Le due Orse (Arat. 𝑃ℎ𝑎𝑒𝑛. 26-44)

da I. BIONDI, Storia e antologia della letteratura greca. III. L’Ellenismo e la tarda grecità, Firenze 2004, 43-45.

Muovendo dal Polo Nord, l’elemento sul quale si chiudeva la sezione proemiale, Arato introduce la descrizione delle costellazioni note come Orse, che infatti ruotano intorno a esso; le due costellazioni sono tra loro rovesciate, perciò ciascuna guarda con la testa la coda dell’altra, e si muovono all’indietro. Il poeta si sofferma a spiegarne l’origine mitica, collegata al racconto dell’infanzia di Zeus: le Orse occupano una posizione significativa in cielo, perché tengono fissa la volta celeste, visibile nell’emisfero settentrionale.

New York, The Morgan Library and Museum. Ms M. 389 (1469, Napoli), Phaenomena Arati Solensis, f. 11v. Le due Orse.

[…] Δύω δέ μιν ἀμφὶς ἔχουσαι

Ἄρκτοι ἅμα τροχόωσι· τὸ δὴ καλέονται Ἅμαξαι.

Αἱ δ’ ἤτοι κεφαλὰς μὲν ἐπ’ ἰξύας αἰὲν ἔχουσιν

ἀλλήλων, αἰεὶ δὲ κατωμάδιαι φορέονται,

ἔμπαλιν εἰς ὤμους τετραμμέναι. Εἰ ἐτεὸν δή,

Κρήτηθεν κεῖναί γε Διὸς μεγάλου ἰότητι

οὐρανὸν εἰσανέβησαν, ὅ μιν τότε κουρίζοντα

Δίκτῃ ἐν εὐώδει, ὄρεος σχεδὸν Ἰδαίοιο,

ἄντρῳ ἐγκατέθεντο καὶ ἔτρεφον εἰς ἐνιαυτόν,

Δικταῖοι Κούρητες ὅτε Κρόνον ἐψεύδοντο.

Καὶ τὴν μὲν Κυνόσουραν ἐπίκλησιν καλέουσιν,

τὴν δ’ ἑτέρην Ἑλίκην. Ἑλίκῃ γε μὲν ἄνδρες Ἀχαιοὶ

εἰν ἁλὶ τεκμαίρονται ἵνα χρὴ νῆας ἀγινεῖν·

τῇ δ’ ἄρα Φοίνικες πίσυνοι περόωσι θάλασσαν.

Ἀλλ’ ἡ μὲν καθαρὴ καὶ ἐπιφράσσασθαι ἑτοίμη

πολλὴ φαινομένη Ἑλίκη πρώτης ἀπὸ νυκτός·

ἡ δ’ ἑτέρη ὀλίγη μέν, ἀτὰρ ναύτῃσιν ἀρείων·

μειοτέρῃ γὰρ πᾶσα περιστρέφεται στροφάλιγγι· τῇ καὶ Σιδόνιοι ἰθύντατα ναυτίλλονται.

[…] Le due Orse, circoscrivendo [il polo dalla parte di Borea],

insieme gli ruotano intorno; e per questo si chiamano Carri.

Esse, dunque, hanno il capo sempre rivolto ciascuna verso le reni

dell’altra, e sempre si muovono in giro sul dorso,

volte indietro verso le spalle. Se è vero ciò che si racconta,

esse, da Creta, per volontà del grande Zeus,

ascesero al cielo, poiché un tempo, sul Dicte odoroso,

presso il monte Ida, lo posero, ancora neonato,

in una caverna e lo nutrirono per un anno intero,

mentre i Cureti del Dicte ingannavano Crono.

E l’una la chiamano con l’appellativo di Cinosura,

l’altra di Elice. E di Elice gli uomini Achei si servono come punto

di riferimento sul mare, quando bisogna guidare le navi;

invece, i Fenici attraversano il mare confidando nell’altra.

Ma Elice è splendente e facile a riconoscersi,

brillando intensamente fin dal principio dell’imbrunire;

l’altra, invece, è piccola, ma più preziosa per i naviganti:

essa infatti compie tutto il percorso con un giro più stretto,

e con lei anche quelli di Sidone navigano con rotta precisa.

Lyon, Bibliothèque municipale. Ms 172 (XV sec., Germania-Svizzera), Miscellanea astronomica, f. 41r. Le due Orse e il Draco.

Come l’epicureo Lucrezio rappresenta nell’alma Venus la voluptas, il principio fondamentale del suo sistema filosofico, così lo Zeus di Arato è ben lontano dal rispecchiare i caratteri tradizionali del sovrano del pantheon olimpico. In lui si identifica piuttosto l’ideale stoico della divinità, onnipotente, razionale e provvidenziale che, proprio per queste sue qualità, coincide con l’ordine perfetto, saldo e immutabile dell’universo; un principio divino e fisico al tempo stesso, che trova la sua evidente dimostrazione nell’eterno equilibrio della volta celeste, ruotando intorno al proprio asse, teso fra due poli. Di questo ordine universale, come già aveva affermato Esiodo, fanno parte anche gli esseri umani; per il loro benessere, il padre, μέγα θαῦμα, μέγ’ ἀνθρώποισιν ὄνειαρ (v. 15), fornisce, attraverso i segni celesti, le indicazioni necessarie per le varie attività produttive nel corso dell’anno, così che seguire ogni indizio che provenga da lui non significa soltanto disporre di una guida sicura, ma anche attribuire un profondo senso religioso a ogni atto della propria vita. La convinzione che osservare i φαινόμενα (le “manifestazioni”) del cielo sia per l’uomo una necessità morale, oltre che una norma infallibile, offre ad Arato il modo di passare, senza soluzione di continuità, dal proemio all’argomento; e la contemplazione del cielo notturno lo induce a soffermarsi sulle costellazioni dell’Orsa, familiari per diretta esperienza al popolo greco, abituato ai viaggi e alla vita di mare. A questo proposito, ecco apparire l’aspetto erudito della poesia aratea: memore delle esigenze del pubblico a cui intende rivolgersi, il poeta doctus attinge al vasto repertorio della sua cultura mitologica e spiega l’origine delle due costellazioni, facendo ricorso all’espediente del καταστερισμός («trasformazione in stella»), usato anche da Callimaco nella sua Chioma di Berenice. Una ben nota versione della saga sull’infanzia di Zeus narra che la madre Rea, per evitare che il bimbo fosse inghiottito da Crono, come tutti gli altri figli venuti alla luce prima di lui, lo affidò a due Ninfe del monte Ida (o del monte Dicte), figlie di Atlante, Elice e Cinosura, che si occuparono di allevarlo, mentre i Cureti (o Coribanti) ne coprivano i vagiti, battendo le lance contro gli scudi di bronzo, durante le loro danze orgiastiche. Ma Crono scoprì ugualmente l’accaduto, e si mise in cerca delle due Ninfe per punirle; allora Zeus le trasformò nelle due costellazioni dell’Orsa Maggiore e dell’Orsa Minore, che, con caratteristiche diverse, ma ugualmente utili, costituiscono un infallibile punto di riferimento per la rotta delle navi greche e fenicie.

Inno a Zeus (Arat. 𝑃ℎ𝑎𝑒𝑛. 1-18)

da F. FERRARI, Epica storica e didascalica, in ID., R. ROSSI, L. LANZI (eds.), Bibliothèke. Storia della letteratura, antologia e autori della lingua greca. Con espansione online. Vol. 3: L’ellenismo e l’età imperiale, Bologna 2012.

L’attacco del poema contiene un Inno a Zeus, unico e sommo. Dato che il dio svolge una funzione propulsiva riguardo al lavoro dei campi, si ricalca qui il modello esiodeo. Zeus infatti dà agli uomini segni propizi, rivela quando la zolla è buona per la semina, ha disposto in cielo le costellazioni dalle quali si possono trarre i segni delle stagioni e i tempi del ciclo lavorativo, sì che ogni cosa cresca sicura.

Ma questo Zeus, nella sua bontà provvidenziale e nella sostanziale unicità, è identificabile anche con il dio supremo della dottrina stoica. Come nell’Inno a Zeus del filosofo Cleante, anche nel proemio dei Phaenomena il signore degli dèi della religione tradizionale personifica la mente divina reggitrice dell’universo.

Anche il dio di cui Arato elogia la grandezza e l’onnipotenza è onnipresente («di Zeus sono piene tutte le vie e tutte le piazze, e pieno ne sono il mare e i porti»); egli è padre amorevole degli uomini e loro benefattore, è il principio immanente che compenetra di sé tutto l’essere, spargendo ovunque i semi generatori delle cose e dal quale la materia informe riceve l’impronta e prende vita; è la provvidenza (πρόνοια) che lega gli eventi nella serie inviolabile delle cause.

Ἐκ Διὸς ἀρχώμεσθα, τὸν οὐδέποτ’ ἄνδρες ἐῶμεν

ἄρρητον· μεσταὶ δὲ Διὸς πᾶσαι μὲν ἀγυιαί,

πᾶσαι δ’ ἀνθρώπων ἀγοραί, μεστὴ δὲ θάλασσα

καὶ λιμένες· πάντη δὲ Διὸς κεχρήμεθα πάντες.

Τοῦ γὰρ καὶ γένος εἰμέν. Ὁ δ’ ἤπιος ἀνθρώποισι

δεξιὰ σημαίνει, λαοὺς δ’ ἐπὶ ἔργον ἐγείρει

μιμνήσκων βιότοιο· λέγει δ’ ὅτε βῶλος ἀρίστη

βουσί τε καὶ μακέλῃσι, λέγει δ’ ὅτε δεξιαὶ ὧραι

καὶ φυτὰ γυρῶσαι καὶ σπέρματα πάντα βαλέσθαι.

Αὐτὸς γὰρ τά γε σήματ’ ἐν οὐρανῷ ἐστήριξεν

ἄστρα διακρίνας, ἐσκέψατο δ’ εἰς ἐνιαυτὸν

ἀστέρας οἵ κε μάλιστα τετυγμένα σημαίνοιεν

ἀνδράσιν ὡράων, ὄφρ’ ἔμπεδα πάντα φύωνται.

Τῷ μιν ἀεὶ πρῶτόν τε καὶ ὕστατον ἱλάσκονται.

Χαῖρε, πάτερ, μέγα θαῦμα, μέγ’ ἀνθρώποισιν ὄνειαρ,

αὐτὸς καὶ προτέρη γενεή. Χαίροιτε δὲ Μοῦσαι

μειλίχιαι μάλα πᾶσαι. Ἐμοί γε μὲν ἀστέρας εἰπεῖν

ᾗ θέμις εὐχομένῳ τεκμήρατε πᾶσαν ἀοιδήν.

Cominciamo da Zeus, che noi uomini non cessiamo mai

d’invocare; tutte le strade sono piene di Zeus,

tutte le piazze delle città: ne è pieno il mare,

e i porti: sempre abbiamo bisogno di Zeus!

Stirpe siamo sua, e benignamente indica agli uomini

i segni favorevoli, e li manda al lavoro,

ricordando loro i mezzi di vita, quando la terra

è migliore per i buoi e la zappa, e quando è il momento giusto

di potare gli alberi e seminare tutte le specie.

Lui stesso infatti ha fissato i segni nel cielo,

distribuendo gli astri nel corso dell’anno,

perché indicassero agli uomini i tempi meglio disposti

e le coltivazioni crescessero salde.

Per questo gli uomini se lo propiziano sempre, per primo e per ultimo.

Salve a te, o padre! Meraviglia e benessere grande degli uomini!

A te e alla tua prima generazione! E salve anche a voi, o Muse soavi,

tutte quante! Guidatemi per tutto il canto,

perché chiedo di celebrare secondo il rito le stelle!

Calamide (o bottega di Calamide), Cronide di Capo Artemisio (dettaglio). Statua, bronzo, c. 480-470 a.C. dai fondali euboici. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Riaffiorano qui moduli ed elementi dell’antica tradizione innodica. In particolare, l’uso di specificare che si intende iniziare il canto ricordando la divinità celebrata è presupposto già in Odissea VIII 499 (θεοῦ ἤρχετο, «cominciava dal dio») per il racconto sul Cavallo di Troia intonato da Demodoco e compare, a principio di alcuni inni omerici; più in particolare, l’avvio da Zeus appariva in Alcmane (fr. 29 Davies ἐγὼν δ᾽ ἀείσομαι/ ἐκ Διὸς ἀρχομένα, «ed io canterò cominciando da Zeus»), veniva ricordato come caratteristica dei rapsodi da Pindaro (Nemea II 1 s.) e in età ellenistica è recuperato anche da Teocrito nel suo Encomio di Tolomeo (Id. XVII 1, Ἐκ Διὸς ἀρχώμεσθα καὶ ἐς Δία λήγετε Μοῖσαι, «Cominciamo da Zeus e terminate con Zeus, o Muse»); per la sua topicità, vd. R. Tosi, Dizionario delle sentenze latine e greche, Milano 1991, nr. 805. E sulla stessa linea del formulario tradizionale (cfr. Esiodo, Teogonia 34, Teognide 3 ecc.) è la specificazione, al v. 14, che gli uomini invocano Zeus «per primo e per ultimo».

Anche la sottolineatura della funzione del dio come propulsiva al lavoro agricolo, pur non rientrando nella dizione innica, si richiama pur sempre al modello esiodeo (cfr. soprattutto v. 6, λαοὺς δ᾽ ἐπὶ ἔργον ἐγείρει, «desta le genti al lavoro», con Esiodo, Erga 20, dove della buona Contesa si dice che καὶ ἀπάλαμνόν περ ὁμῶς ἐπὶ ἔργον ἐγείρει, «desta al lavoro anche l’indolente»). Ma le antiche memorie letterarie e cultuali (anche il dire che di Zeus sono piene le piazze e i porti presuppone gli epiteti ἀγοραῖος e λιμένιος) vengono caricate di un senso nuovo grazie a una visione del dio supremo che nella sua bontà provvidenziale e nella sua sostanziale unicità ha come punto di riferimento la dottrina stoica e probabilmente, se (come pare) è anteriore, l’inno a Zeus dello stoico Cleante (in tal caso τοῦ γὰρ καὶ γένος εἰμέν al v. 5 rappresenterebbe una vera e propria “citazione” di ἐκ σοῦ γὰρ γενόμεσθα v. 4 dell’inno di Cleante); e la collocazione della preghiera alle Muse alla chiusa anziché al principio di un proemio epico coincide con quella delle Argonautiche di Apollonio Rodio.

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Bibliografia:

M. FANTUZZI, Ἐκ Διὸς ἀρχώμεσθα. Arat. Phaen. 1 e Theocr. XVII 1, M&D 5 (1980), 163-172 [Jstor].

J.T. KATZ, Vergil Translates Aratus: Phaenomena 1-2 and Georgics 1.1-2, M&D 60 (2008), 105-123 [Jstor].

J. RYAN, Zeus in the Phaenomena, in J.J. CLAUSS, M. CUYPERS, A. KAHANE (eds.), The Gods of Greek Hexameter Poetry, From the Archaic Age to Late Antiquity and Beyond, Stuttgart 2016, 152-163 [academia.edu].

K. VOLK, Letters in the Sky: Reading the Signs in Aratus’ Phaenomena, AJPh 133 (2012), 209-240 [academia.edu].

K. VOLK, Aratus, in J. CLAUSS, M. CUYPERS (eds.), A Companion to Hellenistic Literature, Malden MA 2010, 197-210 [academia.edu].

P. Virgilio Marone

di G.B. CONTE, E. PIANEZZOLA, Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 2. L’età augustea, Milano 2010, 16-33.

L’autore classico per eccellenza

Virgilio ha lasciato alla cultura europea un’eredità incommensurabile. Dalle Bucoliche, in cui prende forma il mondo idillico della pastorale, alla poesia di impegno civile delle Georgiche, al grande poema epico, l’Eneide, Virgilio ha rivoluzionato i generi poetici che ha frequentato fissandoli nelle loro forme classiche. Poesia di grande raffinatezza e perfezione formale, le Georgiche si fanno anche rispecchiamento della crisi contemporanea, offrendo una visione complessa, problematizzata del mondo e della storia; l’Eneide, il capolavoro dell’epica classica, non rinuncia a mostrare accanto alla gloria del vincitore le ragioni e i sentimenti dei vinti. Virgilio, il grande classico di Roma, si rivela così un autore di inaspettata, straordinaria modernità.

Virgilio tra le Muse Clioe e Melpomene. Mosaico, III sec. d.C. Tunis, Museo del Bardo.

Una vita per la poesia

La vita di Virgilio che si conosce è straordinariamente povera di eventi esterni e tutta raccolta su un tenace lavoro poetico. Publio Virgilio Marone nacque presso Mantova (il sito preciso è controverso) il 15 ottobre del 70 a.C. da piccoli proprietari terrieri. I luoghi della sua educazione devono essere stati Roma e Napoli, dove probabilmente frequentò la scuola del filosofo epicureo Sirone. La cronologia del periodo giovanile è discussa. Un’informazione di particolare interesse si ricava da una poesiola attribuita a Virgilio, la quinta della raccolta Catalepton (compresa nella cosiddetta Appendix Vergiliana); vi si allude a una scuola che il giovane poeta avrebbe frequentato, a Napoli, presso il maestro Sirone. Il valore della testimonianza è discusso, perché la poesia potrebbe anche essere, da un punto di vista qualitativo, opera di un Virgilio giovane, ma il contenuto autobiografico potrebbe altrettanto bene derivare dall’opera di un falsario, ansioso di riempire un vuoto nella carriera del giovane poeta. D’altra parte, il primo testo che Virgilio ha sicuramente composto, le Bucoliche, denuncia chiaramente frequentazioni epicuree.

La datazione delle Bucoliche è, nelle sue linee generali, accertata, ma si collega a un episodio non del tutto chiaro: Virgilio allude più volte nell’opera ai gravi avvenimenti del 41 a.C., quando nelle campagne del Mantovano ci furono confische di terreni, destinate a ricompensare i veterani della battaglia di Filippi. Il periodo fu segnato da gravi disordini e il poeta riecheggia il dramma dei contadini espropriati. Una notizia, formatasi già in età classica e largamente sviluppata dai commentatori antichi di Virgilio, vuole che il poeta stesso avesse perso nelle confische il suo podere di famiglia e l’avesse poi riacquistato. Per intervento di chi?

Le notizie antiche non sono chiare in proposito; si è pensato a Ottaviano in persona o ad alcuni personaggi citati direttamente nelle Bucoliche: Asinio Pollione, Cornelio Gallo, Alfeno Varo, tutti, in qualche modo, coinvolti nell’amministrazione provinciale traspadana (i primi due erano, tra l’altro, ben noti uomini di cultura. Sul nucleo originario della notizia si formò poi un romanzo biografico, che coinvolgeva l’interpretazione allegorica di numerosi passi dell’opera; e oggi è molto difficile intravedere un fondo di verità.

È certo invece che le Bucoliche non recano alcuna traccia di quello che sarebbe stato il grande amico e protettore di Virgilio, Mecenate, mentre vi ha notevole rilievo la figura protettiva di Pollione, che poi sarebbe scomparso del tutto dall’opera virgiliana. Subito dopo la pubblicazione delle Bucoliche, il poeta entrò nella cerchia degli intimi di Mecenate e quindi anche di Ottaviano; poco dopo, anche Orazio vi si inserì. Nei lunghi anni di incertezza e di lotta politica che vanno fino alla battaglia di Azio (31 a.C.), Virgilio lavorò al poema georgico, in piena sintonia con l’ambiente di Mecenate. Non sembra però che amasse Roma; la chiusa delle Georgiche infatti parla di Napoli come prescelto luogo di ritiro e di impegno letterario.

Nel 29 Ottaviano che tornava vincitore dall’Oriente si fermò ad Atella, in Campania, e lì si fece leggere da Virgilio le Georgiche appena terminate (esistono però indizi, piuttosto controversi, che spostano poco più avanti la vera e propria pubblicazione del poema). Da qui in avanti, il poeta fu tutto assorbito dalla composizione dell’Eneide: sembra che Ottaviano seguisse con grande partecipazione lo sviluppo del lavoro, come è noto da un frammento di lettera. Virgilio visse abbastanza da leggere al princeps alcune parti del poema, ma non abbastanza da poter dire chiusa l’opera. L’Eneide fu pubblicata per volere di Augusto e per cura di Vario Rufo: il poeta era morto il 21 settembre 19 a.C. a Brindisi, di ritorno da un viaggio in Grecia. Virgilio fu sepolto a Napoli. La fortuna dell’opera, che già negli anni precedenti al 19 era attesa e preannunciata negli ambienti letterari, fu immediata e consacrante.

Oltre alle testimonianze ricavabili dai testi autentici, si possiede una serie di Vitae, tardoantiche e medievali, in cui è presente un nucleo risalente all’attività biografica di Svetonio, che è naturalmente degno della massima considerazione: la più famosa di queste biografia si deve a Elio Donato, il grande grammatico del IV secolo. Tutte le opere autentiche sono ampiamente commentate sin dal I secolo: fra i testi conservati, di particolare importanza il commentario di Servio (IV-V secolo), che contiene anche informazioni storiche, di valore oscillante.

Città del Vaticano, BAV. Codex Vaticanus lat. 3867 (o Vergilius Romanus) del V sec., f. 1r. L‘Ecloga I 1, vv. 1-5, con la miniatura che ritrae Titiro e Melibeo.

Le Bucoliche

Bucoliche (Bucolica, sottinteso carmina, è parola di origine greca; al singolare si usa il termine egloga, «poemetto scelto») significa «canti dei bovari» e il titolo racchiude il tratto fondamentale di questo genere letterario, che rievoca uno sfondo rustico in cui i pastori stessi sono messi in scena come attori e creatori di poesia.

Il piano dell’opera è il seguente. Egloga I: è un dialogo fra due pastori, Titiro e Melibeo; quest’ultimo è costretto a partire, ad abbandonare i suoi campi che le confische gli hanno sottratto; l’altro, invece, può restare, grazie anche all’aiuto di un giovane di natura divina. Egloga II: costituisce il lamento d’amore del pastore Coridone, che si strugge per il giovinetto Alessi. Egloga III: contiene la tenzone poetica tra due pastori, svolta in canti alternati detti «amebei», “a botta e risposta”. Egloga IV: è il canto profetico per la nascita di un fanciullo che vedrà l’avvento di una nuova età dell’oro. Egloga V: è il lamento funebre per la morte di Dafni, eroe pastorale che viene assunto tra gli dèi, dopo che si è lasciato morire per amore. Egloga VI: il vecchio Sileno, catturato da due giovani, canta l’origine del mondo e una serie di miti. Il componimento è preceduto da una dichiarazione di poetica che serve a introdurre la seconda metà del libro. Egloga VII: Melibeo racconta la gara di canto tra due pastori arcadi, Tirsi e Coridone. Egloga VIII: dedicata ad Asinio Pollione, riguarda un’altra competizione canora. Egloga IX: è simile alla prima, con richiami alla realtà della campagna mantovana e alle espropriazioni seguite alle guerre civili. Egloga X: l’autore cerca di confortare le pene d’amore dell’amico Cornelio Gallo, poeta elegiaco.

Nelle Bucoliche Virgilio si ispira agli Idilli del poeta greco Teocrito di Siracusa (III secolo a.C.), siracusano ma vissuto a lungo alla corte di Alessandria d’Egitto, presso i Tolemei. Prima di Virgilio, Teocrito non era stato frequentato dai poeti latini, neppure dai fortemente ellenizzanti poetae novi dell’età di Catullo, che dovevano considerarlo troppo semplice, delicato e insieme artificioso. Virgilio era ben conscio della novità del proprio operato, garantita anche semplicemente dal fatto, senza precedenti a Roma, di aver dedicato a questo genere un libro intero: il manifesto poetico che, posto all’inizio dell’Egloga VI, non a caso è al centro del libro, rivendica l’originalità delle Bucoliche, in contrapposizione alle grandi imprese poetiche dell’epopea, ripetendo quindi un atteggiamento tipicamente callimacheo: Prima Syracosio dignata est ludere uersu / nostra neque erubuit siluas habitare Thalea («La mia Musa fu la prima a non disdegnare il verso siracusano e accettò di abitare nei boschi», Ecl. VI 1-2).

L’incontro di Virgilio con il genere praticato da Teocrito fu straordinariamente felice: il giovane poeta, dotato di grande sensibilità, rileggeva attraverso l’autore siracusano il mondo rurale in cui era cresciuto. Virgilio non si limitò a studiare Teocrito, i suoi imitatori greci del II-I secolo e persino i suoi commentatori: si trasferì, per così dire, all’interno del genere bucolico, imparandone i codici come si farebbe con una lingua straniera. Il risultato non si può ridurre a un semplice processo imitativo; non esiste, in pratica, una singola egloga virgiliana che stia in rapporto “uno a uno” con un singolo idillio teocriteo. La presenza del poeta greco è stata risolta in una trama di rapporti talmente complessa che la nuova opera, realmente, sta alla pari con il modello. In questo senso, le Bucoliche – ancora vicine al gusto dei poetae novi per dottrina, stilizzazione, culto della poesia – sono davvero il primo testo della letteratura augustea: già ne interpretano l’esigenza di fondo, cioè “rifare” i testi greci trattandoli come classici.

Firenze, Biblioteca Riccardiana. Ms. Ricc. 492 (XV sec.), f. 1r. La miniatura ritrae Titiro, Melibeo e altri pastori.

In omaggio al principio alessandrino della «varietà» (ποικιλία), la raccolta di Teocrito si allargava a un repertorio relativamente ampio di temi, ambienti e situazioni. Virgilio sfruttò poco queste aperture: le Bucoliche sono molto più monocordi, molto più concentrate sullo stilizzato mondo pastorale. Con esse, anzi, prende un senso più specifico la stessa parola «idillio», che solo dopo la riduzione tematica operata da Virgilio denota uno scenario ben preciso e tutta un’atmosfera sentimentale malinconico-contemplativa. Appunto, Virgilio trasforma Teocrito accentuando gli elementi di stilizzazione e idealizzazione: i toni dei paesaggi sono meno intensi e gli stessi pastori sono per lo più figure delicate, quasi tenere. Se non è Virgilio l’inventore, è con le Bucoliche che prende diffusione il mito dell’Arcadia, la terra beata dei pastori.

Virgilio riduce sensibilmente i confini del genere idillico, i temi che possono essere affrontati da questa poesia “tenue”. Per esempio, come abbiamo visto, rinunciando alle ambientazioni cittadine teocritee. Ha scritto il grande umanista Giulio Cesare Scaligero (1484-1558) che «il genere bucolico richiama a sé e riformula ogni elemento della realtà», volendo dire che tutto quanto del reale entra nel mondo bucolico viene travestito nel linguaggio e nell’immaginazione dei pastori. Appare come se fosse visto da loro, “ingenui” primitivi della campagna. La città, per esempio, e gli eventi della storia appaiono solo sull’orizzonte, ma sono fatti grandissimi, spaventosi, incomprensibili (come in Ecl. I 19-25, in cui il pastore Titiro rievoca Roma come uno spazio sterminato). E, anche, c’è un’intensa atmosfera malinconica, triste, nel canto di questi pastori: alcuni di loro devono andarsene, perché sono stati cacciati da altri, prepotenti nuovi venuti, soldati (è il caso di Melibeo, in Ecl. I). Sta qui, nel libero riuso di spunti autobiografici, un altro sostanzioso contributo di Virgilio alla tradizione bucolica.

Il dramma dei pastori esuli nelle egloghe I e IX contiene certamente un nucleo di esperienza personale: la tradizione antica voleva che quegli episodi fossero un riflesso delle espropriazioni avvenute in Italia settentrionale negli anni delle guerre civili, nelle quali era rimasto coinvolto anche Virgilio (in particolare negli anni 42-41 a.C.). Ma, al di là delle sfumature autobiografiche, importa cogliere l’originalità di ispirazione con cui Virgilio “rilegge” attraverso il linguaggio bucolico l’epoca delle guerre civili: questo avviene appunto soprattutto nelle Ecl. I e IX, ma anche nella celebre Ecl. IV. Come annuncia l’esordio (paulo maiora canamus, «cantiamo temi più grandi») il poeta si solleva oltre la sfera pastorale (ancora avvertibile nello stile e nella scelta di alcune immagini) per cantare un grande evento.

Per una beffarda congiuntura storica questo componimento, in sé estremamente chiaro, ha dato origine a un enigma. Chi è il puer che con il suo avvento riporta l’età dell’oro in un mondo in crisi? L’identificazione tardoantica del puer con Cristo è solo la più coraggiosa delle tante congetture avanzate. L’egloga si inserisce nelle aspettative di rigenerazione tipiche dell’età di crisi fra Filippi e Azio e ha un chiaro parallelo nell’epodo 16 di Orazio. Possiamo distinguere bene i filoni culturali che nutrono questa poesia visionaria: le poesie in onore di nozze e nascite avevano una loro tradizione retorica; inoltre, Virgilio ha attinto anche a fonti non poetiche, dove si mescolano influssi filosofici e presenza di dottrine messianiche, aspettative di un salvatore. Secondo la maggioranza degli interpreti, però, la figura di questo giovane salvatore del mondo deve pur avere un referente prossimo e concreto.

L’egloga è datata chiaramente al consolato di Asinio Pollione, nel 40 a.C. L’ipotesi migliore (perché fra l’altro spiega l’oscurità del riferimento, chiaro per i lettori del momento e misterioso già qualche anno dopo) è che il bambino dell’egloga fosse atteso in quell’anno ma non sia mai nato. In quell’anno molte speranze seguivano un patto di potere – che doveva rivelarsi effimero – fra Ottaviano e Antonio; quest’ultimo, di gran lunga l’uomo più potente del momento, prendeva in moglie la sorella di Ottaviano. Il matrimonio durò poco e non vi furono figli maschi. Ma l’egloga, proprio per il suo linguaggio sfumato e oracolare, non perse di valore ed ebbe grande fortuna come documento di un’aspettativa e di un clima morale. Senza saperlo, Virgilio apriva così la strada all’interpretazione cristiana della sua poesia, così importante nel Medioevo.

Scena bucolica con villa rurale. Affresco, III sec. d.C. ca. da Augusta Treverorum (Trier).

Le Georgiche

Il titolo Georgica (dal greco, «canti sulla vita campestre») rimanda alla tradizione della poesia didascalica ellenistica: sappiamo, per esempio, che un’opera dallo stesso titolo era stata composta dal greco Nicandro di Colofone (II secolo a.C.). Le Georgiche di Virgilio  per l’appunto un poema didascalico sulla vita agreste in quattro libri, ognuno dedicato a un particolare aspetto del lavoro agricolo: la coltivazione dei campi (I), l’arboricoltura (II), l’allevamento del bestiame (III), l’apicoltura (IV).

L’ordine in cui queste operazioni sono collocate nel testo descrive una curva, per cui l’apporto della fatica umana diviene sempre meno accentuato, e la natura (vista, comunque, in funzione dell’uomo) è sempre più protagonista. Allo sforzo incessante dell’aratore, nel libro I, risponde, nel libro IV, la terribile operosità delle api, animali che, per le loro caratteristiche, si fanno quasi sostituti dell’impegno umano. La struttura del poema sembra orientata dal grande al piccolo, dalle leggi cosmiche del lavoro agricolo sino al microcosmo degli alveari: ma proprio il piccolo mondo delle api è quello che più riavvicina la natura alla cultura dell’uomo.

L’opera è dunque impostata su una serie di libri dotati di chiara autonomia tematica e collegati da un piano complessivo, ciascuno introdotto da un proemio e dotato di sezioni digressive. Ogni libro delle Georgiche presenta un excursus conclusivo, di estensione piuttosto regolare: le guerre civili (I 463-514); la lode della vita rurale (II 458-540); la peste degli animali nel Noricum (III 478-566); la storia di Aristeo e delle sue api (IV 315-558). Hanno chiaro valore di cerniera i proemi: due volte lunghi ed esorbitanti rispetto al tema georgico dei singoli libri (I, III); due volte brevi e strettamente introduttivi (II, IV). Queste somiglianze formali hanno anche una funzione più profonda: il I e il III libro risultano così accoppiati e lo sono anche nelle grandi digressioni finali: guerre civili e pestilenza animale (le cui sofferenze sono esposte con profonda partecipazione) si richiamano quasi a specchio, cosicché gli orrori della storia corrispondano ai disastri della natura. Rispetto a questi finali “oscuri”, rasserenante è l’effetto delle altre digressioni: l’elogio della vita campestre si oppone alla minaccia della guerra e la rinascita delle api replica allo sterminio della pestilenza. Queste grandi polarità fra temi di morte e temi di vita danno un senso all’architettura formale, la tramutano in un chiaroscuro di pensieri che suscita riflessione nel lettore.

Scena di combattimento. Bassorilievo, marmo, II-I sec. a.C. dall’Abruzzo.

Nella cura rigorosa della struttura formale è evidente la lezione di Lucrezio (anche l’architettura del poema filosofico di quest’ultimo è scandita dal succedersi di proemi e di finali), ma con due importanti differenze: da un lato, Virgilio tende a indebolire le costrizioni logiche del pensiero, i forti nessi argomentativi, i collegamenti fra un tema e l’altro; al contrario, l’architettura formale del poema si fa più regolata e simmetrica. Nasce così una nuova struttura poetica; il discorso fluisce naturale e talora capriccioso, nascondendo i passaggi logici, muovendo per associazioni di idee o contrapposizioni; nello stesso tempo, il suo dinamismo finisce per trovare equilibrio in una studiatissima architettura d’insieme, nelle ricercate simmetrie tra libro e libro.

Le Georgiche, oggetto di culto nelle epoche di classicismo, sono anche un’opera di contrasti e di incertezze. Lo splendido equilibrio dello stile e la simmetria della struttura non nascondono l’irrompere di inquietudini e conflitti. La fatica dell’uomo è inviata dalla provvidenza divina per una sorta di necessità cosmica (I 118 ss.); ma l’ideale del contadino si richiama al mito dell’età dell’oro, quando il lavoro non era necessario perché la Natura rispondeva da sola ai bisogni. La vita semplice e laboriosa del contadino italico ha portato alla grandezza di Roma; ma Roma è anche la città, vista come luogo di degenerazioni e di conflitti, polo opposto all’ideale georgico. Il paziente eroe contadino Aristeo, nel vinale del IV libro, seguendo i consigli divini perviene a rigenerare il suo sciame; ma da un suo gesto poco avveduto, intanto, è nata l’irrimediabile infelicità del disobbediente poeta Orfeo. Per colpa di Aristeo, quest’ultimo, il mitico cantore, ha perso la sposa Euridice; vinti dalla magia del canto gli dèi inferi concedono a Orfeo di ricondurla sulla terra, ma il poeta innamorato infrange il patto che le divinità gli hanno imposto – non volgere lo sguardo indietro, verso l’amata, prima di essere uscito dall’Ade – e perde definitivamente Euridice.

La figura di Orfeo fonde insieme le grandi possibilità dell’uomo, che col suo canto arriva persino a dominare la natura e il suo scacco, l’impossibilità di vincere la legge naturale della morte. L’altro eroe civilizzatore, Aristeo, indica una diversa strada: la paziente lotta contro la natura (già nella tradizione mitica Aristeo “inventa” la caccia, il caglio del latte, la raccolta del miele, ecc.) è sostenuta da una tenace obbedienza ai precetti divini e conduce fino alla rigenerazione delle api. Così la digressione narrativa illumina – secondo i modi allusivi e cangianti del mito – la sostanza del messaggio didascalico e, a sua volta, ne viene illuminata. Senza offrire una soluzione precettistica, Virgilio lascia che il suo racconto sia attraversato dal contrasto fra differenti modelli di vita.

Orfeo musico. Mosaico, II sec. d.C. Vienne, Musée de St. Romain-en-Gal.

A giudicare dal titolo, le Georgiche si presentavano come uno dei molti poemi didascalici della tradizione ellenistica: le opere di Arato di Soli (autore di Fenomeni, un poema sulle costellazioni e sui segni metereologici di grande successo a Roma) o di Nicandro di Colofone (con i suoi poemi su Il veleno dei serpenti e su Gli antidoti oltre alle perdute Georgiche) nascevano da una scelta paradossale, dal gesto di un letterato brillante che affrontava una materia poco appetibile, perché umile o tecnica, nell’intento di renderla interessante anche all’esigente pubblico “colto” del mondo ellenistico. La sfida di questi poeti era trasformare scienza e tecnica in poesia: un’occasione di sfoggiare il loro virtuosismo di uomini dotti.

Confezionati con queste premesse, i poemi ellenistici erano sbilanciati: curatissimi sul versante formale, ma poco interessati a insegnare davvero. La passione del descrivere minuzioso si era ormai sostituita allo sforzo di argomentare e persuadere che in origine caratterizzava il genere didascalico: l’insegnamento era stato un interesse primario in Esiodo (VII secolo a.C.), riconosciuto dagli stessi poeti alessandrini come il fondatore del genere didascalico, e si era arricchito di toni profetici, di frequenti esortazioni e appelli al destinatario nei poemi filosofici di Empedocle e di Parmenide, che miravano alla “conversione” dei proseliti. Ma nell’età ellenistica la poesia di questo tipo non si rivolgeva più a un pubblico bisognoso di ammaestramenti: chi avesse avuto interesse specifico per la materia (la caccia, il veleno, le fasi lunari, ecc.) poteva rivolgersi a uno dei molti trattati in prosa (che era ormai il veicolo ufficiale dell’informazione pratico-manualistica specializzata).

I poeti ellenistici non pretendevano, insomma, di insegnare al loro pubblico, più o meno ideale, mettendo al servizio di grandi contenuti la propria arte: la stessa figura del destinatario, nei loro carmi, era più che altro una sopravvivenza di genere. Per esempio, Arato, cantore dei fenomeni celesti, aveva informazioni poco approfondite sull’astronomia; ma adoperava con rara sottigliezza le convenzioni della lingua poetica. Il suo stile era intriso di manierati richiami omerici. L’unità dell’opera era garantita dall’uniforme controllo dello stile e dalla specializzazione “monografica” dell’argomento, più che dalla sincerità di un’impostazione didattica. Il rigore formale dell’opera costituì per Virgilio una lezione da meditare. L’alternanza di cataloghi, descrizioni, digressioni narrative nelle Georgiche è di una ben studiata varietà: eppure, il testo virgiliano sarebbe risultato ben altro che la “messa in poesia epica” di trattazioni tecniche.

Virgilio in cattedra, rappresentato con la berretta dottorale e le braccia poggiate su un leggio che reca incisa l’iscrizione «Virgilius Mantuanus Poetarum Clarrisimus». Altorilievo, marmo bianco, 1227. Mantova, P.zza Broletto, edicola della facciata del P.zzo del Podestà. Sulla base, una lastra di marmo reca incisa l’iscrizione: «Millenis lapsis annis D(omi)niq(ue) ducentis / bisq(ue) decem iunctis septemq(ue) sequentibus illos / uir constans a(n)i(m)o fortis sapiensq(ue) benignus / Laudarengus honestis moribus undiq(ue) plenus / hanc fieri, lector, fecit qua(m) conspicis ede(m). / Tunc aderant secu(m) ciuili iure periti / Brixia quem genuit Bonacursius alter eorum, / Iacobus alter erat, Bononia quem tulit alta».

La tradizione didascalica si era spezzata e nuovamente rivoluzionata, in ambito latino, sotto il forte impulso di Lucrezio, patrimonio del quale erano ricerca formale e gusto letterario. Nella sua stessa epoca, la tradizione didascalica “aratea” aveva trovato interpreti nel giovane Cicerone e più tardi nel neoterico Varrone Atacino (che approntarono traduzioni latine dell’opera tanto ammirata). Ma Lucrezio se ne era distaccato decisamente, ritrovando per altra via, spinto dal suo personale indirizzo di pensiero, il filone della grande poesia didascalica: la poesia di Esiodo, di Parmenide, di Empedocle, veicolo di espressione per un messaggio individuale rivolto a una larga comunità, orientato a ben precisi scopi di trasformazione della vita, di liberazione, di rifondazione della saggezza: messaggi di salvazione attraverso la conoscenza.

Investita da questo slancio missionario, la poesia lucreziana superava le esigenze del gioco letterario: descrizioni, digressioni e similitudini si volevano strettamente funzionali alla struttura dell’opera e alla sua ideologia; la bellezza della forma era miele, accessorio alla severità della medicina filosofica. L’impegno del poeta verso i contenuti del proprio messaggio di salvezza si faceva responsabilità formale: era l’istanza a controllare tutta la costruzione del discorso poetico.

Più alessandrino (e neoterico) di Lucrezio, Virgilio si sentiva comunque più vicino a lui che agli alessandrini stessi. Certamente, non gli era estraneo il gusto delle cose tenui, lo sforzo per trasformare in poesia dettagli fisici e realtà minute, in apparenza refrattarie alla dizione poetica: forse è questo l’aspetto in cui Lucrezio e gli alessandrini si lasciavano meglio conciliare. Le Georgiche, non a caso, dovettero parte del loro fascino a immagini come queste: le incrostazioni dell’olio in una lucerna (I 391 ss.), la consistenza della terra sbriciolata fra le dita del contadino (II 248), il comportamento delle api ammalate (IV 254-259):

continuo est aegris alius color; horrida uultum

deformat macies; tum corpora luce carentum

exportant tectis et tristia funera ducunt;

aut illae pedibus conexae ad limina pendent

aut intus clausis cunctantur in aedibus omnes

ignauaeque fame et contracto frigore pigrae.

Immediatamente le malate assumono un diverso colore; un’orribile magrezza le sfigura; allora, portano fuori i corpi delle trapassate e menano il triste corteo; o restano appese davanti alle soglie le zampe intrecciate, oppure si trattengono dentro, nella casa sbarrata, tutte quante, rese inattive dalla fame e pigre e contratte per i brividi.

(trad. di A. Barchiesi)

London, British Library. Stowe MS 17 (primo quarto del XIV sec.), The Maastricht Hours, f. 148r. Un uomo cerca di catturare le api con un sacco.

È il contributo di Virgilio per allargare gli orizzonti della letteratura aguzzando la percezione e rielaborando in poesia realtà in apparenza trascurabili. In tenui labor («è esile il tema della mia fatica», Georg. IV 6) è un programma poetico che deve molto alla ricerca formale alessandrina e alla poesia di Callimaco (labor allude infatti al concetto della poesia come travaglio formale; tenue, come il greco λεπτόν, indica un genere poetico «sottile» che rifugge dai temi elevati e ricerca la massima perfezione della forma). Molti brani del poema rivelano addirittura emulazione diretta di poeti come Arato, Eratostene, Nicandro, Varrone Atacino. Fonti tecniche in prosa (Varrone Reatino, ma non solo) sono ampiamente saccheggiate là dove il discorso si fa pratico e la trattazione sistematica.

Tuttavia, l’impulso di fondo delle Georgiche è partito da un “dialogo” con Lucrezio (II 490-502):

felix qui potuit rerum cognoscere causas

atque metus omnis et inexorabile fatum

subiecit pedibus strepitumque Acherontis auari:

fortunatus et ille deos qui nouit agrestis

Panaque Siluanumque senem Nymphasque sorores.

illum non populi fasces, non purpura regum

flexit et infidos agitans discordia fratres,

aut coniurato descendens Dacus ab Histro,

non res Romanae perituraque regna; neque ille

aut doluit miserans inopem aut inuidit habenti.

quos rami fructus, quos ipsa uolentia rura

sponte tulere sua, carpsit, nec ferrea iura

insanumque forum aut populi tabularia uidit.

Felice chi ha potuto investigare le cause delle cose e mettere sotto i piedi le paure tutte, il fato inesorabile, il risuonare dell’avido Acheronte. Fortunato anche colui che conosce gli dèi agricoli, Pan e il vecchio Silvano e le Ninfe sorelle. Quell’uomo non lo possono piegare né i fasci popolari né la porpora dei re, la discordia che inquieta i fratelli sleali o i Daci che calano dal Danubio, non le vicende di Roma e i regni condannati alla distruzione; e non soffre mai pietà per il povero o invidia per il ricco. I frutti portati dai rami, prodotti volentieri e spontaneamente dalle sue campagne, se li raccoglie: nulla sa delle leggi di ferro, dei deliri del foro, dei pubblici archivi.

Scena di vita quotidiana nel foro. Affresco, ante 79 d.C. dalla Casa di Giulia Felice (Pompei). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Un nuovo messaggio di salvazione e di saggezza: non coincide con la dottrina di Lucrezio né le si oppone direttamente, ma si misura con essa, andando a occupare uno spazio più ritirato e modesto.

Vi sono chiare analogie con l’ideale proposto da Lucrezio: la saggezza del contadino, che media la fatica del lavoro e la spontanea generosità della terra, conduce a una forma di autosufficienza, materiale e spirituale. Questa autarchia risponde all’incombere della crisi sociale e culturale della res publica romana: così, il saggio lucreziano si liberava insieme dalle paure superstiziose e dalla pressione della storia. Vi sono anche nette differenza. Lo spazio georgico di Virgilio accoglie più largamente la generosità tradizionale; anzi, fa corpo con essa; e la ricerca intellettuale dei meccanismi cosmici, tesa a liberare dall’angoscia di vivere, cede il passo a un sapere più debole, ancorato al ritmo della vita quotidiana. Si ha l’impressione che Lucrezio guardi alle cause naturali come retroscena della cultura umana; Virgilio invece sembra appigliarsi pazientemente a tutto ciò che incivilisce e umanizza la natura, e da qui nasce in gran parte la poesia delle Georgiche.

L’appartato mondo agricolo del poema ha una sua cintura protettiva. Il giovane Ottaviano si profila come l’unico che può salvare il mondo civilizzato dalla decadenza e dalla guerra civile (I 500 ss.): si è nell’età di crisi prima di Azio, nell’incertezza che nasce dalla morte di Cesare e da Filippi. Altrove, Ottaviano appare già come trionfatore e portatore di pace: il suo trionfo nel 29 (III 22 ss.); la figura divina che vigila sul mondo e protegge la vita dei campi (I 40 ss.); Cesare Augusto che respinge i popoli orientali (II 170 ss.; IV 560 ss., il sigillo dell’opera):

[…] Caesar dum magnus ad altum

fulminat Euphraten bello uictorque uolentis

per populos dat iura uiamque adfectas Olympo.

[…] mentre il grande Cesare all’Eufrate profondo fulmina in guerra e vincitore governa sui popoli consenzienti, e si apre la strada all’Olimpo.

Il princeps garantisce le condizioni di sicurezza e di prosperità entro cui il mondo dei contadini possa ritrovare la sua continuità di vita. Per questo tipo di cornice ideologica, le Georgiche si possono considerare il primo vero documento della letteratura latina dell’età augustea. Il primo proemio ne è un chiaro esempio: vi compare – con netta frattura verso la tradizione politica romana – la figura del princeps come monarca divinizzato, sviluppo esplicito di una tradizione ellenistica che tanto aveva faticato per affermarsi a Roma. Il principe Augusto, e accanto a lui il suo consigliere Mecenate, sono accolti nell’opera non solo come illustri dedicatari (il Memmio di Lucrezio), ma anche come veri e propri “ispiratori”. Il ruolo del destinatario della comunicazione didattica è assegnato invece alla figura collettiva dell’agricola. Ma dietro a questo destinatario, assorbito nel testo come orientamento didascalico, si profila invece il destinatario “reale” dell’opera: un pubblico che conosce la vita delle città e le sue crisi. Rivolto formalmente alla vita campestre, il poema finisce per affrontare di scorcio anche i problemi della vita urbana e quelli del vivere.

Ottaviano Augusto. Statua equestre (frammento) con paludamentum e parazonium, bronzo, I sec. a.C. dalle acque egee fra Eubea e Agios Efstratios. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

È abbastanza difficile credere che le Georgiche siano direttamente ispirate da un “programma augusteo” di risanamento del mondo rurale. Se mai un tale proposito fu concepito in quegli anni, non ha lasciato impronta di sé nella storia economica; per di più, l’immagine dell’economia rurale che traspare dal poema è un’idealizzata costruzione regressiva, inadeguata alla realtà del tempo. L’eroe del poema, se così si può dire, è il piccolo proprietario terriero, il coltivatore diretto; Virgilio dà al massimo pallidi accenni per le grandi trasformazioni in corso: l’estensione del latifondo, lo spopolamento delle campagne, le assegnazione di terre ai veterani, il trasferimento di certe produzioni dall’Italia alle province. Più notevole ancora è la mancanza di qualsiasi accenno al lavoro servile, vero cardine dell’economia contadina antica. L’idealizzazione del colonus che si incarna, per esempio, nella figura del senex Corycius (un vecchio giardiniere che con sapienza e tenacia ha fatto del proprio orticello un paradiso di produttività e bellezza, realizzando un ideale di perfetta autosufficienza) ha, evidentemente, un puro significato morale.

Più facile è da cogliere, a questo livello, precise convergenze tra Virgilio e la propaganda ideologica augustea. Per esempio, l’esaltazione delle tradizioni dell’Italia contadina e guerriera, sentita come mondo unitario, ha come fondo il clima della guerra contro Antonio; la factio di Ottaviano la presentava come uno scontro fra Occidente e Oriente, sostenuto dalla spontanea concordia dell’Italia che riconosceva in Ottaviano il proprio capo carismatico. Queste coordinate ideologiche producono un’esaltazione specificamente “georgica” della Penisola, di cui vengono incensate, oltre alle qualità morali dei suoi abitanti, anche la fecondità, la salubrità climatica, la perfezione ambientale per la vita umana: si tratta della formulazione più memorabile della topica della Laus Italiae. Tuttavia, non va trascurata l’autonomia con cui Virgilio rielabora questo patrimonio di idee. Il contributo personale di Virgilio al “mito nazionale” dell’unità italica dev’essere stato molto sensibile. La cosiddetta ideologia augustea non è solo un apparato preformato, che il poeta si limita a rispecchiare, ma è anche, in certa misura, il risultato di singoli apporti intellettuali.

Caserma con soldati e processione. Mosaico, I sec. a.C. ca. dal «Mosaico con scena nilotica». Palestrina, Museo Archeologico Nazionale.

L’Eneide

Nella cultura augustea era forte l’aspettativa di un nuovo epos e probabilmente ciò che i contemporanei si attendevano da Virgilio era una nuova Cesareide, dedicata alle imprese di Augusto. Del resto, il poeta stesso, nel «proemio al mezzo» delle Georgiche (il proemio, cioè, collocato alla metà esatta dell’opera, in questo caso all’inizio del III libro), si dice intenzionato «a cantare le battaglie infiammate di Cesare e a trasmetterne il nome, con l’aiuto della fama, per tanti anni quanti ne dista da Titonoo, sua più lontana origine, Cesare» (mox tamen ardentis accingar dicere pugnas / Caesaris et nomen fama tot ferre per annos, / Tithoni prima quot abest ab origine Caesar, Georg. III 46-48). Comporre un poema epico di argomento storico significava porsi nel solco degli Annales di Ennio, richiamarsi a una tradizione che, per quanto avversata dai poetae novi, non si era mai estinta del tutto. Invece, il nuovo poema epico di Virgilio, l’Eneide, offrì al pubblico romano qualcosa di completamente inatteso.

In realtà, la nuova epica virgiliana non si proponeva di continuare Ennio, ma di “sostituirlo”, ed era perciò inevitabile un confronto diretto con Omero. Secondo i grammatici antichi, l’intenzione dell’Eneide sarebbe stata duplice: imitare Omero e lodare il principe ab origine. Un primo sguardo all’opera mostra che si tratta di una semplificazione ragionevole.

I dodici libri virgiliani sono anzitutto concepiti come una risposta ai quarantotto libri dei due poemi omerici. I primi sei dell’Eneide raccontano il travagliato viaggio di Enea da Cartagine alle sponde del Lazio, con una retrospettiva sulle vicende che avevano portato l’eroe da Troia all’Africa. Con l’inizio del VII libro i Teucri sono ormai giunti alla foce del Tevere, luogo assegnato dal Fato, e comincia la narrazione di una guerra (VII 42: dicam acies) che si concluderà solo con la morte di Turno all’ultimo verso del libro XII. Perciò, si usa parlare di una metà “odissiaca” dell’Eneide (libri I-VI) e di una metà “iliadica” (libri VII-XII). Si vuole allude con questo a una grande partizione strutturale, senza dubbio voluta dall’autore: non per questo mancheranno singoli influssi dell’Odissea sulla parte conclusiva del poema, o dell’Iliade in quella iniziale, ma, se si guarda alle grandi linee del progetto virgiliano, la scelta di fondo è chiara.

L’Iliade narra le vicende che portano alla distruzione di una città; l’Odissea racconta, facendo seguito a questa guerra, il ritorno a casa di uno dei distruttori. Queste storie epiche, queste fabulae, si ripresentano in Virgilio in sequenza rovesciata: prima i viaggi, poi la guerra; ma questo comporta anche un’inversione dei contenuti. Il viaggio di Enea non è un ritorno a casa come quello di Odisseo, bensì un viaggio verso l’ignoto. La guerra che Enea conduce non serve a distruggere una città, ma a costruirne una nuova. Questa complessa trasformazione dei modelli omerici non ha precedenti nella poesia antica. Già Apollonio Rodio, in certa misura, aveva “contaminato” sequenze narrative tratte da ambedue i poemi omerici, e sembra di capire che il Bellum Poenicum di Nevio si ispirasse all’Odissea per il viaggio di Enea e all’Iliade per le narrazioni belliche: ma si tratta solo di spunti lontani.

Si potrebbe distinguere, per comodità, diversi livelli nel rapporto di trasformazione. L’Eneide è anzitutto, come si è visto, una particolare contaminazione dei due poemi omerici. In secondo luogo, vi è anche una continuazione di Omero. Infatti, le imprese di Enea fanno seguito all’Iliade (il II libro virgiliano racconta l’ultima notte di Troia, che nell’Iliade era soltanto profeticamente intravista) e si riallacciano all’Odissea (nel III libro Enea segue in parte la traccia delle avventure di Odisseo, affrontando pericoli che l’eroe greco ha già attraversato). In questo senso, Virgilio riprende l’esperienza dell’epos ciclico: la catena di narrazioni epiche che “integravano” la poesia di Omero in una sorta di continuum.

C. Giulio Cesare. Africa, Denario 47-46 a.C. Ar. 3, 84 g. Recto: Caesar. Enea stante, verso sinistra, recante il palladium e il padre Anchise sulle spalle.

In terzo luogo, l’Eneide racchiude in sé una sorta di ripetizione dell’epica arcaica. Per esempio, la guerra nel Lazio è spesso vista come una ripetizione della guerra troiana, ma non si tratta certamente di un rispecchiamento passivo: all’inizio, infatti, i Troiani si trovano assediati, e vicini alla sconfitta, come se fossero condannati al loro destino. Alla fine, però, sono vincitori ed Enea uccide il capo avversario, Turno, come Achille elimina Ettore: nella nuova Iliade i Troiani sono i vincitori. Ma si vede bene che la ripetizione è anche un superamento del modello: la guerra, pur attraverso lutti e sofferenze, porterà non alla distruzione, bensì alla fondazione di una nuova unità. Alla fine, Enea riassume in sé l’immagine di Achille vincitore e, soprattutto, quella di Odisseo, che dopo tante prove conquista la patria restaurando la pace.

Questo, dunque, riporta all’altra intenzione di Virgilio: lodare Augusto ab origine. Il poema si distacca dal presente augusteo per una distanza quasi siderale: gli antichi ponevano un intervallo di circa quattro secoli fra la distruzione di Troia e la fondazione dell’Urbe. Gli eventi dell’Eneide sono intesi come “storici”, ma non si tratta, tecnicamente parlando, neppure di storia romana: i lettori contemporanei di Virgilio si trovano immersi in un mondo “omerico”, a una distanza leggendaria di più di un millennio dal presente tanto familiare.

Questo spostamento consentiva a Virgilio di guardare il tempo di Augusto da lontano: un po’ come nelle Georgiche lo spostamento verso il mondo senza storia della campagna permetteva al poeta una prospettiva più ampia e distaccata; inoltre, l’Eneide è attraversata da scorci profetici che conferiscono alla storia un orientamento “augusteo”, ma non per questo cessa di essere omerica. Sono tali le tecniche narrative che permettono all’autore di guardare da lontano la Roma contemporanea. Nell’Iliade Zeus profetizzava il destino degli eroi e la distruzione di Troia; nell’Eneide (I 257-296) Giove traguarda non solo il destino del protagonista ma anche la futura grandezza di Augusto che riporterà finalmente l’età dell’oro; nell’Odissea l’eroe scendeva nell’Ade e otteneva così un’anticipazione del proprio destino; nell’Eneide il protagonista apprende dal regno infernale non solo il suo personale futuro, ma anche i grandi momenti della storia di Roma (VI 756-886). Nell’Iliade, poema della forza guerriera, la descrizione dello scudo di Achille introduce una sorta di visione cosmica (scene naturali, immagini di città); nell’Eneide la descrizione dello scudo di Enea (VIII 626-728) è finalizzata all’immagine della città di Roma, colta nei momenti critici del suo sviluppo storico. Si sperimenta così un difficile equilibrio fra la tradizione dell’epos eroico e il bisogno di un’epica storico-celebrativa.

Enea fugge da Troia. Rilievo, marmo locale, I sec. d.C., dal Sebasteion di Afrodisia.

Il momento di sintesi fra dimensione omerica e dimensione augustea, dunque, fu offerto a Virgilio da una vecchia leggenda: l’Italia antica conosceva una serie di «leggende di fondazione» collegate alla guerra di Troia, in cui eroi di parte greca e di parte troiana, sbandati o esuli, sarebbero stati i fondatori (o i colonizzatori) di località italiche. Fra queste storie, in un lungo processo esteso fra il IV e il II secolo a.C., acquistò particolare prestigio la leggenda di Enea. Questi era in Omero un importante, ma non centrale, eroe teucro: la sua casata sembra destinata a regnare su Ilio dopo l’estinzione dei Priamidi (Il. XX 307 ss.). In seguito, invece, divenne popolare, anche nell’arte figurativa, la fuga di Enea da Troia in fiamme, con il padre Anchise sulle spalle. Si stabilì ben presto un collegamento con il Lazio antico: da un lato, lavorava in questo senso una tradizione letteraria greca, dall’altro (come hanno rivelato recenti scoperte archeologiche) il culto di Enea come eroe ecista è attestato a Lavinium, a sud di Roma, sin dal IV secolo.

Non sembra che Enea sia mai stato considerato il fondatore di Roma, né che avesse un particolare culto in età arcaica. Tra il II e il I secolo a.C., però, la sua figura acquistò crescente fortuna fra i Romani. Le motivazioni sono politiche e non facili da districare: anzitutto, il mito dell’origine troiana dei Romani ne traeva sostegno, dato che il più nobile eroe scampato alla catastrofe sarebbe stato connesso, per via genealogica, a Romolo, il fondatore dell’Urbe. Questo permetteva alla cultura quiritaria di rivendicare una sorta di autonoma parità con quella ellenica, proprio nel periodo in cui la città acquistava l’egemonia sul Mediterraneo. I Troiani erano consacrati dal mito omerico come grandi antagonisti dei Greci; da Roma sarebbe nata la loro rivincita (anche la terza grande potenza mediterranea, Cartagine, venne opportunamente ricollegata alla leggenda eneadica tramite la regina Didone): così Roma legittimava il proprio potere attraverso uno sfondo storico-leggendario profondissimo.

Un secondo fattore di popolarità di Enea dipende da una circostanza politica interna. Attraverso la figura del figlio Iulo Ascanio, una nobile casata romana, la gens Iulia, rivendicava per sé nobilissime origini: un esponente di questo clan, Gaio Giulio Cesare, e più tardi il suo figlio adottivo, Gaio Ottaviano, si trovarono successivamente a governare l’Impero mondiale di Roma. Ed è qui che venne a saldarsi il cerchio tra Virgilio, Augusto e l’epica eroica.

Ottaviano Augusto in nudità eroica. Statua, marmo, I sec. d.C. ca. Arlés, Musée Departemental Arles Antique.

Da ciò che è noto sulle fonti storico-antiquarie usate da Virgilio, risulta chiaro che il poeta avesse profondamente ristrutturato i dati tradizionali sull’arrivo di Enea nel Lazio; le variabili notizie su un conflitto con gli abitanti autoctoni o con parte di essi, seguita poi da un foedus, sono state rifuse in un’unica sequenza di guerra, chiusa da una storica riconciliazione. Il conflitto è stato rappresentato dal poeta come scontro fra Troiani e Latini: questi ultimi coalizzati con diverse tribù limitrofe (che vantavano significativamente ascendenze grecaniche); i primi, invece, con gli Etruschi e con una piccola popolazione greca stanziata sul suolo della futura Roma.

Nello sforzo di creare una vera epica nazionale romana, Virgilio muove nello spazio delle origini tutte le grandi forze da cui sarebbe nata l’Italia del suo tempo. Nessun popolo è radicalmente escluso da un contributo positivo alla genesi dell’Urbe: gli stessi Latini, dopo molti sacrifici, si sarebbero riconciliati, formando il nerbo di un nuovo popolo; la grande potenza etrusca, estesa dalla Mantova di Virgilio sino al Tevere, si vede riconoscere un ruolo costruttivo; persino i Greci, tradizionali avversari dei Teucri, forniscono un decisivo alleato, l’arcade Pallante, e soprattutto si presentano come la più nobile “preistoria” di Roma.

L’Eneide è perciò un’opera di denso significato storico e politico, ma non è un poema storico: il taglio dei contenuti è dettato da una selezione “drammaturgica” del materiale, che ricorda più Omero che Ennio. Nonostante le aspettative create dal titolo, l’opera non traccia nemmeno un quadro completo della biografia del suo protagonista: lo si lascia ancor prima che possa aver assaporato il suo trionfo e non è neppure dato sapere se fosse vissuto ancora a lungo; ciononostante il suo destino di eroe divinizzato si intravede solo di scorcio.

Lo scudo di Enea (Verg. Aen. VIII). Illustrazione di I. Andrew.

L’Eneide è la storia di una missione voluta dal Fato, che renderà possibile la fondazione di Roma e la sua salvazione per mano di Augusto. Il poeta si fa garante e portavoce di questo progetto e focalizza il suo racconto su Enea, il portatore di questa missione fatale. In questo senso, Virgilio si assume in pieno l’eredità dell’epos storico romano: il suo poema è un’epica “nazionale”, in cui una collettività deve rispecchiarsi e sentirsi unita. Eppure, l’Eneide non si esaurisce in questi intenti.

Sotto la linea “oggettiva” voluta dal Fato si muovono personaggi in contrasto fra loro; la narrazione si adatta a contemplarne le ragioni in conflitto. I loro sentimenti (non solo di quelli “positivi”, come Enea) sono costantemente in primo piano. Si consideri, per esempio, il caso di Didone. La cultura romana nell’età delle conquiste rappresentava le guerre puniche come uno scontro fra diversi: l’identità romana si fondava sulla grande opposizione a Cartagine, un nemico infido, crudele, amante del lusso, dedito a riti perversi. Per Virgilio, invece, la guerra con Cartagine non sarebbe nata da una differenza: riportata al tempo delle origini, la guerra sarebbe sorta da un eccessivo e tragico amore fra simili. Didone è vinta dal desiderio (come lo sarà Cartagine), ma il testo accoglie in sé le sue ragioni e le tramanda. Simile è anche il caso di Turno: la guerra che Enea conduce nel Lazio non è vista come un sacrificio necessario; i popoli divisi dai contrasti sono fin dall’inizio sostanzialmente simili e vicini fra loro (per sottolineare questo punto, l’autore arriva a sostenere che i Troiani, attraverso il progenitore Dardano, avrebbero lontane origini italiche!). Il conflitto è un tragico errore voluto da potenze demoniache, in sostanza (ed è questo un tema martellante nell’Eneide prima ancora della poesia neroniana e flavia) una guerra fratricida. L’uccisione di Turno, preparata dalla caduta di Pallante, appare necessaria, ma il poeta non fa nulla per rendere facile questa scelta. Turno è disarmato, ferito e chiede pietà. Enea ha imparato da suo padre (libro VI) a battere i superbi e a risparmiare chi si assoggetta: Turno è un guerriero superbo, ma ora è anche subiectus. La scelta è difficile: Enea uccide solo perché, in quell’istante cruciale, la vista del balteo di Pallante lo travolge in uno slancio d’ira funesta. Così, nell’ultima scena del racconto, il pio Enea assomiglia al terribile Achille che compie vendetta su Ettore, laddove l’Iliade terminava invece, come tutti sanno, con un Pelide pietoso, che si ritrova uguale al nemico Priamo.

È chiaro che Virgilio chiede molto ai suoi lettori: essi devono insieme apprezzare la necessità fatale della vittoria e ricordare le ragioni degli sconfitti; guardare il mondo da una prospettiva superiore (Giove, il Fato, il narratore onnisciente) e partecipare alle sofferenze degli individui; accettare insieme l’oggettività epica, che contempla dall’alto il grande ciclo provvidenziale della storia, e la soggettività tragica, che è conflitto di ragioni individuali e di verità relative (in questo Virgilio mostra di avere intimamente assimilato la lezione dei grandi tragici greci: il suo poema trae da questo influsso un grado di “apertura” problematica molto forte, che lo rende diverso da un tipico epos nazionale). Lo sviluppo della soggettività (che si può contrapporre, schematizzando molto, all’oggettività omerica) che interessa la struttura profonda, ideologica del poema virgiliano, caratterizza anche la superficie del testo, lo stile epico e la tecnica del narrare.

Francesco Solimena, Enea alla corte di Didone. Olio su tela, 1739-41 c. Napoli, Museo di Capodimonte.

La più nuova e grande qualità dello stile epico di Virgilio sta nel conciliare (com’era uso dire lo studioso tedesco Friedrich Klingner) il massimo di libertà con il massimo di ordine. Il poeta ha lavorato sul verso epico, l’esametro, portandolo insieme al massimo grado di regolarità e di flessibilità.

La ricerca neoterica aveva imposto dure restrizioni nell’uso delle cesure, nell’alternanza di dattili e di spondei, nel rapporto fra sintassi e metro. Il carme 64 di Catullo rappresenta, in questo senso, un caso eclatante: reazione estrema all’“anarchia” ritmico-verbale della poesia arcaica, reazione naturalmente innescata dalla disciplina formale degli alessandrini. Tale disciplina comportava anche degli effetti di monotonia, che diventano tanto più sensibili quanto più lungo è il testo narrativo: la collocazione delle parole è non solo artificiale ma soprattutto irrigidita (tipici gli esametri formati da due coppie attributo + sostantivo in posizione simmetrica); l’unità ritmica del verso rifiuta al suo interno nette pause di senso, con un effetto complessivo di rigidità.

Virgilio plasma il suo esametro come strumento di una narrazione lunga e continua, articolata e variata. La struttura ritmica del verso si basa su un ristretto numero di cesure principali, in configurazioni privilegiate. Si ha così quella regolarità di fondo che è indispensabile allo stile epico. Nello stesso tempo, la combinazione di cesure principali e di cesure accessorie permette una notevole varietà di sequenze. E la frase si libera da qualsiasi schiavitù nei confronti del metro.

Il periodare può essere ampio o breve, scavalcare o rispettare la coincidenza con le unità metriche. L’esametro si adatta così a una varietà di situazioni espressive: ampie e pacate descrizioni, battute concitate e patetiche. Il ritmo della narrazione è scandito dalla diversa proporzione di dattili e spondei. Dell’allitterazione, procedimento formale tipico della poesia latina arcaica, Virgilio fa uso regolato e motivato: essa sottolinea momenti patetici, collega fra loro parole-chiave, produce effetti di fonosimbolismo, richiama fra loro diversi momenti della narrazione.

Le tradizioni del genere epico richiedevano un linguaggio elevato, staccato dalla lingua d’uso. È naturale quindi che l’Eneide sia l’opera virgiliana più ricca di arcaismi e di poetismi (due categorie spesso, ma non sempre, coincidenti fra loro: poetismi non arcaici sono, per esempio, i calchi dal greco e i neologismi). Alcuni degli arcaismi sono omaggi alla maniera di Ennio, o alla forte espressività della tragedia arcaica, altri fanno parte del linguaggio letterario istituzionalizzato. Nel complesso, però, non è questo il più significativo tratto dello stile virgiliano.

Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Codex Vaticanus lat. 3225 (o Vergilius Vaticanus, V sec.), f. 58r. Le navi di Enea doppiano l’isola di Circe.

Un contemporaneo (citato dalla vita donatiana di Virgilio, par. 44) disse che il poeta aveva inventato una nuova κακοζηλία, un nuovo «manierismo»: «un manierismo sfuggente, né gonfio, né sottile, ma fatto di parole normali». Parole normali: una forte percentuale del lessico virgiliano consta di termini non marcatamente poetici, ma impiegati nella prosa e nella lingua d’uso quotidiana (cioè il latino parlato a Roma dalle classi colte). La novità sta nei collegamenti inediti fra le parole. Recentem caede locum, «un luogo fresco di strage»; tela exit, «esce dai (= schiva) i dardi»; frontem rugis arat, «ara la fronte di rughe»; caeso sanguine, «sangue di un ucciso»; flumen, «fiume (di lacrime, che scorrono)»; uentis dare uela, «dare le vele al vento»; lux aena, «luce di bronzo». Alcuni di questi nessi sono familiari, anche per il forte influsso di Virgilio sulla tradizione letteraria occidentale, ma dovevano colpire il lettore romano del tempo, come la rivelazione di nuove possibilità del linguaggio. Altri nessi sono più difficile da tradurre, perché forzano il senso e la sintassi: rumpit uocem (non «spezza la voce», ma «il silenzio»); eripe fugam («strappa la fuga» sul normale se eripere, «sottrarsi»). Questo tipo di elaborazione del linguaggio quotidiano non ha precedenti nella poesia latina: il pensiero corre piuttosto a Sofocle o a Euripide. La sperimentazione sintattica lavora su un lessico che sa mantenersi semplice e diretto; esso risulta, però, quasi rinnovato nei suoi effetti; le parole subiscono un processo di “straniamento” che dà rilievo e nuova percettività al loro senso contestuale.

Il nuovo stile epico sa anche piegarsi a una serie di requisiti tradizionali. La narrazione – sin da Omero – dev’essere graduale, senza vuoti intermedi, per così dire “piena”. Azioni ricorrenti e ripetute si prestano a ripetizioni verbali: epiteti stabili, “naturali”, accompagnano oggetti e personaggi quasi a fissarne il posto nel mondo. Il numero dei guerrieri e delle navi, il nome degli eroi, l’origine delle cose sono tutti elementi da catalogare con precisione. Virgilio accetta questa tradizione: l’Eneide – a differenza degli altri suoi testi – dà largo spazio a procedimenti «formulari».

La tendenza di Virgilio è conservare questi moduli e insieme caricarli di nuova sensibilità. Gli epiteti, per esempio, tendono a coinvolgere il lettore nella situazione e spesso anche nella psicologia dei personaggi che sono sulla scena. La narrazione suggerisce più di quello che dice esplicitamente. Così in Aen. I 469-471 Enea sta guardando le pitture che gli ricordano la tragica guerra di Troia e fra le scene ecco comparire il greco Diomede che compie un massacro notturno:

…niueis tentoria uelis

agnoscit lacrimans, primo quae prodita somno

Tydides multa uastabat caede cruentus.

Enea riconosce, piangendo, i nivei veli delle tende, tradite dal primo sonno, e il Tidide che molte ne devastava, insanguinato di strage.

 

Il lettore percepisce il bianco intenso delle tende solo per vederle macchiate di sangue: ma il rosso della carneficina non è detto apertamente dal testo, sta tutto nell’epiteto cruentus. E la percezione di questi dettagli accentua la partecipazione allo stato d’animo dell’eroe: tanto più intensamente quanto più il lettore deve collaborare, esplicitare gli accenni, integrare gli spazi vuoti.

Caratteristica fondamentale dello stile epico virgiliano è, dunque, l’aumento di soggettività: maggiore iniziativa viene data al lettore (che deve rispondere agli stimoli), ai personaggi (il cui punto di vista colora a tratti l’azione narrata), al narratore (che è presente a più livelli nel racconto). Questo aumento di soggettività rischierebbe di disgregare la struttura epica della narrazione se non venisse in più modi controllato. La funzione oggettivante è garantita dall’intervento dell’autore, che lascia emergere nel testo i singoli punti di vista soggettivi, ma si incarica sempre di ricomporli in un progetto unitario. Riconoscere e studiare la complessità dello stile significa, quindi, toccare la complessità stessa del discorso ideologico che prende forma nell’Eneide.

Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Codex Vaticanus lat. 3867 (o Vergilius Romanus, V sec.), f. 14r. Ritratto di Virgilio.

Per una bibliografia aggiornata sull’autore, si vd. il sito della Vergilian Society.

Arato di Soli

di I. BIONDI, Storia e antologia della letteratura greca. III. L’Ellenismo e la tarda grecità, Firenze 2004, 41-42.

Sulla biografia di Arato non si hanno molte notizie, nonostante circolassero in antico ben quattro vitae, derivate dal commentatore Boeto di Sidone. Nativo di Soli in Cilicia, si trasferì da giovane ad Atene, dove frequentò l’ambiente degli Stoici, che lasciò nella sua formazione una significativa impronta. Nel 276 da Atene si trasferì a Pella, in Macedonia, alla corte di Antigono II Gonata (276-239 a.C.), sovrano di notevole cultura e simpatizzante con il pensiero stoico, filosofo e letterato egli stesso. A Pella si trovavano altri intellettuali di prestigio, come il poeta tragico ed elegiaco Alessandro Etolo, attivo anche presso la Biblioteca di Alessandria intorno al 280 a.C.; il filosofo e poeta satirico Timone di Fliunte (320-230 a.C.); il filosofo Menedemo di Eretria, fondatore della scuola di pensiero che portava il nome della sua città natale. Molta della produzione letteraria di Arato nacque proprio in questo contesto culturale, e, però, buona parte di essa è andata perduta: come la raccolta Κατὰ λεπτόν («Argomenti leggeri»), che conteneva anche delle trenodie per defunti importanti (Ἐπικήδεια), degli epigrammi (dei quali almeno due si sono conservati in Anth. Pal. XI 437 e XII 129) e vari inni. In occasione della vittoria di Antigono sui Galati a Lisimachia (277 a.C.) o delle nozze del sovrano con Fila, figlia di Seleuco, avvenute l’anno precedente, Arato compose un Inno a Pan (un frammento del quale va forse identificato con SH 958: vd. Barigazzi 1974), andato perduto. Inoltre, il poeta scrisse delle ἠθοποιίαι ἐπιστολαί (SH 106), «lettere sulla formazione del carattere»; i suoi scritti didascalici furono significativi per la storia della letteratura antica: restano cinque titoli di opere astronomiche, che almeno parzialmente citano sezioni dei Φαινόμενα (Fenomeni), a cui si aggiunge un Κανών, in cui, fra l’altro, si descrivono le orbite dei pianeti attraverso calcoli matematici (cfr. Leonida di Taranto, Anth. Pal. IX 25, 3). Di Arato si conoscono anche sette titoli di testi che trattano di anatomia e farmacopea: si conserva un frammento sulle suture craniche. Di questi libri, tuttavia, la Ὀστολογία (SH 97) non era un’opera sull’anatomia ossea, ma più probabilmente un trattatello sulla negromanzia tramite gli scheletri.

Antigono II Gonata e Fila. Affresco, ante 79 d.C. dalla domus di Fannio Sinistore a Boscoreale.

 

Secondo le vitae I e III, Arato lasciò poi la Macedonia per soggiornare qualche tempo in Siria, presso Antioco I Sotere, fratello di Fila, dove attese alla revisione critica dell’Odissea e, probabilmente, anche dell’Iliade. Tornato in Macedonia vi rimase fino alla morte, avvenuta forse poco prima di quella del suo protettore Antigono Gonata, scomparso nel 240/239.

 

Antigono II Gonata. Dramma, zecca macedone ignota 277-239 a.C. ca. AE 6,26 g. Obverso: Pan innalza un trofeo militare (monogramma A – B).

 

L’opera maggiore di Arato, quella per cui i contemporanei lo considerarono un novello Esiodo, fu un poema in esametri, i Fenomeni, giunto fino a noi con i commenti di vari grammatici. L’opera, che forse fu commissionata da Antigono Gonata, è un trattato di astronomia; il suo autore ebbe come modello gli scritti del matematico Eudosso di Cnido (408-355 a.C.), discepolo di Platone e di Archita, filosofo pitagorico e matematico di Taranto (400 ca. a.C.).

 

London, British Library. Ms. Harley 647 (IX sec.), Arato di Soli, Phaenomena, ff. 10v-11r. Le costellazioni dei Pesci e di Perseo.

 

Il poema di Arato si apre con un’invocazione a Zeus e descrive poi la volta stellata del cielo, distinguendo le costellazioni dei due emisferi. Successivamente, il poeta espone la teoria dei circoli che dividono la sfera celeste, e il sorgere e il tramontare delle costellazioni. L’ultima parte dell’opera è dedicata alla descrizione dei segni premonitori delle variazioni meteorologiche, attraverso l’osservazione del mondo naturale e del comportamento degli animali. Per il suo contenuto, in alcuni manoscritti questa sezione del poema, che fu poi tradotta in esametri da Cicerone, porta il titolo di Pronostici attraverso i segni naturali. I contemporanei di Arato espressero giudizi molto lusinghieri sulla sua opera che, pur avendo il suo archetipo in Esiodo, si riallacciava anche al più tardo filone didascalico di Xenofane, Parmenide ed Empedocle. In particolare, ne fu molto ammirata la λεπτότης, la «sottigliezza»; un apprezzamento che rientra perfettamente nel gusto dell’epoca e che aveva la sua massima espressione in Callimaco, autore di un epigramma altamente laudativo nei confronti del poeta (Anth. Pal. IX 507; cfr. anche Leonida, Anth. Pal. IX 25). Tra l’altro, come si è ricordato, Arato stesso aveva intitolato Κατὰ λεπτόν una delle sue antologie poetiche, nome che sembra alludere proprio a questa qualità, quasi come se fosse la sua personale σφραγίς; a conferma di ciò pare essere anche l’acrostico λεπτή in Arat. 783-787. Gli antichi celebravano di Arato anche la dedizione al lavoro e le notti insonni, la sua profonda dottrina, la ripresa stilistica di Esiodo, le competenze didascaliche, ma anche la δύναμις di filosofo naturale (frutto, cioè, della sua visione stoica del mondo), che a dispetto di altri poeti-astronomi doveva essere una sua caratteristica esclusiva (cfr. Boeto di Sidone, Scholia in Aratum vetera, p. 12 f. Martin).

 

«Atlante Farnese» che regge il globo celeste. Statua, marmo, copia romana di III sec. d.C. da originale ellenistico. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

 

Già prima di lui, un allievo di Eudosso, Cleostrato di Tenedo, era stato il primo a mettere in versi le proprie conoscenze astronomiche. Altri Fenomeni – in prosa o in poesia – furono composti anche dal già menzionato Alessandro Etolo, ma anche da Ermippo di Smirne (III secolo), da Egesianatte di Alessandria (II secolo) e da Alessandro di Efeso (I secolo a.C.). Rispetto a questa tradizione, comunque, il poema di Arato riscosse un subito successo, al punto che, a scapito delle opere omonime e dell’astronomia matematica (sic), divenne ben presto un elemento fondamentale della ratio studiorum successiva: in effetti, il papiro più antico che conserva i vv. 480-494, P. Hamb. 121, risalente alla prima metà del II secolo d.C., rivela proprio il suo impiego come testo scolastico (cosa che contribuì al fiorire di un’intensa attività di commento).

 

Paris, Bibliothèque nationale de France. Ms. lat. 8878. Beatus de Liebana, Commentaria in Apocalypsin (ante 1072), f. 139v. Cielo stellato.

 

Per il lettore moderno, tuttavia, risulta difficile condividere tanto entusiasmo; però è innegabile che nel mondo antico Arato ebbe una straordinaria fortuna, come dimostra il gran numero di scienziati e di grammatici che lo lo studiarono: il più celebre di tutti fu probabilmente Ipparco di Nicea, uno dei più grandi astronomi greci, vissuto nel II secolo a.C. e autore di un dotto commento in tre libri sui Fenomeni. Inoltre, dal I secolo a.C. al IV d.C., da Varrone Atacino a Cicerone, da Germanico a Manilio e a Festo Avieno, anche la cultura romana si impegnò, con esiti diversi, nella traduzione dell’opera, mentre illustri poeti come Virgilio (Buc. III 60, Georg. I) e Ovidio (Fas. III 105-110) attinsero al testo arateo, com’è dimostrato da evidenti reminiscenze di esso. Perfino l’apostolo Paolo, nel discorso Areopagitico (Act. 17, 28-29) citò il v. 5 del proemio, senza precisare il nome del poeta (ὡς καί τινες τῶν καθ’ ὑμᾶς ποιητῶν εἰρήκασιν, «come hanno detto alcuni dei vostri poeti»), per dimostrare che non è necessario cercare Dio lontano da noi, dal momento che tutti «viviamo, ci muoviamo e siamo in Lui, come hanno detto alcuni dei vostri poeti: infatti, noi siamo sua stirpe (τοῦ γὰρ καὶ γένος ἐσμέν)».

 

Andreas Cellarius, Planisphaerium Arateum. Illustrazione, 1661, da Harmonia macrocosmica.

 

Una così vasta fortuna dell’opera di Arato, che si protrasse, attraverso le traduzioni latine, durante il Medioevo e il primo Rinascimento, fu probabilmente dovuta al fatto che il poema vide la luce in un’epoca in cui non esisteva quella distinzione fra arte e scienza per noi rigorosa e irrinunciabile; in conseguenza di ciò, esso poté essere apprezzato dal pubblico di età ellenistica come un’illustre testimonianza della poesia erudita che, riallacciandosi all’antica tradizione esiodea, si arricchiva del gusto della ricerca rara e minuziosa, tipico dei tempi nuovi, ed esponeva, con abbondanza e varietà di informazioni e con limpida eleganza di stile, il tema dell’astronomia, da sempre carico di grande attrattiva.

 

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M. Tullio Cicerone

di G.B. CONTE – E. PIANEZZOLA, Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 1. L’età arcaica e repubblicana, Milano 2010, pp. 234-265.

Un pilastro della storia politica e culturale di Roma

Cicerone fu uno dei massimi protagonisti delle vicende politiche e culturali della Roma del I secolo a.C. La sua instancabile attività di oratore, studioso e politico, a cui corrisponde una sterminata produzione letteraria, ha avuto ben pochi eguali nella storia romana e costituisce lo specchio di quelle profonde trasformazioni che cambiarono il volto della res publica nel suo ultimo secolo di vita. La sua attiva partecipazione a tutte le più importanti vicende pubbliche dell’epoca e i suoi vastissimi interessi culturali, fanno di Cicerone il simbolo stesso di tutti gli ideali e i principi su cui si fondava la tradizione etico-politica dell’uomo romano.

M. Tullio Cicerone. Busto, marmo. Roma, Musei Capitolini.

 

La vita: una carriera lunga e impegnata

Marco Tullio Cicerone nacque nel 106 a.C. ad Arpinum, da agiata famiglia equestre. Compì ottimi studi di retorica e di filosofia a Roma e iniziò a frequentare il foro sotto la guida del grande oratore Lucio Licinio Crasso (cos. 95), di Quinto Mucio Scevola l’Augure (cos. 117) e di Quinto Mucio Scevola il Pontefice (cos. 95). Con Tito Pomponio Attico strinse un’amicizia destinata a durare tutta la vita. Nell’89 prestò servizio militare durante la Guerra sociale agli ordini di Gneo Pompeo Strabone, il padre di Pompeo Magno. Nel’81, o forse prima, debuttò come avvocato; nell’80 difese a causa di Sesto Roscio Amerino, il che lo mise in conflitto con importanti esponenti del regime sillano. Tra il 79 e il 77 compì un viaggio in Grecia e in Asia, dove approfondì le sue conoscenze di filosofia e (sotto la guida del celebre Apollonio Molone di Rodi) studiò retorica.

Al ritorno sposò Terenzia, dalla quale gli nacquero Tullia (nel 76) e Marco (nel 65). Nel 75 fu questore in Sicilia e cinque anni dopo sostenne trionfalmente l’accusa dei Siciliani contro l’ex governatore Verre, conquistandosi la fama di principe del foro. Nel 69 fu edile, nel 66 pretore; diede il suo appoggio alla proposta di concedere a Pompeo un imperium extra ordinem per la lotta contro Mitridate VI, re del Ponto. Nel 63 Cicerone fu eletto console e represse la congiura di Catilina. Guardò alla formazione del primo triumvirato con preoccupazione, dal momento che si trattava di un’alleanza politica fra il potere militare di Pompeo, la ricchezza grandiosa di Crasso e la crescente popolarità di Cesare, proprio perché siglata come patto privato, gli appariva insidiosa per l’autorità del Senato; da allora il suo astro iniziò a declinare. Nel 58 dovette recarsi in esilio, con l’accusa di aver messo a morte senza processo i complici di Catilina; la sua casa fu rasa al suolo. Richiamato a Roma, vi tornò trionfalmente l’anno successivo.

Fra il 56 e il 51 Cicerone tentò una difficile collaborazione con i triumviri, continuando a svolgere l’attività forense. Compose il De oratore, il De re publica e iniziò a lavorare al De legibus. Nel 51 fu governatore in Cilicia, pur accettando controvoglia di allontanarsi dall’Urbe. Allo scoppio della Guerra civile, nel 49, aderì con lentezza alla causa di Pompeo. Si recò in Epiro con altri senatori, ma non fu presente alla battaglia di Farsalo nel 48. Dopo la sconfitta di Pompeo, Cicerone ottenne il perdono di Cesare.

Nel 46 scrisse il Brutus e l’Orator; divorziò da Terenzia e sposò la sua giovane pupilla Publilia, dalla quale si sarebbe separato dopo pochi mesi. Nel 45 gli morì la figlia Tullia. Iniziò la composizione di una lunga serie di opere filosofiche, mentre il dominio di Cesare lo tenne lontano dagli affari pubblici. Nel 44, dopo l’uccisione del dictator, Cicerone tornò alla vita politica e intraprese, a partire dalla fine dell’estate, una strenua lotta contro Antonio (di cui sono testimonianza le celebri orazioni chiamate Filippiche). Dopo il voltafaccia di Ottaviano, che, abbandonata la causa del Senato, si strinse in triumvirato con Antonio e Lepido, il nome di Cicerone venne inserito nelle liste di proscrizione e l’Arpinate fu assassinato dai sicari di Antonio il 7 dicembre 43.

 

M. Tullio Cicerone. Busto, marmo, copia di B. Thorvaldsen da originale romano. København, Thorvaldsens Museum.

 

Le opere: una molteplicità di interessi

Cicerone è di gran lunga l’autore classico latino di cui si possieda il maggior numero di opere. La sua vasta e molteplice produzione letteraria, infatti, spazia dalle orazioni pronunciate nel corso della sua lunga carriera forense e politica, alle opere trattatistiche nel campo della retorica, della politica e della filosofia, alle prove poetiche, fino a quello straordinario documento che è l’epistolario, che raccoglie centinaia di lettere sue e dei suoi corrispondenti, e, in effetti, costituisce l’unico epistolario “reale” (cioè formato da veri testi privati, non composti in vista di una pubblicazione) tramandato dall’antichità.

 

 

Un nuovo progetto politico e sociale

Per la posizione che occupa nella cultura romana e per il valore straordinario della sua esperienza intellettuale, Cicerone rappresenta un protagonista e un testimone d’eccezione della crisi che portò al tramonto della Repubblica. A quei mutamenti egli cercò di rispondere e porre rimedio elaborando un progetto etico-politico capace di tenere insieme tradizione e innovazione. La sua rimase tuttavia un’ottica di parte, solidale con il progetto di egemonia di un blocco sociale (sostanzialmente quello dei ceti possidenti), disegno le cui possibilità di affermazione all’interno della società romana sarebbero state in gran parte legate all’uso abile e accorto delle tecniche di comunicazione più efficaci. In un contesto di questo tipo, Cicerone mise a frutto la sua sapiente e persuasiva eloquenza nelle orazioni e provvide a organizzarne i presupposti teorici nei trattati a carattere retorico; la sua ars dicendi si rivelò così una tecnica raffinatissima, funzionale al dominio dell’uditorio e alla regia delle sue passioni. Si rifletteva, d’altronde, in questo una condizione di fondo della cultura romana, per la quale l’oratoria costituiva il modello fondamentale non solo di un’educazione elevata, ma anche, in notevole misura, dell’espressione letteraria stessa.

Al proprio progetto politico-sociale Cicerone ha cercato di dare concreta applicazione anche adattandolo, talora opportunisticamente, alla situazione contingente (come testimoniano diverse orazioni); ma, procedendo negli anni e nelle delusioni, egli ha sentito sempre più forte la necessità di riflettere, sulla scorta del pensiero ellenistico, sui fondamenti della politica e della morale. Il fine delle sue opere filosofiche è dunque lo stesso che ispira alcune delle orazioni più significative: dare una solida base ideale, etica e politica, a una classe dominante il cui bisogno di ordine non si traducesse in ottuse chiusure, il cui rispetto per la tradizione capitolina (mos maiorum) non impedisse l’assorbimento della cultura greca. Cicerone, in altre parole, pensava a una classe dominante che fosse capace di assolvere ai suoi doveri verso la res publica senza divenire insensibile ai piaceri di un otium nutrito di arti e di letteratura. Egli propose così uno stile di vita garbatamente raffinato che si riassumeva nel termine humanitas: quella coscienza culturale che era frutto dell’incivilimento, che era capacità di distinguere e di apprezzare ciò che è bello, giusto e conveniente.

In questo senso, gran parte dell’opera ciceroniana può essere letta come la ricerca di un difficile equilibrio tra istanze di ammodernamento e necessità di conservare i valori tradizionali. Dietro la vicenda intellettuale di Cicerone, infatti, si profila una società attraversata da spinte contrastanti, spesso laceranti: l’afflusso di ricchezze dai paesi conquistati aveva da tempo reso anacronisticamente improponibile la rigida morigeratezza delle origini; ma il veloce distacco dalle virtù e dai valori che avevano fatto la grandezza di Roma metteva ora in discussione la stessa sopravvivenza della res publica.

M. Tullio Cicerone. Statua, marmo, I sec. a.C. ca. Oxford, Ashmolean Museum.

 

La parola come strumento di lotta politica: le orazioni

L’attività oratoria di Cicerone si intreccia indissolubilmente con le vicende politiche di Roma: non è un caso, dunque, che le orazioni, al di là dei fatti specifici di cui trattano, lascino sempre intravedere sullo sfondo fatti e personaggi di primo piano, che segnarono la vita pubblica romana. Pertanto, nell’esaminarle, si procederà secondo una sequenza cronologica lineare che, scandendo la successione dei discorsi, segua anche la storia e le agitate fasi politiche dell’ultimo cinquantennio della Repubblica.

 

Gli esordi. | Dopo aver debuttato come avvocato nell’81 – o forse anche prima –, Cicerone, già nell’80, affrontò una causa molto difficile, probabilmente la prima importante della sua ancor giovane carriera: accettò il rischioso compito di difendere Sesto Roscio, accusato di parricidio da potenti figure dell’entourage del dittatore Lucio Cornelio Silla, il crudele capo della fazione degli optimates allora padrone di Roma. Il padre di Sesto Roscio era stato assassinato su mandato di due suoi parenti in accordo con Lucio Cornelio Crisogono, potente liberto del dittatore, che aveva fatto inserire poi il nome dell’ucciso nelle liste di proscrizione per poterne acquistare all’asta, a un prezzo irrisorio, le cospicue proprietà terriere. Gli assassini cercarono quindi di sbarazzarsi in un colpo solo anche del figlio, con una falsa accusa.

Prenderne le parti (poi l’imputato fu assolto), fu per Cicerone un delicatissimo banco di prova, poiché dovette ritorcere le accuse a personaggi molto potenti; e forse fu proprio la paura di mostrarsi ribelle al regime sillano a spingerlo a coprire il dittatore di lodi di maniera. Non va comunque dimenticato che Cicerone, per tutta la sua vita fautore dell’ordine, non era ostile a quel governo; eppure, come molti altri, anche di estrazione patrizia, avrebbe preferito porre un freno agli arbitri e alle proscrizioni che la fine della Guerra civile – quella che aveva portato Silla al potere – aveva trascinato con sé.

Forse per il timore di rappresaglie, dopo il successo della propria orazione, Cicerone si allontanò da Roma un paio di anni tra il 79 e il 77, viaggiando per la Grecia e l’Asia Minore. Una buona ragione per compiere il viaggio dovette essere in ogni caso anche quella di perfezionarsi nelle prestigiose scuole di retorica della zona: non a caso, infatti, alcuni tratti stilistici presenti nella pro Sexto Roscio Amerino in seguito sarebbero stati accuratamente evitati dal Cicerone purista degli anni più maturi; per quanto già raffinato, lo stile di questa orazione mostra infatti un rapporto ancora molto stretto con gli schemi dell’asianesimo allora di moda e si caratterizza dunque per un eccesso di metafore e per il ricorso a neologismi.

La quaestura in Sicilia. | Rientrato a Roma dopo la morte di Silla, Cicerone ricoprì la quaestura in Sicilia nel 75 a.C. Là si conquistò la fama di amministratore onesto e scrupoloso, tanto che pochi anni dopo, nel 70, i Siciliani gli proposero di sostenere l’accusa nel processo da loro intentato contro l’ex propraetor Lucio Licinio Verre, il quale aveva sfruttato la provincia con incredibile rapacità. Cicerone, rivelando grande energia, raccolse le prove in tempo brevissimo, anticipando così le fasi del processo, che altrimenti si sarebbe svolto in condizioni politicamente molto più favorevoli all’imputato: il difensore di Verre, infatti, Quinto Ortensio Ortalo, celeberrimo avvocato di scuola asiana, era uno dei candidati designati per il consolato del 69. Al dibattimento Cicerone non fece in tempo a esibire per intero l’imponente massa di prove e di testimonianze che aveva raccolto e organizzato, e poté pronunciare solo la prima delle due actiones in Verrem: dopo solo pochi giorni, infatti, Verre, schiacciato dalle accuse, fuggì dall’Italia e venne condannato in contumacia.

Cicerone pubblicò successivamente, in forma di orazione accusatoria, la cosiddetta Actio secunda in Verrem, divisa in cinque libri, che rappresenta, fra l’altro, un documento storico di primaria importanza per conoscere i metodi di cui si serviva l’amministrazione romana nelle province. Quello di Verre costituiva certo un caso eclatante, ma l’avidità dello sfruttamento era comunque la regola: il governatorato di una ricca provincia era un’occasione di facili guadagni per gli aristocratici romani, che avevano bisogno di ingenti quantità di denaro per finanziare le forme di liberalità (cioè di corruzione dei singoli e delle masse) necessarie a promuovere la loro carriera politica, e avevano inoltre bisogno di incrementare i propri consumi e usi privati per reggere il passo con i nuovi stili di vita che si erano imposti dall’età delle conquiste.

La vittoria su Ortensio, il difensore di Verre, fu, tra l’altro, anche una vittoria in campo letterario: di fronte alla naturalezza con la quale il giovane competitore padroneggiava tutte e sfumature della lingua, l’esasperato manierismo asiano di Ortensio dovette risultare alquanto stucchevole. Lo stile delle Verrine è già pienamente maturo; Cicerone ha eliminato alcune esuberanze e ridondanze, ma senza per questo accostarsi all’eloquenza secca e scarna degli atticisti. Il periodare è perlopiù armonioso, architettonicamente complesso; ma la sintassi è estremamente duttile, e Cicerone non rifugge, quando è il caso, da un fraseggio conciso e martellante.

La gamma dei registri è dominata con piena sicurezza, dalla narrazione semplice e piana al racconto ricco di colore, dall’ironia arguta al pathos tragico. E anche qui Cicerone si rivela maestro nell’arte del ritratto: sono straordinari quelli di alcuni personaggi più o meno squallidi dell’entourage dell’ex governatore, ma soprattutto quello dello stesso Verre, raffigurato come un tiranno avido di averi e del sangue dei suoi sudditi, e contemporaneamente come un dissoluto pigramente disteso sulla propria lettiga, sempre intento ad annusare una reticella di rose.

Cn. Pompeo Magno. Solis-Pompeiopolis, 66-50 a.C. ca. Dracma, AE 7, 16 gr. Recto: testa nuda di Pompeo, voltata a destra.

L’ingresso in Senato. | Dopo la questura, Cicerone entrò in Senato. Nel 66 a.C., infatti, l’anno della sua praetura, con l’orazione dal titolo Pro lege Manilia, nota anche come De imperio Gnaei Pompei, parlò in favore del progetto di legge presentato dal tribuno Gaio Manilio, che prevedeva la concessione a Pompeo di poteri straordinari su tutto l’Oriente: un provvedimento reso necessario dall’urgenza di eliminare in modo efficace e definitivo la minaccia costituita da Mitridate, re del Ponto, le cui ambizioni egemoniche da tempo disturbavano gli interessi economici del popolo romano nei territori orientali. Cicerone, parlando di fronte alla civitas riunita in favore della proposta di legge, insistette soprattutto sull’importanza dei vectigalia che affluivano dalle province orientali: la popolazione di Roma sarebbe stata privata di tale beneficio se il monarca pontico avesse continuato indisturbato nella sua azione.

Nella Pro lege Manilia, in seguito “ripudiata” dallo stesso autore, si è voluto vedere il punto di massimo avvicinamento dell’Arpinate alla politica dei populares, indirizzata a gratificare e a corrompere le masse cittadine con elargizioni e, contemporaneamente, a prevaricare l’autorità del Senato, favorendo l’emersione di spregiudicate personalità. In realtà, a essere minacciati, in Asia Minore, erano soprattutto gli interessi di equites e publicani, il ceto imprenditoriale e finanziario cui Cicerone era legato. Erano loro ad avere spesso in appalto la riscossione delle imposte nelle province, e proprio in Asia i cavalieri avevano avviato molte lucrose attività commerciali, che da poco più di vent’anni l’espansionismo di Mitridate minacciava di mandare in rovina.

D’altronde, Cicerone e Pompeo avevano entrambi bisogno dell’appoggio del ceto equestre per conquistare alte posizioni nello Stato, ma, a differenza del condottiero, l’Arpinate non era disposto a fare elargizioni demagogiche che i populares gli chiedevano di appoggiare. In particolare, egli era contrario a qualsiasi programma di redistribuzione delle terre pubbliche e di sgravio dai debiti. Infatti, Cicerone cominciava a scorgere la via d’uscita dalla crisi che minacciava la res publica nell’accordo fra i ceti più abbienti, i senatori e gli equites: ed era appunto questa concordia ordinum a diventare il fondamento del progetto politico ciceroniano.

Cesare Maccari, Cicerone denuncia la congiura di Catilina in Senato. Affresco, 1882-88. Roma, Palazzo di Villa Madama.

 

Il consolato. | Fu proprio contando sulla natura politicamente moderata di Cicerone che una parte della nobilitas decise di coalizzarsi con il ceto equestre, e di appoggiare nella candidatura al consolato il brillante homo novus arpinate (63 a.C.).

Le più celebri fra le orazioni “consolari” di Cicerone sono le quattro In Catilinam, con le quali egli svelò le trame sovversive del Lucio Sergio Catilina, patrizio decaduto di parte sillana, che, dopo essere stato sconfitto nella competizione elettorale per la massima carica, aveva ordito una congiura per raggiungere il potere. E Cicerone, assumendosi la responsabilità delle indagini, riuscì a soffocare il tentativo eversivo, costringendo Catilina a fuggire da Roma e giustificando la propria decisione di giustiziarne i collaboratori senza processo regolare. Quella concordia ordinum che aveva portato Cicerone al consolato, comunque, segnò così una prima importante affermazione attraverso il successo politico del suo teorizzatore.

Sul piano artistico, spicca la prima Catilinaria, in cui Cicerone attaccò l’avversario di fronte al Senato riunito. I toni sono veementi, minacciosi e ricchi di pathos; il console fece anche ricorso a un artificio retorico che in precedenza non aveva mai adottato: l’introduzione di una prosopopea («personificazione») della Patria, che si immagina rivolgersi a Catilina con parole di biasimo. Né si può inoltre dimenticare, nella seconda Catilinaria, il ritratto del sovversivo e dei suoi seguaci corrotti dal lusso e dai vizi.

Nei giorni che intercorsero fra la prima e la seconda Catilinaria, cioè quando l’esito dello scontro era ancora incerto, Cicerone si trovò a dover difendere da un’accusa di broglio elettorale Lucio Licinio Murena, console designato per l’anno successivo. L’accusa era stata intentata dal candidato risultato sconfitto, Servio Sulpicio Rufo, e sorretta dal prestigio di cui godeva Marco Porcio Catone (il futuro Uticense), discendente di Catone il Censore. Proprio Catone il Giovane, nel suo rigorismo morale fondato sui principi della scuola stoica, aveva assunto una posizione particolarmente intransigente nelle questioni che riguardavano il rapporto fra res publica e interessi economici privati; ciò lo portava a trovarsi spesso in conflitto con i publicani (coloro i quali, appunto, avevano rapporti d’affari con lo Stato romano) e con l’ordine equestre, nonché a scontrarsi con il progetto politico ciceroniano ispirato all’ideale della concordia ordinum.

Nella Pro Murena Cicerone sceglie la via dell’ironia e dello scherzo, trovando sapientemente i toni di una satira lieve e arguta, che non scade mai nella derisione o nella beffa volgare. Ma l’interesse dell’orazione risiede soprattutto nella nuova morale che l’autore inizia a elaborare e proporre alla società romana. Prendendo posizione nei confronti dell’arcaico moralismo catoniano, Cicerone incomincia infatti a tratteggiare le linee di un nuovo modello etico la cui definizione lo avrebbe occupato per il resto della vita: si tratta di una dimensione in cui il rispetto per il mos maiorum è contemperato da quell’addolcimento dei costumi, da quell’apertura alle gioie della vita, che ormai concedevano le nuove abitudini della società romana.

IL SENATORE ROMANO | romanoimpero.com

Il primo triumvirato e lo scontro con Clodio. | Con il tempo, la posizione di Cicerone a Roma tese a indebolirsi molto: la formazione del cosiddetto primo triumvirato fra Cesare, Pompeo e Crasso segnò infatti un rapido declino delle fortune politiche dell’Arpinate. Un tribuno di parte popolare, Publio Clodio Pulcro, che nutriva verso di lui anche rancori di origine personale, nel 58 a.C. presentò una legge in base alla quale doveva essere condannato all’esilio qualsiasi magistrato avesse fatto mettere a morte cittadini romani senza provocatio ad populum. La legge mirava evidentemente a colpire proprio l’operato di Cicerone nella repressione dei catilinari. Allora, tra l’altro, non più sostenuto dalla nobilitas che, compulsato il pericolo di Catilina, poteva fare a meno di lui e abbandonato persino da Pompeo, che doveva tener conto delle esigenze dei triumviri suoi alleati, Cicerone dovette soccombere all’attacco portatogli da Clodio e prendere la via dell’esilio, trascorrendolo soprattutto fra Tessalonica e Durazzo.

Richiamato dall’esilio solo l’anno dopo, Cicerone trovò l’Urbe in preda all’anarchia: si fronteggiavano, in continui scontri di strada, le opposte bande di Clodio e di Milone (quest’ultimo era il difensore della causa degli optimates e amico personale dell’Arpinate). Fu in questo clima che nel 56 Cicerone, trovandosi a difendere Sestio, un tribuno accusato da Clodio di atti di violenza (Pro Sestio), espose una nuova versione della propria teoria sulla concordia ordinum: infatti, come semplice intesa fra classe equestre e aristocrazia senatoria, il progetto si era rivelato fallimentare; così Cicerone ne dilatò il concetto in concordia omnium bonorum, cioè la concordia attiva di tutte le persone agiate e possidenti, amanti dell’ordine pubblico (politico e sociale), pronte all’adempimento dei propri doveri nei confronti della patria e della famiglia. I boni – una categoria che attraversava verticalmente tutti gli strati sociali, senza identificarsi con alcuno di essi in particolare – sarebbero stati, da allora in poi, il principale destinatario della predicazione etico-politica dell’Arpinate.

I nemici dell’ordine, d’altra parte, erano identificati in coloro che soprattutto l’indigenza o l’indebitamento spingeva a desiderare rovesciamenti sovversivi. Dovere dei boni, dunque, sarebbe stato quello di non rifugiarsi egoisticamente nel perseguimento dei propri interessi privati, ma fornire sostegno attivo a tutti gli uomini politici che rappresentassero la loro causa. L’esigenza, largamente avvertita a Roma, di un governo più autorevole spinse tuttavia Cicerone a desiderare che il Senato e i boni, per superare le loro discordie, si affidassero alla guida di personaggi eminenti, di grande prestigio: una teoria che sarebbe stata ripresa e approfondita, poi, nel De re publica.

In quest’ottica si spiega, probabilmente, l’avvicinamento che Cicerone compì in quegli anni verso il triumvirato e che non va inteso assolutamente come un tradimento della nobilitas. L’intenzione doveva essere quella di condizionare l’operato dei triumviri per evitare che il loro potere prevaricasse quello del Senato e far sì che si mantenesse nei limiti delle istituzioni della res publica. Questo periodo, tuttavia, fu per l’Arpinate piuttosto denso di incertezze e di oscillazioni politiche: da un lato, continuò ad attaccare il facinoroso Clodio e i populares (per esempio, nella In Pisonem, una violenta invettiva contro il suocero di Cesare, ritenuto da Cicerone uno dei responsabili del suo esilio); dall’altro, diede il proprio assenso alla politica dei triumviri: nel 56, infatti, parlò in favore del rinnovo dell’imperium di Cesare in Gallia (De provinciis consularibus) e difese in tribunale vari personaggi legati al triumviro (Pro Balbo, nel 56; Pro Rabirio Postumo, nel 54; ecc.).

A ogni modo, fra le orazioni “anticlodiane” un ruolo particolare occupa quella in difesa di Marco Celio Rufo (56 a.C.), un giovane brillante, amico dell’Arpinate. Celio era stato l’amante di Clodia, sorella del tribuno Clodio (la Lesbia di Catullo!), una delle dame eleganti e corrotte di cui abbondava la Roma patrizia del tempo. Contro Celio era stata accumulata una congerie di accuse, fra cui quella di un tentativo di avvelenamento nei confronti della donna. Fu un processo in cui i rancori personali di tutte le parti in causa si intrecciarono strettamente con questioni politiche di rilevanza molto più generale. Attaccando Clodia, in cui indicò l’unica regista di tutte le manovre contro Celio, Cicerone ebbe modo di sfogare il suo astio anche nei confronti del fratello di lei: la donna è dipinta come una volgare meretrice ed è accusata perfino di rapporti incestuosi con Clodio. L’orazione, per la pittoresca varietà dei toni – che spaziano da quello disincantato dell’uomo di mondo al pathos funereo – è fra le più riuscite di Cicerone.

Non solo la felice vena satirica avvicina la Pro Caelio alla Pro Murena, ma anche il maturare della proposta di nuovi modelli etici: rievocando le tappe della vita del giovane difeso, Cicerone ha modo di tratteggiare uno spaccato della società del proprio tempo, e si sforza di giustificare agli occhi dei giudici i nuovi costumi che la gioventù aveva assunto da tempo e che avrebbero potuto destare scandalo soltanto agli occhi dei più arcigni moralisti, troppo attaccati al passato. Le virtù che un tempo avevano reso grande la res publica Romana non si trovavano più nemmeno nei libri. Era ormai tempo di allentare le briglie ai giovani, purché essi non perdessero di vista alcuni principi fondamentali; sarebbe arrivato il momento in cui, sbolliti gli ardori e divenuti adulti, avrebbero saputo tornare sulla nobile via del mos maiorum. Se il divario tra il rigore “arcaizzante” e le nuove opportunità offerte da una Roma in piena trasformazione si fosse troppo approfondito, si avrebbe corso il rischio di una dissoluzione di tutto il connettivo ideologico della società: i giovani sarebbero andati incontro a un totale rovesciamento dei valori, che avrebbe finito con il sostituire la ricerca dei piaceri al servizio verso la comunità. Il modello culturale che Cicerone proponeva, dunque, mirava a ricondurre i nuovi comportamenti all’interno di una scala valoriale che continuasse a essere dominata dalle virtù della tradizione, spogliate tuttavia del loro eccessivo rigore e rese più flessibili alle esigenze di un mondo in trasformazione.

Francesco Giudici il Francabigio e Alessandro Allori, Il ritorno di Cicerone dall’esilio. Affresco, 1520. Poggio a Caiano, Villa Medici.

 

Gli ultimi anni. | Gli scontri fra le bande di Clodio e di Milone si protrassero a lungo, finché nel 52 Clodio rimase ucciso. Cicerone assunse così la difesa di Milone, il principale indiziato dell’omicidio; l’orazione (Pro Milone) scritta per l’occasione è considerata è considerata uno dei suoi capolavori, per l’equilibrio delle parti e l’abilità delle argomentazioni, basate sulla tesi della legittima difesa e sull’esaltazione del tirannicidio. Ma il testo, nella forma in cui si è conservato, rappresenta una radicale rielaborazione compiuta in tempi successivi al processo. Di fronte ai giudici, Cicerone riportò un clamoroso insuccesso (e Milone fu costretto a fuggire in esilio): gli cedettero i nervi, a causa della situazione di estrema tensione in cui si trovava l’Urbe, razziata dai partigiani di Clodio, con le truppe di Pompeo che cercavano di riportare l’ordine con la forza.

Nel 49 a.C., allo scoppio della guerra civile, Cicerone aderì senza entusiasmo alla causa di Pompeo: era consapevole infatti che, qualunque fosse stato l’esito, il Senato sarebbe risultato indebolito di fronte al dominio schiacciante del vincitore. Dopo la vittoria di Cesare, Cicerone ne ottenne il perdono e, nella speranza di contribuire a renderne il regime meno autoritario, ricercò, in un primo momento, forme di collaborazione e accettò di perorare di fronte al dictator le cause di alcuni pompeiani “pentiti” (le cosiddette orazioni “cesariane”).

Dopo l’assassino di Cesare, che salutò con giubilo, Cicerone tornò a essere un uomo politico di primo piano, ma i pericoli per la res publica non erano certo finiti: il più stretto collaboratore del dittatore, Marco Antonio, mirava infatti ad assumerne il ruolo, mentre sulla scena politica romana si affacciava anche il giovane Gaio Ottaviano, l’erede designato da Cesare, con un intero esercito di fedelissimi ai propri ordini. La manovra politica di Cicerone tendeva a tenere divisi Ottaviano e Antonio e a riportare il primo sotto le ali protettrici del Senato.

Per indurre l’autorevole consesso a muovere guerra ad Antonio, dichiarandolo nemico pubblico, l’Arpinate pronunciò contro di lui, a partire dall’estate del 44 a.C., le orazioni Filippiche, in numero forse di diciotto (ma ne restano solo quattordici). Il titolo, che allude alle celeberrime requisitorie di Demostene di Atene contro re Filippo di Macedonia, è abbastanza controverso: alcuni scrittori antichi le hanno chiamate Antonianae, mentre il nome Philippicae venne effettivamente usato dal loro autore nella sua corrispondenza privata, in senso ironico.

Per la veemenza dell’attacco e i toni di indignata denuncia, si distingue soprattutto la seconda Filippica (l’unica che non venne effettivamente pronunciata, ma solo fatta circolare privatamente nella redazione scritta: un discorso che ispira odio, in cui Antonio, con una violenza satirica pari soltanto a quella verso certi personaggi della In Pisonem, viene presentato come un tiranno dissoluto, un ladro di fondi pubblici, un ubriacone «che vomita per il tribunale pezzi di cibo fetidi di vino».

La manovra politica dell’Arpinate era comunque destinata a fallire. Con un brusco voltafaccia, il giovane Ottaviano, sottraendosi alla tutela dell’anziano consolare e del Senato, strinse un accordo con Antonio e un altro cesariano, Marco Emilio Lepido, e formò quello che viene definito secondo triumvirato. I tre divennero così i nuovi padroni assoluti di Roma e del suo dominio e Antonio pretese e ottenne la morte di Cicerone (il suo nome fu iscritto nelle liste di proscrizione). Ai primi di dicembre del 43 a.C., dunque, dopo aver interrotto un tentativo di fuga, Cicerone fu raggiunto dai sicari del triumviro presso Formia: come monito la sua testa mozzata fu appesa ai rostra nel Foro romano.

Léon Comeleran, L’assasinio di Cicerone. Cromografia, 1881.

 

Il bilancio di una straordinaria esperienza intellettuale e politica

Nonostante le molte oscillazioni, la carriera politica di Cicerone seguì un filo coerente, che si è cercato di ripercorrere attraverso la sua attività oratoria. L’homo novus si accostò alla nobilitas nel contesto di un generale riavvicinamento fra Senato ed equites, e pure in seguito rimase fedele all’ideale della concordia e alla causa del Senato. Il tentativo di collaborazione con i triumviri del 60 fu una risposta al diffuso bisogno di un governo autorevole e, anche in questo caso, Cicerone si preoccupò di salvaguardare il prestigio e le prerogative del consesso. In questa stessa prospettiva bisogna inquadrare persino il momentaneo riavvicinamento a Cesare, dopo la guerra civile, dettato dal desiderio di mitigarne le tendenze autocratiche e di mantenerne il potere nel solco delle tradizioni avite.

Il progetto della concordia dei ceti abbienti (prima concordia ordinum, poi concordia omnium bonorum) significò, in ogni caso, un tentativo almeno embrionale di superare, in nome dell’interesse comune – o di quella che Cicerone riteneva la parte “sana” della civitas –, la lotta di gruppi e di fazioni che dominava la scena politica romana. Il fallimento del suo progetto ebbe molteplici motivi: da un lato, a Cicerone mancarono le condizioni per crearsi un seguito clientelare o militare necessario a far trionfare la sua linea politica; dall’altro, egli – e non fu il solo fra i suoi contemporanei – sottovalutò il peso che gli eserciti personali avrebbero avuto nella soluzione della crisi. E forse si fece anche fin troppe illusioni sui presunti boni: a tempo della guerra civile, infatti, i ceti possidenti ritennero, in larga parte, che le loro esigenze fossero meglio garantite dalla politica popolare di Cesare (come dimostra, del resto, il fatto stesso che, successivamente alla morte dell’Arpinate, costoro non fecero mancare il proprio consenso al regime di Ottaviano, che segnò definitivamente la trasformazione delle istituzioni repubblicane).

Ragazzo togato. Statua, marmo, I sec. d.C. Museo Archeologico di Milano.

 

La parola e chi la usa: le opere retoriche

Cicerone scrisse quasi tutte le sue opere retoriche a partire dal 55 a.C. (un paio d’anni dopo il ritorno dall’esilio), spinto dal bisogno di dare una sistemazione teorica a una serie di conoscenze ed esperienze e soprattutto una risposta culturale e politica alla profonda crisi dei suoi tempi. In quest’ottica va inquadrata la sua ampia riflessione sull’importanza e sul taglio della formazione dell’oratore, il cui potere di trascinare e convincere l’uditorio implicava un’enorme responsabilità sociale. Si trattava, comunque, di un problema dibattuto da tempo anche nel mondo greco, dove già si era aperta la discussione sulla questione della formazione necessaria all’oratore, se questi dovesse accontentarsi della conoscenza di un certo numero di regole retoriche o gli fosse invece indispensabile una larga cultura nel campo del diritto, della filosofia e della storia.

Lo stesso Cicerone, del resto, aveva iniziato in gioventù, ma senza portarlo a termine, un trattatello di retorica, il De inventione, per il quale aveva largamente attinto alla quasi contemporanea Rhetorica ad Herennium. Un interesse particolare lo presenta il proemio, in cui il giovane avvocato si pronuncia in favore di una sintesi tra eloquentia e sapientia (cultura filosofica), quest’ultima ritenuta necessaria alla formazione della coscienza morale dell’oratore: l’eloquentia priva di sapientia (cosa tipica dei demagoghi e degli agitatori delle masse) ha portato più di una volta gli imperi alla rovina. Su questa soluzione, pensata esplicitamente per la società romana, Cicerone sarebbe tornato molti anni dopo, discutendo tematiche analoghe nel De oratore.

Cicerone pronuncia la sua invettiva contro M. Antonio davanti al Senato. Illustrazione di P. Dennis.

Responsabilità e formazione dell’oratore. | Il De oratore fu composto nel 55 a.C., durante un ritiro dalla scena politica, mentre Roma era in balia delle bande di Clodio e di Milone. L’opera, che è ambientata nel 91, al tempo dell’adolescenza dell’autore, è scritta nella forma di un dialogo a cui prendono parte alcuni fra i più insigni oratori dell’epoca, fra i quali spiccano Marco Antonio (143-87 a.C.), nonno del triumviro, e Lucio Licinio Crasso (quest’ultimo, sostanzialmente, il portavoce dello stesso Cicerone autore).

Nel I libro Crasso sostiene, per l’oratore, la necessità di una vasta formazione culturale. Antonio gli contrappone l’ideale di un oratore più naïve e autodidatta, la cui arte si fondi sulla fiducia nelle proprie doti naturali, sulla pratica del foro e sulla dimestichezza con l’esempio degli oratori precedenti. Nel libro II si passa alla trattazione di questioni più analitiche. Compare anche un personaggio spiritoso e caustico, Cesare Strabone, al quale è assegnata una lunga e piacevole digressione sulle arguzie e i motti di spirito. Nel III libro Crasso discute le questioni relative alla elocutio e alla pronuntiatio, cioè in genere all’actio (quasi «recitazione») dell’oratore, non senza ribadire la necessità di una vasta cultura generale e della formazione filosofica.

Cercando di conservare la verosimiglianza della caratterizzazione dei propri personaggi, l’Arpinate si è sforzato di ricreare l’atmosfera degli ultimi giorni di pace della Repubblica. A scelta dell’anno 91 a.C. per l’ambientazione del dialogo, lungi dall’essere casuale, ha infatti un significato preciso: è l’anno stesso della morte di Crasso (pochi giorni dopo quelli in cui si immagina avvenuto il dialogo) e precede di poco la Guerra sociale e la lunga lotta civile fra Mario e Silla, nel corso dei quali rimasero crudelmente uccisi gli altri interlocutori principali, fra cui lo stesso Antonio. La crisi della res publica è un’ossessione incombente su tutti i partecipanti e stride volutamente con l’ambiente sereno e raffinato in cui essi si riuniscono per conversare: la villa tuscolana di Crasso. La consapevolezza dell’imminente e terribile fine di tutti i partecipanti al dialogo conferisce una nota tragica ai proemi che precedono i singoli libri.

Il modello formale a cui il De oratore si ispira è quello de dialogo platonico: con gesto “aristocratico”, alle strade e alle piazze di Atene viene sostituito il giardino della villa di un nobile romano. La ripresa di questo modello per un’opera retorica, comunque, costituisce un notevole scarto rispetto agli aridi manuali greci del tempo e a quelli usciti dalla scuola dei cosiddetti “retori latini”, che si limitavano a enunciare regole: Cicerone ha saputo creare un’opera viva e interessante che, per quanto basata su una perfetta conoscenza della letteratura specialistica greca, si nutre dell’esperienza romana e conserva uno strettissimo rapporto con la pratica forense (dalla vita romana e dal foro sono tratti quasi tutti gli esempi che servono a illustrare le teorie greche).

Quanto ai temi trattati, la tesi principale dell’opera consiste nell’affermare che il talento, la tecnica della parola e del gesto e la conoscenza delle regole retoriche non possono ritenersi sufficienti per la formazione dell’oratore: è indispensabile una vasta formazione culturale. È la posizione di Crasso, il quale lega strettamente la preparazione soprattutto filosofica dell’oratore (nell’ambito della quale venga privilegiata la morale) alla sua affidabilità etico-politica. La versatilità dell’oratore, la sua capacità di sostenere pro e contro su qualsiasi argomento, riuscendo a convincere e a trascinare il proprio uditorio, possono costituire un pericolo grave, qualora non siano controbilanciate dal correttivo di virtù che le mantengano ancorate al sistema di valori tradizionali, in cui la gente “perbene” si riconosce. Crasso insiste perché probitas e prudentia siano saldamente radicate nell’animo di chi dovrà apprendere l’arte della parola: consegnarla a chi mancasse di queste virtù equivarrebbe a mettere delle armi nelle mani di forsennati.

La formazione dell’oratore, dunque, viene in tal modo a coincidere con quella dell’uomo politico, un uomo di cultura non specialistica (gli uomini del ceto dirigente non dovevano esercitare alcuna professione: per queste c’erano i liberi di condizione inferiore), ma di vasta cultura generale, capace di padroneggiare l’arte del dire e di persuadere i propri ascoltatori. Egli dovrà servirsi della sua abilità non per blandire il popolo con proposte demagogiche, ma per piegarlo alla volontà dei boni: nel De oratore Cicerone ha esposto, in realtà, lo statuto ambiguo di un’ars continuamente oscillante fra la sapientia etico-politica e la nuda tecnica del dominio.

Nel 46 a.C. l’Arpinate (che, intanto, nel 54 aveva composto per suo figlio una sorta di manualetto scolastico, le Partitiones oratoriae, concepito in forma di domande e risposte) riprese le tematiche del De oratore in un trattatello più esile, l’Orator, aggiungendovi una sezione sui caratteri della prosa ritmica. Disegnando il ritratto dell’oratore ideale, Cicerone sottolinea i tre fini ai quali la sua arte deve indirizzarsi: probare, delectare, flectere. A questi, a loro volta, corrispondono tre registri stilistici che l’oratore deve saper alternare: umile, medio ed elevato (o “patetico”) – quest’ultimo è particolarmente opportuno nella parte finale di ogni discorso (peroratio).

Abel de Pujol, Cicerone difende Q. Ligario davanti a Cesare o La clemenza di Cesare. Olio su tela, 1808.

Lo stile dell’oratore e le polemiche tra atticismo e asianesimo. | La rivendicazione della capacità di muovere gli affetti come compito sommo dell’oratore nasceva dalla polemica nei confronti della tendenza atticista, i cui sostenitori rimproveravano a Cicerone di non aver preso sufficientemente le distanze dall’asianesimo. Tali accuse si riferivano alle ridondanze del suo stile oratorio, al frequente ricorso alle figure retoriche, all’accentuazione dell’elemento ritmico, all’abuso di facezie. Gli avversari dell’Arpinate privilegiavano invece uno stile semplice, asciutto e scarno, di cui individuavano i modelli negli oratori attici e principalmente in Lisia. Sul contrasto Cicerone prese posizione proprio nel 46 a.C. nel dialogo Brutus, dedicato, come l’Orator, a Marco Giunio Bruto, uno dei più insigni rappresentanti delle tendenze atticiste.

Nell’opera l’autore, assumendo il ruolo di principale interlocutore – gli altri due sono lo stesso Bruto e l’amico Attico –, tratteggia una storia dell’eloquenza greca e romana, dimostrando doti di storico della cultura e di fine critico letterario. Dato il carattere fondamentalmente autoapologetico del testo, si comprende come la storia della retorica culmini in una rievocazione delle tappe della carriera oratoria dello stesso Cicerone (dal ripudio dell’asianesimo giovanile al raggiungimento della piena maturità dopo la quaestura in Sicilia).

L’ottica in cui l’Arpinate guarda al passato è quella di una rottura degli schemi tradizionali che contrapponevano i generi di stile cui asiani e atticisti erano tenacemente attaccati. E questa rottura rispecchia una tendenza di fondo della pratica oratoria dell’autore: le varie esigenze, le diverse situazioni richiedevano l’uso di alternare registri differenti; il successo dell’oratore davanti all’uditorio è il criterio fondamentale in base al quale valutare la sua riuscita stilistica. Gli atticisti sono criticati per il carattere troppo freddo e intellettualistico dei loro discorsi, che di rado riescono efficaci: essi ignorano l’arte di trascinare l’ascoltatore. La grande oratoria “senza schemi” ha il suo modello principe in Demostene: anche lui un “attico”, ma di tendenze ben diverse da quelle di Lisia o di Iperide.

Magistrato intento al census (dettaglio). Bassorilievo, marmo, II sec. a.C., dall’Ara di Domizio Enobarbo (Campo Marzio, Roma). Paris, Musée du Louvre.

 

Per un’organizzazione della res publica: le opere politiche

Il turbolento periodo di aspre lotte che visse la Repubblica romana nei suoi ultimi decenni di vita trovò in Cicerone un protagonista di primo piano, impegnato nella difesa e nel puntellamento delle fondamenta dello Stato. Nell’ambito di questo sforzo, teso, se non a fermare, quantomeno a governare le profonde trasformazioni che premevano sulla società del tempo, si colloca la riflessione teorica che l’Arpinate riversò nelle sue opere di carattere più strettamente politico, il De re publica e il De legibus.

 

La forma di Stato migliore. | Nel De re publica Cicerone riprende sia nella forma sia nei temi l’omonimo dialogo di Platone, certamente fra le opere più significative e complesse del filosofo ateniese: scritto secondo una struttura dialogica, il trattato si compone di dieci libri in cui si esamina a fondo il tema politico della forma e del funzionamento dello Stato ideale, anche se gli argomenti discussi sono molteplici e di varia natura. Il dialogo è ambientato nella casa del padre di Lisia, dove vari interlocutori discutono con Socrate sulle diverse questioni. Cicerone, dal canto suo, lavorò lungamente al proprio De re publica, fra il 54 e il 51 a.C. In quest’opera egli riflette sulla forma di Stato più adatta e, a differenza di quanto aveva fatto il suo modello (che aveva cercato di costruire a tavolino uno Stato ideale), si proietta nel passato, per identificare la migliore costituzione con quella del tempo degli Scipiones.

La struttura del dialogo, che si immagina svolto nel 129 a.C. nella villa suburbana di Scipione Emiliano, è purtroppo di incerta e ipotetica ricostruzione, soprattutto in alcune sezioni, a causa delle condizioni estremamente frammentarie in cui l’opera è stata conservata: una parte cospicua fu ritrovata, agli inizi del XIX secolo, dal futuro cardinale Angelo Mai in un palinsesto vaticano; alcuni brani di altre sezioni sono stati trasmessi attraverso le citazioni di autori tardo-antichi come Agostino, mentre la sezione finale dell’opera, il cosiddetto Somnium Scipionis, è giunta indipendentemente dal resto.

La teoria del regime “misto” esposta da Scipione nel I libro risaliva, attraverso Polibio, al peripatetico Dicearco e allo stesso Aristotele. Nella versione di Scipione, il contemperamento delle tre forme fondamentali non avviene tuttavia in proporzioni paritetiche. All’elemento democratico il Romano guarda con evidente antipatia, considerandolo soprattutto come una “valvola di sicurezza” per far scaricare e sfogare le passioni irrazionali del popolo. L’elogio del regime misto si risolve, pertanto, in un’esaltazione della res publica aristocratica di età scipionica.

Date le condizioni lacunose in cui è giunta la parte relativa dell’opera, è difficile precisare in che modo fosse delineata la figura del princeps e come essa si collocasse nell’organismo statale. Alcuni punti, tuttavia, possono ritenersi assodati: il singolare si riferisce al “tipo” dell’uomo politico eminente, non alla sua unicità; in altre parole, Cicerone sembra pensare a una élite di personaggi eminenti che si ponga alla guida del Senato e dei boni, e si raffigura probabilmente il ruolo del princeps sul modello di quella che quasi un secolo prima aveva ricoperto proprio Scipione Emiliano. Ciò significa che l’Arpinate non prefigura esiti “augustei” – anche se interpretazioni in questo senso non sono mancate –, ma intende mantenere il ruolo del princeps all’interno dei limiti della costituzione repubblicana: non pensa a una riforma istituzionale, ma alla coagulazione del consenso collettivo intorno a leader prestigiosi. L’autorità del princeps non è alternativa a quella del Senato, ma ne è il sostegno necessario per salvare la res publica.

Perché la sua autorità non travalichi i limiti istituzionali, dunque, il princeps dovrà armare il proprio animo contro tutte le passioni “egoistiche” e principalmente contro il desiderio di potere e di ricchezza: è questo il senso di disprezzo verso tutte le cose umane che il Somnium Scipionis addita ai governanti (sulla questione Cicerone sarebbe poi ritornato nel De officiis, trattando della magnitudo animi). L’Arpinate, dunque, disegna così l’immagine di un governante-asceta, rappresentante in terra della divinità, rinsaldato nella dedizione al servizio verso lo Stato dalla propria despicentia («disprezzo») verso le passioni umane. L’ideale ciceroniano tuttavia era inevitabilmente di difficile realizzazione: come si è già avuto modo di ricordare, probabilmente proprio la convinzione dell’urgenza di un governo più autorevole e, d’altra parte, la consapevolezza dei pericoli che avrebbe comportato l’accentramento della potestas nelle mani di pochi capi spinsero Cicerone a tentare un avvicinamento a Pompeo Magno e ai triumviri, nella speranza di convogliarne l’operato sotto il controllo del Senato. Ma gli eventi, che innalzavano i vari “signori della guerra”, avrebbero rapidamente portato alla dissoluzione dell’assetto repubblicano.

Scena di attività pubblica, con sacrificio e census. Bassorilievo, marmo, II sec. a.C., dall’Ara di Domizio Enobarbo (Campo Marzio, Roma). Paris, Musée du Louvre

 

Le leggi dello Stato. | Ispirandosi ancora all’esempio platonico, Cicerone completò il discorso iniziato nel De re publica con il De legibus, un’opera sempre in forma dialogica (iniziata nel 52 e probabilmente pubblicata postuma) in cui si discute dei fondamenti del diritto e delle leggi, con riferimento alla tradizione giuridica quiritaria. Proprio in questo, ovvero nel basare la discussione sulla considerazione di un concreto corpus legislativo, risiede la differenza principale rispetto a Platone, che si era invece occupato di una legislazione utopistica, concentrando la propria riflessione sul problema dell’educazione dei cittadini e sull’organizzazione delle istituzioni.

Dell’opera ciceroniana si sono conservati i primi tre libri interi e alcuni frammenti del IV e del V. Mentre nel De re publica il dialogo si svolgeva in un’epoca passata, nel De legibus l’azione è collocata nel presente e interlocutori sono lo stesso Cicerone, suo fratello Quinto e l’amico Attico. L’incontro è ambientato nella villa di Arpinum, nei boschi e nelle campagne del circondario, raffigurati secondo una modulazione del motivo topico del locus amoenus (il modello qui è il Fedro di Platone). I personaggi sono caratterizzati con naturalezza e realismo: così Quinto è rappresentato come un optimas estremista, Cicerone come un conservatore moderato e Attico come un epicureo che quasi si vergogna delle proprie scelte filosofiche.

Nel I libro Cicerone espone la tesi stoica secondo la quale la legge non è sorta per convenzione, ma si basa sulla ragione innata in tutti gli uomini e, perciò, è data dalla divinità. Nel libro successivo l’esposizione delle leggi che dovrebbero essere in vigore nel migliore dei regimi si fonda – qui sta la differenza principale da Platone – non su una legislazione utopistica, ma sul mos maiorum, che ha i suoi punti di riferimento nel diritto pontificio e sacrale. Nel III libro Cicerone presenta il testo delle leggi riguardanti i magistrati e le loro competenze.

M. Giunio Bruto. Denario, Ar. 54 a.C. Roma. Verso: Brutus. Un magistrato scortato da due littori e preceduto da un accensus.

 

Dolori privati e difficoltà politiche: le opere filosofiche

Cicerone, che in gioventù aveva seguito le lezioni di vari maestri, coltivò l’interesse per la filosofia per tutta la vita, ma a scriverne cominciò assai tardi – probabilmente soltanto verso il 46 a.C. –, con l’operetta Paradoxa Stoicorum, dedicata a Marco Bruto (un’esposizione delle tesi stoiche maggiormente in contrasto con l’opinione comune). Dall’anno successivo i lavori filosofici dell’autore si fecero notevolmente più fitti e ciò in coincidenza con eventi molto dolorosi, che lo colpirono sia nella sfera privata sia in quella pubblica: nel febbraio del 45, infatti, gli venne a mancare la figlia Tullia (fatto che lo spinse a scrivere una perduta Consolatio per attenuare l’acutissimo dolore), mentre la dictatura di Cesare lo aveva ormai privato di qualsiasi possibilità di intervento negli affari pubblici. Furono queste difficili circostanze a spingere Cicerone verso una vita appartata e dedita alla composizione di opere maggiormente meditative e filosofiche.

All’avvio di questa nuova fase della sua vita risale significativamente l’Hortensius, un testo quasi interamente perduto (che, però, ebbe grande influenza in età imperiale e colpì molto Agostino), che esortava il lettore allo studio della filosofia sul modello del Protrettico di Aristotele. L’Arpinate, tuttavia, non concepì le proprie opere filosofiche come semplice momento di riflessione personale, ma certamente si prefisse anche lo scopo di presentare e offrire ai contemporanei una summa della tradizione filosofica greca, discussa e selezionata in rapporto alla concreta realtà romana.

Per quanto riguarda i temi e le finalità di tale impegno intellettuale, in queste opere Cicerone ripensa a tutto il corpus di metodi e di teorie sviluppato dalle scuole filosofiche ellenistiche e affronta vari aspetti della tradizione speculativa: la morale, la religione, la gnoseologia. Ogni volta l’approccio ciceroniano è di tipo soprattutto moralistico e non dimentica i doveri del cittadino nei confronti della collettività. L’autore intende infatti offrire un punto di riferimento etico-culturale alla classe dirigente romana, nella prospettiva di ristabilirne l’egemonia sulla società; non guarda pertanto solo ai problemi immediati, ma affronta questioni che coinvolgono i fondamenti stessi della crisi sociale, politica e morale, nel tentativo di escogitare soluzioni di lungo periodo. In questa prospettiva va collocata una caratteristica che accomuna e distingue le opere filosofiche ciceroniane: l’interesse a cercare sempre, anche nei più raffinati problemi teoretici, la conseguenza pratica, la ricaduta in termini di azione e di partecipazione politica.

In rapporto alle finalità appena indicate le opere filosofiche di Cicerone, benché – per sua stessa ammissione (Ad Att. XII 52, 3) – abbiano in gran parte carattere compilativo rispetto alle fonti greche, risultano tuttavia originali nella scelta dei temi e nel taglio degli argomenti: poiché nuovi e differenti sono i problemi che la società presentava, nuovi erano gli interrogativi che l’autore si poneva. L’obiettivo, in generale, appare quello di “ricucire”, per così dire, le membra lacerate del pensiero ellenistico, per trarne una struttura ideologica efficacemente operativa nei confronti della società romana.

Come già nelle opere retoriche e politiche, inoltre, anche nei trattati filosofici Cicerone adotta perlopiù la forma dialogica ispirata all’esempio platonico, anche se la maniera di esporre richiami in alcuni casi piuttosto lo stile di Aristotele, che, senza rinunciare del tutto al metodo dialettico, propone una lunga dissertazione e un personaggio che ne trae le conclusioni.

M. Tullio Cicerone. Busto, marmo. Madrid, Museo del Prado

L’eclettismo come metodo argomentativo-espositivo. | Prima di addentrarsi nello studio delle opere filosofiche ciceroniane, sembra opportuno mettere a fuoco la logica espositivo-argomentativa che le sorregge e le struttura. Quello del metodo seguito per trattare i problemi di maggiore rilievo rappresenta un tema fondamentale su cui lo stesso Cicerone si sofferma esplicitamente in un celebre passo delle Tuscolanae disputationes (5, 83): astenendosi dal formulare egli stesso un’opinione precisa, si sforza di esporre le diverse argomentazioni possibili e di metterle a confronto per verificare se alcune siano più coerenti e più probabili di altre. L’eclettismo filosofico di Cicerone obbedisce dunque alle esigenze di un metodo rigoroso, che si sforza di stabilire fra le diverse dottrine un dialogo costruttivo.

La stessa ideologia dell’humanitas, alla cui elaborazione l’autore diede un contributo notevolissimo, invitava a un atteggiamento intellettuale di aperta tolleranza. Ciò si riflette anche nella regia dei dialoghi filosofici ciceroniani, che, del resto, rispecchia i comportamenti della buona società romana: lo spuntarsi della vis polemica, la rinuncia a qualsiasi asprezza nel contraddittorio, la tendenza a presentare le proprie tesi solo come opinioni personali, l’uso insistito di formule di cortesia, l’attenzione a non interrompere il ragionamento altrui. Sono tutti tratti rivelatori dei costumi di una cerchia sociale elitaria, preoccupata di elaborare un proprio codice di “buone maniere”.

C’è, però, un caso in cui il contraddittorio e la confutazione, pur senza scadere nella zuffa, si fanno talora più violenti e indignati: l’eclettismo ciceroniano mostra una chiusura radicale verso l’Epicureismo. I motivi di tale avversione sono soprattutto due, fra loro strettamente connessi: in primo luogo, la filosofia del Giardino porta l’individuo al disinteresse per la politica, mentre dovere dei boni è l’attiva partecipazione alla vita pubblica; in secondo luogo, l’Epicureismo esclude la funzione provvidenziale della divinità (per quanto non ne neghi l’esistenza), indebolendo così i legami con la religione tradizionale, che per Cicerone resta la base imprescindibile dell’etica.

 

La ricerca morale. | Quanto allo studio e alla ricerca in ambito etico, l’Arpinate orientò sempre la propria riflessione e il proprio impegno su un doppio livello: da un lato, cercò di raccogliere e organizzare la vasta tradizione filosofica ellenica perché fosse più fruibile al pubblico romano e, dall’altro, puntò alla costruzione di un sistema valoriale adeguato alla società del proprio tempo, sul quale la classe dirigente (intesa, in senso più ampio, come consensus omnium bonorum) potesse operare di volta in volta le sue scelte concrete in rapporto alla realtà del momento. È questa la prospettiva da tenere costantemente presente per inquadrare le opere morali di Cicerone.

Vincenzo Foppa, Fanciullo che legge Cicerone. Affresco, 1464, dal Banco Mediceo di Milano. London, Wallace Collection.

Teoria e pratica della morale. | Il centro della speculazione morale ciceroniana è costituito dalla volontà di determinare il sommo bene e dunque il fondamento della felicità; di conseguenza, stabilire le norme di comportamento adeguate al civis Romanus. Questa complessa riflessione, con cui Cicerone rielabora in parte il pensiero stoico, accademico e peripatetico, dispiega i suoi ragionamenti innanzitutto in due opere fondamentali e tra loro complementari: il De finibus bonorum et malorum e le Tuscolanae disputationes (entrambe del 45 a.C.).

Il De finibus, dedicato a Bruto, è considerato da alcuni studiosi il capolavoro di Cicerone filosofo e certo è tra le sue opere più eleganti e armonicamente costruite. Il testo, diviso in cinque libri comprendenti tre dialoghi, tratta del problema del sommo bene e del sommo male, vagliando le posizioni di epicurei, stoici e accademico-peripatetici. Nel primo (libri I-II) è esposta la teoria degli epicurei, cui segue la confutazione dell’autore; nel secondo (libri III-IV) si mette a confronto la teoria stoica con quelle accademiche e peripatetiche; nel terzo (libro V) è discussa la teoria eclettica di Antioco di Ascalona, maestro di Cicerone e di Varrone, la più vicina al pensiero dell’autore.

Il confronto fra i diversi sistemi di pensiero, che si esplica attraverso l’intero corpus dei dialoghi ciceroniani, trova nel De finibus uno sviluppo particolarmente esteso. Dopo che sono state confutate in modo netto e senza appello le tesi epicuree, Catone il Giovane si assume nel III libro la difesa dello Stoicismo tradizionale, nei confronti del quale la posizione dell’autore, però, fu sempre di sostanziale perplessità (si pensi alla Pro Murena): Cicerone, dal canto suo, riconosceva che lo Stoicismo forniva la base morale più solida all’impegno dei cittadini verso la civitas, ma da un pensatore intransigente come Catone, o da un accademico dalla rigida morale come Bruto, si sentiva lontano per cultura e per gusti; il rigore etico di costoro gli appariva anacronistico, scarsamente praticabile in una società che, dopo l’epoca delle grandi conquiste, era andata incontro a radicali trasformazioni.

Nel nuovo clima socio-culturale della Roma del tempo, l’eclettismo ciceroniano punta, sulla base teorica del probabilismo accademico, alla conciliazione tra il rigore e la solidità delle posizioni stoiche e l’apertura a un piacere moderato di quelle peripatetiche. In quest’ottica, il sommo bene viene identificato, pur tra qualche incertezza e contraddizione, con il bene dell’anima che coincide con la virtù: è solo la virtù a poter garantire la felicità all’uomo.

L’organico quadro teorico costruito nel De finibus cerca quindi un’applicazione pratica nelle Tuscolanae: qui la virtù dovrà provare la sua capacità di sostenere e orientare l’anima nel concreto rapporto con i turbamenti alimentati dalla realtà esterna. L’opera, dedicata anch’essa a Bruto, è divisa in cinque libri e ha forma di dialogo tra Cicerone e un anonimo interlocutore (con la finzione di porre le varie questioni morali discusse dall’autore), la cui evanescente figura lascia prendere al testo piuttosto la forma di una lezione espositiva sulla traccia del dialogo aristotelico. La discussione è ambientata nella villa di Cicerone a Tusculum, donde il titolo dell’opera.

Nei singoli libri sono trattati, rispettivamente, i temi della morte, del dolore, della tristezza, dei turbamenti dell’animo e della virtù come garanzia della felicità: si è dunque di fronte a una grande summa dell’etica antica, a un vasto trattato sul tema della felicità, e in questo senso i vari libri costituiscono una trattazione organica che nel complesso si presenta come una terapia per liberare l’animo dalle sue afflizioni. Nell’opera, del resto, è possibile intravedere il tentativo di Cicerone di dare una risposta anche ai suoi personali interrogativi e una soluzione ai propri dubbi. Da ciò deriva la profonda partecipazione emotiva dell’autore agli argomenti trattati, che conferisce allo stile del discorso un’accorata solennità e fa raggiungere ad alcune pagine un’intensità lirica che trova pochi riscontri nella prosa latina. In questo quadro si colloca l’ispirazione essenzialmente storica con cui l’autore affronta i suoi argomenti e che, nonostante la sua abituale tendenza a posizione eclettiche, segna in quest’opera il punto di massimo avvicinamento allo Stoicismo più rigoroso.

Le Tuscolanae hanno comunque anche un intento divulgativo che non va sottaciuto: nelle introduzioni ai singoli libri Cicerone indica infatti la necessità che i Romani acquisiscano un’ampia e adeguata cultura filosofica e la impieghino anche per orientarsi nella vita pratica. Non rinuncia inoltre ad accennare alla storia dell’introduzione della filosofia a Roma e allo sviluppo del pensiero fino a Socrate.

Napoli, Biblioteca Nazionale. Ms. IV. G. 31bis (1450-60 c.). Pagina miniata dalle Tuscolanae disputationes.

Una morale per la classe dirigente. | La stesura del De officiis, iniziata probabilmente nell’autunno del 44 a.C., venne conclusa molto rapidamente: mentre stava combattendo Antonio, colui che ai suoi occhi stava portando la patria alla rovina definitiva, Cicerone cercò nella filosofia i fondamenti di un progetto di più vasto respiro, indirizzato alla formulazione di una morale della vita quotidiana che permettesse all’aristocrazia romana di riacquisire il pieno controllo della società. Ora Cicerone voleva impegnarsi in una riflessione conclusiva sulla possibilità di individuare riferimenti etici sicuri in una società travolta dal turbolento tramonto delle istituzioni tradizionali: il De officiis rappresenta quindi una sorta di testamento spirituale dell’autore. Non a caso l’opera, nonostante le pecche stilistiche ed espositive (verosimilmente legate alle difficili condizioni in cui fu composta), fu tra i testi ciceroniani che maggiore influenza ebbero nelle epoche successive.

Il testo, dedicato al figlio Marco, allora studente ad Atene, è un trattato di etica – considerata nei suoi risvolti pratici in rapporto all’azione politico-sociale – e comprende, dunque, anche una dettagliata precettistica sui comportamenti da tenere nelle più diverse circostanze. Il titolo usa un termine, officium (propriamente l’azione adeguata in rapporto a un ruolo preciso), che traduce la parola greca usata dagli stoici per definire l’azione perfetta e razionale, il καθῆκον («ciò che si conviene»): in questo senso, esso fa riferimento alla discussione sui doveri legati all’esercizio della virtù e quindi alle azioni opportune da compiere.

Il De officiis si compone di tre libri: nel primo si discute dell’honestum (termine che indica ciò che è moralmente giusto), nel secondo dell’utile e nel terzo del conflitto fra honestum e utile. Per i primi due libri la fonte è il trattato Sul conveniente del filosofo stoico Panezio di Rodi, mentre il terzo, probabilmente frutto di una personale rielaborazione di altre fonti (forse Posidonio di Apamea), nasce dalla necessità, sentita da Cicerone e ignorata da Panezio, di discutere i criteri per decidere in concreto sulle questioni etico-politiche più difficili e dubbie.

Panezio aveva impresso alla dottrina stoica una svolta in senso marcatamente aristocratico, cercando soprattutto di addolcirne l’originario rigorismo morale, affinché fosse praticabile da una classe dirigente ricca, colta e raffinata. Il suo Stoicismo moderato, dunque, offriva così, sotto molteplici aspetti, una base particolarmente adatta al discorso di Cicerone: da un lato, il pensiero paneziano era radicale nel rifiuto dell’edonismo epicureo (e della conseguente etica del disimpegno) e riusciva a rimanere rispettosa della tradizione e dell’ordine politico-sociale senza fanatismi; dall’altro, forniva anche la minuziosa casistica necessaria a regolare i comportamenti quotidiani dei membri dei gruppi dirigenti, permettendo così al discorso ciceroniano di spostarsi facilmente dalla riflessione teoretica all’enunciazione di precetti validi per la vita di tutti i giorni. All’interno di questo specifico contesto speculativo, Cicerone considerava che le virtù fossero «parti dell’honestum», mentre i modi di conseguire potere e consenso da parte della classe dirigente attenessero all’utile. Il fine del ragionamento ciceroniano consiste appunto nel dimostrare come tra honestum e utile non ci sia contraddizione, bensì identità: il secondo è infatti ritenuto conseguenza diretta del primo.

 

Città del Vaticano, BAV. Ms. Pal. lat. 1534 (XV sec.), Ciceronis de officiis, f. 1r.

 

Un’etica dell’agire socio-politico. | Rispetto alla Stoà antica, la dottrina di Panezio si distingueva per un giudizio assai più positivo sugli istinti, che dalla ragione non devono essere repressi, ma piuttosto corretti e disciplinati in modo che essi si sviluppino progressivamente in virtù vere e proprie. Sulla base di questo quadro teorico di riferimento, all’inizio del De officiis (I 15) l’autore afferma che l’honestum scaturisce da quattro possibili fonti, ovvero si compone di quattro parti fra loro collegate che consistono nella ricerca della verità, nella protezione della società, nel desiderio di primeggiare, nell’aspirazione all’armonia (secondo una classificazione che corrisponde in pratica alle tradizionali virtù cardinali stoiche di sapienza, giustizia, fortezza e temperanza). Si tratta di tendenze naturali insite nell’uomo, che, se ben indirizzate dalla ragione, daranno origine a specifici comportamenti virtuosi, in quanto ciascuna delle quattro parti dell’honestum è fonte di specifiche categorie di doveri.

Gli uomini sentono per natura una spinta alla ricerca del vero, che è la fonte da cui si origina la sapientia. Si tratta tuttavia di una tendenza da gestire con accortezza affinché sia orientata sempre all’azione concreta: lo studio e la ricerca fini a se stessi allontanano infatti dalla vita pratica, mentre il merito della virtù consiste proprio nell’azione.

Il desiderio di proteggere la società trova la sua corretta realizzazione in due principi complementari: la iustitia e la beneficentia. La prima, cui spetta di «dare a ciascuno il suo», opera tutelando la proprietà privata, ovvero il fondamento stesso degli Stati e delle comunità cittadine, sorti perché ogni individuo possa meritarsi e mantenere il suo (II 73). Questo tema era di scottante attualità: dalle riforme dei Gracchi alle confische di Silla e di Cesare fino allo stesso anno 44 a.C. in cui Cicerone metteva nero su bianco queste parole (quell’anno Antonio aveva presentato una legge per distribuire l’ager publicus tra i veterani e i cittadini fedeli alla causa cesariana), la questione della proprietà si riproponeva ormai con frequenza inquietante per i ceti possidenti, mentre programmi di riforma agraria o di abolizione dei debiti suscitavano inevitabilmente il plauso delle classi popolari su cui faceva leva chiunque aspirasse al potere. Pertanto, il venir meno della iustitia e, dunque, l’affermarsi dell’iniustitia, indeboliva le basi stesse della società. A questo proposito Cicerone distingueva due forme di iniustitia, una attiva e l’altra passiva: se la prima consiste in un’aggressione intenzionale al diritto mossa da avaritia («avidità»), la seconda è legata al disinteresse e al disimpegno verso la comunità.

In questo contesto socio-politico la beneficentia, ovvero la capacità di donare il proprio collaborando positivamente al benessere collettivo, poteva costituire un valore rimanendo entro limiti precisi, altrimenti comportava indubbiamente gravi rischi. Troppe volte, infatti, si era visto come la corruzione delle masse mediante largitio («elargizione», «donazione»), o in generale attraverso proposte demagogiche, potesse essere un mezzo pericolosissimo nelle mani di individui senza scrupoli, decisi a fare della res publica un proprio possesso privato. Perciò, Cicerone sottolinea con forza che la beneficentia non deve essere posta al servizio delle ambizioni personali.

L’istinto naturale a primeggiare sugli altri si manifesta nella capacità di imporre il proprio dominio: da questa tendenza, comunque, può derivare la virtù della magnitudo animi («grandezza di spirito», «magnanimità»), che, secondo il pensiero paneziano, sostituiva la virtù cardinale della fortezza. Il controllo della ragione, svuotando la volontà di predominio di quanto in essa c’è di egoistico e tendenzialmente prevaricatorio (si pensi a quanto spiegato nel Somnium Scipionis), trasforma questo istinto in una virtù capace di mettersi al servizio degli altri per contribuire attivamente a rendere la patria ancora più grande e gloriosa. Viceversa, se la trasformazione non avviene, è aperta la strada all’anarchia o alla tirannide. In ciò è evidente la volontà di Cicerone di sottoporre a forti vincoli una virtù che, se non adeguatamente imbrigliata, può divenire la passione specifica della tirannide e ritorcersi contro la res publica (e, di conseguenza, l’egemonia senatoria): mentre Cicerone scriveva, l’esempio di Cesare era ancora sotto gli occhi di tutti.

Nel sistema etico del De officiis il regolatore generale degli istinti e delle virtù, ciò che permette loro di integrarsi in un tutto armonico, è costituito dalla virtù della temperanza, che deriva da una naturale aspirazione all’ordine: all’esterno, agli occhi degli altri, essa si manifesta in un’apparenza di appropriata armonia di pensieri, di gesti, di parole, che assume il nome di decorum. Si tratta di una meta raggiungibile solo da chi abbia saputo sottomettere i propri istinti al saldo controllo della ragione. L’autocontrollo che l’autore caldeggia persegue del resto un fine ben determinato: l’approvazione degli altri, che il decorum permette di conciliarsi con l’ordine, la coerenza, la giusta misura nelle parole e nelle azioni. La costante attenzione a ciò che gli altri possano pensare, la preoccupazione di non urtarne la suscettibilità sono un portato necessario della fitta rete di obblighi sociali in cui a Roma si trovano inseriti i membri degli ordines superiori.

Una delle novità più interessanti del modello etico proposto è il fatto che il concetto di decorum permetta la possibilità di una pluralità di atteggiamenti e di scelte di vita. L’appropriatezza delle azioni e dei comportamenti che si pretende dall’individuo ha infatti le sue radici nelle qualità personali, nelle disposizioni intellettuali e morali di ognuno: di qui la legittimazione di scelte di vita anche diverse da quella tradizionale del perseguimento delle cariche pubbliche, purché chi le intraprenda non dimentichi i propri doveri verso la civitas. Questo pluralismo di modelli di vita ammesso dall’ultimo Cicerone rispecchia, evidentemente, le diverse vocazioni e attività di quei boni di tutta l’Italia di cui egli aveva incominciato a parlare fin dalla Pro Sestio. La filosofia prende dunque atto dei mutamenti intervenuti nel frattempo e s’incarica di ritessere la trama dei valori, di modificare e rendere più duttile il modello etico tradizionale per integrarvi le nuove figure emergenti.

Come si accennava, Cicerone accompagna questa riflessione teorica a una minuta precettistica relativa ai comportamenti da tenere nella vita quotidiana e nell’abituale commercio con gli altri: il De officiis comprende così osservazioni dettagliate sui gesti e la postura del corpo, sulla toilette e l’abbigliamento, la conversazione e persino la casa dell’aristocratico romano. In questo modo l’Arpinate dava inizio a una traduzione di “galateo” destinata ad avere grande fortuna nella cultura occidentale.

Paul Barbotti, Orazione di Cicerone davanti alla tomba di Archimede. Olio su tela, 1853.

Fra malinconia e speranza. | Un posto a parte fra le opere filosofiche di Cicerone occupano due brevi dialoghi dedicati ad Attico: il Cato maior sive de senectute e il Laelius sive de amicitia. Entrambi composti nel 44 a.C. e incentrati su celebri personaggi del passato, i due testi, che trattano rispettivamente della vecchiaia e dell’amicizia, esprimono due diversi stati d’animo dell’autore: il primo, dall’atmosfera più dimessa e pensosa, è infatti scritto poco prima dell’assassino di Cesare, mentre il secondo, dal tono più energico, subito dopo.

Al Cato maior Cicerone lavorò all’inizio del 44: nel personaggio di Marco Porcio Catone “il Censore” (portavoce dell’autore) l’Arpinate trasfigura l’amarezza per una senilità che, oltre al decadimento fisico e all’imminenza della morte, comporta soprattutto la perdita della possibilità di intervento politico. In questo testo, che è ambientato nel 150 (l’anno della scomparsa di Catone), l’autore, proiettandosi nella figura di un anziano che conserva autorità e prestigio, si rifugia nel passato per vestire i panni dell’antico Censore ed eludere così, idealmente, la propria condizione di forzata inattività pubblica.

La rappresentazione ciceroniana di Catone risulta differente rispetto alla sua immagine storicamente accettabile: il personaggio appare infatti come addolcito e ammansito. Il rude agricoltore della Sabina, caparbiamente attaccato ai propri profitti, ha ceduto il posto a un raffinato cultore dell’humanitas e della buona compagnia che, con una punta di estetismo, arriva perfino ad anteporre il bello all’utile. Nella vecchiaia catoniana tratteggiata nel dialogo si armonizzano così in maniera perfetta il gusto per l’otium e la tenacia dell’impegno politico, due opposte esigenze che l’autore ha cercato invano di conciliare per tutta la vita.

Diversa l’atmosfera che si respira nel Laelius, in cui Cicerone appare più combattivo: l’opera, verosimilmente composta all’indomani del cesaricidio, accompagna infatti il rientro dell’Arpinate sulla scena politica. Il dialogo è ambientato nel 129 a.C. (lo stesso anno del De re publica), pochi giorni dopo la misteriosa scomparsa di Scipione Emiliano nel corso delle agitazioni graccane. Rievocando la figura dell’amico defunto, Gaio Lelio, colto e raffinato uomo politico del II secolo, legato a Scipione dall’assidua frequentazione e dalla solidarietà politica, ha modo di intrattenere i propri interlocutori sulla natura e sul valore dell’amicitia stessa. Per i Romani essa era soprattutto la creazione di legami personali a scopo di sostegno politico. nascendo dal tentativo di superare la tradizionale logica clientelare e di fazione propria del regime aristocratico, il dialogo muove, tuttavia, sulla traccia delle scuole filosofiche elleniche, alla ricerca dei fondamenti etici della società nel rapporto che lega fra loro le volontà degli amici.

La novità dell’impostazione ciceroniana consiste soprattutto nello sforzo di allargare la base sociale di questo genere di rapporti al di là della ristretta cerchia della nobilitas: a fondamento dell’amicitia, infatti, sono posti valori come quelli rappresentati dalla virtus e dalla probitas, riconosciuti a vasti strati della popolazione. Cicerone scrive per quella “gente perbene” alla cui centralità politico-sociale ha affidato da tempo le sorti del proprio programma di rigenerazione della res publica. La fiducia in un rinnovato sistema di valori, in cui proprio l’amicizia occupi un ruolo centrale, deve dunque servire a cementare la coesione dei boni. Quella auspicata nel Laelius non è soltanto un’amicizia politica: si avverte, in tutta l’opera, un disperato bisogno di rapporti sinceri, quali Cicerone, preso nel vortice delle convenienze imposte dalla vita pubblica, poté forse provare solo con Attico.

Ritratto virile di patrizio romano. Testa, marmo, metà I sec. a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

 

Res publica e religio. | Di argomenti religiosi trattano tre opere – anche queste scritte in forma dialogica – che formano una sorta di trilogia (è, del resto, l’autore stesso a presentare le ultime due come prosecuzione e complemento della prima): il De natura deorum, in tre libri, dedicato a Bruto; il De divinatione, in due libri; il De fato, giunto incompleto. Questo gruppo di testi mostra nel suo complesso una riflessione di ampio respiro su temi di carattere religioso, spirituale e teologico, che, occupando l’autore nel difficile periodo fra il 45 e il 44 a.C., implicano anche inevitabili risvolti etico-politici. La prospettiva da cui sono affrontati i vari argomenti è del resto chiara: sebbene non manchino intenti di carattere divulgativo, i problemi religiosi interessano Cicerone soprattutto per i loro risvolti sulla concreta vita civile. Egli infatti considera la religione una componente fondamentale dell’assetto istituzionale della res publica.

Il De natura deorum è un dialogo che si immagina svolto (probabilmente nel 77/6 a.C.) tra Gaio Velleio, Lucio Balbo e Aurelio Cotta (nella cui casa è ambientata la discussione, alla presenza di un giovanissimo Cicerone). Vengono esaminate varie posizioni filosofiche relative alla natura degli dèi, che sono così presentate per questa via al pubblico romano: nel I libro Velleio espone la tesi epicurea (poi confutata da Cotta) dell’indifferenza delle divinità rispetto ai casi umani; nel II libro Balbo prende in esame la tesi stoica del panteismo provvidenziale; nel III libro Cotta critica la posizione di Balbo e sembra schierarsi in favore dello scetticismo accademico. Cicerone, alla fine dell’opera, manifesta molto laconicamente una preferenza per la tesi stoica di Balbo, che dice di ritenere più verosimile (su quale sia nell’opera l’effettiva posizione dell’autore, anche a causa della lacunosità del III libro, resta un problema critico ancora parzialmente aperto).

Più interessante, anche perché più direttamente legato alla situazione romana, è il De divinatione, un dialogo in due libri immaginato fra l’autore stesso e suo fratello Quinto, a proposto all’arte divinatoria. Nell’opera, che rappresenta una fonte importante per la conoscenza di molte pratiche cultuali del mondo antico, Cicerone si mostra esitante fra la denuncia della falsità della religio tradizionale e la necessità del suo mantenimento al fine di conservare il dominio sui ceti sociali subalterni, facilmente strumentalizzabili per via della loro credulità (per esempio, la dichiarazione di auspicia sfavorevoli poteva servire a interrompere o a rimandare assemblee di carattere politico). L’opera fu verosimilmente iniziata prima della morte del dictator, ma completata in seguito: il proemio del II libro, infatti, testimonia l’entusiasmo dell’autore per la ritrovata libertà e la possibilità di un suo rientro attivo sulla scena pubblica, nonché la fiducia per un rinnovamento etico-politico della classe dirigente.

Il De fato discute la dottrina stoica, secondo cui il fato è il destino inevitabile, prestabilito da quel λόγος divino che ordina e sorregge il mondo. Il discorso coinvolge la questione della libertà dell’uomo e della sua responsabilità rispetto alle azioni che compie; Cicerone cerca di confutare le tesi stoiche e di dimostrare la possibilità per gli individui di fare scelte libere e consapevoli: in questi temi si avverte il clima politico all’indomani dell’uccisione di Cesare e la conseguente volontà dell’autore di stimolare una presa di coscienza nel lettore circa le possibilità di intervenire attivamente e positivamente nella gestione della res publica.

Scena di sacrificio. Bassorilievo da altare, I sec. d.C. Stockholm, Antikengalerie Opferszene.

 

Una lingua per la filosofia: Cicerone forgiatore di lessico e stile. | Accingendosi a comporre il proprio poema ispirato alla filosofia epicurea, anche Lucrezio aveva lamentato l’inadeguatezza della lingua latina a “rendere” la terminologia filosofica dei Greci. Dal canto suo, pure Cicerone si trovò di fronte a problemi molto analoghi per la stesura dei propri testi; e, al pari del poeta, scelse una linea purista per risolvere la questione: evitare i grecismi. Di qui una costante e accanita sperimentazione lessicale nella traduzione dei termini ellenici, le cui incertezze e difficoltà sono talora attestate nelle lettere ad Attico (si pensi, per esempio, al caso di καθῆκον, che Cicerone si risolse, dopo lunghe perplessità, a rendere con officium; o, per dire della terminologia retorica, ai vari tentativi di individuare un equivalente latino di περίοδος).

Il risultato di questa sperimentazione fu l’introduzione nel latino di molti neologismi: Cicerone gettò in tal modo le basi di quel lessico astratto destinato a divenire patrimonio della tradizione culturale europea; per esempio, qualitas, che traduce il greco ποιότης, quantitas per ποσότης, essentia per οὐσία, ecc.

L’attenta scelta delle parole era di importanza estrema per il raggiungimento della chiarezza espositiva; ma il contributo senz’altro più notevole dell’Arpinate all’evoluzione della prosa occidentale fu la creazione di un periodo complesso e armonioso, fondato su perfetto equilibrio e rispondenza delle parti, il cui modello – fin dalle orazioni – egli trovò in Isocrate e in Demostene.

Dato il sempre presente modello retorico, l’esigenza dell’orecchio e del ritmo hanno spesso la prevalenza: ma il periodo ciceroniano è in genere anche una rigorosa architettura logica. La creazione di un simile periodo comportava l’eliminazione delle incoerenze nella costruzione, degli anacoluti, delle “costruzioni a senso” e delle molte altre forme di incongruenza che la prosa arcaica latina aveva ereditato dal linguaggio colloquiale. Veniva poi l’organizzazione delle frasi in ampie unità che manifestassero un’accurata ed esplicita subordinazione delle varie parti rispetto al concetto principale: in altre parole, la sostituzione della paratassi (coordinazione) con l’ipotassi (subordinazione). A una perfetta capacità di dominio della sintassi si deve la possibilità di organizzare i periodi lunghi e complessi, eppure sempre lucidi e coerenti, di cui abbondano le pagine ciceroniane.

Se questi sono i tratti che meglio definiscono il profilo esterno della costruzione ciceroniana del discorso, uno degli aspetti che più colpiscono il lettore è la varietà dei toni e dei registri stilistici che entrano in gioco con grande mobilità di effetti. Ciascuna delle tre gradazioni di stile (semplice, temperato, sublime) viene adeguatamente (secondo il canonico principio greco del πρέπον, cioè il decorum, l’«opportuno», il «conveniente») impiegata a seconda delle esigenze discorsive corrispondenti: probare, delectare, movere.

A ogni livello di stile, a ogni diverso registro espressivo, corrisponde una collocazione delle parole adeguata, un’opportuna sonorità fatta di armonia e di euritmia (l’ornatus suavis et affluens trova il suo punto di forza nella forma e nel sonus delle parole); soprattutto, la disposizione verbale è sempre accuratamente tale da realizzare il numerus. Nella pratica, il numerus agisce come un sistema di regole metriche adattate alla prosa (Cicerone sosteneva a ragione di aver dedicato più attenzione a questo aspetto del discorso di quanto non avesse fatto la trattatistica greca), in modo che i pensieri gravi trovino un andamento solenne e sostenuto e, invece, il discorso piano un’intonazione più familiare.

La sede specializzata per questi effetti metrico-ritmici è la clausola, quella parte finale del periodo in cui l’orecchio dell’ascoltatore deve sentirsi impressionato dagli effetti suggeriti dalla successione dei piedi (per esempio, il dattilo e il peone per il tono sostenuto oppure l’andamento giambico per il tono discorsivo e familiare). Della varietà efficace e abilissima delle clausolae ciceroniane basti sapere, comunque, che nella “prosa periodizzata” Cicerone seppe tenersi lontano dagli eccessi “asiani” di Ortensio e più vicino, in ultima analisi, al modello di Isocrate, che all’arte del periodare ampiamente costruito aveva saputo affiancare l’uso di brevi proposizioni “numerose” in serie.

London, British Library. Harley MS 647 (c. 820-840), f. 8v. Pagina dagli Aratea di Cicerone, illustrata con un calligramma (ante litteram), raffigurante la costellazione del Canis Maior, e l’excerptum degli Astronomica.

 

Le opere poetiche: l’importanza storica di un talento discutibile

«Con l’andare del tempo – scrive Plutarco nella Vita di Cicerone – egli credette di essere non solo il più grande oratore, ma anche il più grande poeta di Roma […], ma, quanto alla sua poesia, essendo venuti dopo di lui molti grandi talenti, è rimasta completamente ignorata, completamente spregiata». Sembra dunque che solo Cicerone si illudesse sulla propria vena poetica: già i contemporanei gli concessero poco apprezzamento e le generazioni successive lo ignorarono del tutto: Marziale (Epigrammi II 89, 3-4) ne avrebbe fatto un paradigma di velleitarismo fallimentare: «Tu componi versi senza alcuna ispirazione delle Muse, senza alcuna assistenza di Apollo. Bravo! Hai in comune questa virtù con Cicerone!». Non è probabilmente un caso, dunque, che della produzione poetica ciceroniana siano rimasti solo pochi frammenti e perlopiù citati dallo stesso autore nelle sue opere in prosa.

In gioventù l’Arpinate compose poemetti alessandrineggianti di argomento mitologico come Glaucus, in tetrametri trocaici, e Alcyones; il Limon, probabilmente un’opera miscellanea, conteneva fra l’altro una raccolta di giudizi in versi su poeti. Queste prime prove, varie per metro e per argomento, farebbero pensare a Cicerone addirittura come una sorta di precursore dei neoterici, incline a un certo sperimentalismo artistico, anche se non propriamente un “callimacheo”: un poeta di tipo ellenistico, insomma, ma non molto lontano da quella che era stata la poetica di Lucilio.

Ben presto i suoi gusti dovettero farsi più tradizionalistici (vincolandosi soprattutto al modello arcaico di Ennio) fino all’ostilità più o meno aspra verso i “poeti moderni” (neoteroi, o poetae novi, appunto). A questa seconda fase della produzione poetica ciceroniana appartengono i poemi epici Marius, che cantava le gesta dell’altro grande arpinate (opera probabilmente ancora del periodo giovanile), De temporibus suis, cui Cicerone accenna in alcune lettere, e De consulatu suo, in tre libri, composto intorno al 60 a.C. per celebrare l’anno della gloriosa battaglia contro Catilina (un ampio brano di questo poema è stato conservato dallo stesso autore nel De divinatione). Quest’ultima fu l’opera più sbeffeggiata dell’Arpinate sia dai contemporanei sia dalla critica letteraria del I secolo d.C. (soprattutto per le stucchevoli lodi di cui l’autore era prodigo verso se stesso e il proprio operato in qualità di magistrato). Due versi in particolare restano celebri per l’irrisione che suscitarono: cedant arma togae, concedat laurea laudi («S’inchinino le armi di fronte alla toga, l’alloro del trionfo s’inchini al merito civile»), in cui Cicerone contrapponeva le proprie glorie consolari agli allori dei comandanti militari, e o fortunatam natam me consule Romam! («O Roma fortunata, nata sotto il mio consolato!»), che fu poi citato ancora da Giovenale come simbolo di una superbia sciocca e ridicola.

Fra queste due fasi è probabile che si debba collocare gli Aratea, traduzione in esametri degli eruditissimi Fenomeni di Arato di Soli (ca. 315-240 a.C.). Si tratta di un poemetto didascalico di argomento astronomico che suscitò grandissimo interesse nell’antichità e che venne tradotto anche da Germanico (15 a.C.-19 d.C.) e Avieno (IV sec. d.C.). È questa l’opera poetica più fortunata di Cicerone, l’unica della quale rimangano porzioni di una certa estensione. In essa si nota il ricorrere di un andamento grandioso e magniloquente, che nello stile solenne richiama la poesia alta di Ennio e Lucrezio.

Comunque, nonostante i non felicissimi risultati della sua poesia, l’influenza di Cicerone versificatore non dovette però essere insignificante, almeno per gli aspetti tecnico-artistici: egli infatti contribuì non poco a regolarizzare l’esametro latino (posizione delle cesure nel verso e specializzazione di alcune forme metrico-verbali in clausola). Dai suoi esercizi poetici l’esametro uscì più elegante e duttile e, nel ritmo, più vivace e non troppo distante dalla strutturazione che avrebbe poi assunto in età augustea.

L’esempio ciceroniano fu probabilmente determinante per quel che riguarda la conquista di una maggiore libertà espressiva nella disposizione delle parole e per la spinta impressa al discorso oltre i rigidi confini del verso, attraverso lo sviluppo dell’uso dell’enjambement. Pur senza raggiungere gli effetti espressivi del mobilissimo esametro augusteo, quello ciceroniano riuscì a conquistarsi una struttura metrico-sintattica molto meno “immobile” di quella di stampo arcaico. Non a caso echi ciceroniani, soprattutto dagli Aratea, si avvertono in Lucrezio, in Virgilio georgico, finanche in Orazio e Ovidio.

Ritratto virile. Busto, marmo, I sec. a.C. ca. Wien, Kunsthistorisches Museum.

 

Il “vero” Cicerone: l’epistolario

Per la conoscenza della personalità dell’autore si dispone di uno strumento di impareggiabile valore: si è infatti conservata una cospicua quantità delle lettere che egli scrisse ad amici e conoscenti, insieme ad alcune lettere di risposta di questi ultimi. Nella forma in cui è stato tramandato, l’epistolario ciceroniano si compone di circa novecento testi, suddivisi in quattro grandi raggruppamenti in base al destinatario: i sedici libri di Ad familiares, i sedici delle Ad Atticum, i tre libri Ad Quintum fratrem e due libri Ad Marcum Brutum (di autenticità controversa).

I documenti pervenuti abbracciano gli anni dal 68 al 43 a.C. (mancano tuttavia lettere dell’anno del consolato) e furono pubblicati in una data incerta ma successiva alla morte dell’autore (forse, almeno le Ad familiares, a cura del fedele liberto Tirone). Sebbene queste epistole non siano nate con lo scopo della pubblicazione, Cicerone aveva comunque pensato nel 44 alla possibilità di divulgarne una selezione, ma la morte glielo impedì.

Il ricco epistolario ciceroniano comprende testi di vario genere ed estensione: biglietti vergati frettolosamente, vivaci resoconti degli avvenimenti politici, lettere elaborate che sembrano brevi trattati, alcuni scritti, rivolti ai corrispondenti più importanti, probabilmente concepiti come “lettere aperte” destinate forse a una qualche circolazione. La varietà dei contenuti, delle occasioni e dei destinatari si rispecchia peraltro in quella dei toni: Cicerone è a volte scherzoso, a volte preoccupato fino all’angoscia per le vicende politiche e i problemi personali, a volte sostenuto e impegnato.

Si tratta – è bene sottolinearlo – di lettere vere: quando le scrisse, l’autore non pensava a una loro pubblicazione (come sarebbe stato invece nel caso dell’epistolario di Seneca); perciò queste lettere mostrano un Cicerone “vero” e “reale”, non ufficiale, che nelle confidenze private rivela apertamente i retroscena, a volte poco edificanti, della sua azione politica, i dubbi, le incertezze e le esitazioni frequenti, gli alti e bassi del suo umore.

Il carattere di epistolario “reale” ha i suoi riflessi anche sullo stile, che è molto diverso da quello delle opere destinate alla pubblicazione: Cicerone non rifugge da un periodare spesso ellittico, gergale, denso di allusioni talora “cifrate” (di qui, per i moderni, gravi difficoltà di interpretazione), abbondante di grecismi e di colloquialismi; la sintassi denuncia molte paratassi e parentesi, il lessico è costellato di parole pittoresche, come curiosi diminutivi (per esempio, aedificatiuncula, ambulatiuncula, diecula, vulticulus, integellus, ecc.) e ibridi greco-latini (tocullio, «strozzino», dal greco τόκος, «interesse»). È una lingua che rispecchia piuttosto fedelmente il sermo cotidianus delle classi elevate di Roma.

Non va dimenticato, infine, l’eccezionale valore storico dell’epistolario ciceroniano, che, a volte, quasi come un moderno quotidiano, permette di seguire giorno per giorno l’evolversi degli avvenimenti. Grazie a questo documento, l’epoca in cui l’autore visse è quella che è meglio nota di tutta la storia antica; a ragione, pertanto, Cornelio Nepote (Vita di Attico, 16) poté parlarne come di una vera e propria historia contexta eorum temporum («monografia storica di quei tempi»).