIvir a(uro) p(ublico) f(eriundo). Enea, voltato a destra, portante Anchise sulla spalla sinistra.
L. Livineio Regolo. Aureo, Roma, 42 a.C. Au 8, 26 gr. Rovescio: L(ucius) Regulus IIIIvir a(uro) p(ublico) f(eriundo). Enea, voltato a destra, portante Anchise sulla spalla sinistra.

La scena è ambientata nella Locride occidentale, dominata dagli Etoli. La datazione è collocata verso il 190 a.C. Il generale romano è sicuramente Publio Cornelio Scipione Africano. La narrazione è intessuta di oracoli in versi di tipo sibillistico, che devono essere confrontati con i versi anti-romani nel libro III degli Oracula Sibyllina. Il testo si lascia ricondurre ad ambienti oracolari: Publio profetizza, ad un certo punto, seduto su una quercia come avveniva a Dodona. Non mancano connessioni con credenze magiche, come il rosso mostro infernale e la testa che parla, una sopravvivenza nel folklore e nella magia del mito di Orfeo, studiata dal Deonna[26].

Siamo di fronte ad un frammento di propaganda anti-romana di poco posteriore all’età della guerra contro Antioco, quando si poteva sperare in una rivincita dell’Asia contro l’Italia e Roma, forse ad opera di Antioco stesso e di Annibale. L’origine pare sicuramente etolica. Valerio Anziate (in Liv. XXXVII 48) sapeva che gli Etoli avevano messo in circolazione notizie false sulla morte dell’Africano e di suo fratello Lucio e sulla distruzione dell’esercito romano. Il motivo anti-romano sarà stato sfruttato dalla propaganda seleucidica, che noi conosciamo bene per le calunnie divulgate più tarde contro i Giudei.
La diffusione di queste strane profezie è testimoniata dalla loro presenza nell’opera di Antistene. Noi ignoriamo il contesto in cui il brano conservatoci da Flegonte era inserito[27]; ma si può abbastanza facilmente dire che non doveva essere favorevole a Roma. Forse per questo Polibio parla pochissimo di Antistene.

La presenza di questo materiale in un’opera storica locale rodia ci dà un’idea del carattere popolare che tale storiografia poteva talora assumere. Questo materiale profetico-oracolare si inseriva nel contesto della propaganda sibillistica che, come si è già accennato, crebbe di intensità proprio all’inizio del II secolo a.C. e si sviluppò soprattutto in Asia. Agli oracoli preromani attribuiti alla Sibilla Troiana, che vaticinava ai discendenti di Enea il dominio del mondo, si contrappongono quelli anti-romani e filo-asiatici riferiti da Antistene e dagli Oracula Sibyllina (III, spec. 350-362). Il motivo è il contrasto tra l’Europa, ora rappresentata da Roma, e l’Asia. In questo stesso periodo si diffonde la teoria orientale della successione degli imperi che avevano tenuto il dominio del mondo, teoria ora completata con l’aggiunta di Roma. L’opera di Emilio Sura, de annis populi Romani, citata in Velleio I 6, 6, nella quale il motivo era accolto, sembra cronologicamente da collocare poco dopo il 189 a.C. Come è noto il motivo della successione degli imperi poté poi essere sviluppato tanto in senso filo-romano (come in Dionig. I 2, 14 ed Appian. praefatio, 32 sgg.) quanto anti-romano.
La complessità dei motivi accolti nella storiografia locale e la sua connessione con la problematica politica del momento si accrescono ancora se consideriamo quale sia la posizione di Cornelio Scipione nel frammento di Antistene. La sua presentazione come profeta di sventure per la sua patria e per se stesso si può facilmente spiegare con la diffusione in ambito greco, ben testimoniata da Polibio, dell’idea dell’Africano come di un personaggio ispirato dalla divinità nelle sue azioni e dotato di qualità profetiche.

Il cosiddetto "busto di Scipione". Con ogni probabilità, è il ritratto di un sacerdote del culto isiaco, dalla Villa dei Papirii di Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Il cosiddetto “busto di Scipione”. Con ogni probabilità, è il ritratto di un sacerdote del culto isiaco, dalla Villa dei Papirii di Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Dalla tradizione assai ampia sulla cosiddetta «leggenda di Scipione», così bene studiata da ultimo dallo Walbank, mette conto qui, ora, di ricordare solo gli aspetti storiografici[28]. Nella sua fondamentale discussione del problema, a proposito della conquista di Nova Carthago nel 209 a.C., Polibio (X 220) ci dice che tale raffigurazione superumana dell’Africano era un’opinione generalmente diffusa ed anche accolta da tutti gli storici del suo tempo. Polibio combatte tale opinione sviluppando una sua interpretazione razionalistica delle azioni di Scipione. Tuttavia la raffigurazione più che umana di Scipione si era presto e ampiamente diffusa: forse intorno al 190 a.C. lo stesso Scipione aveva sentito la necessità di scrivere al suo amico, il re Filippo V di Macedonia, spiegando l’episodio di Nova Carthago e ridimensionando le narrazioni favolose in circolazione. Scipione profeta di sventure nella Locride è forse il pendant orientale della leggenda occidentale di Scipione. Val la pena ancora di notare che la gens Cornelia continuò ad avere nel II e poi nel I secolo a.C. un’ampia parte nella tradizione oracolare sibillistica: basti pensare a Silla e al catilinario Cornelio Lentulo Sura.

La teoria delle doti sovrumane di Scipione e dell’appoggio e favore accordatigli dalla divinità si prestava ad una duplice interpretazione. Da un lato si innalzava a livelli quasi divini la personalità dell’Africano: la poesia di Ennio, specialmente nello Scipio, deve aver avuto la sua parte in questo svolgimento. Dall’altro si poteva accentuare la responsabilità della Fortuna nei successi dei Romani, a scapito del loro merito. Dionigi di Alicarnasso dice che questo appunto era uno dei fondamentali motivi della storiografia anti-romana, che rimproverava alla Fortuna di aver donato, senza alcun merito, ad una città così poco degna una signoria così grande e per tanto tempo (I 5). Il ruolo della Fortuna nell’ascesa di Roma era divenuto presto un tópos storiografico e letterario. Nella complessa concezione della Tyche dello stesso Polibio l’emergere del dominio romano per valore e capacità militare e politica è visto in accordo con i disegni preordinati del Destino. Nell’inno a Roma della poetessa Melinno, databile nella prima metà del II secolo a.C., il dominio di Roma è inteso come indistruttibile proprio perché dato dal Fato[29].

Ma è chiaro che il motivo della Fortuna aveva soprattutto una funzione anti-romana e nel riferimento di Dionigi esso è collegato strettamente con la qualifica di barbari data ai Romani. Sebbene esistessero dal V e IV secolo a.C. accenni ad un’origine greca di Roma, la concezione di Roma come città barbara era dominante fra III e II secolo a.C. Nel già citato discorso dell’etolo Agelao, Romani e Cartaginesi sono considerati entrambi barbari. Questa teoria della barbarie romana, alla quale si contrapponeva un’ideologia panellenica, ebbe un declino piuttosto rapido, ma essa risorgerà nel I secolo a.C. nell’età di Mitridate[30]. Lo stesso Polibio, come ha dimostrato H.H. Schmitt, colloca i Romani in una categoria intermedia tra i Greci e i barbari[31].

È sforzo comune della storiografia romana già al suo inizio il voler grecizzare Roma, reagendo a questa connotazione negativa. Gli stessi sviluppi iniziali della letteratura latina, dovuti ad autori non romani provenienti dall’Italia meridionale, rappresentano non soltanto la recezione a Roma della letteratura e della cultura greche, ma anche l’inserimento più o meno consapevole della città nell’ambito culturale e politico della Magna Grecia. Il motivo di Roma città barbara aveva probabilmente acquistato sviluppo dopo la conquista romana delle città greche della Magna Grecia e della Sicilia. Proprio negli ambienti politico-culturali di Taranto era nato il primo tentativo di ricupero culturale dei Romani nell’ambito greco con la teoria del re legislatore Numa Pompilio seguace di Pitagora[32].

La teoria risale probabilmente ad Aristosseno ed essa cercava di inserire Roma, così come altre popolazioni indigene dell’Italia meridionale, nella sfera di influenza politico-culturale greca. Le stesse teorie dell’origine troiana e della derivazione arcadica di Roma erano state proposte in origine dal mondo greco con lo scopo di immettere anche Roma nel filone tradizionale della storia greca: esse vennero poi a rappresentare una copertura giustificava dall’emergere della potenza romana e del suo predominio. E con lo stesso valore queste teorie furono accolte volentieri in ambito romano. Polibio non era interessato a questa problematica, che è in sostanza quella dell’ellenizzazione di Roma e dell’Italia tanto in età arcaica quanto nell’età a lui contemporanea. Questo problema, anzi, era in contrasto con la sua interpretazione pragmatica dell’emergere della potenza romana, una potenza che fondamentalmente non apparteneva al mondo greco, sebbene non fosse propriamente barbara. D’altro canto la teoria dell’acculturazione pitagorica di Roma era caduta, come canone storiografico, quando se ne dimostrò l’impossibilità cronologica, sebbene continuasse a durare come motivo storico-culturale.

Polibio è consapevole che, nella dinamica della storia, l’egemonia romana, come già quella di Atene e di Sparta, può essere giudicata come volta a trasformarsi in dispotismo (philarchía)[33]. Egli accetta la teoria romana del iustum bellum, per esempio contro Cartagine, e riconosce che i Romani hanno dimostrato saggezza e valore nella conquista dell’impero e che lo hanno accresciuto usando un atteggiamento conciliante e umano verso i vinti. Polibio sa anche che contro i nemici recidivi la guerra romana è spietata e sterminatrice e che la difesa della conquista è spesso necessariamente brutale. Questo vale non soltanto per le guerre finali contro la Macedonia, Cartagine e la Lega Achea, ma già prima per le ultime fasi delle guerre galliche[34]. Proprio perché è la logica interna stessa dell’imperialismo che spinge a desiderare di più e a difendere l’impero con ogni mezzo, Polibio può trascurare motivazioni specifiche per le singole conquiste.

Un altro storico di storia universale contemporaneo di Polibio, Agatarchide di Cnido, era in questo senso più esplicito[35]. Le due sezioni della sua opera, «Sull’Asia» e «Sull’Europa», non si lasciano individuare con chiarezza. La conclusione della sua storia era probabilmente la caduta del Regno di Macedonia. Tuttavia possiamo arguire cosa pensasse dei Romani da un commento inserito nella sua opera etnografica «Sul Mar Rosso», a proposito della popolazione araba dei Sabei: per loro fortuna essi hanno la loro sede lontano da coloro che tendono verso ogni luogo le proprie forze per impossessarsi dei beni altrui[36].

Agatarchide scriveva questa sua operetta dopo il 146 a.C., forse verso il 132 a.C., quando anche il Regno di Pergamo era stato già assorbito dai Romani. Sebbene vissuto nell’ambiente egiziano, presso personaggi politicamente influenti, in un periodo storico nel quale il regno tolemaico doveva a Roma la sua stessa sopravvivenza, Agatarchide dava una valutazione assolutamente negativa dell’espansione romana, riportata al puro spirito di conquista. Su per giù nei medesimi anni anche l’elogio dei Romani contenuto nel primo libro dei Maccabei (I 8, 1-16) dava come motivazione per la conquista romana della Spagna le miniere d’oro e d’argento. Polibio e Agatarchide concordavano nell’intendere l’espansionismo romano come cosciente volontà di potenza, ma differivano nella valutazione dello stesso, sebbene, com’è noto, Polibio rinviasse ai posteri il giudizio morale sull’impero romano.

L. Emilio Lepido Paolo. Denario, Roma 62 a.C. Ar. 3,90 gr. Dritto: Paullus Lepidus - Concordia. Testa di Concordia con diadema e velo, verso destra.
L. Emilio Lepido Paolo. Denario, Roma 62 a.C. Ar. 3,90 gr. Dritto: Paullus Lepidus – Concordia. Testa di Concordia con diadema e velo, verso destra.

Quando si riconosce la brutalità della condotta romana di guerra, è difficile parlare di umanità in relazione alla politica romana e al popolo romano in generale. Si può esaltare qualche personalità dominante e caratterizzarla come figura di alto livello morale. Scipione Africano, L. Emilio Paolo, Scipione Emiliano sono personaggi già idealizzati in Polibio e scelti a rappresentare la philanthrōpía, la moderazione nella vittoria, la magnitudo animi. Essi riscattano con le loro virtù gli aspetti odiosi dell’imperialismo e finiscono per impersonare la stessa Roma. La giustizia dell’impero romano sta nella virtù di alcuni grandi capi. Lo stesso Ennio negli Annales aveva tessuto l’elogio della sapientia politica romana al di sopra del puro valore militare[37].

La raffigurazione di questi grandi personaggi rappresenta anche il momento di passaggio ad una nuova fase storiografica, intesa a giustificare il dominio romano da un punto di vista dottrinario. Queste giustificazioni erano divenute assolutamente necessarie dopo le distruzioni di Cartagine e di Corinto e le gravi reazioni dell’opinione pubblica greca. Le sole teorie giustificative romane, riflesse nei loro documenti ufficiali inviati alle città greche, e presenti nella prima annalistica con l’articolata concezione del iustum bellum, non bastavano più[38].

Lo stesso motivo, romano e polibiano, che la guerra contro i nemici recidivi (superbi) è di necessità una guerra di sterminio, si arricchisce del corollario che la distruzione di Cartagine è un beneficio per l’umanità tutta, perché i Cartaginesi rappresentavano la parte ferina del genere umano. Troviamo questo concetto in un frammento di Diodoro (XXVII 13-18) relativo alla discussione in Senato sulle condizioni di pace da dare a Cartagine dopo la guerra annibalica[39]. Si tratta di discorsi nei quali si intrecciano riflessioni teoriche greche e aspetti pratici della politica romana: esse sembrano presupporre la terza guerra punica. Da un lato si insiste sulla moderazione e sulla clemenza da usare nella vittoria e sui mutamenti di fortuna cui sono soggette le vicende umane. Dall’altro si mette in chiaro l’impossibilità per i Cartaginesi di pretendere clemenza. Il paragone di Cartagine con la bestia feroce la cui distruzione è utile per tutti non sembra polibiano; esso presuppone forse il famoso contrasto del 150 a.C. fra Catone e Scipione Nasica sulla legittimità e l’opportunità della terza guerra punica. Lo svolgimento delle idee presenti in questi passi condurrà anche al virgiliano parcere subiectis et debellare superbos.

La difesa ideologica dell’imperialismo romano e della sua fondamentale giustizia fu assunta, come sembra probabile, dal filosofo stoico Panezio[40]. Egli reagiva anche contro le teorie che erano state espresse nella stessa Roma da Carneade nel 155 a.C. e che condannavano l’impero romano da un punto di vista morale. Sostanzialmente risale a Panezio la concezione dell’utilità per i sottoposti che il dominio e il potere siano nelle mani dei migliori e non dei più forti. Orbene, si potevano rappresentare i Romani come i migliori e i più degni soltanto a patto di guardare a taluni grandi personaggi, la cui preparazione culturale e le cui alte idealità morali valevano a giustificare un’egemonia di Roma sui Greci. La figura di Scipione Emiliano è stata certamente idealizzata da Cicerone, ma non è dubbio che la missione culturale di Panezio sia consistita appunto nella cosciente preparazione morale e culturale di un élite nell’ambito della classe dirigente romana[41].

Posidonio di Apamea. Busto, marmo, inizi I sec. a.C.. dalla Collezione Farnese. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Posidonio di Apamea. Busto, marmo, inizi I sec. a.C.. dalla Collezione Farnese. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

La consapevolezza di Panezio in questo senso era certamente molto superiore a quella degli altri Greci venuti a Roma nella prima metà del II secolo a.C. e dello stesso Polibio. Non si trattata più soltanto di introdurre a Roma elementi della cultura e dell’educazione greca, ma di dimostrare con un’azione pratica la validità di una teoria, elaborata inizialmente come esigenza greca per offrire, di nuovo, ai dominatori romani una copertura ideologica.

Fondamentalmente questa teoria ha rappresentato la base per la successiva interpretazione dell’impero romano offerta da Posidonio[42]. Questo storico, continuatore dell’opera di Polibio, non discute le basi della legittimità del dominio romano, ma cerca invece di spiegare le cause della decadenza morale e politica della classe dirigente e dell’intera compagine sociale. Questa decadenza è vista come la conseguenza della cupidigia e dell’avidità, che avevano condotto alla distruzione di Cartagine; nonché della prepotenza, dell’arroganza del potere, che deriva dalla ricchezza eccessiva e dalla mancanza di freni esterni. Lotte civili e malgoverno dei sudditi ne sono le conseguenze ulteriori e dirette. La sensibilità storica consente a Posidonio di superare il semplice ragionamento moralistico e di inserire nel quadro suggerito dall’argomentazione teorico-filosofica i dati concreti della realtà storica. Insurrezioni servili e proletarie, comportamenti arroganti verso gli alleati, depravazione morale della gioventù, lo sfruttamento delle province ad opera del ceto equestre e di governatori corrotti, il dissidio fra Senato e cavalieri sono altrettanti aspetti della crisi dello Stato romano. Tuttavia anche in questa ricostruzione storica non sembrano mancare elementi positivi: talune personalità esemplari e lo stesso Senato depositario nel complesso di una saggia tradizione politica consentono di immaginare nuovamente un impero giusto e fondato sul consenso dei sudditi. L’impero universale romano consentì, ad ogni modo, a Posidonio una maggior apertura etnografica e geografica specialmente sull’Occidente.

Polibio e Posidonio scrivevano di storia contemporanea. Entrambi conoscevano bene i problemi della loro età e pur nella diversità dei contesti storici in cui vivevano la loro adesione alla potenza romana era sincera. Essi erano consapevoli dell’esistenza di posizioni storiografiche anti-romane e le loro opere rappresentavano nel complesso una reazione critica a favore di Roma. La guerra mitridatica, l’ultimo tentativo della libertà greca, rimise in circolazione i motivi della pubblicistica anti-romana. Lo storico mitridatico Metrodoro di Scepsi trovava modo, non si sa come, di rinfacciare a Roma ancora il saccheggio della città etrusca di Volsinii nel 265-264 a.C. e il bottino delle duemila statue[43].

Le argomentazioni più viete sulla Roma delle origini erano riesumate con intenzioni ostili. La reazione di Dionigi di Alicarnasso ha consapevolmente un fondamento politico. Far conoscere ai Greci la storia arcaica di Roma vuol dire per lui respingere le dicerie false e incontrollate messe in circolazione sulle origini delle città, dimostrare che la sua ascesa a potenza dominante non è frutto del caso, ma la conclusione di un processo storico caratterizzato dal rispetto degli dèi, dalla giustizia e da molte altre virtù. La teoria della grecità dei Romani sostenuta da Dionigi nella temperie augustea non era nuova; aveva, anzi, dietro di sé una tradizione assai antica nella storiografia greca e romana. Elevata a motivo conduttore della ricerca storica in Dionigi, essa appariva la conclusione di svariati filoni storiografici. Inseriva la storia di Roma nello svolgimento della storia greca; poneva l’impero romano come momento ultimo e stabile nella successione degli imperi mondiali; superava la polemica sulla barbarie di Roma e sulla indegnità al dominio del mondo; valorizzava la grande capacità di assimilazione del popolo romano e offriva così un contesto storico rinnovato alla teoria di Panezio sul diritto dei migliori al comando.

Il libro I di Dionigi, dedicato all’etnografia italica e alla dimostrazione del carattere greco di Roma, rivaluta per un’ampia finalità politica i complessi motivi della storiografia locale greca e dell’antiquaria romana del II e I secolo a.C. I problemi di genealogia, colonizzazione, fondazione e parentela, che Polibio aveva lasciato da parte, dimostrano di poter essere trattati con spirito d’indipendenza, capacità critica, novità di risultati. Dionigi riconferma quello che è stato detto a proposito di storici locali del II secolo a.C. e cioè che anche la storiografia antiquaria locale può avere un preciso fondamento politico e una sua attualità. La fusione in Dionigi di temi di storiografia generale – l’emergere di Roma a potenza dominante in Italia prima della guerra contro Pirro – e di motivi della ricerca antiquaria rappresenta il risultato più notevole della sua opera. Quest’opera va intesa sullo sfondo della Roma augustea e della letteratura greca contemporanea. Il problema storico dell’impero romano e della collaborazione del mondo politico e culturale greco con esso assumeva aspetti nuovi. L’opera storica di Dionigi indicava, pur nella trattazione delle fasi arcaiche di Roma, la via per il superamento dei contrasti presenti in Polibio e Posidonio e può quindi essere considerata, emblematicamente, come la conclusione della polemica storiografica greca sull’imperialismo romano e come la base per la nuova coesistenza del mondo greco e del mondo romano entro l’impero ecumenico.

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Note:

[1] In generale si vd. S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, 3, II 1, Bari 1972, pp. 53 sgg.

[2] F.W. Walbank, Polemic in Polybius, JRS 52 (1962), pp 1-12; Id., Polibius, Berkeley 1972, pp. 48 sgg.; P. Pédech, La culture de Polybe et la science de son temps, in Polybe, Entretiens sur l’Antiquité Classique, XX, Genève 1974, pp. 42-46.

[3] J. Deininger, Der politische Widerstand gegen Rom in Griechenland 217-86 v. Chr., Berlin 1971, pp. 25-29.

[4] La teoria sembra essere stata elaborata in ambiti orientali, originariamente con funzione anti-greca; subì poi svariati adattamenti nella sibillistica giudica e nella storiografia greca, anche in relazione e in conseguenza dell’emergere di Roma: così D. Flusser, The Four Empires in the Fourth Sibyl and in the Book of Daniel, IOS 2 (1972), pp. 148-175, ma A. Momigliano, Daniele e la teoria greca della successione degli imperi (1980), ora in Settimo contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma 1984, pp. 297-304 sostiene l’origine greca.

[5] Il passo è di interpretazione controversa: F.W. Walbank, A Historical Commentary on Polybius, I, Oxford 1957, p. 563.

[6] H.H. Schmitt, Polybios und das Gleichgewicht der Mächte, in Polybe…, cit., pp. 67-93.

[7] A. Momigliano, Atene nel III secolo a.C. e la scoperta di Roma nelle Storie di Timeo di Tauromenio (1959), ora in Terzo contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma 1966, I, pp. 23-53.

[8] A. Momigliano, Lo sviluppo della biografia greca, Torino 1974, pp. 85 sgg.

[9] A. Dihle, Zur hellenistischen Ethnographie, in Grecs et Barbares, Entretiens sur l’Antiquité Classique, VIII, Genève 1962, pp. 207-232.

[10] U. v. Wilamowitz-Moellendorff, Greek Historical Writings and Apollo, Oxford 1908, p.13 (testo tedesco della prima conferenza con lievi varianti in Reden und Vorträge4, Berlin, p. 216 sgg.).

[11] Oltre allo scritto citato alla nota precedente cfr. Id., Die griechische Literatur del Altertums, in Die Kultur der Gegenwart, I, 8, Leipzig-Berlin 1905, pp. 109-112, ed anche Id., Hellenistische Dichtung in der Zeit des Kallimachos 2, Berlin 1962, pp. 44-50.

[12] Naturalmente la storiografia locale del III-I secolo a.C. ha una premessa lontana nella letteratura degli Oroi: F. Jacoby, Die Entwicklung der griechischen Historiographie (1909), ora in Abhandlungen zur griechischen Geschichtsschreibung, Leiden 1956, pp. 49-50, 61. Inoltre nel IV secolo a fianco della storiografia delle Elleniche si era avuta una storiografia pur sempre politica ma con un punto di osservazione più ristretto, perché cittadino o regionale (L. Canfora, in RIL 107 (1973), pp. 1151-1153). Essa reagiva, in certo modo, alla monopolizzazione storiografica delle grandi città egemoniche. Per la Messenia: C. Pearson, The Pseudo-History of Messenia and its Authors, Historia 11 (1962), pp. 397-426.

[13] P. Zancan, Il monarcato ellenistico nei suoi elementi federativi, Padova 1934; V. Ehrenberg, Lo Stato dei Greci, Firenze 1967, p. 279.

[14] Il problema è toccato di frequente nella ricerca storico-epigrafica di L. Robert. Cfr. anche D. Musti, Sull’idea di συγγένεια in iscrizioni greche, ASNSP 32 (1963), pp. 225-239.

[15] G. Raede, Demetrii Scepsii quae supersunt. Diss. Phil., Gryphiswaldiae 1880; E. Schwartz, Griechische Geschichtsschreiber, Leipzig 1957, pp. 106-114.

[16] Testimonianze e frammenti in Jacoby, FGrHist 45.

[17] L. Preller, Polemonis Periegetae fragmenta, Lipsiae 1838, fr. XXXVIII, p. 69; C. Müller, Frag. Hist. Gr., III, fr. 37.

[18] Testimonianze e frammenti in Jacoby, FGrHist 472. U.v. Wilamowitz-Moellendorff, Antigonos von Karistos, Phil. Unters., IV, Berlin 1881, p. 176; A. Alföldi, Die trojanischen Urahnen der Römer, Basel 1957, pp. 11-12; J. Perret, Les origins de la légende troyenne de Rome (281-31), Paris 1942, pp. 380-386. Datazione alla prima metà del III secolo a.C. in Jacoby, FGrHist IIIb (Texte), pp. 372-374, (Noten) pp. 219-220.

[19] Importanti i vari saggi di P. Boyancé, ora riuniti in Études sur la religion romaine, Roma, École Fr. de Rome, 1972, pp. 91-152.

[20] Jacoby, FGrHist 820 T 1. Secondo Jacoby l’opera di Diocle sarebbe stata una “Fondazione di Roma”.

[21] E. Bickermann, Origines gentium, CPh 47 (1952), p. 67; E. Gabba, in Miscellanea di studi alessandrini in memoria di A. Rostagni, Torino 1963, p. 192, n. 21.

[22] H. Fuchs, Der geistige Widerstand gegen Rom in der antiken Welt, Berlin 1938, pp. 14 sgg., 40 sgg.

[23] F. Jacoby, Apollodors Chronik, Phil. Unters., XVI, Berlin 1902, pp. 26-28; FGrHist, II B, p. 723. Di opposto parere S. Mazzarino, op. cit., pp. 354-355.

[24] P. Desideri, Studi di storiografia eracleota. I. Promathidas e Nymphis, SCO 16 (1967), pp. 366-416; II. La guerra con Antioco il Grandeibid., 19-20 (1970-71), pp. 487-537.

[25] Jacoby, FGrHist 257 F 36, cap. III = A. Giannini, Paradoxographorum graecorum reliquiae, Milano, s.a., pp. 184-196. Per l’identificazione: E. Zeller, Über Antisthenes aus Rhodos, «SB Berlin», 1883, pp. 1067-1083. In generale A. Momigliano, Polibio, Posidonio e l’imperialismo romano, Acc. Scienze Torino. Atti 107 (1972-73), pp. 703-704.

[26] W. Deonna, Orphée et l’oracle de la tête coupée, REG 38 (1925), pp. 44-69.

[27] S. Mazzarino, op. cit., II 1, pp. 155-161.

[28] F.W. Walbank, The Scipionic Legend, PCPS 193 (1967), pp. 54-69.

[29] C.M. Bowra, Melinno’s Hymn to Rome, JRS 47 (1957), pp. 21-28; H. Bengtson, Das Imperium Romanum in griechischer Sicht, Gymnasium 71 (1964), pp. 153-154 e ora in Kl. Schriften zur Alten Geschichte, München 1974, pp. 552-554. Datazione al III secolo a.C. in S. Mazzarino, op. cit., II 1, p. 506, n. 370.

[30] Deininger, op. cit., pp. 34-37.

[31] H.H. Schmitt, Hellenen Römer und Barbaren. Eine Studie zu Polybios. Wiss. Beilage zum Jahresbericht 1957-58 d. Hum. Gymnasium Aschaffenburg.

[32] E. Gabba, in Les origines de la république romaine, Entretiens sur l’Antiquité Classique, XIII, Genève 1967, pp. 154-164.

[33] Tale giudizio è in una delle interpretazioni della pubblica opinione greca a proposito della terza guerra contro Cartagine: Polyb. XXXVI 9, 5-8.

[34] Diod. XXXII 2 e 4. La derivazione del passo da Polibio sembra sicura: M. Gelzer, Kleine Schriften, II, Wiesbaden 1963, pp. 64-66; F.W. Walbank, Polybius, cit., pp. 178-181; Polyb. II 19, 11; 21, 9.

[35] Testimonianze e frammenti in Jacoby, FGrHist 86. Il commento in II C, pp. 150-154. Inoltre, H. Strasburger, Die Wesensbestimmung der Geschichte durch die antike Geschichtsschreibung, Wiesbaden 1966, p. 88 sgg.; P. Fraser, Ptolemaic Alexandria, Oxford 1972, I, pp. 516, 544 sgg.

[36] P. Fraser, The Alexandrian view of Rome, BSAA 42 (1967), pp. 7-8. Il passo in C. Müller, Geographi Graeci minores, I, Paris 1855, p. 189 sgg., par. 102.

[37] S. Mariotti, Lezioni su Ennio 2, Torino 1966, pp. 111-114.

[38] H. Drexler, Bellum iustum, RhM 102 (1959), pp. 97-140.

[39] H. Volkmann, Griechische Rhetorik oder römische Politik? Bemerkungen zum römischen «Imperialismus», Hermes 82 (1954), pp. 465-476; F.R. Walton, Diodoros of Sicily, Loeb Classical Library, London- Cambridge Mass., 1957, p. 219, n. 1.

[40] In generale per quanto è detto più sotto: A. Garbarino, Roma e la filosofia greca dalle origini alla fine del II secolo a.C., Torino 1973, I, p. 37 sgg.; II, p. 380 sgg.

[41] K. Abel, Die kulturelle Mission des Panaitios,  Antike und Abendland 17 (1971), pp. 119-143.

[42] H. Strasburger, Posidonios on Problems of the Roman Empire, JRS 55 (1965), pp. 40-53; P. Desideri, L’interpretazione dell’impero romano in Posidonio, RIL 106 (1972), pp. 481-493; A. Momigliano, Polibio…, cit., pp. 693-707.

[43] Jacoby, FGrHist 184 F 12.

La nascita della storiografia latina

di A. Lᴀ Pᴇɴɴᴀ, La cultura letteraria a Roma, Bari-Roma 1986.

La storiografia in prosa nacque probabilmente dopo l’epos storico: infatti, è probabile che Fabio Pittore scrivesse dopo il Bellum Poenicum di Nevio (anche se la questione è discussa). Prima di Nevio, però, esisteva, come s’è già detto, la cronaca annuale in prosa dei pontefici; non è arrischiato supporre che il pontefice massimo, oltre la cronaca che scriveva sulla tabula dealbata, tenesse nel suo archivio dei commentarii (o qualche cosa di simile), documenti raccolti e una cronaca più dettagliata, su cui si sarebbe poi fondata, nel II secolo a.C., la compilazione degli Annales maximi. È difficile che esistesse una vera narrazione, con valutazione più o meno esplicita di fatti e persone. È credibile che Fabio Pittore dalla cronaca pontificale ereditasse l’impostazione annalistica e ne attingesse materiale; ma la rottura, il salto erano resi più evidenti dall’uso del greco. A spiegare la scelta di questa lingua non si può addurre a una ragione certa: può aver giocato la mancanza di una prosa letteraria latina, ma è meno improbabile la ragione più spesso addotta: l’opera, in polemica con storici greci favorevoli a Cartagine, si rivolgeva anche a un pubblico non latino, che conosceva la lingua greca. Naturalmente si rivolgeva anche al pubblico colto romano (poco più esteso, come s’è già detto, dell’élite politica), poiché già nella seconda metà del III secolo a.C. l’insegnamento successivo a quello elementare (e poi anche quello elementare) incomincia dal greco. D’altra parte è una novità rilevante, quasi sorprendente, che uno scrittore latino si rivolga a un pubblico di ambito mediterraneo.

Denario, Roma 207 a.C. Ar. 4.36 gr. Obverso: Roma. I Dioscuri a cavallo al galoppo verso destra.

Mentre la poesia è prodotta da liberti o clienti che provenivano da altri paesi, la storiografia è prodotta da uomini della nobilitas: l’uomo politico si occupa di diritto, cerca di essere un buon oratore oltre che un buon capo militare, e da ora in poi non disdegna di scrivere storia. Nella storiografia l’ispirazione (o il veleno) proveniente dall’impegno politico è più immediata e forte che in altri generi di letteratura. Fabio si rifà alle origini di Roma, ma dedica una parte, forse rilevante, dell’opera alla seconda guerra punica, alla quale ha partecipato lui stesso; probabilmente ha introdotto nell’opera anche qualche elemento autobiografico: non senza ragione si ritiene che Livio (Ab Urbe condita, XXII 57,5; XXIII 11,1 sgg.) attinga da Fabio quando riferisce con dettagli la missione dello stesso Fabio presso l’oracolo di Delfi durante la seconda guerra punica. Sotto questo aspetto egli avrà accentuato una libertà che era già nell’epos storico: per es., Nevio nel Bellum Poenicum aveva ricordato la sua milizia nella prima guerra punica; Ennio negli Annales menzionò il suo accesso alla cittadinanza romana.
Anche se Fabio polemizzava contro storici greci, teneva d’occhio innanzi tutto i problemi interni dello Stato romano. Come generalmente l’élite politica contemporanea, egli riteneva che alla potenza di Roma verso i nemici esterni contribuisse in misura decisiva la conservazione scrupolosa dell’antico patrimonio di culti religiosi, istituzioni politiche e giuridiche, costumi: Fabio ne ricercava le origini e talvolta li descriveva minutamente. Senza escludere che la storiografia greca stimolasse la sua curiosità, la spinta più importante era nel rispetto e nell’amore per il patrimonio religioso e morale della civitas. Quest’interesse di Fabio si ritroverà abbastanza vivo nella storiografia arcaica latina. D’altra parete l’amore per il prestigio della res publica non escludeva affatto l’amore per il prestigio della gens o della famiglia. Rintracciare in Livio le deformazioni operate dalle sue fonti per accrescere la gloria di questa o quella delle grandi famiglie è compito dai risultati necessariamente incerti, ma tutt’altro che futile. Anche sotto questo aspetto l’epos storico avrà presentato analogie: se non abbiamo indizi in Nevio, ne abbiamo in Ennio, benché resti difficile approdare a conclusioni sicure. E questo proposito va ricordato quanto materiale utile alla storiografia offrivano gli archivi delle grandi famiglie.
La storiografia in latino fu iniziata in vecchiaia da Catone, che irrideva Aulo Postumio Albino, autore di annali in greco; egli non avrebbe mai riconosciuto che senza Fabio Pittore e gli altri annalisti in greco difficilmente la storiografia in latino sarebbe nata già adulta, come si dimostra nelle Origines. La storia viene ancora scritta dall’élite politica, e questa volta da un uomo politico di primo piano, il che non trova vere analogie nello sviluppo futuro (parlo della storia in senso stretto, come l’intendevano gli antichi, non dei commentari). Naturalmente Catone è ben lontano dal porre il compito della storiografia come il più importante della sua vita. Non per caso vi si dedicò solo da vecchio: prima era occupato a far politica, e questo era il compito veramente importante per un romano della nobilitas. Scrivere storia, però, è già per Catone un compito rispettabile per l’uomo politico, un modo degno di occupare l’otium dopo i negotia: giacché l’homo clarus atque magnus deve render conto, oltre che dei suoi negotia, anche del suo otium: questo era l’argomento che nel proemio dell’opera (fr.2 Peter = 2 Schröder) egli usava per giustificare il suo impegno di storico. L’argomento si inserisce in una riflessione della cultura latina sull’uso dell’otium incominciata almeno da Scipione l’Africano. L’otium è concepito o come relaxatio dell’animo necessaria a ritemprare le energie per i negotia o come meditazione o attività letteraria riguardante pur sempre i negotia: in ogni caso si tratta di un otium integrato nella vita politica, privo di valori autonomi. È opportuno rilevare fin da ora che il dibattito si prolungherà per secoli, che sarà vivo fino a Seneca: non è illegittimo prenderlo come un punto di riferimento non secondario nella storia della cultura latina.

Nelle Origines impegno politico e aggressività erano probabilmente più forti che in Fabio; certamente più forte era il peso che Catone dava all’autobiografia; anzi una parte dell’opera era un’apologia o una celebrazione di sé. La notevole presenza dell’autobiografia convergeva con la forte tendenza a privilegiare la storia contemporanea, che nell’opera aveva un posto molto ampio (le erano dedicati tre dei sette libri). Il caso, ben lungi dall’essere eccezionale, si inserisce in una tendenza generale della storiografia antica, che i Latini non hanno ricalcata, bensì sviluppata per proprie naturali esigenze. Livio (praef. 4) sa che il pubblico aspetta con interesse molto più vivo le parti dell’opera in cui narrerà la storia recente. Non l’interesse intellettuale per il passato, ma il bisogno appassionato di conoscere il proprio tempo è la prima molla della storiografia antica, anche se si può sostenere giustamente che solo raffrenando quel primo impulso la storia diventa vera conoscenza intellettuale.
L’esperienza politica fu un ricco nutrimento per l’opera storica di Catone. Impegnatissimo e combattivo nelle lotte che ardevano all’interno della città, egli aveva, però, larghi orizzonti. Forse anche perché di origine extraurbana (proveniva da Tuscolo), egli rivolse la sua attenzione anche alla storia dei popoli italici, alle cui origines dedicò il II e il III libro dell’opera. Nel Libro V inserì il suo discorso pro Rhodiensibus: ciò serviva all’apologia di se stesso, ma metteva anche in rilievo i problemi di politica internazionale. Prima della terza guerra punica una parte dell’élite politica pensò a una specie di equilibrio fra le potenze ancora autonome nell’ambito del Mediterraneo, e anche Catone per qualche tempo dovette ritenere che quella soluzione fosse possibile e vantaggiosa.

Ritratto di patrizio romano (vista frontale). Busto, marmo, prima metà del I sec. a.C. Roma, Collezione Torlonia.

Anche nell’opera della vecchiaia resta in primo piano il problema dell’integrità della società romana: come tener saldo l’assetto dello stato aristocratico, quale deve essere l’etica e la cultura della città, come eliminare le forze centrifughe. Homo novus, entrato nella nobilitas dopo che questa era stata in parte distrutta nella seconda guerra punica, ne aveva fatti propri gli interessi: egli elabora un’ideologia dell’uomo che s’innalza grazie alla sua virtù, soprattutto restando attaccato al modello agrario di parsimonia, laboriosità, energia, ma non contesta affatto il diritto e il dovere della nobilitas a governare; anzi mira a ridarle quella morale e quell’energia che la rendano degna e capace del ruolo che le spetta. L’origine extraurbana, la tradizione sabina, l’esperienza della campagna sono da lui valorizzate in contrasto con la debolezza della città di fronte alla corruzione, senza però creare una frattura fra città e retroterra. Nessuno più impegnativamente e coscientemente di lui ha raccolto e rafforzato il bisogno di mantenere l’equilibrio e la coesione della nobilitas, contrastando le personalità politiche di prestigio eccezionale, come Scipione Africano. Egli cercò, non senza successo, di soffocare sul nascere il culto carismatico delle grandi personalità. Una concezione “eroica” della storia stava già penetrando nella cultura romana e trovava qualche spazio negli Annales di Ennio; Catone elaborò, specialmente nell’opera storica, una concezione “storicistica”, che metteva l’accento, nella storia romana, sul lento formarsi, attraverso generazioni e attraverso secoli, dello Stato e delle istituzioni, sulla partecipazione collettiva alla costruzione dell’organismo pubblico (anche se la collettività era, in definitiva, l’élite politica), sulla continuità, la mancanza di rotture che garantiva la stabilità.

Ennio. Testa, tufo dell’Aniene, metà del II secolo a.C. ca. dal Mausoleo dei Cornelii Scipiones. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

L’opera storica chiudeva con grande coerenza un compito politico e culturale che Catone aveva assolto per tutta la vita come oratore e come autore di vari trattati (tra i quali si conserva quello De agri cultura). Per lo più egli è stato visto come un difensore della tradizione romana contro l’ellenizzazione, del passato contro il presente. L’interpretazione non manca di ragioni valide. La lotta contro la penetrazione della cultura greca per molte vie, che andavano dal lusso della tavola alla letteratura, dai divertimenti alla religione, fu costante e accanita. Egli conquistò un largo consenso; nel 186 a.C. ci fu la pesante repressione dei culti bacchici, nel 173 l’espulsione dei filosofi epicurei Alceo e Filisco, nel 161 l’espulsione di filosofi e retori, nel 155 il rapido rinvio dei filosofi greci mandati come ambasciatori; forse nel 154 fu impedita la costruzione di un teatro in pietra (Livio, Ad Urbe condita XLVIII; Valerio Massimo, II 4,2). Può darsi, però, che nel rifiuto della cultura greca altri andassero più in là di Catone. Egli non era affatto chiuso all’influenza intellettuale greca: nelle Origines è stata avvertita l’influenza del Timeo; persino nel De agri cultura si rintracciano elementi di scienza greca. Questo trattato dimostra bene come Catone sapesse capire le esigenze nuove: è noto che il suo modello di “azienda agricola”, di notevoli dimensioni, è aggiornato ai mutamenti dell’economia. Al centro del suo compito intellettuale è la fondazione di una cultura radicata nella tradizione, ma non vecchia, viva e non irrigidita, che costituisse la base dell’educazione morale e politica. ispirazione e organismo dovevano essere romani, non greci, ma gli apporti greci erano accolti, se non proclamati. In una certa misura, che non va forzata, il suo compito è analogo a quello che, con altra apertura verso la cultura greca, si proporrà Cicerone. Già Catone affronta il compito come rimedio a un processo di decadenza della società di cui ha preso coscienza e che interpreta soprattutto come una crisi morale. Anche in questa interpretazione della crisi ci sono convergenze con la cultura greca e suggerimenti da essa provenienti. La coscienza inquieta della decadenza diventa da ora in poi una costante della cultura latina.

Bibliografia:

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