L’arte di saper ascoltare

di SCAFFIDI ABBATE M. (ed.), Plutarco, L’arte di saper ascoltare, Roma 2006, 39-47. Premessa [link].

Scritta fra l’80 e il 90 – come si deduce dall’età del destinatario, Nicandro di Eutidamo, nel momento in cui indossò la toga virile – l’operetta Περί του ακούειν (De recta ratione audiendi) fa parte degli Ethikà (Moralia) ed è rivolta soprattutto ai giovani. È dedicata principalmente alle lezioni o conferenze filosofiche, ma abbraccia qualunque tipo di discorso pubblico, rivolto non solo agli studenti ma a ogni genere di ascoltatore.

Frederic Leighton, Fatidica. Olio su tela, 1893. Liverpool, National Museum, Lady Lever Art Gallery.

Prima di entrare in argomento, Plutarco fornisce alcuni cenni sul senso dell’udito, il quale – afferma – è fra tutti il più esposto non solo agli stimoli esterni, ma anche a quelli interni, poiché la vista, il gusto e il tatto non producono i turbamenti che l’udito riversa sull’anima. Tuttavia, aggiunge, «questo senso è più legato alla ragione che al sentimento, perché, mentre gli altri organi sono accessibili al vizio, che per loro mezzo arriva sino all’anima e vi si attacca, le orecchie sono le uniche parti del corpo sensibili alla virtù». E ricorda la consuetudine di applicare ai ragazzi i paraorecchi usati dai pugili, «per proteggerli dai discorsi nocivi». I giovani, infatti, possono trarre dall’ascolto non solo un grande vantaggio, ma persino un grande pericolo.

Lottatori degli Uffizi. Marmo, copia romana da originale greco di III sec. a.C. Firenze, Museo degli Uffizi.

Come il bambino compie un lungo tirocinio prima di cominciare a parlare, incamerando e assimilando tutto ciò che ascolta, così prima che nell’arte di parlare occorre esercitarsi in quella dell’ascoltare, poiché anche qui sono necessari studio ed esercizio. Chi gioca a pallone, dice Plutarco, impara contemporaneamente a ricevere e a lanciare, ma per quel che riguarda la parola bisogna prima imparare ad accoglierla bene per poterla poi pronunciare.

Oggi si parla molto e si ascolta poco. Non esiste dibattito, non c’è programma televisivo in cui gli intervenuti non siano presi dalla smania di aprir bocca per dispensare il proprio sapere, e soprattutto per criticare o addirittura insultare chi la pensi diversamente. E il moderatore, lungi dal moderare, s’infervora pure lui, s’intromette, interrompe, scavalca, decide, «giudica e manda secondo che ringhia».

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Cod. Urb. lat. 365 (1478 c.), f. 25r. Canto X, 31-33 Dante incontra Farinata degli Uberti e Cavalcante de’ Cavalcanti.

«Chi fur li maggior tui?», chiede a Dante Farinata in If. X 42, dopo che Virgilio ha autorizzato il Poeta a parlare, esortandolo a misurare bene le parole («Le parole tue sien conte», 39). La domanda, anche se intrisa di una certa malizia aristocratica, sottintende che Farinata è disposto a parlare solo a condizione che l’interlocutore sia un suo pari, poiché non accetterebbe mai il confronto con un plebeo. Ma non c’è disprezzo in quella frase, se l’atteggiamento “sdegnoso” di Farinata va interpretato nel senso di fiero, orgoglioso, e se il gesto di levare «le ciglia un poco in suso» (v. 45) rivela non tanto lo sforzo di ricordare, come vogliono alcuni commentatori, quanto il cruccio “altero” del ghibellino. Farinata, semmai, ha «in gran dispitto» l’intero Inferno, non l’avversario politico; infatti, non gli dice: “Ma tu che cosa sei?”, e nemmeno: “Io con te non ci parlo affatto!”, poiché in un dibattito – osserva Plutarco – c’è sempre qualcosa da imparare. Dante e Farinata, insomma, offrono una bella lezione di galateo e di democrazia, anche se la regia è tutta di Dante, che manovra sapientemente le fila con un equilibrio da grande moderatore. Il dialogo si svolge all’insegna del rispetto reciproco e della verità: ciascuno dice la sua, ma senza disconoscere e disprezzare quella dell’avversario, secondo il principio che la ragione e il torto non si possono tagliare di netto e che il bene o il male non stanno mai da una sola parte. Così, se Farinata ricorda di aver disperso per due volte i nemici, Dante ribatte che essi tornarono «l’una e l’altra fiata», mentre lui e i suoi non hanno imparato bene quell’arte (v. 51). E se Dante rammenta al Magnanimo «lo strazio e il grande scempio / che fece l’Arbia colorata in rosso» (vv. 85-86, cioè la battaglia di Montaperti), Farinata gli risponde: «Ma fu’ io solo colà, dove sofferto / fu per ciascun di tòrre via Fiorenza, colui che la difesi a viso aperto» (vv. 91-93). Ed è sua l’ultima parola. Così si chiude questo esemplare “faccia a faccia”, in cui nessuno dei due interlocutori ha la presunzione di essere l’alfiere della giustizia e della verità: quel che più conta, infatti, per entrambi, è l’amore per la patria comune. I duellanti si affrontano, ascoltandosi con attenzione e con rispetto, ponderando le parole come si conviene a dei galantuomini, anche se di fazione avversa, in un confronto aspro ma civile, talché, alla fine, non si sa chi dei due sia il vero “vincitore”.

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Ms. Urb. lat. 329 (metà XV s.), De nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano Capella, f. 54v. Allegoria della Retorica.

L’arroganza, la presunzione, il protagonismo, l’invidia: questi, dice Plutarco, sono i difetti da cui guardarsi. «Bisogna evitare di agitarsi e di abbaiare a ogni battuta, aspettando pazientemente che l’interlocutore abbia finito di esporre il suo pensiero, anche se non lo si condivide, senza però investirlo subito con una sfilza di obiezioni, ma concedendogli ancora un po’ di tempo perché possa integrare, chiarire o correggere quanto ha detto, ed eventualmente ritrattare qualche frase affrettata. Chi infatti passa subito al contrattacco non solo interrompe e spezza il logico fluire del discorso, ma non ci fa una bella figura e finisce per non ascoltare e non essere ascoltato. Se, invece, è abituato a controllarsi e a rispettare gli altri mentre parla riesce a trarre da ogni discorso qualche spunto che può tornargli utile, a discernere meglio e a smascherare il vuoto e le falsità dell’interlocutore, offrendo di sé l’immagine di una persona amante della verità, non dei battibecchi, e per di più riflessiva e aliena dalla polemica».

Parlando poi dell’invidia, che è l’anticamera dell’odio e della calunnia, Plutarco aggiunge che nei dibattiti si manifesta ancora di più quando l’oratore è ricco, famoso e di bell’aspetto. In questo caso – dice – «l’invidia muove da un senso di superiorità e smania di protagonismo, e spinge l’invidioso da un lato a fare confronti per vedere se le sue capacità dialettiche siano inferiori a quelle di colui che sta parlando, dall’altro a controllare le reazioni degli ascoltatori, e se li vede assentire, compiaciuti e ammirati, s’indispettisce e si arrabbia». Per questo «cerca di sviare il discorso con altri argomenti, perché tormentato dal pensiero di quelli già trattati, e si agita e si spaventa all’idea che qualcuno possa tornare all’attacco con temi nuovi e argomentazioni ancora più interessanti e convincenti. E se uno sta svolgendo un bel discorso non vede l’ora che smetta di parlare, e quando quello ha terminato non pensa affatto a ciò che è stato detto, ma si mette a contare, come se fossero voti, le reazioni e i commenti degli altri, e ormai completamente fuori di sé, balza su e disdegnando quelli che applaudono corre a schierarsi con quelli che disapprovano e stravolgono ciò che è stato detto». Così, «a furia di disprezzare e di gettare fango, il dibattito risulta inutile e insensato» (4-5).

Quando uno parla, dice ancora Plutarco, «bisogna prestagli attenzione con animo pacato e ben disposto, come se fossimo stati invitati a un banchetto sacro o alla cerimonia iniziale di un rito religioso, approvando chi si esprime bene e in maniera appropriata, o quantomeno apprezzando la buona volontà di chi espone pubblicamente le proprie opinioni e cerca di accattivarsi l’uditorio, utilizzando gli stessi ragionamenti che hanno convinto lui». I buoni risultati di un discorso, infatti, sono frutto di studio, di impegno e di duro lavoro; perciò, bisogna trarne motivo di ammirazione. Un ascoltatore sveglio e intelligente sa sempre trarre profitto da chi parla, sia che abbia successo sia che fallisca, perché certi difetti – quali la povertà concettuale e di espressione, l’atteggiamento incivile, la smania di accattivarsi a tutti i costi il consenso, accompagnata da una rozza e ridicola ostentazione di sé – si colgono in modo più evidente negli altri quando ascoltiamo che non quando parliamo.

Perciò, conclude Plutarco, «dobbiamo giudicare prima noi che colui che parla, chiedendoci se anche a noi non possa accadere di incappare inconsapevolmente in qualche simile errore. È facilissimo, infatti, biasimare gli altri, ma è cosa sterile e vuota se quella critica non la volgiamo anche verso noi stessi e se non ci induce a correggere o a evitare analoghe scorrettezze».

Oltre agli arroganti, ai malevoli e agli invidiosi, nei dibattiti o nelle conferenze non mancano pure gli ignoranti patentati e i bighelloni perdigiorno. Anche Seneca, nelle Epistulae morales ad Lucilium, parla di sfaccendati che si recano ad ascoltare i filosofi senza avere nemmeno un’infarinatura della loro dottrina. «Tenacissimi e assidui», scrive, «non sono allievi di quei maestri, ma semplici inquilini; vengono come se andassero a teatro, non per imparare, ma solo per il piacere di farsi accarezzare le orecchie da un bel discorso, da una bella voce o da un bel lavoro […]. Alcuni portano anche un taccuino per segnarvi non concetti, ma parole, da ripetere poi meccanicamente senza alcun profitto; altri si infiammano di fronte allo splendore dei discorsi, si immedesimano in chi parla e si eccitano come gli eunuchi al suono del flauto frigio». E conclude che ben pochi tornano a casa con qualche conoscenza o vantaggio in più.

Un oratore sulla Pnice. Illustrazione di Anna Tzortzi [link].
Plutarco biasima poi l’abitudine di rivolgere a chi parla, fosse anche il più grande oratore di tutti i tempi, complimenti quali “divino”, “ispirato”, “insuperabile”, come se non bastassero i “bene!”, i “bravo!” e i “giusto!” che si riservano ai grandi maestri: un vezzo che oggi è ancora più frequente quando i “personaggi” che appaiono in televisione sono tutti “magnifici”, “stupendi”, “sublimi”, “eccezionali”: attori, cantanti, calciatori e così via. Né bastano gli applausi: spesso, addirittura, tutti si alzano in piedi!

Oggi quello che conta non è l’ascolto, ma l’audience, cioè il numero degli “ascoltatori”: più sale questo parametro, più scende la cultura. «Sceso il sapiente / e salita è la turba a un sol confine / che il mondo agguaglia» (G. Leopardi, Ad Angelo Mai, in Canti, III 173-175).

«Anche gli elogi», dice Plutarco, «devono essere cauti e misurati, poiché in questo caso il troppo e il troppo poco non si convengono a un animo libero e schietto. Ma rozzo e insopportabile è chi rimane ostinatamente impassibile di fronte a tutto ciò che ascolta, gonfio di marcia presunzione e di grande e innata iattanza, perché convinto di saper dir meglio e di più di quel che sente: infischiandosene della buona educazione, costui non batte ciglio, non emette sillaba che dimostri piacere o interesse, ma se ne sta lì in silenzio, e ostentando forzatamente un’aria grave di superiorità cerca di conquistarsi la nomèa di persona d’alti e solidi principi, come uno che giudichi gli elogi alla stregua del denaro e perciò ritenga che quanto è dato a un altro venga sottratto a lui».

Quanto alle domande, stabilendo un paragone con chi, invitato a cena, deve mangiare ciò che gli viene offerto e non mettersi a chiedere altro o a criticare, Plutarco afferma che devono essere sempre fondate e pertinenti all’argomento (possibilmente non retoriche, con risposta già implicita e impertinente, del tipo: “Ma lei non crede che?”, e tantomeno con capestro o trabocchetto), e che chi le formula deve dare anche il tempo e la possibilità di rispondere, comportandosi come un bravo padrone di casa, che non approfitta di essere appunto in casa sua per mettere in imbarazzo gli ospiti, e deve accattivarsi non solo gli amici ma anche e soprattutto i nemici. La conclusione è che, in certi casi, è meglio ascoltare che parlare. «Un bel tacer tal volta / ogni dotto parlar vince d’assai», dice Metastasio (La strada della gloria, sogno, VIII, 321). E Leopardi: «Un abito silenzioso nella conversazione, allora piace ed è lodato, quando si conosce che la persona che tace ha quanto si richiede e ardimento e attitudine a parlare» (Pensieri, CXI).

Louis J. Lebrun, Il discorso di Socrate. Olio su tela, 1867

Un ascolto corretto, attento e meditato, dice Plutarco, porta a conoscere meglio se stessi, a controllare le proprie passioni e a raggiungere quell’equilibrio che dovrebbe essere la meta di ogni uomo. Se poi l’ascolto comprende anche i discorsi e gli insegnamenti di un filosofo, la strada per raggiungere quello scopo sarà più facile e la visione della vita più solida e completa.

L’ascolto è legato al parlare, e Plutarco tocca anche la forma e i contenuti di un discorso, dicendo – per esempio – che bisogna usare uno stile privo di orpelli e di parole vuote, per evitare che gli ascoltatori possano restare affascinati solo o principalmente dall’effetto esteriore. E invita gli ascoltatori a sorvolare sulle parole forbite e seducenti, fermando l’attenzione sui contenuti e cercando di cogliere l’essenza del discorso.

Non poteva mancare in questo opuscolo dedicato soprattutto ai giovani un accenno ai maestri che cercano di “indottrinare” i discepoli con frasi ampollose, ma vuote. «Con queste fissazioni», scrive Plutarco, «i maestri hanno fatto il deserto nelle scuole, per quel che riguarda il buonsenso e i retti pensieri, riempiendo le orecchie dei ragazzi di molte chiacchiere e di parole a effetto, perché gli adolescenti non stanno tanto a guardare se chi parla sia un filosofo, né come viva e si comporti in pubblico, ma restano abbagliati dal suo linguaggio, dal suo frasario e dalla bellezza formale della sua esposizione».

Ascoltare non significa soltanto porre mente a ciò che gli altri dicono: quando esorta i criticoni a domandarsi se non siano simili a chi sta parlando, Plutarco intende dire che non basta ascoltare, bisogna anche cercare di cogliere, al di là delle parole, il mondo interiore di chi ci sta di fronte. Dobbiamo saper leggere nell’animo delle persone: i loro discorsi, i loro errori, i loro difetti sono anche i nostri, sono quelli di tutti, perché in ciascun uomo, pur se diverso dagli altri in quanto individualizzazione di un tutto, c’è l’intera umanità. «Come negli occhi di chi ci sta davanti vediamo riflessi i nostri, così dev’essere con le parole: i discorsi degli altri siano i nostri stessi discorsi. Se teniamo presente questo eviteremo di disprezzarli o di trattarli con eccessiva severità, e quando sarà venuto il nostro turno staremo più attenti nel parlare».

Pittore Duride. Scuola di scrittura su tavoletta con stilo. Dettaglio dal lato B di una kylix attica a figure rosse, inizi V sec. Berlin, Staatliche Museen.

La filosofia è la medicina dell’anima, perché solo lei è in grado di far comprendere ciò che è bene e ciò che è male. Non si tratta di eliminare le passioni – sarebbe un andare contro natura! – ma di dosarle opportunamente. In tutte le passioni, afferma Plutarco nel De virtute morali, c’è qualcosa di utile che va conservato: si tratta solo di eliminare quel che vi è di eccessivo. Persino l’ira, se misurata, può dare una mano al coraggio e l’odio verso tutto ciò che è malvagio aiuta la giustizia. Come nella musica – sono sempre parole dell’autore – l’armonia è data da un’opportuna e calibrata mescolanza di suoni gravi e acuti, così nell’anima, in virtù della ragione, deve prodursi il giusto equilibrio delle passioni.

Diversamente da Plutarco, Seneca nega che nelle passioni vi sia qualcosa di utile, e a chi sostiene che il coraggio senza la spinta dell’ira risulterebbe vano risponde che le passioni pericolose, lungi dall’essere controllate e sfrondate del superfluo, vanno eliminate o tenute lontane. E aggiunge che la ragione esercita in pieno il suo potere solo finché rimane staccata dalle passioni, ma, una volta che ne sia stata contagiata, non è più in grado di controllarle. Ma la saggezza sta proprio nella capacità di controllare e dominare le passioni; diversamente quali meriti avrebbe l’uomo saggio e virtuoso, se non ne fosse toccato?

Giovane uomo pensante. Affresco, ante 79 d.C. da Pompei.

Ecco i consigli che un altro grande filosofo dà a coloro che decidono di dedicarsi alla filosofia: «Non parlar male di alcuno; non lodar chicchessia; di niuno lamentarsi; niuno incolpare; non favellar cosa alcuna di se come di persona di qualche peso o che s’intenda di che che sia; provando impedimento o disturbo in qualche sua intenzione, imputar la colpa a se stesso; lodato, ridere interiormente del lodatore; biasimato, non si difendere; andare attorno a guisa che fanno i convalescenti, guardando di non muovere qualche parte racconcia di fresco, prima ch’ella sia bene assodata; aver posto giù ogni appetito; ridotta l’aversione a quel tanto che nelle cose che dipendono dal nostro arbitrio è contrario a natura; non dar luogo a prime inclinazioni e primi moti dell’animo se non riposati e placidi; se sarà tenuto sciocco o ignorante, non se ne curare; in breve, stare all’erta con se medesimo non altrimenti che con uno inimico o uno insidiatore. […] Tieni a mente che tu ti déi governare in tutta la vita come a un banchetto. Portasi attorno una vivanda. Ti si ferma ella innanzi? stendi la mano, e pigliane costumatamente. Passa oltre? non la ritenere. Ancora non viene? non ti scagliar però in là collo appetito: aspetta che ella venga. Il simile in ciò che appartiene ai figliuoli, alla moglie, alla roba, alle dignità; e tu sarai degno di sedere una volta a mensa cogli Dei. Che se tu non toccherai pur quello che ti sarà posto innanzi, e non ne farai conto; allora tu sarai degno non solo di sedere cogli Dei a mensa, ma eziandio di regnare con esso loro. Per sì fatta guisa operando Diogene, Eraclito e gli altri simili, venivano chiamati divini, e tali erano veramente. […] Sovvengati che tu non sei qui altro che attore di un dramma, il quale sarà o breve o lungo, secondo la volontà del poeta. E se a costui piace che tu rappresenti la persona di un mendico, studia di rappresentarla acconciamente. Il simile se ti è assegnata la persona di un zoppo, di un magistrato, di un uomo comune. Atteso che a te si aspetta solamente di rappresentare bene quella qual si sia persona che ti è destinata: lo eleggerla si appartiene a un altro». (Epitteto, Manuale, traduzione di G. Leopardi).

I Neuri, gli sciamani-licantropi (Hdt. IV 105)

di ERODOTO, Storie. Volume secondo (libri III-IV), a cura di A. IZZO D’ACCINNI e D. FAUSTI, Milano 1993, 282-285; HERODOTUS, The Histories, ed. by A.D. GODLEY, Cambridge 1920 [perseus.tufts.edu]

 

Nel brano seguente, Erodoto parla dei misteriosi Neuri (Νευροί), un popolo nomade del Nord Europa, che occupava la regione (τὴν Νευρίδα γῆν) che si estendeva a nord-est dei monti Carpazi, a nord delle sorgenti del Dnestr (Τύρης, IV 51) e lungo il bacino meridionale del Bug (Ὕπανις, IV 17) – insomma, un’area posta fra le attuali Polonia e Lituania. È probabile che la regione chiamata Nurskazemja, presso i fiumi Narew e Nur, debba il suo nome proprio ai Neuri (cfr. P.J. Šafárik, Slawische Alterthümer, Prag 1839, I, 1, 186; 194 sgg.). Molto tempo prima della spedizione di Dario contro gli Sciti (515-505 a.C.), i Neuri erano stati costretti a lasciare le loro sedi originarie, perché infestate da numerosi serpenti, e si erano rifugiati presso i Budini nella regione del Bug. Sebbene non fossero della stessa stirpe, i Neuri avevano usanze simili a quelle degli Sciti e avevano fama di essere sciamani (γόητες), come gli samān tra i nomadi siberiani odierni. Una volta all’anno – così gli Sciti e i Greci di Olbia raccontarono a Erodoto – ognuno di loro si trasformava per alcuni giorni un lupo: una leggenda che sopravvive ancora tra la Volinia e la Bielorussia. (cfr. anche Mela, Chor. II 14; Ptol. III 5, 25 v. Ναύαροι; Steph. Ethn. 473, 3 v. Νευροί). L’accenno alla loro trasformazione in lupo è la più antica notizia pervenuta sulla licantropia.

Paris, Bibliothèque Sainte-Geneviève. MS. graec. 3401 (1566), Manuel Philes, De animalium proprietate, f. 31v. Un cinocefalo a caccia.

 

[105, 1] Νευροὶ δὲ νόμοισι μὲν χρέωνται Σκυθικοῖσι, γενεῇ δὲ μιῇ πρότερον σφέας τῆς Δαρείου στρατηλασίης κατέλαβε ἐκλιπεῖν τὴν χώρην πᾶσαν ὑπὸ ὀφίων· ὄφιας γάρ σφι πολλοὺς μὲν ἡ χώρη ἀνέφαινε, οἱ δὲ πλεῦνες ἄνωθέν σφι ἐκ τῶν ἐρήμων ἐπέπεσον, ἐς ὃ πιεζόμενοι οἴκησαν μετὰ Βουδίνων τὴν ἑωυτῶν ἐκλιπόντες. [2] κινδυνεύουσι δὲ οἱ ἄνθρωποι οὗτοι γόητες εἶναι. λέγονται γὰρ ὑπὸ Σκυθέων καὶ Ἑλλήνων τῶν ἐν τῇ Σκυθικῇ κατοικημένων ὡς ἔτεος ἑκάστου ἅπαξ τῶν Νευρῶν ἕκαστος λύκος γίνεται ἡμέρας ὀλίγας καὶ αὖτις ὀπίσω ἐς τὠυτὸ κατίσταται. ἐμὲ μέν νυν ταῦτα λέγοντες οὐ πείθουσι, λέγουσι δὲ οὐδὲν ἧσσον, καὶ ὀμνῦσι δὲ λέγοντες.

 

[105, 1] I Neuri, dal canto loro, hanno costumi scitici. Una generazione prima della spedizione di Dario, accadde loro di dover abbandonare tutto il paese a causa dei serpenti: infatti, la terra produceva già molti serpenti, ma più ancora ne piombarono su di loro dalle desolazioni del nord, fino a tal punto che, sopraffatti, andarono ad abitare con i Budini, abbandonando il loro paese. [2] C’è motivo di credere che questi uomini siano stregoni. Infatti, gli Sciti e i Greci che abitano in Scizia raccontano che, una volta all’anno, ciascuno dei Neuri diventi un lupo per pochi giorni e, poi, di nuovo, ritorni al suo aspetto normale. Per conto mio, col dire questo non mi convincono; ciononostante, essi lo affermano e per di più lo giurano.

 

Riferimenti:

SMITH W., Dictionary of Greek and Roman Geography, London 1854 [perseus.tufts.edu].

VON SCHLÖZER K., Les premiers habitants de la Russie : Finnois, Slaves, Scythes et Grecs ; essai historique et géographique, Paris 1846.

Il mito di Licaone (Paus. VIII 2)

di PAUSANIA, Viaggio in Grecia. Arcadia (libro VIII), a cura di S. RIZZO, Milano 2004, pp. 134-139, e note a pp. 433-436. Testo greco di Pausaniae Graeciae descriptio, vol. 3, ed. F. SPIRO, Leipzig, Teubner, 1903 [perseus.tufts.edu].

 

Λυκάων δὲ ὁ Πελασγοῦ τοσάδε εὗρεν ‹ἢ› ὁ πατήρ οἱ σοφώτερα· Λυκόσουράν τε γὰρ πόλιν ᾤκισεν ἐν τῷ ὄρει τῷ Λυκαίῳ καὶ Δία ὠνόμασε Λυκαῖον καὶ ἀγῶνα ἔθηκε Λύκαια. οὐκέτι δὲ τὰ παρ᾽ Ἀθηναίοις Παναθήναια τεθῆναι πρότερα ἀποφαίνομαι· τούτῳ γὰρ τῷ ἀγῶνι Ἀθήναια ὄνομα ἦν, Παναθήναια δὲ κληθῆναί φασιν ἐπὶ Θησέως, ὅτι ὑπὸ Ἀθηναίων ἐτέθη συνειλεγμένων ἐς μίαν ἁπάντων πόλιν. [2] ὁ δὲ ἀγὼν ὁ Ὀλυμπικὸς — ἐπανάγουσι γὰρ δὴ αὐτὸν ἐς τὰ ἀνωτέρω τοῦ ἀνθρώπων γένους, Κρόνον καὶ Δία αὐτόθι παλαῖσαι λέγοντες καὶ ὡς Κούρητες δράμοιεν πρῶτοι — τούτων ἕνεκα ἐκτὸς ἔστω μοι τοῦ παρόντος λόγου. δοκῶ δὲ ἔγωγε Κέκροπι ἡλικίαν τῷ βασιλεύσαντι Ἀθηναίων καὶ Λυκάονι εἶναι τὴν αὐτήν, σοφίᾳ δὲ οὐχ ὁμοίᾳ σφᾶς ἐς τὸ θεῖον χρήσασθαι. [3] ὁ μὲν γὰρ Δία τε ὠνόμασεν Ὕπατον πρῶτος, καὶ ὁπόσα ἔχει ψυχήν, τούτων μὲν ἠξίωσεν οὐδὲν θῦσαι, πέμματα δὲ ἐπιχώρια ἐπὶ τοῦ βωμοῦ καθήγισεν, ἃ πελάνους καλοῦσιν ἔτι καὶ ἐς ἡμᾶς Ἀθηναῖοι· Λυκάων δὲ ἐπὶ τὸν βωμὸν τοῦ Λυκαίου Διὸς βρέφος ἤνεγκεν ἀνθρώπου καὶ ἔθυσε τὸ βρέφος καὶ ἔσπεισεν ἐπὶ τοῦ βωμοῦ τὸ αἷμα, καὶ αὐτὸν αὐτίκα ἐπὶ τῇ θυσίᾳ γενέσθαι λύκον φασὶν ἀντὶ ἀνθρώπου. [4] καὶ ἐμέ γε ὁ λόγος οὗτος πείθει, λέγεται δὲ ὑπὸ Ἀρκάδων ἐκ παλαιοῦ, καὶ τὸ εἰκὸς αὐτῷ πρόσεστιν. οἱ γὰρ δὴ τότε ἄνθρωποι ξένοι καὶ ὁμοτράπεζοι θεοῖς ἦσαν ὑπὸ δικαιοσύνης καὶ εὐσεβείας, καί σφισιν ἐναργῶς ἀπήντα παρὰ τῶν θεῶν τιμή τε οὖσιν ἀγαθοῖς καὶ ἀδικήσασιν ὡσαύτως ἡ ὀργή, ἐπεί τοι καὶ θεοὶ τότε ἐγίνοντο ἐξ ἀνθρώπων, οἳ γέρα καὶ ἐς τόδε ἔτι ἔχουσιν ὡς Ἀρισταῖος καὶ Βριτόμαρτις ἡ Κρητικὴ καὶ Ἡρακλῆς ὁ Ἀλκμήνης καὶ Ἀμφιάραος ὁ Ὀικλέους, ἐπὶ δὲ αὐτοῖς Πολυδεύκης τε καὶ Κάστωρ. [5] οὕτω πείθοιτο ἄν τις καὶ Λυκάονα θηρίον καὶ τὴν Ταντάλου Νιόβην γενέσθαι λίθον. ἐπ᾽ ἐμοῦ δὲ — κακία γὰρ δὴ ἐπὶ πλεῖστον ηὔξετο καὶ γῆν τε ἐπενέμετο πᾶσαν καὶ πόλεις πάσας — οὔτε θεὸς ἐγίνετο οὐδεὶς ἔτι ἐξ ἀνθρώπου, πλὴν ὅσον λόγῳ καὶ κολακείᾳ πρὸς τὸ ὑπερέχον, καὶ ἀδίκοις τὸ μήνιμα τὸ ἐκ τῶν θεῶν ὀψέ τε καὶ ἀπελθοῦσιν ἐνθένδε ἀπόκειται. [6] ἐν δὲ τῷ παντὶ αἰῶνι πολλὰ μὲν πάλαι συμβάντα, ‹τὰ› δὲ καὶ ἔτι γινόμενα ἄπιστα εἶναι πεποιήκασιν ἐς τοὺς πολλοὺς οἱ τοῖς ἀληθέσιν ἐποικοδομοῦντες ἐψευσμένα. λέγουσι γὰρ δὴ ὡς Λυκάονος ὕστερον ἀεί τις ἐξ ἀνθρώπου λύκος γίνοιτο ἐπὶ τῇ θυσίᾳ τοῦ Λυκαίου Διός, γίνοιτο δὲ οὐκ ἐς ἅπαντα τὸν βίον· ὁπότε δὲ εἴη λύκος, εἰ μὲν κρεῶν ἀπόσχοιτο ἀνθρωπίνων, ὕστερον ἔτει δεκάτῳ φασὶν αὐτὸν αὖθις ἄνθρωπον ἐκ λύκου γίνεσθαι, γευσάμενον δὲ ἐς ἀεὶ μένειν θηρίον. [7] ὡσαύτως δὲ καὶ Νιόβην λέγουσιν ἐν Σιπύλῳ τῷ ὄρει θέρους ὥρᾳ κλαίειν. ἤδη δὲ καὶ ἄλλα ἤκουσα, τοῖς γρυψὶ στίγματα ὁποῖα καὶ ταῖς παρδάλεσιν εἶναι, καὶ ὡς οἱ Τρίτωνες ἀνθρώπου φωνῇ φθέγγοιντο· οἱ δὲ καὶ φυσᾶν διὰ κόχλου τετρυπημένης φασὶν αὐτούς. ὁπόσοι δὲ μυθολογήμασιν ἀκούοντες ἥδονται, πεφύκασι καὶ αὐτοί τι ἐπιτερατεύεσθαι· καὶ οὕτω τοῖς ἀληθέσιν ἐλυμήναντο, συγκεραννύντες αὐτὰ ἐψευσμένοις.

Jan Cossier, Giove e Licaone. Olio su tela, 1640 c. Madrid, Museo Nacional del Prado.

[1] Le innovazioni di Licaone figlio di Pelasgo[1], frutto di una sapienza maggiore ‹di› quella del padre suo, furono le seguenti. Fondò la città di Licosura sul monte Liceo, diede a Zeus il titolo di “Liceo” e istituì delle gare Licee[2]. Ed è mia opinione che, prima delle Licee, non erano state ancora istituite nemmeno le prime Panatenee degli Ateniesi. E dico «prime», perché questa gara si chiamava in quel tempo Atenee, mentre il nome di Panatenee dicono che fu loro dato sotto Teseo, perché organizzate allora dagli Ateniesi ormai riuniti tutti insieme in un’unica città. [2] Per quanto, poi, riguarda il certame olimpico, proprio perché lo fanno risalire a un periodo anteriore al genere umano raccontando che là Crono e Zeus si misurarono nella lotta e che i Cureti disputarono la prima gara di corsa, per questo motivo intendo escluderlo da quanto ora stiamo dicendo[3]. Personalmente ritengo che l’età di Licaone fu la stessa di quella di Cecrope, re degli Ateniesi[4], ma non simile fu la saggezza che essi dimostrarono nei confronti della divinità. [3] L’uno, infatti, fu il primo a chiamare Ipato (sc. “Supremo”) Zeus e, ritenendo giusto escludere dal sacrificio tutto ciò che fosse animato, offrì sull’altare dolciumi fatti alla maniera locale, che ancora ai tempi miei gli Ateniesi chiamano pelánoi (sc. libazioni)[5]. Licaone, invece, portò all’altare di Zeus Liceo un bambino appena nato e lo sacrificò e del suo sangue fece libazione sull’altare e, subito dopo il sacrificio, dicono che da uomo si trasformò in lupo[6]. [4] Per quanto mi riguarda, anch’io credo a questo racconto: esso gode di un’antica tradizione presso gli Arcadi e, inoltre, ha tutto l’aspetto della verisimiglianza[7]. Gli uomini di allora, infatti, grazie alla loro giustizia e religiosa pietà, erano ospiti e commensali degli dèi e da parte degli dèi ricevevano apertamente onore quando erano buoni e allo stesso modo erano colpiti dal loro sdegno quando peccavano. E, in effetti, in quei tempi alcuni da uomini che erano diventavano dèi, e ancor oggi conservano i loro onori, come Aristeo, la cretese Britomarti, Eracle figlio di Alcmena, Anfiarao figlio di Oicle e, oltre a questi, Polluce e Castore[8]. [5] Si potrebbe perciò credere che anche Licaone sia diventato una belva e Niobe di Tantalo una pietra[9]. Ai miei tempi, invece, poiché la malvagità cresceva fino al culmine o occupava tutta quanta la Terra e tutte quante le città, nessuno più da uomo diventava dio se non a parole e per adulazione verso i potenti, mentre la vendetta divina troppo tardi colpisce gli ingiusti e quando già se ne sono andati da questo mondo. [6] Ma in tutto il lungo volgere del tempo coloro che sulla verità costruiscono castelli di menzogne hanno fatto sì che la gente non presti fede ai molti casi verificatisi in antico e ‹a quelli› che ancora succedono. E difatti si dice che dopo i tempi di Licaone, in seguito al sacrificio offerto a Zeus Liceo, un uomo si trasformi ogni volta in lupo: non lo resterebbe, però, per tutta la vita, ma, quando è un lupo, se si astiene dal mangiare carne umana, al decimo anno dicono che di nuovo da lupo ridiventa uomo. Se invece ne assaggia, rimane bestia per sempre[10]. [7] Allo stesso modo, raccontano anche che Niobe sul monte Sipilo piange nella stagione estiva. E altri racconti udii ancora: che i grifoni hanno la pelle maculata come quella dei leopardi e che i Tritoni emettono voce umana. C’è anche chi dice che essi suonano soffiando in una conchiglia perforata[11]. E coloro che prendono diletto ad ascoltare racconti meravigliosi sono soliti aggiungervi anch’essi qualche elemento portentoso e in questo modo corruppero le verità mescolandole con le menzogne.

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Note:

[1] In questo capitolo e fino a tutto il quinto Pausania illustra la successione dei re di Arcadia da Pelasgo ad Aristocrate II, cioè dai tempi mitici alla fine della seconda guerra messenica (668 a.C., secondo Pausania). Questa lista dei re arcadi, i quali avrebbero regnato su tutta l’Argolide (mentre sappiamo per certo che una unità politica arcadica non esistette nei tempi remoti, ma fu il prodotto, completamente attuato con la fondazione di Megalopoli, 370 a.C., della resistenza degli Arcadi all’espansionismo spartano), è probabilmente frutto di composizione di fonti anche tarde e diverse, per lo più a noi non note, alcune delle quali sicuramente scritte (le più antiche), altre orali e raccolte dalle tradizioni locali delle città arcadi (le più recenti) che Pausania visitò, v. J. HEJNIC, Pausanias the Periget and the Archaic History of Arcadia, Prague 1961; F. HILLER VON GAERTRINGEN, Pausanias’ arkadische Königsliste, Klio 21 (1927), 1-13; J. ROY, The Sons of Lycaon in Pausanias’ Arcadian King-List, ABSA 63 (1968), 287- 292, e cfr. cap. 6, 1 e nota 1. Licaone era figlio di Pelasgo e di Melibea, figlia di Oceano o, secondo altri, della ninfa Cillene (Apollod. 3, 8, 1) o di Deianira, figlia di un altro Licaone, figlio di Ezeo (Dion. 1, 11 e 13).

[2] Licosura, la «prima città che il sole vide» (v. cap. 38, 1), ricorda il nome di Licaone. Per il monte Liceo v. cap. 38, 2 sgg. L’epiteto Liceo è qui connesso (Licaone – Licosura – monte Liceo) con la radice del nome greco del lupo più che con quella che indica la luce e rimanda all’aspetto solare del dio. Le gare Licee (v. cap. 38, 5), ricordate da Pindaro (O. 9, 97; 13, 108; N. 10, 48) e paragonate dagli antichi ai romani Lupercalia (Liv. 1, 5, 1 sg.; Dion. 1, 80; Plut. Caes. 61, 1; ecc.), erano considerate da Aristotele le quarte nell’ordine cronologico dopo le Eleusinie, le Panatenee e la gara di corsa istituita da Danao (fr. 637 R.). Ma Pausania, una volta accettate l’autoctonia di Pelasgo e l’attività di «primi civilizzatori» di Pelasgo e di Licaone, reputa, coerentemente, le Licee anteriori a tutte le altre gare famose, anteriori anche alle Eleusinie, dal momento che queste furono istituite per l’invenzione del grano, mentre Pelasgo e Licaone vissero ai tempi in cui gli uomini si cibavano di ghiande. Che le Panatenee (v. 1, 2 nota 7) siano state istituite da Teseo (per il sinecismo, v. App. I, 19) è accennato da Plutarco (Thes. 24, 3) e dato per certo dalla tarda tradizione (Suda, ecc.). Delle Atenee faceva menzione l’attidografo Istro (FGrHist. 334 F4).

[3] Cfr. 5, 7, 6 sgg.

[4] «Personalmente ritengo…»: con questa espressione Pausania propone una sua cronologia, considerando Licaone contemporaneo di Cecrope I, cioè del secondo re dell’Attica (v. 1, 2, 6 e nota 13), così come Licaone è il secondo re dell’Arcadia. E come nel § precedente assegna a Licaone il primato dell’istituzione delle gare (le Licee) contro la tradizione «canonica» (v. nota 2), qui gli assegna la contemporaneità con Cecrope I nell’istituzione del culto di Zeus (v. § 3), ancora contro la tradizione canonica, cfr. Marmor Parium, 17 (che assegna l’istituzione delle Licee e il sacrificio del bambino all’epoca del re ateniese Pandione, figlio di Cecrope II).

[5] Sull’acropoli di Atene c’era l’altare di Zeus Ipato (v. 1, 26, 5), al quale non si sacrificavano esseri viventi. Questo altare era stato eretto da Cecrope (v. Euseb. Praep. Ev. 10, 9, 15).

[6] Questa è la versione di Pausania e probabilmente degli Arcadi suoi contemporanei. Noi possiamo pensare che questo sacrificio conservi il ricordo di antichi (preistorici) sacrifici di vittime umane per Zeus Liceo, però Pausania non fa cenno a questa origine come non fa cenno, a proposito delle «libazioni» di Cecrope, all’origine agricola del sacrificio incruento. Licaone, al contrario di Cecrope, peccò per mancanza di «saggezza» e, per aver offerto sangue umano al dio, fu punito con la trasformazione in lupo. Le varie versioni del mito diffuse in antico, e tutte respinte da Pausania (v. §§ 5-7), sostenevano invece che i figli di Licaone erano empi e superbi, e Zeus, per sincerarsi della loro empietà, andò a visitarli in veste di povero. I figli di Licaone allora, per istigazione di Menalo, gli offrirono insieme ai sacrifici carne umana. Zeus, disgustato, li fulminò tutti, Licaone e i suoi cinquanta figli, tranne l’ultimo, Nittimo, dopo aver rovesciato la tavola (trapeza) nel luogo ora chiamato Trapezunte (Apollod. 3, 8, 1); oppure: Licaone, volendo distogliere i suoi sudditi dall’ingiustizia, diceva che Zeus gli faceva frequenti visite per osservare il comportamento degli uomini. Ma un giorno i figli di Licaone, per accertarsi che l’ospite del padre fosse realmente un dio, mescolarono carni umane a quelle della vittima sacrificale, e Zeus con fulmini e tempeste li uccise tutti (Niccolò di Damasco, FGrHist. 90 F 38; Hyg. 176; Suda). Il bambino offerto in sacrificio sarebbe stato Nittimo (o Arcade), e Zeus avrebbe tramutato in lupi Licaone e molti altri, o i figli di Licaone (Clem. Alex. Potr. 2, 27; Nonn. 18, 20 sgg.; scol. Licophr. 481, che segue, con dettagli diversi, le due versioni sopra citate), o il solo Licaone, che aveva messo alla prova Zeus con l’offerta delle carni di un bambino (Hyg. Astron. 2, 4; Ovid. Met. 1, 215 sgg., per il quale la vittima umana era un prigioniero molosso; Servio, ad Aen. 1, 731).

[7] Pausania vuole dimostrare qui la verisimiglianza della leggenda di Licaone, nei termini in cui la accetta, ricordando che, in origine, gli uomini vivevano vicini agli dèi (cfr. Od. 5, 35; 7, 201 sgg.: i Feaci sono «vicini agli dèi»; con loro gli dèi siedono a mensa) e perciò dagli dèi ricevevano ricompense, se giusti, o punizioni, se ingiusti, subito e direttamente in un rapporto personale, perché gli dèi vigilavano da vicino sulle azioni umane. Ora questo non avviene più a causa dell’ingiustizia e dell’empietà degli uomini diffuse per tutta la Terra e, perciò, nessun uomo oggi per la sua giustizia diventa un dio (le apoteosi degli imperatori romani sono solo finzioni dovute ad adulazione), come nessuno per la sua ingiustizia viene punito direttamente e subito dagli dèi: la punizione è sempre tardiva e spesso colpisce non il colpevole, ma la sua memoria (considerazione, questa, che dà inizio al dialogo plutarcheo De sera numinum vindicta, M. 548d sgg.). Non sembra il caso, quindi, di vedere un contrasto fra questa e altre affermazioni o narrazioni di Pausania circa l’intervento degli dèi nelle vicende umane in aiuto e difesa degli uomini e delle città o per la loro rovina (v. Habicht, pp. 154 sg.; Heer, pp. 263 e 306 sg.).

[8] Ad Aristeo, figlio di Apollo e di Cirene, per i suoi molteplici benefici resi agli uomini (v. 10, 17, 3 sgg.) non solo i barbari, ma anche i Greci attribuirono onori divini (Diod. 4, 82, 6). Per Britomarti v. 2, 30, 3 e nota 4; per Eracle v. App. VIII, 42-43; per Anfiarao v. 1, 34, 2 sgg. e nota 3; per Castore e Polluce v. 3, 13, 1 e nota 2.

[9] Per Niobe v. 1, 21, 3 e nota 5.

[10] Pausania respinge tutte quelle leggende che sono opera della fantasia dei poeti e dei narratori. Queste menzogne corrompono infatti la genuina semplicità del vero e confondono la gente, che di fronte a tante meravigliose e stupefacenti invenzioni non crede più ai fatti realmente avvenuti. Circa la trasformazione dell’uomo in lupo v. 6, 8, 2 e nota 2 e cfr. Hdt. 4, 105: «Io non credo a queste storie».

[11] Omero, infatti, dice che Niobe è tramutata in roccia, ma non dice che la roccia piange (Il. 24, 617), mentre Ovidio (Met. 6, 311 sg.) afferma che «ancor oggi la pietra emette pianto». I grifoni, mostri favolosi con la testa di uccello (aquila) e corpo di felino, rappresentati già dal IV millennio a.C. nel vicino Oriente, in Egitto, a Creta e quindi in Etruria e a Roma (in aspetti vari a seconda dei luoghi e delle età), erano immaginati per lo più come guardiani (v. 1, 24, 6) e simbolicamente interpretati. È naturale perciò che scrittori e artisti li rappresentassero nelle forme più diverse. Per esempio, Ctesia (storico del V-IV secolo a.C., raccoglitore di curiosità persiane) aveva scritto che i grifoni avevano il collo variegato di piume blu (v. Ael. Nat. Animal. 4, 27, che descrive l’aspetto dei grifoni indiani). Lo stesso dicasi per i Tritoni, divinità marine a figura pisciforme dalla vita in giù. Meravigliosi veicoli per il trasporto di eroi e di dèi sul mare nell’epoca più antica, nel periodo classico ed ellenistico sono considerati personaggi del seguito di Poseidone. Che i Tritoni suonassero e usassero a questo fine conchiglie marine è detto da Virgilio (Aen. 6, 171 sgg.; 10, 209 sg.), Plinio (Nat. Hist. 9, 9), Igino (Astron. 2, 23) e da molti altri scrittori antichi, ed è tema molto diffuso nelle opere d’arte ellenistiche e romane. Pausania presta fede alle leggende originarie riferite da antichi autori (Ariste. v. 1, 24, 6, per i grifoni; Hes. Theog. 930 sgg., per Tritone, figlio di Poseidone e Anfitrite), ma non accetta, anzi respinge decisamente tutte le meravigliose invenzioni che, travisando il primitivo significato di queste figure, ne hanno moltiplicato gli esemplari, guastato la forma e sovvertito la verità.

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Il sesso era l’altro decisivo fattore per determinare chi poteva diventare cittadino adulto in senso pieno: le donne erano escluse. Naturalmente esisteva qualche eccezione, soprattutto in età ellenistica e fuori Atene, ma generalmente e in particolare ad Atene una donna era integrata nella città non in quanto cittadina, bensì in quanto figlia o moglie di un cittadino. Solo in età ellenistica si ha qualche notizia di ragazza che s’impegna personalmente in un contratto di matrimonio col futuro sposo; in genere quest’impegno era assunto dal padre o dal tutore della ragazza. Il diventare adulte per la maggior parte delle ragazze greche di condizione libera era segnato dalla tappa decisiva del matrimonio. La differenza di condizione tra bambini maschi o femmine è ben espressa da un’alternativa posta nei Memorabili di Senofonte: εἰ δ’ ἐπὶ τελευτῇ τοῦ βίου γενόμενοι βουλοίμεθά τῳ ἐπιτρέψαι ἢ παῖδας ἄρρενας παιδεῦσαι ἢ θυγατέρας παρθένους διαφυλάξαι («e se, giunti alla fine della nostra vita, volessimo affidare a qualcuno i figli maschi da educare, le figlie ancora ragazze da custodire…?», Xen. Mem. I 5, 2). Alla παιδεία rivolta ai ragazzi corrispondeva, nel caso delle femmine, l’essere custodite (διαφυλάξαι): le ragazze, infatti, sono connotate come θυγατέρες παρθένοι, letteralmente “figlie vergini”, ma è preferibile rendere come «figlie ancora ragazze», cioè “nubili”, “non ancora sposate”, dato che l’appellativo παρθένος indicava ciò che oggi si direbbe lo stato civile della donna, più che la sua illibatezza. In ogni caso, alla verginità, invece, allude in modo implicito, ma inequivocabile, proprio il verbo διαφυλάξαι, che significa appunto “conservare”, “mantenere in un certo stato per un determinato periodo di tempo”. Il passo senofonteo è crudamente rivelatore di una precisa distinzione di ruoli sessuali: mentre al tutore di maschi adolescenti era affidato l’incarico di educarli (παιδεῦσαι), a quello delle ragazze spettava il compito di custodirle, come dice elegantemente l’autore.

Una legge attribuita a Solone stabiliva che, se il padre avesse scoperto che la figlia intratteneva rapporti sessuali prima del matrimonio – e il segno inequivocabile era la gravidanza –, ella cessava di appartenere alla famiglia e poteva essere venduta. Per lei si chiudevano le prospettive del matrimonio; di qui l’importanza della custodia, come garanzia di preservazione delle condizioni d’accesso alle nozze.

Pittore anonimo. Una ragazza in atto di acconciarsi i capelli. Lekythos attica a figure rosse, 425-400 a.C. ca. Collezione archeologica del Banco di Sicilia
Pittore anonimo. Una ragazza in atto di acconciarsi i capelli. Pittura vascolare su λήκυθος attica a figure rosse, 425-400 a.C. ca. Palermo, Collezione archeologica del Banco di Sicilia.

Fin dalla nascita le ragazze trascorrevano gran parte della loro vita in casa, affidate alle cure della madre o delle serve. Il crescente fenomeno di urbanizzazione simultaneo alla formazione delle πόλεις – documentabile non prima della seconda metà del VII secolo – aveva determinato uno spostamento sensibile delle attività della donna all’interno della casa (οἶκος), lasciando agli uomini il libero movimento nello spazio esterno. Solo le donne più povere erano costrette a uscire dalla casa per lavorare nei campi o fare le venditrici. All’interno della casa, invece, le giovani di buona famiglia apprendevano ben presto i lavori domestici della filatura e della preparazione del cibo.

Solo le feste religiose delle città erano un’occasione di uscita, non certo i simposi, vietati a tutte le donne che non fossero etere, danzatrici o flautiste. Ma diversamente da quanto avveniva per i maschi, queste feste nell’Atene classica non coincidevano con momenti di iniziazione alla vita adulta per intere classi di età. L’iniziazione era compiuta soltanto da gruppi ristretti di ragazze, che venivano scelte a rappresentare l’itinerario di preparazione al matrimonio. Così ogni anno, in occasione delle Arreforie, due ragazze dell’aristocrazia, tra i sette e gli undici anni, davano inizio circa nove mesi prima delle Panatenee alla tessitura del peplo che in tale occasione sarebbe stato offerto ad Atena. La tessitura del peplo da parte di ragazze è documentata anche altrove, per esempio ad Argo in onore di Era; forse anche a Sparta le ragazze tessevano il chitone consacrato ogni anno ad Apollo alle Giacinzie.

Nei mesi antecedenti alle Panatenee le due ragazze conducevano un genere di vita speciale e, alla fine, si spogliavano dei loro abiti e dei monili d’oro rappresentanti la loro fanciullezza. Le Arreforie scandivano per costoro un momento di passaggio e di iniziazione: esse apprendevano i lavori femminili, la filatura e la tessitura, e si preparavano a essere spose e madri, assumendosi il compito di portare sul capo, di notte, dall’Acropoli a un giardino dedicato ad Afrodite, un canestro di cui dovevano ignorare il contenuto e che veniva riposto in un luogo sotterraneo, dal quale uscivano riportando altri oggetti sacri avvolti in un panno.

Nel canestro, invero, erano contenuti il simulacro del bambino Erittonio e il serpente, che simboleggiavano la sessualità e la generazione. Tra migliaia di bambine soltanto due erano le prescelte: ciò che anticamente forse costituiva il passaggio collettivo di un’intera classe di età a una nuova condizione, attraverso una fase di segregazione dalla comunità e una prova, in età classica divenne oggetto di una rappresentazione simbolica.

Si ha infatti notizia di casi di sacerdozio affidato a ragazze in età prematrimoniale in Arcadia e a Calaurea; le fanciulle di Locri erano addirittura costrette a un servizio a vita nel tempio di Atena. Ma normalmente la partecipazione delle ragazze a riti e cerimoniali religiosi era collegata simbolicamente alla svolta decisiva della loro vita, coincidente proprio con il matrimonio. Così, appunto, ad Atene accadeva per le feste Brauronie. Alcune bambine, di età compresa fra i cinque e i dieci anni, si dovevano consacrare al servizio di Artemide presso il santuario di Brauron, fuori Atene, per un periodo a noi non noto. In ricordo dell’orsa prediletta dalla dea, che, rifugiatasi nel suo tempio, era stata uccisa, esse erano chiamate «orse» (ἄρκτοι) ed espiavano questo sacrilegio col loro servizio (ἀρκτεία). Al tempo stesso, esse rifacevano il percorso dell’orsa da una condizione selvaggia, dalla quale si liberavano, per prepararsi a coabitare con lo sposo e integrare la propria sessualità nella cultura della città.

Scuola di Fidia. Scena della processione panatenaica. Marmo pentelico, 438-432 a.C. dal frontone est del Partenone. British Museum.
Scuola di Fidia. Scena della processione panatenaica. Marmo pentelico, 438-432 a.C. dal frontone est del Partenone. London, British Museum.

Ancora in età ellenistica l’analfabetismo sembra più diffuso tra le donne che tra gli uomini, stando alla percentuale di donne che ricorrevano ad altri per scrivere. Tuttavia, è noto che a Teo esisteva una scuola frequentata da allievi di ambo i sessi e che a Pergamo si tenevano gare di recitazione poetica e di lettura per ragazze, ma non si trattava di fenomeni tanto comuni, e anche l’educazione ginnica era prerogativa essenzialmente maschile. L’eccezione più celebre era costituita da Sparta, dove le bambine, ben nutrite quanto i maschi, anziché essere addestrate alla tessitura e alla preparazione del cibo, che sarebbero sempre rimaste occupazioni servili, non della moglie, erano ben presto avviate agli esercizi ginnici, nude e visibili anche ai maschi, nella corsa, nella lotta, nel lancio del disco e del giavellotto. Non sappiamo se sia stato questo esempio spartano a portare all’istituzione di corse femminili a piedi nel contesto delle Olimpiadi, anche se tenute in giorni diversi dalle competizioni riservate ai maschi. Pausania (V 16, 2-8) informa che si trattava dei «Giochi Erei» (ἀγῶνα Ἡραῖα), che, secondo la leggenda, sarebbero stati istituiti da Ippodamia, compagna di Pelope. A queste competizioni, suddivise in categorie per età, prendevano potevano partecipare sedici ragazze, vestite con una corta tunica che giungeva fino al ginocchio e lasciava scoperta una spalla. Come nel caso degli atleti olimpici, anche le vincitrici degli Erei ricevevano in premio una corona d’ulivo e una porzione di carne della vacca sacrificata in onore della dea dall’occhio bovino. Non è chiaro se a queste gare podistiche abbiano mai partecipato anche ragazze ateniesi.

Ragazza spartana in corsa. Statuetta, bronzo, 520-500 a.C. ca., dalla Laconia. London, British Museum.
Ragazza spartana in corsa. Statuetta, bronzo, 520-500 a.C. ca., dalla Laconia. London, British Museum.

Ancor più raro e difficile era per le giovani acquisire un’istruzione superiore. Un’eccezione è il caso delle etere, come Aspasia, vicina a Pericle e significativamente una straniera, non una cittadina. Un’altra eccezione è rappresentata dalla cerchia di Saffo nella Lesbo del VI secolo a.C., di cui non esistono simili contesti documentati per l’età classica. Si trattava di un’associazione cultuale nella quale ragazze di Lesbo, ma anche provenienti dall’antistante Ionia, si esercitavano nella danza e nel canto, imparavano a suonare la lira e a partecipare a feste nuziali, a officiare cerimoniali e forse prendevano parte a gare di bellezza, acquisendo le competenze e le qualità richieste perché convolassero a nozze con uomini di nobile stirpe. Ciò sembra confermare la maggiore libertà di cui avrebbero goduto le fanciulle aristocratiche nell’epoca arcaica rispetto alla segregazione così caratteristica nell’Atene classica. Nella cerchia di Saffo nascevano anche legami omoerotici, che per la Sparta del secolo VII a.C. sono ben documentati dai parteni di Alcmane, ma questo non implica che anche in Laconia le donne ricevessero un’educazione sessuale prematrimoniale.

Pittore di Amasis. Scena con corteo matrimoniale (dettaglio). Lekythos a figure nere, 550 a.C. New York, Metropolitan Museum of Art
Pittore di Amasis. Scena con corteo matrimoniale (dettaglio). Lekythos a figure nere, 550 a.C. New York, Metropolitan Museum of Art.

Nella vita delle ragazze greche di condizione libera il matrimonio era il rito di passaggio obbligato e decisivo. Grazie a esso, la donna, più che l’uomo, compiva un mutamento radicale di status: diventare adulta, non essere più una παρθένος, coincideva per lei con l’essere sposa e divenire madre di futuri cittadini (preferibilmente maschi). Diversamente dai ragazzi, le figlie generalmente non restavano in casa del padre, ma andavano presto in spose, sovente prima di aver compiuto sedici anni, spesso maritate con uomini molto più grandi di loro.

Il fidanzamento o la promessa di matrimonio (ἐγγύησις), di norma, avveniva ancor prima: Demostene nell’accusa al cugino Afobo, disonesto tutore, spiega che, alla morte del padre, sua sorella a soli cinque anni era stata promessa a Demofonte con una dote di due talenti d’argento (Demosth. In Aphob. I 4). Una delle leggi che compare nel corpus di Gortina, a Creta (c. VI-V secolo a.C.), prevedeva che una πατροιοκός (“ereditiera”, corrispondente all’att. ἐπίκληρος) fosse «sposata dall’età di dodici anni in su» (ὀπυί-/εθαι δὲ δυοδεκαϝετία ἒˉ πρεί-/γονα, IC XII 17-19). Pare che la differenza di età, del resto, non contribuisse a potenziare i legami affettivi, spirituali e intellettuali tra gli sposi: Senofonte avrebbe attribuito la mancanza di educazione delle donne all’età precoce in cui venivano maritate (Xen. Oec. 7, 3-4).

Per comprendere i caratteri del matrimonio ateniese (ἐγγύησις) occorre ricordare che esso era un contratto fra due uomini, il padre, o il tutore, e il futuro sposo. Per le donne, invece, esso significava essenzialmente un trasferimento dalla casa del padre a quella dello sposo, passare dalla segregazione nella prima a quella nella seconda, dalla tutela di uno a quella dell’altro in ogni transazione giuridica. Nell’Egitto, che appariva a Erodoto e a Sofocle l’antitesi per eccellenza del mondo ellenico, erano invece le donne a uscire di casa per procurarsi il cibo, mentre gli uomini restavano in casa a tessere.

Ad Atene, la futura sposa si preparava al giorno delle nozze, offrendo ad Artemide i suoi giochi infantili e tagliando i capelli, segno del suo abbandono dell’adolescenza. Alla vigilia delle nozze i due futuri sposi si purificavano col rito del bagno al canto di imenei, che propiziavano la generazione di ottima prole, e il padre della sposa offriva un sacrificio a Zeus, Era, Artemide, Afrodite e Peitò. La cerimonia vera e propria, come itinerario della donna dalla casa del padre a quella dello sposo, confermava che la vera protagonista del rito di passaggio e del mutamento di stato era appunto la donna. L’inizio era costituito da un banchetto in casa del padre, ove un bimbo passava tra i commensali recando pane e pronunciando la frase: «Hanno fuggito il male; hanno trovato il meglio» (ἔϕυγον κακόν, εὖρον ἄμεινον, cfr. Demosth. De coron. XVIII 259). Il pane stava a significare la transizione da un regime selvatico a uno civilizzato. Al banchetto la ragazza assisteva velata e attorniata da amiche e solo alla fine forse mostrava il volto ai presenti. Dopo canti di imenei, libagioni e auguri, un corteo notturno illuminato da fiaccole accompagnava la ragazza, che su un carro giungeva alla casa dello sposo, dove entrava recando un vaglio da orzo, che prefigurava la sua nuova attività di preparazione del cibo. Presso il focolare della nuova casa essa riceveva l’offerta di dolci e fichi secchi, che sancivano la sua integrazione in essa. Successivamente i due sposi entravano nella camera nuziale, alla cui porta faceva la guardia un amico del marito, e consumavano il matrimonio. Nel suo stesso svolgimento spaziale la cerimonia nuziale appariva un transito da casa a casa, più che dallo spazio privato della casa a quello ampio e pubblico della città: con la sua mobilità, la ragazza consentiva l’istituzione di un legame tra due famiglie.

Archiloco, l’Epodo di Colonia (P. Köln inv. 7511 = F 196A West²)

I versi contro Neobule, da cui traspare il realismo tagliente e aggressivo della poesia giambica, anche se il metro usato è diverso, sono animati da una spiccata misoginia. L’ammirata e tenera contemplazione dell’innamorato di un tempo, affascinato dalla «pelle delicata come un fiore» e dal «dolce incanto del volto» della sua donna, si trasforma ora nella spietata descrizione della sua decadenza fisica, per culminare in un pungente sarcasmo, di fronte al comportamento di lei, che, ormai sfiorita, continua ad atteggiarsi come se fosse ancora nel pieno della giovanile freschezza.

La sfortunata vicenda amorosa avrebbe avuto un seguito. Nel 1974, trasmesso da un rotolo papiraceo del I-II secolo d.C., Reinhold Merkelbach e Martin West pubblicarono l’editio princeps di un epodo di Archiloco, che è il più lungo frammento a tutt’oggi noto del giambografo (P. Köln inv. 7511 = F 196A West2). Mutilo della parte iniziale, il papiro è lacunoso lungo il margine destro; ma, in virtù dei contributi critici che alla sua esegesi hanno dedicato numerosi studiosi, è possibile ricostruirne, sia pure nelle linee generali, il contenuto: Archiloco racconta, verosimilmente a una cerchia di amici riuniti a simposio, una vicenda erotica di cui sono stati protagonisti egli stesso e una fanciulla che è stata ragionevolmente identificata con la sorella minore di Neobule, la donna un tempo amata dal poeta. La parte superstite propone un disinibito quanto «imbarazzante» dialogo fra l’«io» narrante e la ragazzina: l’imbarazzo, invero, è da addebitare più che altro a Merkelbach, che accusò addirittura Archiloco di essere «ein schwer Psychopath» («uno psicopatico grave»). In realtà, come è stato autorevolmente dimostrato, il testo dell’epodo non giustifica tali sospetti di pedofilia nei confronti del poeta (anche perché l’età sponsale era nella Grecia arcaica molto più bassa degli standard cui si è abituati oggi), per non parlare – come ha segnalato lo specialista di Archiloco, Francesco Bossi (Studi su Archiloco, 1990) – «dell’eventualità che sia tutta un’invenzione letteraria, forse costruita per gettare discredito sul clan rivale».

P. Köln 7511. Archiloco, Epodo di Colonia – fr. 196A, 17 West2
P. Köln inv. 7511. Archiloco, Epodo di Colonia (F 196A West²).
. . . . . . . . . . . . . . . . . . .

πάμπαν ἀποσχόμενος·

ἶσον δὲ τολμ[… ^ –

εἰ δ᾽ ὦν ἐπείγεαι καί σε θυμὸς ἰθύει,

ἔστιν ἐν ἡμετέρου

ἣ νῦν μέγ᾽ ἱμείρε[ι σέθεν

καλὴ τέρεινα παρθένος· δοκέω δέ μι[ν

εἶδος ἄμωμον ἔχειν·

τὴν δὴ σὺ ποιή[σαι φίλην.»

τοσαῦτ᾽ ἐφώνει· τὴν δ᾽ ἐγὼ ἀνταμει[βόμην·

«Ἀμφιμεδοῦς θύγατερ,

ἐσθλῆς τε καὶ [περίφρονος

γυναικός, ἣν νῦν γῆ κατ᾽ εὐρώεσσ᾽ ἔ[χει,

τ]έρψιές εἰσι θεῆς

πολλαὶ νέοισιν ἀνδ[ράσιν

παρὲξ τὸ θεῖον χρῆμα· τῶν τις ἀρκέσε[ι.

τ]αῦτα δ᾽ ἐφ᾽ ἡσυχίης

εὖτ᾽ ἂν μελανθη[ – ^ –

ἐ]γώ τε καὶ σὺ σὺν θεῶι βουλεύσομεν.

π]είσομαι ὥς με κέλεαι·

πολλὸν μ᾽ ε[ – x – ^ –

θρ]ιγκοῦ δ᾽ ἔνερθε καὶ πυλέων ὑποφ[λύσαι

μ]ή τι μέγαιρε φίλη·

σχήσω γὰρ ἐς ποη[φόρους

κ]ήπους· τὸ δὴ νῦν γνῶθι. Νεοβούλη[ν

ἄ]λλος ἀνὴρ ἐχέτω·

αἰαῖ, πέπειρα, δὶς τόση,

ἄν]θος δ᾽ ἀπερρύηκε παρθενήϊον

κ]αὶ χάρις ἣ πρὶν ἐπῆν·

κόρον γὰρ οὐ κ[ατέσχε πω,

ἥβ]ης δὲ μέτρ᾽ ἔφηνε μαινόλις γυνή.

ἐς] κόρακας ἄπεχε·

μὴ τοῦτ᾽ ἐφοῖτ᾽ ἀν[ – ^ –

ὅ]πως ἐγὼ γυναῖκα τ[ο]ιαύτην ἔχων

γεί]τοσι χάρμ᾽ ἔσομαι·

πολλὸν σὲ βούλο[μαι ^ –

σὺ] μὲν γὰρ οὔτ᾽ ἄπιστος οὔτε διπλόη,

ἡ δ]ὲ μάλ᾽ ὀξυτέρη,

πολλοὺς δὲ ποιεῖτα[ι φίλους·

δέ]δοιχ᾽ ὅπως μὴ τυφλὰ κἀλιτήμερα

σπ]ουδῆι ἐπειγόμενος

τὼς ὥσπερ ἡ κ[ύων τέκω.»

τοσ]αῦτ᾽ ἐφώνεον· παρθένον δ᾽ ἐν ἄνθε[σιν

τηλ]εθάεσσι λαβὼν

ἔκλινα· μαλθακῆι δ[έ μιν

χλαί]νηι καλύψας, αὐχέν᾽ ἀγκάληις ἔχω[ν,

δεί]ματι παυ[σ]αμένην

τὼς ὥστε νεβρ[ὸν – ^ –

μαζ]ῶν τε χερσὶν ἠπίως ἐφηψάμην

ἧι πα]ρέφηνε νέον

ἥβης ἐπήλυσιν χρόα

ἅπαν τ]ε σῶμα καλὸν ἀμφαφώμενος

θερμ]ὸν ἀφῆκα μένος

ξανθῆς ἐπιψαύ[ων τριχός.

Pittore anonimo. Scene erotiche. Pittura vascolare dai frammenti di un vaso potorio a figure rosse, V sec. a.C. Berlin, Altes Museum.
Pittore anonimo. Scene erotiche. Pittura vascolare dai frammenti di un vaso potorio a figure rosse, V sec. a.C. Berlin, Altes Museum.
«. . . . . . . . . . . . . . . . . . .

astenendoti del tutto;

ma ugualmente sopporterai (?)…

Se proprio hai fretta e il desiderio ti urge,

c’è qui da noi

colei che ora molto desidera le nozze,

fanciulla bella e tenera; penso che il suo

aspetto non abbia biasimo:

costei tu falla tua!».

Queste cose mi diceva, e io le rispondevo:

«Figlia di Anfimedò,

nobile e saggia

donna, che ora la putrida terra trattiene,

piaceri della dea sono

molti per i giovani uomini,

oltre a quello divino: uno fra quelli sarà sufficiente.

Ma queste cose, con tranquillità

quando la nera…

io e te insieme alla dea decideremo.

Mi farò convincere come tu mi esorti:

molto…

da sotto il fregio e le porte allontanati,

mia cara, non rifiutarti:

mi dirigerò, infatti, verso gli erbosi

giardini; ma ora sappi questo. Neobule,

se la sposi un altro uomo!

Ahimè, è appassita, ha il doppio dei tuoi anni,

il fiore virginale è svanito,

e con esso il fascino che prima aveva:

sazietà, infatti, non conosce,

ma della giovinezza mostrò il termine, donna folle!

Che vada in malora!

Che non mi capiti,

sposando una donna simile,

di essere oggetto della malizia dei vicini!

Preferisco di molto te!

Tu non sei infida né doppia,

mentre lei è troppo astuta,

e si fa molti amici;

io temo di fare figli ciechi e prematuri,

spinto dalla fretta

così come la cagna».

Queste cose le dicevo; poi, presa la fanciulla,

tra i fiori splendenti

la distesi; con un morbido mantello

la coprii, cingendole il collo con un braccio,

mentre lei pavida

come un cerbiatto…

Con le mani le toccai dolcemente il seno,

proprio là dove mostrava la pelle fresca,

incanto di giovinezza;

E tutto il bel corpo accarezzando,

emisi la bianca potenza,

sfiorando il biondo pelo.

Nei primi cinque versi conservati, la fanciulla, reagendo e alla proposta di matrimonio e alle profferte sessuali che le saranno state avanzate dall’uomo nella parte perduta a inizio del papiro, lo invita ad «astenersi del tutto» (πάμπαν ἀποσχόμενος v. 1) e gli suggerisce, se proprio non può tenere a freno le sue voglie, di «fare sua sposa» (τὴν δὴ σὺ ποιή[σαι φίλην v. 8) Neobule, la «bella e tenera ragazza» (καλὴ τέρεινα παρθένος v. 6), che «ora molto desidera le nozze» (ἣ νῦν μέγ᾽ ἱμείρε[ι σέθεν v. 5). Alla fanciulla Archiloco risponde ai vv. 10-41, affermando che, «al di fuori del rapporto completo», la dea offre ai giovani molte gioie (vv. 13-14); e, dopo averla rassicurata che asseconderà la sua volontà (π]είσομαι ὥς με κέλεαι v. 19), dichiara che si augura che sia un altro uomo a sposare Neobule (vv. 24-25); quindi, contrappone le qualità fisiche e morali delle due sorelle: la maggiore è sin troppo matura e non possiede più il fiore virginale e il fascino di un tempo (vv. 26-28), e, per di più, è «folle» (μαινόλις γυνή v. 30), sicché, se la sposasse, egli diventerebbe lo zimbello dei vicini (vv. 33-34); invece, egli desidera fortemente quella giovane (πολλὸν σὲ βούλο[μαι v. 35), la quale, a differenza di Neobule, non è doppia né infida né scaltra, e non trama inganni (vv. 36-38). Concluso al v. 41 il suo intervento, Archiloco distende la fanciulla tra fiori rigogliosi, ricoprendola con un morbido mantello, e, dopo averla abbracciata, cingendole il collo, mentre lei è paralizzata per la paura come una cerbiatta, le tocca dolcemente il seno e le nudità (vv. 42-51); e, raggiunto l’orgasmo, emette lo sperma (θερμ]ὸν ἀφῆκα μένος v. 52), «toccando il biondo pelo» della ragazza.

Pittore Onesimo. Scena erotica. Kylix attica a figure rosse, 510-500 a.C. ca., da Vulci. British Museum
Pittore Onesimo. Scena erotica. Pittura vascolare da una κύλιξ attica a figure rosse, c. 510-500 a.C. da Vulci. London, British Museum.

Come si può ben constatare, nella poesia archilochea il tema dell’eros è sviluppato con grande varietà di toni; alcuni frammenti rivelano una sensualità molle e delicata e danno vita a immagini femminili gentili e aggraziate, come quella di un’etera dalla lunga chioma che le copre, rigogliosa e profumata, le spalle e la schiena (… ἡ δέ οἱ κόμη / ὤμους κατεσκίαζε καὶ μετάφρενα «… e la chioma ombrava gli omeri e il dorso», F 31 West2); un’altra appare invece adorna di un ramo di mirto e di una rosa (ἔχουσα θαλλὸν μυρσίνης ἐτέρπετο / ῥοδῆς τε καλὸν ἄνθος… «si dilettava a tenere un ramo di mirto e un bel fiore di rosa…», F 30 West2). Si è pensato che in questi frammenti il poeta vagheggiasse la bellezza della sua promessa sposa, Neobule; ma siccome una fonte antica (Sinesio, Elogio della calvizie XI 75) afferma che nel primo di essi Archiloco elogiava le magnifiche chiome di un’etera, è probabile che anche il secondo fosse dedicato a una ragazza di piacere. A sostegno di questa ipotesi si potrebbe ricordare che il mirto e la rosa, piante sacre ad Afrodite, erano emblematiche della sfera sessuale, così come il provocante profumo della mirra: … ἐσμυριχμένας κόμην / καὶ στῆθος, ὡς ἂν καὶ γέρων ἠράσσατο («chiome e seno profumati di mirra, da far impazzire di desiderio anche un vecchio» F 48 West2).

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