Le fonti sulle guerre sannitiche

di E.T. SALMON, Il Sannio e i Sanniti, trad. it. B. McLEOD, Torino 1995, 5-12.

Di tutte le tribù e i popoli con cui i Romani si trovarono a dover contendere la supremazia sull’Italia nessuno fu più minaccioso dei Sanniti del Sannio. Forti e valenti, essi possedevano un territorio più ampio e un temperamento più risoluto di qualunque altra popolazione della Penisola. Erano abbastanza numerosi e abbastanza coraggiosi da rifiutare di sottomettersi docilmente a Roma, e la resistenza militare e politica che le opposero fu delle più strenue[1]. È un luogo comune dire che essi, ed essi soli, rivaleggiarono in modo veramente temibile con Roma per assicurarsi l’egemonia sull’Italia peninsulare, avvicinandosi considerevolmente al successo. Per mezzo secolo e più, dal 343 al 290, impegnarono i Romani nei tre successivi conflitti noti come “guerre sannitiche”, e riaccesero la lotta contro di essi ogni volta che se ne offrì l’occasione nel corso dei due secoli seguenti: la guerra che prese nome da Pirro, re dell’Epiro, potrebbe altrettanto a buon diritto essere chiamata “quarta guerra sannitica”, come infatti Livio suggerisce e Orosio afferma esplicitamente[2]. Anche Annibale trovò aiuto e appoggio fra le tribù sannitiche e, nel I secolo, in occasione dell’ultima grande insurrezione degli Italici contro il dispotismo romano, i Sanniti presero ancora una volta le armi, mostrando secondo il solito maggiore tenacia e più risoluta volontà di resistenza di tutti gli altri insorti.

L’Italia centrale nei secoli IV-I [Salmon 1995].

Se si considera l’importanza del ruolo svolto da questo popolo, è sorprendente che esso abbia suscitato un così scarso interesse. Nessuna versione della storia romana può fare a meno di dedicare loro abbondante spazio, ma ciò avviene invariabilmente nel quadro delle vicende di Roma e non facendone l’oggetto di una ricerca indipendente, benché essi meritino certamente attenzione di per se stessi. La stessa esiguità del confine fra vittoria e sconfitta è nel loro caso uno stimolante argomento d’indagine. Eppure, raramente è stata prestata loro un’accurata e approfondita attenzione. Nessuna monografia estesa ed esauriente è mai stata dedicata ai Sanniti[3], e ciò è particolarmente notevole poiché essi, per quanto remoti, non furono esseri puramente leggendari, ma uomini vivi, attivi in un’epoca intensamente studiata. È una vicenda densa e compatta, che ha inizio con la loro improvvisa apparizione come alleati di Roma nel 354 e termina con il massacro di Porta Collina nell’82, e per quanto non sia pienamente nella luce della storia, le sue linee principali sono nette e molti dei particolari sicuri[4]. Vi furono scrittori greci del IV secolo bene informati riguardo ai Sanniti e che probabilmente scrissero parecchio su di loro, ma di tali scritti non restano che frammenti sparsi[5]. Le narrazioni della storia dell’Italia del IV secolo pervenuteci, quando non trattano degli stessi Greci italioti, parlano per lo più dei Romani. I popoli sconfitti da Roma sono solo incidentalmente oggetto d’interesse: essi vengono menzionati solo quando li si considera importanti ai fini della storia di Roma. Münzer ha richiamato l’attenzione sulla limitatezza di tali esposizioni: «Le cose vengono viste esclusivamente sotto un determinato aspetto. Sul problema dei rapporti fra Roma e il mondo esterno tutte le prospettive eccetto quella romana vengono soppresse…»[6].

Dionigi di Alicarnasso, è vero, è scrittore dalla visione ampia, ed egli inserisce nella sua narrazione dissertazioni erudite sui vari popoli italici che vennero a contatto con i Romani[7], ma della parte delle Antichità romane a proposito del periodo in cui l’Urbe e i Sanniti ebbero contatti (libri XV-XX) non restano che scarsi frammenti[8].

La storia stessa della Roma arcaica veniva narrata nella forma di una tradizione stabile e inalterata, parte della quale era già nota a scrittori greci del IV secolo o anteriori[9], e la cui struttura fissa fu eretta a canone da Fabio Pittore nel III secolo. Derivava originariamente dalle nude e disadorne cronache dei pontefici romani (tabulae pontificum)[10] che vennero raccolte e ampliate nel II secolo fino a formare la collezione nota con il nome di Annales maximi, e i singoli storici si sentirono in dovere di non distaccarsi da questo percorso già tracciato, quanto piuttosto di dar vita al suo interno a una creazione letteraria[11], senza impegnarsi nel compito di una laboriosa ricerca tesa a confermare o modificare radicalmente la versione accettata[12]. Uno dei risultati di tale atteggiamento è che le apparizioni dei Sanniti sono, nella letteratura antica, casuali e sporadiche. L’unico caso in cui essi vengono fatti oggetto almeno di una parvenza di trattazione sistematica è in occasione delle loro guerre contro Roma, ma anche queste sono descritte esclusivamente del punto di vista dei vincitori. E ciò non è accidentale. Fabio Pittore si pose esplicitamente il compito di giustificare il comportamento dei Romani verso le altre genti, sforzandosi di sostituire a ogni e qualsivoglia visione della storia d’Italia diffusa dagli scrittori greci una versione decisamente favorevole a Roma[13]. Fra questi, Duride di Samo, Geronimo di Cardia, Filisto e Callia di Siracusa, Lico di Reggio e Timeo di Tauromenio avrebbero potuto dire non poco, e non tutto a sfavore, sui Sanniti, al tempo stesso lasciando per lo più in disparte i Romani[14]. Fabio Pittore rimediò fin troppo bene a questo stato di cose.

Sarebbe esagerato dire che ciò abbia significato la completa scomparsa di quanto i Greci scrissero allora sulle montuose zone interne dell’Italia meridionale e sui loro vigorosi abitanti, che in effetti gli Italioti avevano tutti i motivi di conoscere, con poco piacere, fin troppo bene: qualche informazione sui popoli sabellici è filtrata attraverso i pregiudizi e l’indifferenza dei Romani ed è sopravvissuta. Ma ciò è avvenuto attraverso una sorta di “filtro romano”, e la nostra immagine dei Sanniti è essenzialmente determinata dalla prospettiva e dalla selettività di Fabio Pittore e dai suoi successori.

I libri VII-X di Livio sono la fonte principale sulle tre guerre sannitiche ed è opinione comune che la descrizione che contengono riposi su una solida base fattuale. Il fulcro della sua narrazione, certo derivata originariamente da archivi sacerdotali[15], è costituito dagli elenchi dei consoli romani che sembrano ragionevolmente attendibili.

Guerriero sannita. Illustrazione di P. Connolly.

Va detto che gli annalisti anteriori a Livio erano fin troppo inclini a dar credito a quelle descrizioni e documentazioni di carriere di cui, secondo Plinio, erano pieni gli archivi delle grandi casate romane e che, secondo Cicerone, Livio e Plutarco, traboccavano di esagerazioni e distorsioni, quando non addirittura di sfacciate menzogne[16]. I generali che avevano partecipato alle battaglie scrivevano talvolta le loro memorie, e non c’è ragione per credere che nel farlo essi fossero modesti o scrupolosi[17]. Né si dimentichi che statisti e generali romani avevano talvolta i propri poeti e panegiristi personali che cantavano le loro imprese[18]. Ancora più numerosi, eloquenti e convincenti erano poi i discendenti di una gens decisi a vantarne le glorie. I Flavii avevano evidentemente degli archivi propri, i Carvilii avevano uno storico. Se i Postumii ebbero Aulo Postumio Albino che ne esaltò il nome, i Valerii ebbero Valerio Anziate[19]. I Cornelii, da cui provenivano non meno di sei dei ventitré pontefices maximi repubblicani di cui siamo a conoscenza[20], erano nella posizione ideale per alterare i documenti sacerdotali, così come i Papirii, che furono evidentemente fra i primi redattori degli Annales maximi[21].

Ne nacque così un accavallarsi di rivendicazioni contrastanti, mentre le varie gentes si davano a fabbricare imprese totalmente immaginarie e cercavano di attribuirsi il merito di gesta non loro o di sminuire le affermazioni altrui. Ben nota è la rivalità fra Fabii e Cornelii Scipiones: inoltre, i Fabii erano anche invidiosi nei confronti dei Carvilii e i Cornelii Scipiones dei Fulvii[22]. I Claudii e i Postumii erano chiaramente il bersaglio della denigrazione di altre casate aristocratiche e, stando a ciò che sostiene Livio, anche i Volumnii avevano il favore di alcuni annalisti e lo sfavore di altri[23]. Era sempre possibile per uno storico tentare di dar lustro al proprio clan gentilizio semplicemente inventando una promagistratura o qualche altro ufficio speciale in cui si potesse sostenere che un membro della famiglia si era particolarmente distinto[24].

Fortunatamente, sembra fosse molto meno facile inventare dei consolati e, quindi, le liste dei consoli e quelle dei trionfi non sembrano aver subito contraffazioni altrettanto estese[25]. È vero che esse spesso non rivelano quale dei due consoli avesse compiuto una determinata azione ed era quindi facile per un annalista tendenzioso inventare o sfruttare la malattia di un console per attribuire onori all’altro[26]. In tali circostanze, si può capire perché Catone si rifiutasse di menzionare alcun condottiero per nome[27], come pure è comprensibile l’onesta incertezza di Livio su quale comandante dovesse ricevere il merito di una data vittoria[28]. Ciononostante, i Fasti consulares e triumphales sono una fonte relativamente pura e incontaminata e si può attribuire loro ampia credibilità[29].

Un’altra fonte d’informazioni ragionevolmente degna di fede è costituita dalla documentazione riguardante la fondazione di coloniae e la consacrazione di templa da parte dei Romani. In generale, tali documenti appaiono accurati e ciò riveste una certa importanza, poiché viene così fornito un metro per misurare i progressi militari di Roma, in quanto spesso venivano consacrati templi e fondate colonie in conseguenza di vittorie romane.

È quindi evidente che Livio ha tramandato numerosi dati storicamente certi. Al tempo stesso, però, vi ha anche mescolato una certa quantità di invenzioni. A parte la sua inclinazione a ricamare sulla vicenda, trasformando ciò che avrebbe potuto essere un racconto sobrio in una saga eroica[30], egli ha ripetuto molti sfrenati voli di fantasia dei suoi predecessori. Gli storici romani non seppero mai resistere alla tentazione di magnificare le imprese della loro nazione o della loro famiglia, o di entrambe, e ciò vale per i più antichi come per i più tardi, per Fabio Pittore come per Valerio Anziate[31].

L’umiliazione delle Forche Caudine. Illustrazione di S. Ó Brógáin.

C’erano però delle differenze di grado. Più antico era lo scrittore, più è probabile che si mantenesse entro certi limiti e ponesse qualche freno all’immaginazione “patriottica”. Fabio Pittore e altri a lui vicini nel tempo, pur essendo tutt’altro che fedeli ai fatti, sembrano aver descritto episodi definiti ed essersi mossi in un ambito relativamente ristretto, che non lasciava loro molto spazio per invenzioni su vasta scala: erano non exornatores sed tantummodo narratores[32]. È chiaro che il grado di alterazione nei loro testi doveva essere inferiore a quello dei resoconti annuali dei cosiddetti “Vecchi Annalisti”, come Calpurnio Pisone e Cassio Emina, dell’età dei Gracchi[33]. Eppure, anche questi furono modelli di sobrietà in confronto agli scrittori dell’età di Silla, una o due generazioni più tardi, quei famigerati “Nuovi Annalisti”, come Valerio Anziate e Claudio Quadrigario[34]. Alcuni di essi scrissero così copiosamente da avere spazio illimitato per esagerare o inventare quasi a piacimento singoli episodi da attribuire ai loro personaggi favoriti (ma va detto che, al tempo di Cicerone, le eccessive esagerazioni non erano più di moda!). Quanto Livio si sia servito dei “Nuovi Annalisti” e quanto da essi dipendesse sono dati così universalmente noti da non aver bisogno di dimostrazione[35] ed è opportuno esaminare le conseguenze per ciò che riguarda la sua narrazione delle guerre sannitiche.

Gli scrittori dell’età di Silla scrivevano al tempo della guerra sociale e di quella civile, a essa immediatamente successiva, ed erano così vicini a tali cruciali conflitti che le loro posizioni non possono non essere state influenzate. Fu proprio in quegli anni che i Sanniti imposero la pace alle loro condizioni nella guerra sociale e arrivarono a un passo dalla vittoria nella guerra civile, a Porta Collina. Era quindi inevitabile che essi vedessero le guerre sannitiche di più di due secoli prima alla luce di tali importanti eventi e che fossero certi che tanto i Romani quanto i Sanniti si fossero resi conto fin dal momento del loro primo scontro dal fatto che la posta in palio era il dominio sull’Italia e che, dunque, la lotta in cui erano coinvolti fosse di titaniche dimensioni[36]. Viste le circostanze, era inevitabile che i “Nuovi Annalisti” descrivessero le guerre sannitiche come una grande epica romana, per la quale non mancavano certo i modelli, sia greci sia latini: Nec id tamen ex illa erudita Graecorum copia sed ex librariolis Latinis[37]. Se non sentirono la necessità di alterare la struttura tradizionale, poterono però, all’interno di essa, dar libero corso al loro genio inventivo o alla loro inclinazione imitativa riguardo ai singoli dettagli[38]. Inventare o moltiplicare le vittorie dei Romani[39] e sopprimere o attenuare le sconfitte era per loro pratica sistematica, automaticamente applicata. Essi ravvivavano i loro racconti arricchendo la maggior parte degli avvenimenti, veri o inventati, di particolari pittoreschi, prolissi o assurdi. Il fatto che il periodo che descrivevano fosse remoto e il tenace conservativismo della nomenclatura dell’aristocrazia romana aiutavano e incoraggiavano ampiamente tali sconfinamenti nel mondo della fantasia.

I “Nuovi Annalisti” non si limitavano a dar libero corso all’immaginazione riguardo ai loro connazionali: erano anche inclini ad applicare la stessa tecnica, per così dire all’inverso, ai loro fortuiti e superficiali commenti sui popoli che Roma andava ininterrottamente sconfiggendo.

Se l’uso dello stesso nome ripetuto per generazioni in una famiglia romana rendeva possibile far risalire a uno dei suoi antichi membri imprese che più esattamente si sarebbero dovute attribuire a uno dei suoi discendenti, poteva sembrare del tutto giustificato adottare lo stesso procedimento riguardo ai Sanniti. Se le imprese sannitiche nella guerra sociale e in quella civile hanno influenzato l’interpretazione delle prime guerre sannitiche data dai “Nuovi Annalisti”, viene da chiedersi se anche la loro descrizione di particolari di queste ultime non sia stata adornata con episodi e personaggi tratti dalle prime. Per esempio, è stato spesso sottolineato che importanti figure sannitiche del IV secolo e degli inizi del III avevano nomi notevolmente simili a quelli dei condottieri del I secolo e alcuni studiosi sostengono addirittura che il primo gruppo altro non sia che un’anticipazione fantastica del secondo[40]. Simili metodi possono certamente venire spinti all’eccesso: per esempio, negare l’esistenza di Gavio Ponzio nel 321 solo perché un Ponzio Telesino fu al comando delle forze sannitiche nell’82[41] significa spingere lo scetticismo troppo lontano[42]. Il Churchill del XVIII secolo non è meno reale perché un Churchill governò l’Inghilterra nel XX[43].

Romani e Sanniti sanciscono la pace con cerimonia solenne. Illustrazione di R. Hook.

Comunque, è fin troppo probabile che i “Nuovi Annalisti”, quando parlavano sia dei Romani sia dei Sanniti del IV e III secolo, non fossero attendibili e sfortunatamente molto di ciò che essi scrissero è echeggiato nelle pagine di Livio. Benché cosciente della loro inattendibilità, egli attinse abbondantemente dai loro scritti, forse perché convinto, al pari di Plinio il Vecchio, che nessun libro sia così cattivo da non valere nulla[44]. Su alcuni punti, egli stesso apporta le necessarie modifiche, come nel caso della pace caudina del 321-316 o della sconfitta romana a Lautulae nel 315. In effetti, un’accurata lettura di Livio è tutt’altro che infruttuosa: spesso, dalle informazioni che egli fornisce è possibile ricostruire un racconto convincente e coerente.

Oltre a lui, vi sono alcuni scrittori che forniscono informazioni sulle tre guerre sannitiche, ma per servirsene è necessario impiegare la stessa cautela e prudenza da usarsi con Livio. In effetti, alcuni di essi, come Eutropio e Orosio, si limitano a riassumerne l’opera, mentre almeno uno, Floro, ne rappresenta un abbellimento, in quanto la sua narrazione, pur se essenzialmente liviana, si avvale di vari espedienti retorici per raggiungere risultati ancor più sensazionali[45]. I magri frammenti di informazioni sparsi nelle pagine di Dionigi di Alicarnasso, Cassio Dione e Appiano, gli isolati episodi menzionati da Plinio il Vecchio, Frontino e l’autore del De viris illustribus, e il materiale occasionalmente rintracciabile in alcune delle Vite di Plutarco, hanno caratteristiche simili a ciò che si può trovare in Livio ed è fin troppo probabile che abbiano avuto origine dalle opere dei “Nuovi Annalisti”.

E ciò vale probabilmente anche nel caso delle scarne notizie contenute in Diodoro, malgrado la diffusa opinione che esse proverrebbero da una fonte più antica. Diodoro ignora completamente la prima guerra sannitica e i primi otto anni della seconda, ma ciò non prova che egli non sapesse nulla in proposito[46]: nella sua scelta degli argomenti da menzionare egli è sempre piuttosto volubile, anche quando narra la storia della sua terra natale, la Sicilia[47]. Inoltre, la parte relativa alla terza guerra sannitica non ci è pervenuta, quindi possiamo realmente servirci di lui solo per ciò che concerne gli ultimi quattordici anni della seconda guerra sannitica. Riguardo a dodici di essi, egli fornisce succinte notizie sulle operazioni belliche, spesso diverse o complementari rispetto a quelle riportate da Livio, e vario è il grado d’importanza che è stato loro attribuito. L’estrema concisione della cronaca di Diodoro ha spinto molti studiosi a ritenere che egli si sia rifatto a una versione degli Annalisti di epoca graccana o dei saltuari storici di rango senatorio che li precedettero[48]: Niebuhr e Mommsen sostengono addirittura che la sua fonte fu lo stesso Fabio Pittore[49]. Perciò, Diodoro è spesso considerato più attendibile di tutti gli altri scrittori antichi per ciò che riguarda le guerre sannitiche.

Il fondamento di questa opinione non è evidente né convincente. Il fatto che il sistema cronologico di Diodoro fosse diverso da quello di Livio (sistema che, a sua volta, non era lo stesso di Varrone) non dimostra che esso fosse migliore o più antico[50], e il fatto che le sue affermazioni sul conto dei Romani fossero così trite non garantisce che derivassero da una fonte unica o particolarmente antica[51]. In effetti, Diodoro stesso rivela di essersi servito di una varietà di autorità antiche, e latine per giunta[52]. Sembra certo che fra esse ci sia stato almeno uno dei “Vecchi Annalisti” (Calpurnio Pisone)[53], ma è lecito ritenere che vi fossero anche alcuni “Nuovi Annalisti”[54].

Guerrieri sanniti. Affresco, IV secolo a.C. da una tomba a Nola. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Sulle sporadiche apparizioni dei Sanniti dopo le tre guerre sannitiche, possediamo frammenti d’informazioni provenienti da varie fonti. Il ruolo da essi svolto nella guerra contro Pirro può venir ricostruito mettendo insieme le rare notizie che troviamo in varie epitomi di Livio o Dione, o le allusioni disseminate nelle pagine di Plutarco, che costituiscono una fonte preziosa poiché egli ricalca originariamente Timeo, personaggio contemporaneo e interessato a quegli eventi. Qualche accenno al comportamento dei Sanniti durante la seconda guerra punica si può trarre dalle pagine di Polibio e di Livio: ma Polibio, come sempre, non sembra disposto a sprecare simpatia per un popolo non romano e i riferimenti di Livio sono nella migliore delle ipotesi incidentali rispetto al filone principale del suo racconto. Egli è confuso e approssimativo quando accenna al contributo dato dai Sanniti alla sconfitta di Annibale, prevenuto e impreciso quando parla dell’aiuto e sostegno dato da costoro al nemico punico. Silio Italico è, almeno fino a Canne, molto più generoso nei loro confronti, ma sarebbe azzardato considerare le sue invenzioni poetiche come vera storia.

Dopo il 200 le vicende dei Sanniti vengono praticamente ignorate per più di un secolo. Essi riappaiono poi improvvisamente e svolgono un ruolo di primaria importanza nella guerra sociale e in quella civile, all’inizio del I secolo. Sfortunatamente, su queste due fondamentali lotte le fonti antiche sono frammentarie e scarse. La cronaca della guerra marsica, composta in greco da Lucullo, che vi aveva preso parte attivamente, non ci è pervenuta; stessa sorte è toccata all’opera del suo molto apprezzato contemporaneo, Sisenna. Il più esteso resoconto pervenutoci è in Appiano, ma è molto diseguale. Malgrado ciò, è importante e lo sarebbe ancor di più se si potesse provare che esso si basa su di un autore italico. Un recente tentativo in questo senso non ha però incontrato consensi[55], e la maggior parte degli studiosi ammette che neanche da Appiano si possano ricavare informazioni attendibili sui Sanniti, proporzionate all’importanza del ruolo da essi svolto nella seconda decade del I secolo. Probabilmente ciò dipende dal fatto che la tradizione riguardante tale periodo si basa in buona sostanza sulle menzognere memorie di Silla, che non era certo uomo da rendere giustizia ai Sanniti.

Dopo l’82 i Sanniti spariscono totalmente dalla scena della storia e la loro uscita è tanto improvvisa quanto lo era stata la loro apparizione quasi tre secoli prima.


[1] Anche dopo che i Romani ebbero celebrato ventiquattro trionfi su di essi (Floro I 11, 8), i Sanniti erano ancora pronti a rinnovare la loro resistenza ogni volta che ne avessero l’occasione.

[2] Livio XXIII 42, 2; Orosio III 8, 1; III 22, 12.

[3] Le Untersuchungen zur Geschichte der Samniten di B. Kaiser (Pforta 1907) non sono andate oltre il vol. I.

[4] Proprio nel periodo delle guerre sannitiche la storia romana acquista un aspetto di vitale realtà. Certamente Roma deve aver avuto una qualche forma di documentazione fin dal IV secolo: gli scrittori greci del tempo non avrebbero definito «città ellenica» una società illetterata (Eraclide Pontico in Plutarco, Vita di Camillo 22, 2; Demetrio Poliorcete in Strabone V 3, 5, p. 232).

[5] Per esempio, Filisto in Stefano di Bisanzio, s.v. Mystia, Tyrseta; Pseudo-Scilace, Periplo 15.

[6] Römische Adelsfamilien, p. 46; cfr. p. 66; si vedano anche passi come Livio XXXIII 20, 13; XLI 25, 8.

[7] Anche Strabone si sofferma più di una volta sui popoli non romani, ma principalmente come geografo. Si vedano, inoltre, le osservazioni di E. Bickerman sulle origines gentium, in CPh 67 (1952), pp. 65-81.

[8] Egli era verboso e retorico e ci si chiede quanto attendibili sarebbero state le sue informazioni, se ne fossero rimaste in maggior quantità. La cifra da lui menzionata di 15.000 Romani caduti a Eraclea non ispira certo fiducia: egli doveva sapere che, secondo Geronimo di Cardia, vivente al tempo della battaglia, i morti erano stati 7000 (Plutarco, Vita di Pirro 17, 4).

[9] Antioco di Siracusa, contemporaneo di Tucidide, faceva riferimento a Roma (Dionigi di Alicarnasso I 73, 4); Aristotele alludeva al sacco della città da parte dei Celti (Plutarco, Vita di Camillo 22, 3); e Teopompo se non altro menzionava Roma (fr. 317 Jacoby). Cfr. inoltre Dionigi di Alicarnasso I 72 ed E. Wikén, Die Kunde der Hellenen, passim.

[10] Sembra che ogni collegio sacerdotale conservasse i suoi fasti (CIL I 1976-2010). Quelli dei pontefici erano molto antichi (Dionigi di Alicarnasso III 36; cfr. V 1) e alcuni sopravvissero al sacco dei Galli, come si desume da Livio (VI 1, 10, VI 1, 2). Una famosa emendazione del De legibus I 2, 6, vorrebbe che Cicerone definisse «scarne» queste cronache dei pontefici; egli, tuttavia, si riferisce allo stile più che al contenuto. In realtà, le tabulae contenevano una grande quantità di informazioni: menzionavano carestie di grano ed eclissi di sole e di luna, secondo Catone (Aulo Gellio II 28, 6; cfr. Dionigi di Alicarnasso I 74) e probabilmente molto di più, se la lunghezza degli Annales maximi è significativa. Gli Annales erano in 80 libri: in altre parole, più estesi dell’opera di Livio (si veda Cicerone, De oratore II 52; Festo, p. 113 Lindsay; Macrobio III 2, 17; Servio, Ad Aeneidem I 373; cfr. Livio I 31, 32, 60, e, in particolare, Sempronio Asellione, fr. 2 Peter). Presumibilmente, le tabulae pontificum compilate durante le guerre sannitiche (vale a dire, dopo il sacco di Roma da parte dei Galli) si conservarono intatte fino ai tempi in cui si cominciò a scrivere storia e almeno dalla guerra di Pirro in poi furono redatte secondo un preciso ordine cronologico (Plinio il Vecchio, Naturalis historia XI 186). Il materiale contenuto nelle cronache dei sacerdoti poteva essere integrato con quello fornito da ballate popolari ed elementi di folclore, cui fanno allusione numerosi scrittori antichi (Varrone in Nonio, p. 77; Livio II 61, 9; Orazio, Carmina IV 15, 29-32; Dionigi di Alicarnasso I 79, 10; VIII 62, 3; Valerio Massimo II 1, 10; Plutarco, Vita di Numa 5, 3).

[11] Gli Annales maximi erano tutt’altro che succinti (si veda la nota precedente). Dovevano essere infarciti di abbondante materiale inventato. Dei due particolari che si sa per certo che vi erano riferiti, uno è un’evidente falsificazione (è un verso di poesia presentato come un verso popolare latino, ma, in realtà, semplicemente una traduzione da Esiodo: Aulo Gellio IV 5, 6). L’altro è probabilmente autentico: si tratta di un’eclissi di sole (5 giugno, circa 350 A.U.C.) menzionata da Ennio, che l’aveva trovata nelle cronache dei pontefici (Cicerone, De re publica I 25). Ennio, tuttavia, al pari di Catone (fr. 77 Peter) si servì delle cronache dei pontefici prima che venissero rielaborate, e contaminate, come Annales maximi. Non è facile identificare le aggiunte fittizie degli Annales maximi, ma la saga di Camillo, certamente più tarda di Fabio Pittore, è quasi di sicuro una di esse (M. Sordi, I rapporti romano-ceriti, p. 46).

[12] La versione tradizionale sembra confermata dagli scarsi frammenti di scrittori greci che ci sono pervenuti.

[13] Cfr. in particolare M. Gelzer in Hermes 68 (1933), pp. 129-166.

[14] Non avrebbero certo potuto passare sotto silenzio i Sanniti quando descrivevano le attività dei vari condottieri mercenari di Taranto (Plinio il Vecchio, Naturalis historia III 98; Plutarco, Agesilao 3; Lico, fr. 1, 2, in Müller, FHG II, p. 371). Sappiamo che Teopompo mostrò scarso interesse per i Romani (Plinio il Vecchio, Naturalis historia III 57). Geronimo, invece, non li trascurava (Dionigi di Alicarnasso I 6, 1).

[15] È per lo più impossibile, tuttavia, stabilire quali elementi risalgano alle tabulae pontificum e quali siano raccolti da archivi familiari o da altre fonti. Tiberio Corucanio, console nel 280, era certamente uno degli eroi che comparivano nelle cronache sacerdotali (Cicerone, Brutus 14, 55). Non abbiamo notizie precise sui Libri magistratuum di Gaio Tuditano (Macrobio I 13, 21) né sui Libri lintei a cui attinse Licinio Macro (Livio IV 1, 2; IV 20, 8; IV 23, 2; cfr. Dionigi di Alicarnasso XI 62, 3; R.M. Ogilvie in JRS 48 [1958], pp. 40-56).

[16] Plinio il Vecchio, Naturalis historia XXXV 7; Cicerone, Brutus 16, 62; Livio VIII 40; Plutarco, Vita di Numa 1 (dove cita un certo Clodio). Viene da chiedersi se le grandi famiglie plebee, una volta ottenuta l’uguaglianza politica, non si siano date a fabbricare archivi per gareggiare con i loro rivali patrizi.

[17] Appio Claudio Cieco, il famoso censore del 312, era, secondo Cicerone (Tusculanae disputationes IV 1, 4), un uomo di lettere ed evidentemente narrò i suoi successi nella guerra sannitica: in quella circostanza egli dedicò un tempio a Bellona (Livio X 19, 17), che sappiamo era adornato da scudi che esaltavano le imprese dei Claudii (Plinio il Vecchio, Naturalis historia XXXV 12; deve riferirsi all’anno 312 e non al 495). Generali di epoche successive che descrissero le proprie operazioni (in lettere, dobbiamo riconoscere) furono Scipione Africano (a Nova Carthago: Polibio X 9, 3) e Scipione Nasica (a Pydna: Plutarco, Vita di Emilio Paolo 15, 3).

[18] Viene subito in mente il caso di Fulvio Nobiliore e di Ennio.

[19] Livio VIII 22, 2; VIII 37, 8; Valerio Massimo VIII 1, 7; Plutarco, Quaestiones Romanae 54, 59; Polibio XXXIX 1, 4; Plinio il Vecchio, Naturalis historia XI 186; R.M. Ogilvie, Commentary on Livy, Books I-V, Oxford 1965, pp. 12-16.

[20] Cfr. T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, New York 1951, per gli anni 431, 332, 304, 221, 150, 141.

[21] Cfr. Dionigi di Alicarnasso III 36, 4; A. Schwegler, Römische Geschichte, I, pp. 24 s.; F. Münzer, RE XVIII (1949), s.v. Papirius, nn. 1-5, coll. 1005-1006.

[22] Livio X 17, 11-12 (= 296); X 22, 1-2 (= 295); XXIII 22, 8 (= 216); XXVIII 45, 2 (= 205). Tre Fabii furono consecutivamente pontifices maximi, coprendo un arco di tempo pari quasi all’intero periodo delle guerre sannitiche: essi furono quindi in una posizione ideale per falsificare la documentazione.

[23] Cfr., per esempio, Livio IX 42, 3; X 15, 2; X 18, 7; X 19, 2-3; X 23, 4; X 30, 7; e cfr. CIL I², Elogia X, p. 192. Il fatto che i Postumii fossero sfortunatamente coinvolti più tardi, durante l’età repubblicana, in alcune disfatte romane, per esempio nella silva Litana (Polibio III 118, 6; Livio XXIII 24, 6; Frontino I 6, 4), nella guerra giugurtina (Sallustio, De bello Iugurthino 38) e nella guerra sociale (Livio, Periochae 72, 75), rafforzò l’immagine negativa creata dal disastro delle Forche Caudine.

[24] Per il periodo della prima e della seconda guerra sannitica, nei Fasti triumphali sono registrate solo tre dittature, mentre Livio ne menziona quasi trenta (F. Cornelius, Untersuchungen, p. 36).

[25] Nel periodo delle guerre sannitiche, per esempio, i consolati ripetuti di solito sono divisi da un intervallo di tempo ragionevole, e sembrano plausibili (prima del 343 si succedevano spesso a intervalli molto brevi: il che, però, era forse inevitabile, quando i consoli provenivano soltanto dalle poche famiglie patrizie).

[26] Fra i consoli che si ammalarono, citiamo Lucio Furio Camillo nel 325 (Livio VIII 29, 8), Publio Decio Mure nel 312 (Livio IX 29, 3), Tito Manlio Torquato nel 299 (egli morì: Livio X 11, 1) e Lucio Postumio Megello nel 294 (Livio X 32, 3).

[27] Plinio il Vecchio, Naturalis historia VIII 11. Viene però da chiedersi se Catone non sia stato il principale autore di molte delle leggende che si andarono creando attorno a grandi eroi plebei, quali Manio Curio Dentato e Gaio Fabrizio Luscino, che egli ammirava molto (Cicerone, Cato maior 15, 15; De re publica III 28, 40; Plutarco, Vita di Catone il Vecchio 2).

[28] Talvolta il dilemma di Livio riflette probabilmente, più che le rivalità fra famiglie, la lotta fra gli ordini: secondo le preferenze dell’annalista, la stessa vittoria veniva attribuita al console patrizio o a quello plebeo.

[29] I “Nuovi Annalisti” non conoscevano i Fasti nella loro forma attuale, che sembra in buona parte il frutto delle ricerche di Varrone. La loro narrazione sarebbe stata probabilmente più sobria, se fossero stati a conoscenza della sua ricostruzione.

[30] L’atteggiamento di Livio si può dedurre dalle sue stesse parole (X 31, 15): Quinam sit ille quem pigeat longinquitatis bellorum scribendo legendoque quae gerentes non fatigaverint? Per alleviare la noia si poteva ricorrere all’aggiunta di particolari pittoreschi, tanto più che quello delle guerre sannitiche fu comunque il vero periodo di grandezza della storia romana: Illa aetate quae nulla virtutum feracior fuit (IX 16, 19).

[31] Si vedano le osservazioni di A. Alföldi, Early Rome and the Latins, pp. 123-175.

[32] Si veda Cicerone, De oratore II 54. Livio menziona Fabio Pittore (VIII 30, 9; X 37, 14), ma ciò non prova che egli se ne sia servito direttamente.

[33] Fabio Pittore non viene di solito incluso fra i “Vecchi Annalisti”, benché non sia certo che egli non abbia impiegato il metodo annalistico. Livio non fa menzione di Cassio Emina, ma cita Calpurnio Pisone (IX 44, 3; X 9, 12). Di quest’ultimo si servì anche Diodoro, a giudicare dal fatto che egli non registra nessun evento per l’anno 307 della cronologia varroniana (tale anno fu omesso da Pisone: Livio IX 44, 3). Almeno uno dei “Vecchi Annalisti”, Gneo Gellio, sembra aver scritto in modo trascurato e prolisso (Dionigi di Alicarnasso VI 11, 2; VII 1, 4).

[34] Gli Annales di Calpurnio Pisone erano «scritti in stile arido» (exiliter scriptos): Cicerone, Brutus 27, 106.

[35] Non che egli li nomini di frequente nella sua narrazione delle guerre sannitiche: Elio Tuberone (X 9, 10), Claudio Quadrigario (VIII 19, 3; IX 5, 2; X 37, 13), Licinio Macro (VII 9, 4; IX 38, 16; IX 46, 4; X 9, 10); ma cita spesso quidam auctores, espressione con cui si ritiene venga indicato di solito Valerio Anziate. E, inoltre, sembra che anche Tuberone si sia servito di quest’ultimo. Cfr. A. Klotz, Livius und seine Vorgänger, pp. 201-297; R.M. Ogilvie, Commentary on Livy, p. 5.

[36] Le guerre sannitiche sono viste in questa luce da Cicerone (De officiis I 38), Livio (VIII 23, 9; X 16, 7), Diodoro (XIX 101, 7; XX 80, 3), Dionigi di Alicarnasso (XVII-XVIII 3) e Appiano (Storia sannitica IV 1, 5).

[37] Cicerone, De legibus I 2, 7 (a proposito di Licinio Macro).

[38] Concessum est rhetoribus ementiri in historiciis ut aliquid dicere possint argutius (Cicerone, Brutus 11, 42, forse, però, detto ironicamente). Gli storici ellenistici potevano fornire il materiale con cui gli scrittori romani del tardo I secolo abbellirono le loro narrazioni delle guerre sannitiche: per esempio, il paragone tra Fabrizio e Aristide (Cicerone, De officiis III 87), la morte di Aulio Cerretano (Livio IX 22, 7-10; cfr. Diodoro XVII 20, 21, 34), la dissertazione sui Romani che potevano rivaleggiare con Alessandro Magno (Livio IX 17-18).

[39] Si noti l’allusione a falsi triumphi in Cicerone, Brutus 16, 62.

[40] Il Papio Brutulo del 323 (VIII 39, 12) deve senz’altro essere stato inventato sul modello del Papio Mutilo, famoso durante la guerra sociale.

[41] Ponzio Telesino, generale della guerra civile nell’82, si vantava di discendere dall’eroe della seconda guerra sannitica, Gavio Ponzio (Scholia Bernensia a Lucano II 137, p. 59). I Pontii vivevano certamente a Telesia (ILS 6510) e alcuni scrittori antichi attribuiscono effettivamente a Gavio Ponzio il cognomen Telesino (Eutropio X 17, 2; Ampelio 20, 10; 28, 2; De viris illustribus 30, 1).

[42] La disfatta romana alle Forche Caudine non era un’invenzione. A parte il fatto che è molto improbabile che gli storici romani inventassero una tale storia (o la diffondessero), la rovina politica che travolse le famiglie dei consoli implicati basta a garantire l’autenticità dell’evento (dopo il 321 i plebei Veturi Calvini non ricompaiono più nei Fasti consulares, mentre bisogna arrivare al 242 per vedervi riapparire un Postumio Albino). Naturalmente questo non prova che Ponzio fosse il generale sannita vittorioso, ma è significativo che egli fosse un Sannita delle cui personalità i Romani avevano un concetto molto chiaro (cfr., per esempio, Cicerone, De officiis II 75).

[43] Sulle genealogie familiari, cfr. Cicerone, Orator 34, 120; Cornelio Nepote, Vita di Attico 19, 1-2.

[44] Plinio il Giovane, Epistulae III 5, 10.

[45] Cfr. P. Zancan, Floro e Livio, passim.

[46] Egli doveva ovviamente essere a conoscenza degli eventi occorsi nei primi otto anni della seconda guerra sannitica, che includevano il non certo trascurabile episodio delle Forche Caudine (XIX 10, 1).

[47] Presumibilmente egli scelse degli avvenimenti che riteneva potessero interessare di più i lettori greci.

[48] Cfr., per esempio, A. Schwegler, Römische Geschichte, II, pp. 22-23.

[49] B.G. Niebuhr, Römische Geschichte, II, p. 192; T. Mommsen, Römische Chronologie, Berlin 1859², pp. 125-126, e Römische Forschungen, II, pp. 221-296; la fonte di Diodoro avrebbe compreso i cosiddetti “anni dittatoriali”: A. Klotz in RhM 86 (1937), p. 207.

[50] Cfr. G. Costa in A&R 12 (1909), pp. 185-189, e, più recente e più sobrio, G. Perl, Diodors römische Jahrzählung, p. 161.

[51] Può darsi, ovviamente, che egli si sia servito di materiale tratto dai primi storici romani, ma, del resto, Livio fece altrettanto.

[52] Diodoro I 4, 4; cfr. anche XI 53, 6. È senz’altro possibile che la sua abitudine di chiamare l’Italia sudorientale Apulia (XIX 65, 7) oltre che Iapygia (XIV 117, 1; XX 35, 2; XX 80, 1) derivi dal fatto che egli si serviva di più di una fonte. Il nome che egli utilizza per i Sanniti, Σαμνίτες (XVI 45, 8; XIX 10, 1; XIX 65, 7, ecc.), rimanda anch’esso a una fonte latina.

[53] Calpurnio Pisone tralasciava l’anno 307 della cronologia varroniana (Livio IX 44, 3); Diodoro (XX 45, 1) non registra nessun evento della storia romana per quell’anno.

[54] La sua errata descrizione del comportamento di Fregellae durante la seconda guerra sannitica (XIX 101, 15) si spiega con gli eventi verificatisi in quella città nel 125.

[55] E. Gabba, Appiano e la Storia delle guerre civili, Firenze 1956. Ma non c’è dubbio che la fonte di Appiano si interessasse della questione italica e fosse ben informata in proposito.

La carriera smagliante di M. Porcio Catone (Nep. 24, 1-2)

Cfr. commento di E. GIAZZI, G. BOCCHI (eds.), Dentro e fuori i confini di Roma. I vires illustres di Cornelio Nepote, Milano 2007, 15-17; cfr. traduzione da Cornelio Nepote, Vite dei massimi condottieri, a cura di E. NARDUCCI, C. VITALI, Milano 2010, 326-329

Cornelio Nepote, nato nella Gallia Cisalpina intorno al 100 a.C., si stabilì probabilmente fin dall’adolescenza a Roma, dove si dedicò agli studi, intrattenendo rapporti di amicizia con Tito Pomponio Attico, Marco Tullio Cicerone e il conterraneo Gaio Valerio Catullo, che gli dedicò il suo Liber di poesie; morì probabilmente poco dopo il 27 a.C. Fu autore di un’opera di cronografia in tre libri, i Chronica, e di una raccolta di Exempla in cinque libri; ma la sua opera principale fu il De viris illustribus, noto anche come Vitae, una raccolta di biografie di personaggi famosi dell’antichità. Il testo doveva comprendere almeno sedici libri, dei quali rimangono un libro sui comandanti militari stranieri (De excellentibus ducibus exterarum gentium) e le vite di Attico e di Catone, tratte dal Liber de Latinis historicis.

Con il De viris illustribus Nepote si iscrisse nel filone biografico. Quanto resta di quest’opera è solo una piccola parte di quella che dovette essere l’impresa più vasta e ambiziosa: una grande raccolta di biografie costruita con l’intento di fare di questo genere letterario il veicolo di un confronto sistematico fra la civiltà greca e quella romana. L’idea di Cornelio Nepote era quella di raggruppare le notizie dei suoi personaggi in categorie “professionali” (re, condottieri, filosofi, storici, poeti, oratori, ecc.); ogni categoria occupava due libri, in cui venivano rispettivamente trattati i suoi esponenti stranieri (soprattutto greci, ma non solo) e romani. Anche se la consuetudine di radunare i personaggi secondo categorie era ben attestata nella biografia ellenistica, il raffronto sistematico fra “eroi” romani e stranieri sembra costituire il non trascurabile apporto originale di Nepote, che farà da modello in età imperiale al capolavoro di questo genere, le Vite parallele di Plutarco di Cheronea (I-II secolo d.C.).

Si è pensato che l’intento fondamentale di Nepote fosse quello di suggerire la superiorità dei Romani in ogni settore. Ma quanto rimane non sembra viziato da pregiudizi “nazionalistici”: fra gli scrittori latini egli è, per esempio, quello che rappresenta nella luce migliore la figura di Annibale, il nemico più terribile che Roma si fosse mai trovata ad affrontare. Il progetto dell’autore è semmai sintomatico di un’epoca in cui i Romani cominciarono a interrogarsi sui caratteri originali della propria civiltà, e a farsi più disponibili ad apprezzare i valori e le usanze di quelle straniere. Addirittura di una forma moderata di “relativismo culturale” si può parlare a proposito della breve praefatio che Cornelio Nepote premette al libro sui condottieri stranieri. I concetti di «moralmente onorevole» e «moralmente turpe», egli precisa, non sono gli stessi presso i Greci e i Romani: la distinzione dipende dai maiorum instituta di ciascun popolo; così alla biografia di Epaminonda viene premesso l’avvertimento di non giudicare i costumi di altre nazioni sulla misura dei propri: la musica e la danza, disdicevoli per un cittadino romano, non lo sono altrettanto per un personaggio eminente di una città greca, dove anzi procurano favore e reputazione.

Ritratto virile. Busto, bronzo, 30 a.C. c.
Ritratto virile. Busto, bronzo, 30 a.C. c.

Nella breve Vita Catonis, Cornelio Nepote delinea alcuni tratti della personalità del protagonista, precisando anche con chiarezza i motivi della sua diffidenza nei confronti delle mode grecizzanti del suo tempo. Fin dal primo capitolo Nepote dice che Catone sarà in contrasto per tutta la vita con Scipione Africano: in effetti, con una serie di processi (187-184) egli riesce persino a farlo condannare all’esilio. Sempre in tribunale, inoltre, Catone cerca di reprimere il lusso, imperante soprattutto tra le donne romane, opponendosi all’abrogazione della lex Oppia che, approvata durante la seconda guerra punica, vietava loro ornamenti e stili di vita troppo sfarzosi; mentre, sul piano letterario, può essere considerato il vero fondatore della prosa latina diversamente dagli annalisti che, come Fabio Pittore e Cincio Alimento, scrivevano in greco. Catone, infatti, compone in latino un’opera storica, le Origines, tacendo il nome dei protagonisti delle varie imprese della storia romana per raccontarla come un fatto collettivo, non legato al prestigio personale di alcuno: in questo modo, egli non cede al culto della personalità di stampo ellenistico, che tendeva a presentare i grandi personaggi come veri e propri “miti”. A ciò si possono aggiungere altri elementi dell’azione anti-greca di Catone, non direttamente affrontati da Nepote. Quando viene eletto censore, nel 184, Roma è ancora agitata dallo scandalo dei Baccanali: è difficile pensare che Catone non abbia contribuito alla battaglia contro i riti dionisiaci, che si svolgevano in modo del tutto sfrenato ed eccessivo. Inoltre, nel 155, sempre Catone fa allontanare da Roma tre filosofi greci (l’accademico Carneade, il peripatetico Critolao e lo stoico Diogene di Babilonia), giunti in qualità di ambasciatori di Atene, in quanto ritenuti responsabili di un’azione corruttrice dei giovani, dovuta al diffondersi delle loro dottrine “razionalistiche”.

Nella biografia del personaggio, Nepote non mette in rilievo soltanto i motivi che lo portarono a opporsi al filellenismo del suo tempo, ma lo presenta anche come un vero campione di virtù, elevandolo a exemplum e facendone il prototipo dell’onesto cittadino romano. Emergono, infatti, diversi aspetti di questa personalità e dell’opera che inequivocabilmente lo pongono nell’alveo del più puro spirito italico tradizionale.

Come in tante altre sue biografie, anche all’inizio di quella di Catone, l’autore traccia un breve profilo del personaggio, presentandone il luogo di nascita, i primi passi nella vita pubblica e poi la smagliante carriera. Dopo una giovinezza passata nel podere paterno in Sabina, Catone, com’era consuetudine per i Romani che si avviavano a ricoprire cariche pubbliche, cominciò a frequentare il foro, dove riscosse fin da subito grande popolarità. Egli svolse poi il servizio militare nel corso della Seconda guerra punica, partecipando nel 207 a.C. alla sanguinosa battaglia del Metauro, in cui trovò la morte Asdrubale, fratello di Annibale. Intraprese, quindi, la carriera politica vera e propria, della quale bruciò le tappe: seguendo la successione delle magistrature stabilite dal cursus honorum, Catone fu questore nel 204 a.C., edile plebeo nel 199, pretore nel 198 e, infine, console nel 195.

Angus McBride, Catone il Censore.
Personaggio togato. Illustrazione di A. McBride.

M. Cato, ortus[1] municipio Tusculo[2], adulescentulus, priusquam honoribus operam daret[3], uersatus est[4] in Sabinis[5], quod[6] ibi heredium a patre relictum habebat. inde hortatu L. Valerii Flacci[7], quem in consulatu censuraque habuit collegam[8], ut[9] M. Perpenna[10] censorius narrare solitus est, Romam demigrauit in foroque esse coepit. primum stipendium meruit annorum decem septemque[11]. Q. Fabio M. Claudio consulibus tribunus militum in Sicilia fuit[12]. inde ut[13] rediit, castra secutus est C. Claudii Neronis, magnique opera eius existimata est in proelio apud Senam[14], quo cecidit Hasdrubal, frater Hannibalis. quaestor obtigit P. Africano consuli[15], cum quo non pro sortis necessitudine uixit: namque ab eo perpetua dissensit uita[16]. aedilis plebi factus est[17] cum C. Heluio[18]. praetor prouinciam obtinuit Sardiniam[19], ex qua quaestor superiore tempore ex Africa decedens Q. Ennium poetam deduxerat[20], quod non minoris aestimamus quam quemlibet amplissimum Sardiniensem triumphum[21].

Marco Catone, nato nella cittadina di Tusculum, durante la giovinezza, prima di darsi alla vita pubblica, visse tra i Sabini, perché vi aveva un piccolo fondo lasciatogli in eredità dal padre. Di là – come soleva narrare Marco Perpenna, l’ex censore – si trasferì a Roma e, su esortazione di Lucio Valerio Flacco, che gli fu poi collega nel consolato e nella censura, cominciò a frequentare il Foro. A diciassette anni guadagnò la prima paga da soldato [: iniziò il servizio militare]. Sotto il consolato di Quinto Fabio Verrucoso e di Marco Claudio Marcello fu tribuno militare in Sicilia. Ebbene, quando ne ritornò, militò agli ordini di Gaio Claudio Nerone, e la sua partecipazione alla battaglia di Sena in cui cadde il fratello di Annibale, Asdrubale, fu considerata di gran peso. La sorte lo designò come questore del console Publio Cornelio Scipione Africano, con il quale, però, non ebbe la dimestichezza che quel sorteggio avrebbe voluto; anzi, fu in contrasto con lui per tutta la vita. Fu creato edile della plebe insieme a Gaio Elvio; in qualità di pretore, ottenne la provincia di Sardinia, dalla quale, in precedenza, e cioè tornando dalla questura dell’Africa, aveva condotto a Roma il poeta Quinto Ennio: cosa che non considero meno di qualsivoglia magnifico trionfo sui Sardi.

Generale romano. Statua, marmo, 75-50 a.C. ca. dal Santuario di Ercole (Tivoli)
Generale romano. Statua, marmo, 75-50 a.C. ca. dal Santuario di Ercole (Tivoli).

Eletto console nel 195 a.C., all’età di trentanove anni, con l’amico e patrono Lucio Valerio Flacco, Catone ottiene per sorteggio di amministrare la provincia appena costituita (197 a.C.) dell’Hispania Citerior (s’intende la Spagna al di qua del fiume Ebro). Dopo un breve accenno all’ottenimento del trionfo proprio per questo incarico, Nepote non si sofferma sulla descrizione del periodo iberico, preferendo affrontare il delicato problema dell’opposizione di Scipione Africano all’operato del console. Nella vita nepotiana Catone, e con lui il Senato, esce vincitore da questo confronto con il potentissimo rivale quale incrollabile difensore della legalità: nonostante Africano goda di un immenso prestigio e aspiri al potere personale, non è in grado di convincere i senatori a rimuovere Catone dal suo mandato, perché la res publica a quel tempo, a differenza dell’epoca in cui Nepote scrive, è ancora retta iure (“dal diritto”). Si legge in queste parole un’amara nota polemica dell’autore nei confronti del secolo in cui vive. La parte finale del capitolo si riferisce alla censura, carica alla quale Catone viene eletto nel 184 insieme con Flacco: è questo il periodo della lotta serrata al lusso dilagante e alla corruzione dei costumi, una lotta che procurerà a Catone numerose inimicizie, ma della quale mai si stancherà, rimanendo sempre fermo nella sua posizione di campione del mos maiorum.

Consulatum gessit[22] cum L. Valerio Flacco, sorte prouinciam nactus[23] Hispaniam citeriorem, exque ea triumphum deportauit[24]. ibi cum diutius moraretur[25], P. Scipio Africanus consul iterum[26], cuius in priori consulatu quaestor fuerat[27], uoluit eum de prouincia depellere et ipse ei succedere, neque hoc per senatum[28] efficere potuit, cum quidem Scipio principatum in ciuitate obtineret[29], quod tum non potentia, sed iure res publica administrabatur[30]. qua ex re[31] iratus senatui ‹consulatu› peracto[32] priuatus[33] in urbe mansit. at Cato, censor cum eodem Flacco factus[34], seuere praefuit ei potestati[35]. nam et in complures nobiles animaduertit[36] et multas res nouas in edictum[37] addidit, qua re luxuria reprimeretur, quae iam tum incipiebat pullulare[38]. circiter annos octoginta[39], usque ad extremam aetatem ab adulescentia[40], rei publicae causa[41] suscipere inimicitias non destitit. a multis tentatus non modo nullum detrimentum existimationis fecit, sed, quoad uixit[42], uirtutum laude creuit[43].

Esercitò il consolato insieme a Lucio Valerio Flacco, gli toccò in sorte la provincia della Hispania citerior, e da questa riportò un trionfo. Siccome, però, vi si trattenne alquanto a lungo, Publio Scipione Africano, nel suo secondo consolato – nel primo Catone era stato suo questore –, volle farlo espellere dalla provincia per prenderne il posto, ma non riuscì ad ottenerlo dal Senato, benché fosse il cittadino più influente; allora, infatti, lo Stato si reggeva non tanto con il credito individuale quanto con l’esercizio del diritto. Ciò lo offese a tal punto che, scaduto il periodo del consolato, si ritirò a vita privata. Quanto a Catone, creato censore insieme allo stesso Flacco, esercitò il suo incarico con assoluto rigore: colpì con note di biasimo parecchi cittadini in vista e aggiunse alle leggi suntuarie molte nuove prescrizioni per porre freno al lusso che allora cominciava a dilagare. Per circa ottant’anni, e cioè dall’adolescenza fino agli ultimi giorni, Catone non rinunciò mai a tirarsi addosso odio e inimicizie per il bene dello Stato. Citato spesso in giudizio, non solo non subì alcuna diminuzione di stima, ma, anzi, finché visse, andò sempre crescendo nella fama della sua virtù.

***

Note:

[1] ortus: è participio perfetto di orior, -eris, ortus sum, -iri, verbo di coniugazione mista.

[2] Cittadina del Lazio, sui colli albani, corrispondente all’odierna Frascati. Il municipium (da munus capio “assumo i [miei] doveri”, s’intende di cittadino romano) era una città che, una volta conquistata, entrava a far parte della cittadinanza romana; i municipia potevano scegliere se adottare il diritto romano o mantenere le proprie leggi; i loro abitanti, tuttavia, avevano i diritti e i doveri della Romana civitas.

[3] priusquam honoribus operam daret: costruito con il congiuntivo imperfetto, introduce una proposizione temporale che indica un’azione posteriore a quella della reggente (versatus est), cioè l’anteriorità della reggente rispetto alla temporale. L’espressione operam dare seguita dal dativo corrisponde all’italiano “impegnarsi”, “dedicarsi a qualche cosa”.

[4] versatus est: perfetto da versor.

[5] I Sabini erano un’antica popolazione laziale di lingua osca imparentata con i Sanniti.

[6] quod: introduce una proposizione causale oggettiva con l’indicativo habebat.

[7] Lucio Valerio Flacco fu console con Catone nel 195 a.C. e con lui ottenne la censura nel 184 a.C., condividendone la lotta contro la corruzione dilagante per la salvaguardia del mos maiorum.

[8] collegam: predicativo dell’oggetto riferito a quem.

[9] ut: costruito qui con l’indicativo solitus est, introduce una proposizione incidentale di tipo comparativo.

[10] Il nome di questo personaggio tradisce la sua origine etrusca, come rivela il suffisso ­-enna. Morì nel 49 a.C.

[11] annorum decem septemque: sottinteso adulescens; era l’anno 217 e in Italia si stava allora combattendo la seconda guerra punica.

[12] Nel 214 a.C., anno in cui Claudio Marcello mise sotto assedio Siracusa, riuscendo a conquistarla soltanto due anni dopo. Durante il saccheggio della città rimase ucciso il famoso Archimede. Fu nel corso di questa campagna che Catone, in età straordinariamente giovane, fu nominato tribuno militare.

[13] ut: con l’indicativo assume qui valore temporale.

[14] L’odierna Senigallia. La battaglia, più nota come battaglia del Metauro, è del 207 a.C. I comandanti romani erano Claudio Nerone e il collega Marco Livio Salinatore.

[15] Nel 204. Quaestor è complemento predicativo del soggetto sottinteso Cato; obtigit è il perfetto di obtingo. I quaestores avevano il compito di amministrare le truppe e durante le campagne militari erano affiancati ai comandanti dell’esercito tramite sorteggio.

[16] namque… vita: ordina: namque dissensit ab eo perpetua vita. Si pone qui in rilievo con chiarezza il totale disaccordo tra Catone e Scipione che si manifestò soprattutto nel loro modo diametralmente opposto d’intendere il rapporto tra Roma e il mondo ellenico.

[17] factus est: perfetto di fio.

[18] Nel 199.

[19] Nel 198.

[20] In occasione di una tappa in Sardegna, durante il suo ritorno dall’Africa, nel 204 a.C. Catone aveva portato con sé a Roma il poeta Ennio, che militava nell’isola fra le truppe ausiliare. Uno dei massimi esponenti della letteratura latina arcaica, autore di numerose opere, fra cui tragedie, ma ricordato soprattutto per gli Annales, poema epico in esametri in cui veniva narrata la storia di Roma, Quinto Ennio (239-169) era nato a Rudiae, in Puglia e conosceva ben tre lingue: l’osco, il greco e il latino.

[21] quodtriumphum: quod è nesso relativo; minoris è genitivo di stima retto dal verbo aestimamus; quam introduce il secondo termine di paragone; quemlibet è accusativo dell’aggettivo e pronome indefinito quilibet, quaelibet, quodlibet, composto dall’aggettivo o pronome indefinito qui, quae, quod + il presente del verbo impersonale libet, libuit o libitum est, -ere (“piace”, “è gradito”).

[22] Consulatum gessit: unito al nome della carica il verbo gero assume il significato di “esercito”, “rivesto”. I consoli erano i supremi magistrati della Repubblica: comandavano l’esercito, convocavano e presiedevano i comitia.

[23] nactus: participio perfetto di nanciscor.

[24] L’espressione triumphum deportare ex aliquo significa “celebrare il trionfo su qualcuno”. I Romani avevano l’usanza di celebrare un pubblico trionfo quando risultavano vincitori di una guerra: il generale vittorioso (acclamato dai suoi soldati imperator) sfilava a cavallo, seguito dalle truppe, dai prigionieri e dal bottino, lungo un percorso che normalmente andava dal Campo Marzio al tempio di Giove Capitolino.

[25] ibi cum… moraretur: costrutto del cum narrativo con valore causale; diutius è il comparativo di maggioranza dell’avverbio diu.

[26] Nel 194.

[27] cuius… fuerat: proposizione relativa, il cui soggetto sottinteso è Catone.

[28] per senatum: complemento di mezzo costruito con per + accusativo.

[29] cum… obtineret: costrutto del cum narrativo con valore concessivo; il termine principatum, connesso al sostantivo princeps, indica la supremazia; il verbo obtineo non ha il significato di “ottengo”, ma di “mantengo”, “detengo”. Africano godeva di grande prestigio in Senato, appartenendo a una delle famiglie più in vista di Roma, ma, nonostante questo, non riuscì a far deporre Catone.

[30] quod… administrabatur: ordina: quod tum res publica administrabatur non potentia sed iure; proposizione causale con il verbo all’indicativo per esprimere oggettività; potentia e iure sono ablativi di causa efficiente. Emergono qui l’ammirazione e la nostalgia di Nepote per i tempi di Catone, quando lo Stato era amministrato secondo giustizia e nessun cittadino riusciva a impadronirsi del potere con la violenza.

[31] qua ex re: nesso del relativo.

[32] ‹consulatu› peracto: ablativo assoluto; peracto è participio perfetto di perago, composto da per + ago, in cui il prefisso per indica il compimento dell’azione.

[33] priuatus: usato in funzione predicativa.

[34] censor… factus: ordina: factus censor cum eodem Flacco (nel 184).

[35] severe… potestati: praefuit è perfetto di praesum, che, come ogni composto di sum, è accompagnato dal dativo; potestas ha il significato di “carica”. L’avverbio severe fissa l’attenzione del lettore sull’intransigenza di Catone nell’amministrare la censura, tanto da meritagli l’appellativo di “Censore” per antonomasia.

[36] animadvertit: il verbo animadverto, seguito da in + accusativo, significa “prendo provvedimenti contro qualcuno”.

[37] edictum: si fa riferimento qui alle leges sumptuariae che limitavano il lusso, in particolare alla lex Oppia.

[38] pullulare: il verbo presenta la medesima radice di pullus, “germoglio”, ed esprime l’idea di “metter germogli”, del “balzar fuori”. Detto della luxuria, rappresenta una metafora.

[39] circiter annos octoginta: complemento di tempo continuato in accusativo semplice.

[40] adulescentia: corrisponde all’età della giovinezza, compresa all’incirca tra i 15 e i 30 anni.

[41] causa: preceduto dal genitivo, esprime un complemento di fine.

[42] quoad vixit: proposizione temporale con l’indicativo, che esprime oggettività.

[43] Il capitolo si conclude con l’affermazione dell’integrità morale di Catone, evidente nell’uso della parola virtus.

Marco Minucio e l’imperium aequatum

di F. Cerato, su Classicult.it, 24 gennaio 2019 (ribloggato).

 

L’articolo che segue mostra come dallo studio di una fonte epigrafica si possa confermare o negare informazioni che la tradizione storiografica pone come controverse.

L’iscrizione in questione (96 × 70 × 69 cm) proviene da un grande altare di pietra dei Colli Albani, sicuramente peperino, ritrovato nel 1862 a Roma, in via Tiburtina, presso la Basilica di S. Lorenzo fuori le Mura, e oggi conservato nel Museo del Palazzo dei Conservatori (Musei Capitolini) di Roma[1].

 

Hercolei / sacrom / M(arcus) Minuci(us) C(ai) f(ilius) / dictator vov(it).

 

«Marco Minucio, figlio di Gaio, dittatore, votò [questo] sacro [donario] a Ercole».

Ercole Marco Minucio
Dedica votiva a Ercole da parte di M. Minucio (CIL VI, 284 (p. 3004, 3756) = CIL I, 607 (p. 918) = ILS 11 = ILLRP 118 (p. 319) = AE 1991, 211a). Base di donario, pietra peperino, ultimo quarto del III sec. a.C. Roma, Musei Capitolini. Foto di Marie-Lan Nguyen (User:Jastrow) 2009, CC BY 2.5

 

Come lascia intendere il titulus, l’altare doveva costituire un donario votato ad Ercole, divinità tutelare a cui molti generali romani, tra il III e il II secolo a.C., si rivolgevano per la buona riuscita delle proprie imprese all’estero.

Il nome della divinità (Hercoles) è posto enfaticamente all’inizio dell’iscrizione, in alto. Alcuni tratti notevoli del ductus del documento sono la r, che presenta l’occhiello non chiuso, e la l, che mostra l’asta orizzontale con un grado inferiore a 90° rispetto a quella verticale; quanto alla forma della m, essa risente dell’influenza etrusca.

L’uscita in –om, anziché in –um, dell’accusativo singolare dei nomi della seconda declinazione e degli aggettivi di prima classe, equivale a quella dell’accusativo greco in -ον e segnala che, nella seconda metà del III secolo a.C., il fenomeno fonetico e grafico dell’oscuramento non si era ancora verificato.

Alla r.3 compare la sequenza onomastica del dedicatario: M(arcus) Minuci(us) C(ai) f(ilius).

Nel commento alla scheda dell’ILLRP, Degrassi ha osservato che «in latere sinistro extat nota l i xxvi»[2]. Si tratterebbe di una marca: nei giacimenti di pietra (lapicedinae), infatti, era consuetudine presso i Romani contrassegnare il materiale estratto con un numero di serie relativo alla squadra di operai (brachium), preposta allo scavo, e al settore del fronte di taglio al quale gli operai erano stati assegnati. Il primo ad interessarsi a questo genere di marcature fu Bruzza: questi, in un contributo del 1870, affermò che Ritschl aveva inteso la sigla in esame come l(egiones) I (et) XXVI, ipotizzando che il reperto provenisse proprio da una cava assegnata a due reparti militari – cosa probabile! – e che fosse stato estratto dai soldati stessi dopo il congedo (ma ciò non è attestato!)[3]. Theodor Mommsen, invece, ritenne trattarsi della stima effettiva del donativo votato a Ercole dai soldati per tramite del dittatore, e, pertanto, sciolse l’abbreviazione in l(oricae) i(nlatae) XXVI. Più verosimile appare l’ipotesi avanzata da Henzen, il quale, intervenuto sul testo, interpretò la sigla come l(oco) i‹n(numero)› XXVI: la marca, a suo dire, indicava il numero di comparto da cui la lastra era stata estratta[4]. Più recente è stata la congettura dell’archeologo italiano La Regina, secondo il quale la sigla andrebbe interpretata come (in) l(ibro) I (loco) XXVI, cioè come numero del catalogo di opere d’arte esposte[5].

Quanto al nome gentilizio del dedicante, Kaimio ha mostrato che l’abbreviazione in Minuci del nominativo si spiega grazie al concorso combinato di ragioni di spazio, di ordine fonologico e di influssi etruschi[6].

Da un confronto con le fonti storiografiche, il personaggio in questione sarebbe Marco Minucio (Rufo), uomo politico romano vissuto verso la fine del III secolo a.C., che, malgrado le origini plebee, nel 221 divenne console e nel 216 morì combattendo a Canne[7].

Un aspetto poco chiaro della carriera politica di Marco Minucio è costituito dal titolo di dictator con cui egli si fregia nel titulus preso in esame. A questo proposito, Polibio è molto esplicito: egli informa che, nel 217, siccome i senatori accusavano e biasimavano Q. Fabio Massimo per la sua eccessiva prudenza nel gestire l’invasione annibalica, «avvenne allora quello che mai era accaduto: a Marco Minucio assegnarono i pieni poteri (αὐτοκράτορα γὰρ κἀκεῖνον κατέστησαν), convinti che avrebbe rapidamente condotto le cose a buon fine; in due, dunque, erano diventati i dittatori per le stesse operazioni, cosa che presso i Romani non era mai accaduta prima» (III 103, 4)[8].

Vale la pena di soffermarsi sul fatto che la testimonianza polibiana costituisca il tipico caso in cui un autore greco del II secolo a.C. trovasse difficoltà nel tradurre dal latino il nome di un’istituzione o di una carica pubblica romana. D’altronde, il dictator latino non aveva corrispondenza nel mondo greco, ma il termine che Polibio adottò, comunque, implicava l’idea di un individuo dotato di un potere esercitato per sé e da sé, senza essere eletto né nominato da un’assemblea, né tantomeno senza la consultazione di altri. È vero anche che la notizia riportata dallo storico megalopolita segnala un’alterazione: la dittatura romana, infatti, non era una magistratura collegiale, ma poteva essere affiancata, nel suo esercizio, da una figura subalterna, il magister equitum; colui che era chiamato ad assumere il mandato non era certamente eletto da un’assemblea popolare, ma veniva investito (dictus) dal console in carica. Si trattava, infine, di una magistratura straordinaria, necessaria solamente in casi di eccezionale gravita, quali la presenza sul territorio di un nemico, l’urgenza di sedare rivolte o rivoluzioni, e altre calamità politico-istituzionali che impedissero la regolare gestione della cosa pubblica. Il mandato durava normalmente sei mesi, tempo limite entro il quale il dictator doveva portare a termine tutti i provvedimenti e le soluzioni per i quali era stato indicato; in quel lasso di tempo, il prescelto deteneva il summum imperium e concentrava nelle proprie mani le prerogative di entrambi i consoli.

Il caso di Marco Minucio, stando dunque alla testimonianza polibiana, fu davvero eccezionale, un fatto senza precedenti: la gravità della situazione (Annibale era alle porte!) era tale da indurre ad alterare un’istituzione tanto rigida come la dictatura. Gli altri autori a disposizione per ricostruire la vicenda, tuttavia, non sono così espliciti, ma anzi sembrano, in un certo senso, contraddire quanto riportato da Polibio.

Ad esempio, Livio – o sarebbe meglio dire la sua fonte annalistica per il periodo, Fabio Pittore, il quale mostra di nutrire poca simpatia nei confronti di Marco Minucio Rufo –, riferisce che, in piena guerra annibalica, il comandante romano, mentre si trovava ad operare nel Sannio in qualità di magister equitum di Fabio Massimo, decise di assalire una parte dell’esercito punico intento a foraggiare. Ad un certo punto, il racconto liviano – o meglio la sua fonte annalistica – riferisce che, a seguito del confronto armato nei pressi di Gereonium, si contarono sex milia hostium caesa, quinque admodum Romanorum: per Minucio si trattò di una vittoria ottenuta al prezzo di numerose perdite, a ben guardare. Eppure – continua la fonte –, famam egregiae uictoriae cum uanioribus litteris magistri equitum Romam perlatam («il magister equitum in un suo dispaccio mendace fece pervenire a Roma la notizia millantatrice di una spettacolare vittoria»)[9]. Per mettere a tacere discussioni, critiche e voci dubbie sulla vicenda, Livio riproduce il discorso pubblico tenuto da uno dei tribuni della plebe, certo Marco Metilio, il quale, siccome Gaio Flaminio era caduto in combattimento al lago Trasimeno, l’altro console, Gneo Servilio Gemino era stato incaricato di fiaccare la flotta punica nel Tirreno e i due pretori erano occupati a presidiare Sicilia e Sardegna, avanzò la proposta de aequando magistri equitum et dictatoris iure: il conferimento di un aequatum imperium avrebbe comportato la piena parità di poteri fra Fabio Massimo e Marco Minucio[10]. Con buona pace della fonte liviana, che chiaramente parteggia per Massimo, nella figura di Metilio si potrebbe ravvisare la posizione condivisa fra quanti, all’interno del Senato, non gradissero la politica prudente del Cunctator. La testimonianza annalistica, alla fine, riversa tutto il proprio astio nei confronti di Minucio, stigmatizzando la sua arroganza (Livio connota l’atteggiamento del personaggio con le seguenti espressioni: grauitas animi, cum inuicto…animo, utique immodice immodesteque…gloriari), non appena quello fu raggiunto dalla lettera del Senato che lo informava dell’equiparazione dei comandi[11]. Ad ogni modo, considerando la versione liviana (o fabiana) a confronto con quella polibiana, l’autore patavino non nomina mai Minucio in qualità di dictator – anzi sembra quasi si astenga coscientemente dal farlo.

Una testimonianza simile, benché molto più audace, appare in Appiano, il quale riporta che il Senato, durante la guerra annibalica, diede disposizioni affinché il magister equitum, Minucio, detenesse un’autorità equiparata in tutto e per tutto a quella del dictator (ἴσον ἰσχύειν αὐτῷ τὸν ἵππαρχον)[12].

Contrariamente alla superiorità numerica delle fonti antiche che formano la tradizione secondo cui Minucio non sarebbe stato incaricato formalmente della dictatura (Nepote, Valerio Massimo, Cassio Dione, Zonara, e l’anonimo de viris illustribus), Dorey si è detto convinto che le prove materiali sembrano, tuttavia, confermare la testimonianza di Polibio: la dedica a Ercole, a suo dire, costituirebbe «a conclusive proof that Minucius was formally and officially appointed Dictator by the plebiscite of Metilius»[13]. Lo studioso, addirittura, ha ipotizzato che il documento in questione facesse riferimento a una possibile dittatura anteriore al 217[14].

La questione, però, si complica ulteriormente, confrontando la testimonianza di Plutarco (Vita Marcelli) e quella di Valerio Massimo, a proposito della dittatura del 220 a.C. Plutarco, infatti, racconta che il dittatore, Minucio, al momento di nominare il proprio magister equitum, Gaio Flaminio, si udì un topolino squittire: la folla dei cittadini interpretò tale coincidenza come un presagio ostile e costrinse i magistrati ad abbandonare le proprie cariche, perché fossero sostituiti da altri. L’episodio è esattamente ripreso da Valerio Massimo, ma con l’unica grande differenza che, al posto di Minucio, compare nientemeno che il Temporeggiatore[15].

L’indicazione offerta da Valerio Massimo, in effetti, trova conferma in Livio e nel cosiddetto Elogium Fabii, testimonianze che provano che Quinto Fabio Massimo sia stato dittatore prima del 217 a.C.[16]

Per Dorey, comunque, Marco Minucio fu nominato dictator comitiorum habendorum causa, per venire a capo del conflitto d’interesse fra i consoli per regolare la convocazione dei comitia, in vista delle elezioni dei magistrati per l’anno successivo. Jahn, al contrario, si è detto convinto che Minucio fosse stato realmente dittatore sia nel 220 sia nel 217 a.C.[17]

Càssola e Meyer sembrano avere colto meglio nel segno, inserendo tutta la vicenda di Minucio nel più ampio rapporto conflittuale fra il Senato e Fabio Massimo[18].

Quanto all’Elogium Fabii, esso testimonia che Q. Fabio Massimo fu davvero dittatore nell’anno 220 a.C. e si scelse C. Flaminio in qualità di subalterno. Tre anni dopo, però, allorché si presentò una nuova situazione d’emergenza, il Senato, per evitare che lo stesso Fabio potesse scegliersi come vice un altro fra gli outsider politici legati al proprio clan gentilizio, approvò l’aberrante rogatio elettiva del magister equitum. Tra l’altro, siccome l’unico console in vita, Gneo Servilio, conduceva le operazioni belliche sul mare e a causa di ciò non poteva essere in patria in quel momento per nominare un dictator, a Fabio Massimo fu conferito un imperium pro dictatore.

 

Elogium Fabii Quinto Fabio Massimo
Elogium Fabii (CIL XI 1828 = CIL I, p. 193 = ILS 56 = Inscr. It. XIII 3, 80 = AE 2003, +267 = AE 2011, +361). Tabula onoraria, marmo, 2 a.C. – 14 d.C., da Arezzo. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. Foto di SailkoCC BY 2.5

 

La statua di Quinto Fabio Massimo nei giardini del Palazzo di Schönbrunn a Vienna. Monumento sottoposto a tutela col numero 114069 in Austria. Foto di Herzi PinkiCC BY-SA 4.0

 

Plutarco (Vita Fabii) riprende sostanzialmente la versione degli eventi fornita da Livio, riportando che il tribuno Metilio avanzò la proposta di equiparare i poteri di Minucio e di Fabio, perché in tal modo essi potessero condividere con pari diritto e pari dignità la conduzione della guerra annibalica[19]. Una conferma della promulgazione della rogatio deriva dallo stesso Elogium Fabii: alle rr. 9-12, infatti, si dice che magistro/ equitum Minucio quoius popu-/lus imperium cum dictatoris / imperio aequauerat.

Meyer, però, non nascondeva la propria perplessità circa la bontà della dedica a Ercole, ma si chiedeva se, in qualche modo, Minucio avesse voluto autorappresentarsi in maniera del tutto differente rispetto a quanto le fonti letterarie tramandano. Tuttavia, la posizione dello studioso appare infondata, perché è vero che, tendenzialmente, le fonti epigrafiche non contrastano con la fattualità del contesto storico che le ha prodotte. Al limite, forse, si potrebbe pensare che, a quei tempi, chiunque leggesse quella dedica sorridesse maliziosamente di fronte all’arrogante pretesa di Minucio nel fregiarsi di un titolo che non doveva affatto appartenergli[20].

Come, infine, ha puntualizzato Degrassi nella nota di commento all’iscrizione, Marco Minucio fu eletto collega di Fabio Massimo secondo le indicazioni della lex Metilia del 217 a.C. Quanto ai Fasti Capitolini, invece, non risulta alcuna menzione di una simile co-dittatura[21].

 

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Note:

[1] Si tratta di una roccia magmatica (trachite o tefrite) caratterizzata da una colorazione grigia e macchiettata da piccoli granuli di biotite (mica), simili a grani di pepe, dai quali deriva il nome. L’indicazione del litotipo permettono di ricostruire la provenienza del materiale, il suo ruolo e la sua importanza a livello commerciale, la sua area di diffusione e la sua presenza sul mercato nell’antichità.

[2] Degrassi A., Inscriptiones Latinae liberae rei publicae (ILLRP), I, Firenze 19652, 90.

[3] Bruzza L., Iscrizioni dei marmi grezzi, Annali dell’Istituto di Corrispondenza Archeologica 42, 1870, 114 (= Ritschl cit., IX).

[4] Cfr. ibid.

[5] La Regina A., Tabulae signorum urbis Romae, in Di Mino R.M. (ed.), Rotunda Diocletiani. Sculture decorative delle terme nel Museo Nazionale Romano, Roma 1991, 5, n.1: secondo lo studioso, il reperto, come altri, dovette godere almeno in età imperiale di una qualche forma di musealizzazione. L’ipotesi di per sé non è peregrina, dato il fatto che nel corso del II sec. d.C. in tutto il mondo romano si diffusero le scuole di retorica ispirate alla corrente della Seconda Sofistica, i cui metodi d’insegnamento e di apprendimento consistevano proprio nel cimentarsi in descrizioni di opere d’arte.

[6] Kaimio J., The nominative singular in -i of latin gentilicia, Arctos 6 (1969), 23-42.

[7] Münzer F., s.v. Minucius52, RE XV, 2 (1932), 1957-1962.

[8] Pol. III 103, 4.

[9] Liv. XXII 24, 1114, in part. 14.

[10] Liv. XXII 25, 10.

[11] Liv. XXII 26, 56; 27, 12.

[12] App. Hann. III 12.

[13] Dorey T.A., The Dictatorship of Minucius, JRS 45 (1955), 92.

[14] Ibid.

[15] Cfr. Plut., Marcel. 5, 4, con Val. Max., I 1, 5. Dorey T.A., ibid., che riferisce che Scullard, convenendo con Münzer, ha sostenuto che il Μινουκίου di Plutarco si trattava di un errore della tradizione manoscritta e che si doveva emendare in Μαξίμου.

[16] Cfr. Liv. XXII 9, 7, e CIL XI 1828 = CIL I, p. 193 = ILS 56 = Inscr. It. XIII 3, 80 = AE 2003, +267 = AE 2011, +361.

[17] Jahn J., Interregnum und Wahldiktatur, Kallmuenz 1970, 113-115.

[18] Si vd. Càssola F., I gruppi politici romani nel III secolo a.C., Trieste 1962, 261-268, e Meyer E., Römische Annalistik im Lichte der Urkunden, ANRW I.2 (1972), 975-978.

[19] Plut., Fab. 10, 1.

[20] Per Meyer E., Römische Annalistik…, cit., tutte le fonti concordano nel descrivere Marco Minucio come un uomo particolarmente spavaldo e arrogante.

[21] L’assunto di Degrassi ha ispirato Meyer a ritenere che Minucio non fosse mai stato riconosciuto ufficialmente come dictator.

La battaglia di Canne – 2 agosto 216 a.C. (Liv. XXII, 42-49)

di Tito Livio, Storia di Roma dalla sua fondazione, vol. V (libri XXI-XXIII), note di M. Scàndola, Milano 1991(3), pp. 316-337.

Scena dello scontro, di I. Dzis.

 

[42] Ubi inluxit, subductae primo stationes, deinde propius adeuntibus insolitum silentium admirationem fecit. Tum satis comperta solitudine in castris concursus fit ad praetoria consulum nuntiantium fugam hostium adeo trepidam ut tabernaculis stantibus castra reliquerint, quoque fuga obscurior esset, crebros etiam relictos ignes. Clamor inde ortus ut signa proferri iuberent ducerentque ad persequendos hostes ac protinus castra diripienda et consul alter uelut unus turbae militaris erat: Paulus etiam atque etiam dicere prouidendum praecauendumque esse; postremo, cum aliter neque seditionem neque ducem seditionis sustinere posset, Marium Statilium praefectum cum turma Lucana exploratum mittit. Qui ubi adequitauit portis, subsistere extra munimenta ceteris iussis ipse cum duobus equitibus uallum intrauit speculatusque omnia cum cura renuntiat insidias profecto esse: ignes in parte castrorum quae uergat in hostem relictos; tabernacula aperta et omnia cara in promptu relicta; argentum quibusdam locis temere per uias uel[ut] obiectum ad praedam uidisse. Quae ad deterrendos a cupiditate animos nuntiata erant, ea accenderunt, et clamore orto a militibus, ni signum detur, sine ducibus ituros, haudquaquam dux defuit; nam extemplo Varro signum dedit proficiscendi. Paulus, cum ei sua sponte cunctanti pulli quoque auspicio non addixissent, nuntiari iam efferenti porta signa collegae iussit. Quod quamquam Varro aegre est passus, Flamini tamen recens casus Claudique consulis primo Punico bello memorata naualis clades religionem animo incussit. Di prope ipsi eo die magis distulere quam prohibuere imminentem pestem Romanis; nam forte ita euenit ut, cum referri signa in castra iubenti consuli milites non parerent, serui duo Formiani unus, alter Sidicini equitis, qui Seruilio atque Atilio consulibus inter pabulatores excepti a Numidis fuerant, profugerent eo die ad dominos; deductique ad consules nuntiant omnem exercitum Hannibalis trans proximos montes sedere in insidiis. Horum opportunus aduentus consules imperii potentes fecit, cum ambitio alterius suam primum apud eos praua indulgentia maiestatem soluisset.

 

 

[42] Quando spuntò il giorno destarono meraviglia due fatti, primo il ritiro dei posti di guardia, poi l’insolito silenzio che colpì coloro che più dappresso si erano accostati. Come ormai si ebbe la certezza che il campo di Annibale era deserto, vi fu un accorrere alle tende dei consoli da parte di coloro i quali portavano la notizia che Annibale era fuggito con tanta rapidità che il campo era stato abbandonato senza che nemmeno si fossero levate le tende; perché poi la fuga fosse tenuta più nascosta si erano anche lasciati parecchi fuochi. Sorsero, quindi, alte grida poiché i soldati chiedevano a gran voce che i consoli comandassero di avanzare e li conducessero all’inseguimento del nemico e subito dopo al saccheggio dell’accampamento. Mentre l’uno dei consoli si comportava come se appartenesse alla folla dei soldati, Paolo continuava a dire che si doveva essere prudenti e cauti; alla fine, non potendo più tendere a freno né la ribellione dei soldati, né il capo di questa ribellione, mandò in ricognizione il prefetto Mario Statilio con uno squadrone di cavalieri lucani. Appena Statilio ebbe cavalcato presso le porte, avendo ordinato agli altri di fermarsi fuori delle fortificazioni, egli stesso entrò nella trincea con due cavalieri e, dopo aver accuratamente esaminato tutto all’intorno, tornò indietro a riferire che in quella situazione si dovevano certamente nascondere delle insidie. Erano stati, infatti, lasciati dei fuochi in quella parte del campo che era rivolta in direzione del nemico; le tende erano aperte e tutti gli oggetti di valore erano stati lasciati a portata di mano. Egli aveva, inoltre, visto in alcuni luoghi l’argento quasi gettato a caso per le vie dell’accampamento, come offerto al saccheggio. Proprio quelle notizie che erano state date per trattenere gli animi dalla cupidigia, al contrario l’eccitarono; quando sorse un clamore fra i soldati che gridavano che sarebbero andati avanti senza comandanti anche se non fosse stato dato alcun segnale, allora il comandante non si sottrasse di certo, poiché Varrone diede subito il segnale della partenza. Paolo, non avendo i polli dato buon presagio a lui che già per istinto voleva sospendere l’impresa, ordinò di avvertire di questo fatto il collega che già stava per uscire con le insegne. Benché Varrone mal sopportasse ciò, tuttavia, l’episodio recente di Flaminio e la famosa sconfitta navale riportata dal console Claudio nella prima guerra punica, determinarono nel suo animo un certo timore superstizioso. Gli stessi dèi, starei per dire, differirono soltanto più che impedire la sciagura che in quel giorno sovrastava i Romani. Infatti, avvenne per caso che, mentre i soldati non volevano ubbidire al console che ordinava di riportare le insegne al campo, due schiavi, l’uno di un cavaliere formiano, l’altro di un cavaliere sidicino, che durante il consolato di Servilio ed Atilio erano stati fatti prigionieri dai Numidi mentre foraggiavano, riuscirono quel giorno a fuggire e a ritornare ai loro padroni. Condotti dinanzi al console, lo informarono che tutto l’esercito di Annibale stava al di là dei monti vicini, pronto all’agguato. Il provvidenziale arrivo di costoro ridiede autorità al comando dei consoli, poiché il desiderio di popolarità di uno di loro aveva con la sua colpevole indulgenza per prima cosa annullato la sua stessa autorità presso i soldati.

 

Cavaliere (dettaglio). Rilievo, marmo, II sec. d.C. ca. dal pannello del Sarcofago di Sidamara, da Ambararasi (Konya). Istanbul, Museo Archeologico.

 

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[43] Hannibal postquam motos magis inconsulte Romanos quam ad ultimum temere euectos uidit, nequiquam detecta fraude in castra rediit. Ibi plures dies propter inopiam frumenti manere nequit, nouaque consilia in dies non apud milites solum mixtos ex conluuione omnium gentium sed etiam apud ducem ipsum oriebantur. Nam cum initio fremitus, deinde aperta uociferatio fuisset exposcentium stipendium debitum querentiumque annonam primo, postremo famem, et mercennarios milites, maxime Hispani generis, de transitione cepisse consilium fama esset, ipse etiam interdum Hannibal de fuga in Galliam dicitur agitasse ita ut relicto peditatu omni cum equitibus se proriperet. Cum haec consilia atque hic habitus animorum esset in castris, mouere inde statuit in calidiora atque eo maturiora messibus Apuliae loca, simul ut, quo longius ab hoste recessisset, eo transfugia impeditiora leuibus ingeniis essent. Profectus est nocte ignibus similiter factis tabernaculisque paucis in speciem relictis, ut insidiarum par priori metus contineret Romanos. Sed per eundem Lucanum Statilium omnibus ultra castra transque montes exploratis, cum relatum esset uisum procul hostium agmen, tum de insequendo eo consilia agitari coepta. Cum utriusque consulis eadem quae ante semper fuisset sententia, ceterum Varroni fere omnes, Paulo nemo praeter Seruilium, prioris anni consulem, adsentiretur, [ex] maioris partis sententia ad nobilitandas clade Romana Cannas urgente fato profecti sunt. Prope eum uicum Hannibal castra posuerat auersa a Volturno uento, qui campis torridis siccitate nubes pulueris uehit. Id cum ipsis castris percommodum fuit, tum salutare praecipue futurum erat cum aciem dirigerent, ipsi auersi terga tantum adflante uento in occaecatum puluere offuso hostem pugnaturi.

 

[43] Annibale, dopo che vide che i Romani avevano compiuto soltanto dei movimenti inconsulti e non erano ancora stati trascinati dalla loro avventatezza alle estreme conseguenze, ritornò negli accampamenti senza aver raggiunto il proprio intento, in quanto l’inganno era stato scoperto. Qui non poté trattenersi più giorni a causa della mancanza di frumento; nel frattempo, ogni giorno si escogitava un nuovo piano, non solo da parte dei soldati, che erano un’accozzaglia di popoli di ogni specie, ma anche da parte dello stesso comandante. Infatti, se da principio nacque solo un mormorio, poi si ebbero addirittura aperte grida di coloro che reclamavano lo stipendio dovuto e di quelli che protestavano prima per la scarsezza del cibo, poi per la fame, mentre si diceva che i soldati mercenari, soprattutto quelli di nazionalità spagnola, avevano deliberato di disertare. Allora si racconta che lo stesso Annibale abbia più volte pensato a riparare in Gallia, coll’idea di darsi alla fuga con tutta la cavalleria, abbandonando la fanteria. Questi erano i piani e questo era lo stato d’animo negli accampamenti, quando Annibale stabilì di muovere verso località dell’Apulia più calde e perciò più favorevoli ad una più ampia maturazione delle messi; nello stesso tempo pensava che quanto più lontano egli si fosse ritirato dal nemico, tanto più difficili sarebbero state le diserzioni per uomini di carattere così volubile. Partì nottetempo lasciando, come aveva già fatto, alcuni fuochi accesi e poche tende in piedi per mostra, perché una paura degli agguati simile alla precedente riuscisse a trattenere i Romani. Tuttavia, quando lo stesso lucano Statilio, che aveva fatto un’accurata ricognizione oltre gli alloggiamenti e al di là dei monti, riferì che si vedeva da lontano l’esercito nemico in marcia, allora ricominciarono a diffondersi progetti di inseguimento. Poiché ciascuno dei due consoli persisteva nell’opinione che aveva sempre avuto, quasi tutti erano del parere di Varrone, mentre nessuno seguiva Paolo, eccetto Servilio, console dell’anno precedente. Così per decisione della maggioranza i consoli e gli eserciti si avviarono per rendere famosa, sotto l’imperversare del destino, la disfatta dei Romani a Canne. Nei pressi di questo villaggio, Annibale aveva posto gli accampamenti in una posizione contraria al soffiare del vento scirocco, che sollevava nubi di polvere dai campi torridi per la siccità. Questa circostanza gli tornò molto favorevole allora e soprattutto in futuro, quando si dovette ordinare lo schieramento per la battaglia; i Cartaginesi avrebbero perciò combattuto in posizione contraria al vento, che avrebbe soffiato soltanto alle loro spalle, mentre il nemico sarebbe stato accecato dal polverone che si levava tutto intorno.

Annibale Barca. Busto, marmo. Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

 

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[44] Consules satis exploratis itineribus sequentes Poenum, ut uentum ad Cannas est et in conspectu Poenum habebant, bina castra communiunt, eodem ferme interuallo quo ad Gereonium sicut ante copiis diuisis. Aufidus amnis, utrisque castris adfluens, aditum aquatoribus ex sua cuiusque opportunitate haud sine certamine dabat; ex minoribus tamen castris, quae posita trans Aufidum erant, liberius aquabantur Romani, quia ripa ulterior nullum habebat hostium praesidium. Hannibal spem nanctus locis natis ad equestrem pugnam, qua parte uirium inuictus erat, facturos copiam pugnandi consules, dirigit aciem lacessitque Numidarum procursatione hostes. Inde rursus sollicitari seditione militari ac discordia consulum Romana castra, cum Paulus Sempronique et Flamini temeritatem Varroni Varro speciosum timidis ac segnibus ducibus exemplum Fabium obiceret testareturque deos hominesque hic nullam penes se culpam esse, quod Hannibal iam uel[ut] usu cepisset Italiam; se constrictum a collega teneri; ferrum atque arma iratis et pugnare cupientibus adimi militibus; ille, si quid proiectis ac proditis ad inconsultam atque improuidam pugnam legionibus accideret, se omnis culpae exsortem, omnis euentus participem fore diceret; uideret ut quibus lingua prompta ac temeraria, aeque in pugna uigerent manus.

 

[44] I consoli, sorvegliando bene le strade mentre inseguivano Annibale, come giunsero a Canne di fronte a lui, fortificarono i due accampamenti che distavano l’uno dall’altro lo stesso spazio come a Gereonio, prima che le milizie si dividessero. Il fiume Aufido che scorreva vicino ad ambedue i campi, lasciava libero accesso a coloro che andavano ad attingere acqua secondo le necessità di ciascuno, senza, pertanto, che non avvenissero piccoli scontri; tuttavia, i Romani preferivano attingere acqua movendo dall’accampamento minore, che era posto al di là dell’Aufido, perché la riva sinistra del fiume non aveva alcun presidio nemico. Annibale, nutrendo la speranza che i consoli gli avrebbero offerto l’opportunità di combattere in quei luoghi fatti per uno scontro di cavalleria, arma nella quale egli si sentiva invincibile, dispose le schiere a battaglia e ordinò ai Numidi di provocare con scaramucce i nemici. In conseguenza di ciò, negli accampamenti romani si accendevano di nuovo e le ribellioni dei soldati e le discordie fra i due consoli, quando Paolo rinfacciava a Varrone l’avventatezza di Sempronio e di Flaminio, mentre Varrone opponeva Fabio come esempio ben noto a comandanti pigri e codardi. Chiamava poi a testimoni gli dèi e gli uomini che egli non aveva nessuna colpa se Annibale aveva occupato l’Italia come una terra propria; egli, al contrario, era costretto e trattenuto dal collega, mentre si portavano via le armi e gli strumenti di guerra ai soldati che, pieni di sdegno contro il nemico, bramavano di combattere. Paolo Emilio, al contrario, affermava di ritenere sé esente da ogni colpa qualora accadesse qualche triste evento alle legioni abbandonate e gettate in preda ad una sconsiderata ed incauta battaglia; nonostante ciò, egli prometteva che avrebbe condiviso la responsabilità di qualsiasi sorte. Provvedesse Varrone a far sì che coloro che avevano la lingua lunga ed avventata fossero altrettanto forti e pronti di mano.

 

Soldati cartaginesi. Illustrazione di R. Hook.

 

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[45] Dum altercationibus magis quam consiliis tempus teritur, Hannibal ex acie, quam ad multum diei tenuerat instructam, cum in castra ceteras reciperet copias, Numidas ad inuadendos ex minoribus castris Romanorum aquatores trans flumen mittit. Quam inconditam turbam cum uixdum in ripam egressi clamore ac tumultu fugassent, in stationem quoque pro uallo locatam atque ipsas prope portas euecti sunt. Id uero indignum uisum ab tumultuario auxilio iam etiam castra Romana terreri, ut ea modo una causa ne extemplo transirent flumen dirigerentque aciem tenuerit Romanos quod summa imperii eo die penes Paulum fuerit. Itaque postero die Varro, cui sors eius diei imperii erat, nihil consulto collega signum proposuit instructasque copias flumen traduxit, sequente Paulo quia magis non probare quam non adiuuare consilium poterat. Transgressi flumen eas quoque quas in castris minoribus habuerant copias suis adiungunt atque ita instructa acie in dextro cornu—id erat flumini propius—Romanos equites locant, deinde pedites: laeuum cornu extremi equites sociorum, intra pedites, ad medium iuncti legionibus Romanis, tenuerunt: iaculatores ex ceteris leuium armorum auxiliis prima acies facta. Consules cornua tenuerunt, Terentius laeuum, Aemilius dextrum: Gemino Seruilio media pugna tuenda data.

 

[45] Mentre i Romani passavano il tempo a fare vivaci discussioni più che piani concreti, Annibale, che aveva raccolto nell’accampamento anche le altre milizie, da quella schiera che fino a giorno tardo aveva mantenuto in ordine di battaglia, staccò i Numidi e li mandò ad assalire di sorpresa quelli dei Romani che uscivano dall’accampamento minore per provvedere acqua al di là del fiume. I Numidi, appena balzati sulla riva, essendo riusciti con grande clamore e confusione a mettere in fuga quella schiera disordinata, avanzarono ad un posto di guardia collocato dinanzi alla trincea e quasi fino alle porte stesse del campo. In realtà parve cosa tanto vergognosa che accampamenti romani fossero presi da terrore perfino dinanzi ad un corpo di soldati irregolari, che la sola ragione per la quale i Romani si trattennero dal passare subito il fiume e disporre le schiere a battaglia, fu il fatto che in quel giorno il comando era nelle mani di Paolo. Pertanto, il giorno dopo Varrone, a cui toccava per turno il comando, senza avere affatto consultato il collega, fece dare il segnale della battaglia e trasferì l’esercito oltre il fiume, mentre Paolo lo seguiva, perché, se da un lato poteva disapprovare quella decisione, non poteva d’altra parte rifiutare il suo aiuto. Passato il fiume, i consoli unirono alle loro forze anche quelle truppe che stavano nell’accampamento minore e disposero così l’esercito in ordine di battaglia: sul fianco destro, che era più vicino al fiume, collocarono i cavalieri romani e poi i fanti; sul fianco sinistro la parte estrema dell’ala era occupata dai cavalieri alleati; nella parte interna stavano invece i fanti che si erano congiunti con le legioni romane. La prima schiera era composta dai frombolieri con altre milizie ausiliarie armate alla leggera. I consoli comandavano le due ali, Terenzio la sinistra, Emilio la destra; a Gemino Servilio fu affidata la difesa della parte centrale dello schieramento.

 

Ufficiali romani. Illustrazione di G. Rava.

 

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[46] Hannibal luce prima Baliaribus leuique alia armatura praemissa transgressus flumen, ut quosque traduxerat, ita in acie locabat, Gallos Hispanosque equites prope ripam laeuo in cornu aduersus Romanum equitatum; dextrum cornu Numidis equitibus datum media acie peditibus firmata ita ut Afrorum utraque cornua essent, interponerentur his medii Galli atque Hispani. Afros Romanam [magna ex parte] crederes aciem; ita armati erant armis et ad Trebiam ceterum magna ex parte ad Trasumennum captis. Gallis Hispanisque scuta eiusdem formae fere erant, dispares ac dissimiles gladii, Gallis praelongi ac sine mucronibus, Hispano, punctim magis quam caesim adsueto petere hostem, breuitate habiles et cum mucronibus. Ante alios habitus gentium harum cum magnitudine corporum, tum specie terribilis erat: Galli super umbilicum erant nudi: Hispani linteis praetextis purpura tunicis, candore miro fulgentibus, constiterant. Numerus omnium peditum qui tum stetere in acie milium fuit quadraginta, decem equitum. Duces cornibus praeerant sinistro Hasdrubal, dextro Maharbal; mediam aciem Hannibal ipse cum fratre Magone tenuit. Sol seu de industria ita locatis seu quod forte ita stetere peropportune utrique parti obliquus erat Romanis in meridiem, Poenis in septentrionem uersis; uentus—Volturnum regionis incolae uocant—aduersus Romanis coortus multo puluere in ipsa ora uoluendo prospectum ademit.

 

[46] All’alba Annibale, mandati avanti i soldati delle Baleari ed altre milizie dotate di armi leggere, passato il fiume così come l’aveva fatto passare a ciascun reparto, dispose in tal modo l’esercito in ordine di combattimento: collocò i Galli e gli Spagnoli accanto alla riva del fiume sul fianco sinistro contro la cavalleria romana; il fianco destro fu affidato ai cavalieri numidi, il centro fu rafforzato con la fanteria in modo che ambedue le ali fossero tenute dagli Africani; al centro si trovavano interposti Galli e Spagnoli. Si sarebbe potuto credere che in gran parte quegli Africani fossero una schiera di Romani; essi erano, infatti, armati con le armi catturate nella battaglia del Trebbia, ma, soprattutto, in gran parte nella battaglia del Trasimeno. Gli scudi dei Galli e degli Spagnoli erano pressoché uguali; le spade, invece, diverse per forma e per lunghezza, quelle dei Galli lunghissime e senza punta; quelle degli Spagnoli, al contrario, erano fatte per assalire il nemico più che di punta che di taglio, corte e maneggevoli e munite di cuspidi. Anche la vista di questa gente, fra tutte le altre incuteva un particolare terrore e per la grandezza del corpo e per l’aspetto; i Galli erano nudi dall’ombelico in su; gli Spagnoli si erano disposti in ordine rivestiti di tuniche di lino orlate di porpora, scintillanti di un mirabile candore. Il numero di tutti i fanti che si schierarono allora in campo fu di quarantamila, diecimila furono i cavalieri. I generali comandavano le ali; alla sinistra Asdrubale, alla destra Maarbale; lo stesso Annibale con il fratello Magone occupò il centro. Il sole, sia che gli eserciti si fossero così disposti per calcolo, sia che lo avessero fatto a caso, brillava assai opportunamente sul fianco dell’una e dell’altra parte, i Romani l’avevano alla sinistra, i Cartaginesi alla destra. Purtroppo il vento, che gli abitanti della regione chiamavano Volturno, essendosi levato in direzione contraria ai Romani, sollevando un gran polverone proprio contro i loro visi, tolse ad essi la possibilità di vedere.

 

Fanti iberici. Illustrazione di G. Rava.

 

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[47] Clamore sublato procursum ab auxiliis et pugna leuibus primum armis commissa; deinde equitum Gallorum Hispanorumque laeuum cornu cum dextro Romano concurrit, minime equestris more pugnae; frontibus enim aduersis concurrendum erat, quia nullo circa ad euagandum relicto spatio hinc amnis, hinc peditum acies claudebant. In derectum utrimque nitentes, stantibus ac confertis postremo turba equis uir uirum amplexus detrahebat equo. Pedestre magna iam ex parte certamen factum erat; acrius tamen quam diutius pugnatum est pulsique Romani equites terga uertunt. Sub equestris finem certaminis coorta est peditum pugna, primo et uiribus et animis par dum constabant ordines Gallis Hispanisque; tandem Romani, diu ac saepe conisi, aequa fronte acieque densa impulere hostium cuneum nimis tenuem eoque parum ualidum, a cetera prominentem acie. Impulsis deinde ac trepide referentibus pedem institere ac tenore uno per praeceps pauore fugientium agmen in mediam primum aciem inlati, postremo nullo resistente ad subsidia Afrorum peruenerunt, qui utrimque reductis alis constiterant media, qua Galli Hispanique steterant, aliquantum prominente acie. Qui cuneus ut pulsus aequauit frontem primum, deinde cedendo etiam sinum in medio dedit, Afri circa iam cornua fecerant inruentibusque incaute in medium Romanis circumdedere alas; mox cornua extendendo clausere et ab tergo hostes. Hinc Romani, defuncti nequiquam [de] proelio uno, omissis Gallis Hispanisque, quorum terga ceciderant, [et] aduersus Afros integram pugnam ineunt, non tantum [in] eo iniquam quod inclusi aduersus circumfusos sed etiam quod fessi cum recentibus ac uegetis pugnabant.

 

[47] Levatosi un grido, gli ausiliari irruppero e la battaglia si accese subito con i reparti di leggera armatura; poi l’ala sinistra della cavalleria gallica e spagnola si urtò contro l’ala destra romana, senza rispettare minimamente la tattica della battaglia equestre; infatti, non potevano fare altro che scontrarsi di fronte, poiché intorno non era rimasto spazio alcuno per fare delle evoluzioni, in quanto da un lato lo spazio era chiuso dal fiume, dall’altro dallo schieramento di fanteria. Di fronte, poiché da ambedue le parti i cavalieri si sforzavano invano nell’assalto, alla fine la turba dei cavalieri si trovò serrata senza possibilità di muoversi; ogni soldato allora, afferrandosi al collo del nemico, cercava di trascinarlo giù da cavallo. In gran parte del fronte si combatteva ormai una battaglia a piedi: più accanito che lungo fu il combattimento; i cavalieri romani respinti si diedero alla fuga. Sul finire della battaglia equestre entrò in campo la fanteria con una lotta dapprima eguale di forze e di animi, mentre rimanevano non interrotte le file dei Galli e degli Spagnoli; alla fine i Romani, pur avendo a lungo ed insistentemente tentato di aprirsi un varco, riuscirono con una colonna egualmente compatta a ricacciare indietro un cuneo nemico troppo esiguo e perciò poco solido, che sporgeva dal resto dello schieramento. Respinti di poi i nemici, mentre questi si ritiravano precipitosamente, i Romani si diedero ad incalzarli. Allora tutti insieme, passando in mezzo alla schiera di coloro che per paura fuggivano a precipizio, furono trascinati prima in mezzo alla parte centrale dello schieramento nemico, in seguito, poiché non v’era resistenza alcuna, giunsero fino alle truppe di riserva degli Africani. Costoro si erano fermati dopo il ripiegamento di ambedue le ali, mentre la parte centrale nella quale si erano schierati i Galli e gli Spagnoli si era alquanto spostata in avanti. Quando questo cuneo fu ricacciato indietro, la fronte apparve dapprima rettilinea, poi, continuando i soldati ad indietreggiare, si formò nel mezzo una rientranza, mentre gli Africani ai lati avevano già disposto le ali, in modo da prendere in mezzo i Romani che imprudentemente avevano fatto irruzione al centro. I Romani, allora, terminato inutilmente il primo combattimento, lasciati da parte Galli e Spagnoli che avevano preso alle spalle, cominciarono un nuovo combattimento contro gli Africani con esito sfavorevole, non solo perché dovevano combattere contro coloro che li incalzavano tutto intorno, ma anche perché si battevano stanchi contro soldati freschi e vigorosi.

 

Battaglia equestre. Illustrazione di A. Todaro.

 

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[48] Iam et sinistro cornu Romanis, ubi sociorum equites aduersus Numidas steterant, consertum proelium erat, segne primo et a Punica coeptum fraude. Quingenti ferme Numidae, praeter solita arma telaque gladios occultos sub loricis habentes, specie transfugarum cum ab suis parmas post terga habentes adequitassent, repente ex equis desiliunt parmisque et iaculis ante pedes hostium proiectis in mediam aciem accepti ductique ad ultimos considere ab tergo iubentur. Ac dum proelium ab omni parte conseritur, quieti manserunt; postquam omnium animos oculosque occupauerat certamen, tum arreptis scutis, quae passim inter aceruos caesorum corporum strata erant, auersam adoriuntur Romanam aciem, tergaque ferientes ac poplites caedentes stragem ingentem ac maiorem aliquanto pauorem ac tumultum fecerunt. Cum alibi terror ac fuga, alibi pertinax in mala iam spe proelium esset, Hasdrubal qui ea parte praeerat, subductos ex media acie Numidas, quia segnis eorum cum aduersis pugna erat, ad persequendos passim fugientes mittit, Hispanos et Gallos pedites Afris prope iam fessis caede magis quam pugna adiungit.

 

[48] Anche nell’ala sinistra i Romani avevano impegnato una battaglia, là dove contro i Numidi si era collocata la cavalleria alleata; il combattimento ebbe un inizio fiacco e segnato da un atto di frode tipica dei Cartaginesi. Quasi cinquecento Numidi che, oltre le solite armi offensive, avevano nascosto delle spade sotto le corazze, si misero a cavalcare tenendo dei piccoli scudi dietro la schiena, allontanandosi dai loro compagni come fossero dei disertori. All’improvviso balzarono da cavallo, e, gettati ai piedi dei Romani gli scudi e i dardi, vennero accolti in mezzo alle loro file; condotti dietro la linea di combattimento, ebbero l’ordine di prendere quel posto. I Numidi se ne stettero tranquilli, mentre da ogni parte si accendeva la battaglia; dopo che gli animi e gli occhi di tutti furono attratti verso il combattimento allora i Numidi, afferrati gli scudi, che erano stati gettati qua e là fra i mucchi di cadaveri, aggredirono alle spalle la schiera dei Romani e, ferendoli al dorso e tagliando i garretti dei cavalieri, provocarono grandissima strage e più ancora spavento e tumulto. Poiché nell’ala destra romana vi erano terrore e fuga, mentre al centro la fanteria, stanca della lunga battaglia, aveva ormai perduto ogni speranza di successo, Asdrubale che comandava in questa zona le truppe cartaginesi richiamò dal mezzo della battaglia i Numidi poiché il combattimento illanguidiva e li mandò ad inseguire qua e là i fuggitivi. Aggregò i cavalieri galli e spagnoli alla fanteria africana, ormai quasi più stanca per la strage compiuta che per la fatica del combattere.

 

Cavaliere numida. Illustrazione di P. Connolly.

 

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[49] Parte altera pugnae Paulus, quamquam primo statim proelio funda grauiter ictus fuerat, tamen et occurrit saepe cum confertis Hannibali et aliquot locis proelium restituit, protegentibus eum equitibus Romanis, omissis postremo equis, quia consulem et ad regendum equum uires deficiebant. Tum denuntianti cuidam iussisse consulem ad pedes descendere equites dixisse Hannibalem ferunt: “quam mallem, uinctos mihi traderet”. Equitum pedestre proelium, quale iam haud dubia hostium uictoria, fuit, cum uicti mori in uestigio mallent quam fugere, uictores morantibus uictoriam irati trucidarent quos pellere non poterant. Pepulerunt tamen iam paucos superantes et labore ac uolneribus fessos. Inde dissipati omnes sunt, equosque ad fugam qui poterant repetebant. Cn. Lentulus tribunus militum cum praeteruehens equo sedentem in saxo cruore oppletum consulem uidisset, “L. Aemili” inquit, “quem unum insontem culpae cladis hodiernae dei respicere debent, cape hunc equum, dum et tibi uirium aliquid superest [et] comes ego te tollere possum ac protegere. Ne funestam hanc pugnam morte consulis feceris; etiam sine hoc lacrimarum satis luctusque est”. Ad ea consul: “tu quidem, Cn. Corneli, macte uirtute esto; sed caue, frustra miserando exiguum tempus e manibus hostium euadendi absumas. Abi, nuntia publice patribus urbem Romanam muniant ac priusquam uictor hostis adueniat praesidiis firment; priuatim Q. Fabio L. Aemilium praeceptorum eius memorem et uixisse [et] adhuc et mori. Me in hac strage militum meorum patere exspirare, ne aut reus iterum e consulatu sim [aut] accusator collegae exsistam ut alieno crimine innocentiam meam protegam.” Haec eos agentes prius turba fugientium ciuium, deinde hostes oppressere; consulem ignorantes quis esset obruere telis, Lentulum in tumultu abripuit equus. Tum undique effuse fugiunt. Septem milia hominum in minora castra, decem in maiora, duo ferme in uicum ipsum Cannas perfugerunt, qui extemplo a Carthalone atque equitibus nullo munimento tegente uicum circumuenti sunt. Consul alter, seu forte seu consilio nulli fugientium insertus agmini, cum quinquaginta fere equitibus Venusiam perfugit. Quadraginta quinque milia quingenti pedites, duo milia septingenti equites, et tantadem prope ciuium sociorumque pars, caesi dicuntur; in his ambo consulum quaestores, L. Atilius et L. Furius Bibaculus, et undetriginta tribuni militum, consulares quidam praetoriique et aedilicii—inter eos Cn. Seruilium Geminum et M. Minucium numerant, qui magister equitum priore anno, [consul] aliquot annis ante fuerat—octoginta praeterea aut senatores aut qui eos magistratus gessissent unde in senatum legi deberent cum sua uoluntate milites in legionibus facti essent. Capta eo proelio tria milia peditum et equites mille et quingenti dicuntur.

 

[49] Nel settore opposto della battaglia, Paolo, per quanto subito al primo scontro fosse stato ferito da un giavellotto, tuttavia, con una forte schiera di armati si era ripetutamente lanciato contro Annibale ed aveva potuto in alcuni punti riaccendere la lotta, protetto dai cavalieri romani, che alla fine erano stati fatti appiedare perché al console mancavano ormai anche le forze per reggere il cavallo. Allora a un tale che gli annunciava che il console aveva ordinato ai cavalieri di smontare da cavallo, si racconta che Annibale abbia risposto: “Oh come avrei preferito che me li consegnasse già legati!”. Il combattimento dei cavalieri appiedati fu quale comportava la certezza della vittoria nemica, quando essi, già vinti, preferirono morire fermi al loro posto, piuttosto che darsi alla fuga, mentre i vincitori trucidavano quelli che non potevano respingere, inferociti contro coloro che ritardavano così la loro vittoria. Riuscirono, tuttavia, a ricacciare ormai solo i pochi cavalieri rimasti, spossati dalla fatica e dalle ferite. Tutti quanti furono sbaragliati; quelli che potevano cercavano di riprendere il cavallo per fuggire. Il tribuno dei soldati Cn. Lentulo passando a cavallo scorse seduto sopra un sasso il console Paolo Emilio ricoperto di sangue: “O Lucio Emilio – disse – tu che gli dèi devono considerare il solo che non ha colpa della catastrofe di oggi, prendi questo cavallo! Mentre ancora ti restano un po’ di forze, io ti posso prendere su con me e difendere. Non rendere funesta questa battaglia con la morte del console; anche senza di ciò ce n’è abbastanza di lacrime e di lutti”. A lui rispose il console: “Tu, o Cn. Cornelio, fai bene a darti coraggio; ma guardati dallo sciupare in vane commiserazioni il pochissimo tempo che ti rimane per fuggire dalle mani del nemico. Vattene ed avverti pubblicamente il Senato che fortifichi la città di Roma, e, prima che giunga il nemico vincitore, la rinforzi con dei presidi; privatamente dì poi a Fabio che Emilio è vissuto fino ad oggi memore dei suoi precetti. Quanto a me, lascia che io muoia in mezzo a questa strage dei miei soldati, perché al termine del mio consolato io non sia per la seconda volta accusato, o perché non divenga io stesso accusatore di un collega per difendere la mia innocenza con la colpa di un altro”. Mentre essi così parlavano, furono prima travolti dalla massa dei concittadini che fuggivano, poi dai nemici; questi seppellirono sotto i dardi il console, ignorando chi fosse; Lentulo, invece, in mezzo al tumulto fu portato in salvo dal cavallo. Allora da ogni parte cominciò una fuga disordinata. Settemila uomini si rifugiarono nell’accampamento minore, diecimila nel maggiore, quasi duemila nello stesso villaggio di Canne; questi ultimi furono subito circondati da Cartalone e dai suoi cavalieri, poiché nessuna fortificazione proteggeva il borgo. L’altro console, Varrone, che, sia per caso, sia per prudenza non si era mescolato ad alcuna folla di fuggitivi, si rifugiò a Venosa con circa cinquanta cavalieri. Si dice che siano stati trucidati quarantacinquemilacinquecento soldati di fanteria, duemilasettecento cavalieri ed una quantità quasi eguale di Romani e di alleati; fra questi ambedue i questori dei consoli, L. Atilio e L. Furio Bibaculo; inoltre ventinove tribuni dei soldati, alcuni consolari e già pretori ed edili, tra i quali si annoveravano Cn. Servilio e M. Minucio che, maestro della cavalleria nell’anno precedente, era stato alcuni anni prima console. Caddero, inoltre, ottanta senatori o coloro che avevano esercitato quelle magistrature, in virtù delle quali avevano diritto di essere prescelti per il Senato e che erano divenuti per loro volontà semplici soldati nelle legioni. Si dice che in quella battaglia furono fatti prigionieri tremila soldati di fanteria e millecinquecento cavalieri.

 

La vittoria di Annibale. Illustrazione di A. Yezhov.

 

 

Bibliografia di approfondimento:

DALY G., Cannae. The Experience of Battle in the Second Punic War, London 2002.

GOLDSWORTHY A., Cannae: Hannibal’s Greatest Victory, London 2001.

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